13, gennaio 2016 - 9 Novae, rivista culturale online
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13, gennaio 2016 - 9 Novae, rivista culturale online
013 | gennaio 2016 indice 02. nuovissima enciclopedia, marcello carlino, BENJAMIN 06. segnali di vita dal disastro, francesco muzzioli, IL BIOGRAFO E LA RESISTENZA DI BENJAMIN 10. visioni, sandro sproccati, LA SCRITTURA DELL'IMMAGINE 16. indagini, simone rebora, MARCO PALLADINI 2015 25. open space, vincenzo ostuni, ECCEITAS 30. hanno collaborato foto copertina: pier luigi zanzi, ROMA CON CALMA (2015). 9 NOVAE | n. 013 | gennaio 2016 RIVISTA CULTURALE ON LINE. Redazione: Massimiliano Borelli, Marcello Carlino, Michele Fianco [coordinamento], Francesco Muzzioli, Sandro Sproccati, Isabel Violante. Sito: www.9novae.it Contatti: [email protected] 1 013 | gennaio 2016 nuovissima enciclopedia BENJAMIN marcello carlino un'altra voce per la nuovissima enciclopedia di Marcello Carlino che vuol essere lo scacco, lo svelamento di termini, modi e correnti culturali e la proposta di altri da qualsiasi (p)arte essi provengano. Va da sé che Benjamin meriterebbe una enciclopedia intera. Non ho dubbi, infatti: una benjaminiana proprio ci vorrebbe; e avrebbe tante voci, per certo una più interessante dell’altra. È facilissimo dire perché ci vorrebbe: la ricchezza degli scritti di Benjamin quasi non ha uguali ed è una ricchezza che ha tanto ancora da dirci, forte com’è di un pensiero critico, e acutamente dialettico, e tale da non fare sconti, che molto manca alla società e alla cultura del nostro tempo. E poi il modello dell’opera sua è un modello enciclopedico, da nuova, anzi nuovissima enciclopedia (più nuova di quella, redatta da Savinio, che giustamente il suo autore, promotore di atti di intelligenza, nel mezzo del Novecento italiano, battezzò nuova): un modello, insomma, che è della taglia che ci vuole e che veste a puntino, dunque, una intenzione di rassegna di parole-chiave in sequenza (e qui ed ora, la rassegnetta mia, lo si capisce, ci ha il suo momento autoanalitico e metacritico; e ci piazza la sua mise en abîme). L’enciclopedia di Benjamin ha alcuni punti forti, da mandare a memoria: 1) scaturisce da un progetto sociale di lavoro intellettuale di genotipo illuministico; 2) sorpassa qualunque sistematicità predeterminata e predittiva, da regime assolutista della ragione, quella che caratterizzò la filosofia dell’illuminismo e ispirò la sua prassi, e si produce in questo storno con l’agilità curiosa del "passeggiatore", del flȃneur voglio dire, che osserva e collega, fila e 2 013 | gennaio 2016 tesse relazioni tra le cose osservate, ascolta e trama laicissime corrispondenze, per ciò apostata della ragione borghese, che pretende tutto preordinato; 3) importata da Parigi, trasferisce alla scrittura e quindi per la scrittura inventa la forma del passage: Benjamin è il primo a pensarla, io credo, in un’ottica urbanistica, cosicché nel testo vi siano aree di edilizia pubblica, spazi verdi, infrastrutture destinate ai servizi e alla socializzazione, quartieri dirigenziali, dislocazioni di attività produttive, aggregati di residenze private: un insieme organico regolato dai principi della pervietà, del libero flusso di scambio, dell’interazione; 4) fa riferimento al criterio della compatibilità del molteplice, tra integrazioni possibili e utili differenze: Benjamin ne usa già nelle singole tessere che costituiscono il mosaico della sua opera, prima ancora che il quadro, unitario e coerente, possa risultare, come di fatto risulta, dal complesso della sua bibliografia; 5) innesca la motivazione pluridisciplinare che produce una critica di confine, una critica che Lucini avrebbe definito integrale: l’intersezione plurilinguistica dei linguaggi, la confluenza di correnti intermodali, la pluridiscorsività e l’interculturalità, nella sua dinamica viva, sono panorami e prospettive tenuti necessariamente in grande considerazione; 6) pratica l’intertestualità come tempo e come spazio di diatesi ideologica da rilevare, da risvegliare in alcune emergenze, anche nel senso di lasciare che parlino direttamente i testi, perciò chiamati al confronto e lavorati secondo giusta procedura dialettica per selezione e per combinazione, per posizionamento: non a caso Benjamin aveva in programma, e più volte ne fa cenno, un libro di citazioni – e la citazione salva e punisce, colleziona e infierisce, come egli scrive – quale si presenta in larghissima misura Parigi capitale del XIX secolo la metropoli che si esprime nei Passages e di cui l’autore compone una straordinaria "enciclopedia"; 7) aggrega una istanza antologica, che costituisce il verso, che segna l’orientamento – è la responsabilità del compilatore, dello stesso tipo della responsabilità dell’allegorista che assegna significazioni ulteriori costruendo allegorie –, ad un programma di documentazione e, nella proposta di una tendenza vista dialetticamente in rapporto alla qualità dei materiali in opera, invera la funzione sociale e politica di ogni scrittura; 8) dischiude un testo aperto, esposto ai giochi combinatori di regola e di libertà, 3 013 | gennaio 2016 di impulso sistematico e di varianza, di totalità e di frammento: un testo perfettibile, infinitamente perfettibile, nel quale il lettore può intervenire isolando a sua volta frammenti, riportandoli all’intero, stabilendo connessioni imprevedute, accettando o sovvertendo l’ordine suggerito, realizzando un suo racconto con le evenienze intertestuali, vicine o lontane, incontrate, scoperte. Eccola la filosofia compositiva che si ravvisa in Benjamin e che è possibile associare all’anima e alle forme di una specialissima enciclopedia. Ne rende una testimonianza aggiuntiva Uomini tedeschi, libro che Enrico Ganni ha curato nel 2015, tradotto per i tipi di Einaudi da una edizione di Suhrkamp Verlag venuta alla luce nel 2008. Antologia (la scelta è netta: una sola lettera di volta in volta proposta) e pure alla sua maniera enciclopedia tascabile (l’intenzione è quella di esporre un’altra società tedesca e un’altra identità, che risultino antagoniste a quelle appena instaurate dal nazismo; un disegno di educazione culturale vi si scorge palese), provvisto di pensiero critico (la borghesia che si rappresenta tra Settecento e Ottocento nella sua sobria coscienza di sé, nel suo alto decoro intellettuale, appare abissalmente distante dalla classe sociale che poi avrebbe sostenuto il Reich; eppure Benjamin non nasconde davvero i segni di crisi che vi covano, che la attraversano), sciorinato enciclopedicamente su di un’ampia area di professioni e di responsabilità sociali (c’è Goethe, capofila dei tanti scrittori convocati, e c’è il chimico imprenditore; c’è il favolista e c’è l’uomo d’apparato; c’è il familiare del genio filosofico e c’è lo scienziato), costruito come un passage mettendo a frutto una varietà di esperienze e di forme espressive e tenendo in tiro efficamente la sfera pubblica accosto a quella privata, Uomini tedeschi è libro interlinguistico e interculturale di grande motivazione politica, di pronunciata tendenza, che dispone e legge e lega con brevi note di cura benjaminiana le citazioni (le lettere trascritte hanno funzione di citazioni, infatti). E con due citazioni dalle note di Benjamin è opportuno che ora questa voce si chiuda. Se ne colgano la ricchezza di interferenze e di connessioni (il liberty costituisce una sorta di testo a fronte, nella circostanza), le transazioni tra le diverse arti, l’acutezza anche diagnostica dello stile. La prima: «Per quanto spietatamente la messa in scena con cui le 4 013 | gennaio 2016 Lettere sull’educazione estetica [di Schiller] si erano proposte di trasformare gli esseri umani in liberi cittadini fosse stata interpretata sul palcoscenico della storia, essa trovò comunque accoglienza in quei salotti borghesi che tanto potevano somigliare a stanzette delle bambole». La seconda: «Per la generazione cui apparteneva Görres [con cui Benjamin ha interloquito nel Dramma barocco tedesco] la reminiscenza del salotto gotico borghese, con i suoi portici e pinnacoli gemmati su sedie e cassapanche, era profondamente radicata nella vita quotidiana, e se nei quadri dei Nazareni talvolta ci appare artificiosa e fredda, tanto maggiore calore e forza acquisisce in un ambito più strettamente intimo. La seguente lettera rispecchia assai bene il trapasso del Romanticismo ricco di ideali verso il contemplativo Biedermeier». Che questa enciclopedietta riprenda, nell’anno nuovissimo che comincia, con una voce intitolata a Benjamin è dunque il meglio che si possa. Che sia beneaugurante. 5 013 | gennaio 2016 segnali di vita dal disastro IL BIOGRAFO E LA RESISTENZA DI BENJAMIN francesco muzzioli Fino a che punto una "vita critica" come quella di Walter Benjamin può consistere nel semplice racconto del vissuto? Alcune riflessioni in margine alla biografia di Eiland e Jennings. Che si parli di Walter Benjamin è sempre un "segnale di vita" intellettuale e culturale, tanto questo pensatore, critico e scrittore è tuttora fondamentale per cogliere in profondità i problemi della comunicazione letteraria e dell’immaginario collettivo, lui che – nelle difficili situazioni dell’Europa degli anni Venti-Trenta – ha saputo tenere insieme l’impegno politico radicale e la lettura attenta dei dettagli, il metodo critico (fondato sul binomio tendenza-qualità) e la duttilità ermeneutica, la competenza storico-filologica e la decisa attualizzazione delle opere; e questo facendo i conti con la modernità della caduta dell’"aura", senza cedere un centimetro alle sirene esistenziali che si andavano profilando. Nei nostri tempi di incensamento dei "vincenti", Benjamin è il perfetto esempio di un "perdente" (a Ibiza i locali lo chiamavano "el miserable") alla lunga affermatosi ovunque come riferimento irrinunciabile. È quindi da accogliere positivamente la voluminosa biografia di Howard Eiland e Michael W. Jennings, pubblicata da Einaudi, purtroppo ancora riservata ai ricercatori a causa del costo proibitivo per i lettori normali. Ma non è di questa scelta editoriale che voglio discutere qui: quello che subito mi ha intrigato, nella biografia di Benjamin, è il dubbio che, sottoposto a un trattamento oggi molto in voga, il nostro autore ne possa uscire santificato oppure normalizzato, insomma, in buona sostanza addomesticato nella sua alterità. Come a dire: per forza scriveva cose non omologate questo signore bizzarro, compìto ma poi anche ruvido in privato, pieno di fobie e di riti personali (la necessità del silenzio, lo stesso 6 013 | gennaio 2016 tipo di penna ecc.), "goffo ed inibito" e in preda a problemi economici, fino alla conclusione sfortunata che conosciamo. Tutti i meticolosi particolari radunati dai bravi biografi, non saranno l’offa offerta alla curiosità del pubblico-voyeur? Già un po’ me la vedo la sua vitafilm, con gli amori impossibili e le relazioni saltuarie, i titoli di coda intrisi di commozione… Non è solo l’obiezione-base che è lecito rivolgere ad ogni biografismo, cioè che quella vita non interesserebbe se non ci fosse l’opera; è anche il rischio di spingere – nel migliore dei casi – a contestualizzare l’opera nel suo tempo vissuto, seguendone passo passo la cronistoria, mentre la posizione originale di Benjamin è quella di vedere l’opera proiettata nel futuro, tanto in conflitto con il proprio tempo e tanto marginalizzata in esso, da diventare fungibile (conoscibile) soltanto in un tempo diverso e più propizio: come, del resto, dimostra perfettamente proprio la fortuna tutta postuma della sua propria opera. Insomma, una biografia di Benjamin non può essere una biografia normale; ed effettivamente il lavoro di Eiland e Jennings è costretto a riconoscere almeno due aspetti: il primo, è che l’opera non sempre è in sintonia con la biografia e che proprio dai momenti peggiori e desolati nascono le intuizioni più potenti e destinate a incidere nel dibattito teorico. Così: «queste disgrazie non gli impedirono di concentrarsi nel lavoro letterario»; oppure: "Come sarebbe accaduto spesso nel corso della sua vita, dall’abisso della depressione di Benjamin (…) sarebbe nata una delle sue migliori opere». Il che sottrae il materiale biografico dal fungere come banale spiegazione "genetica" della scrittura. Il secondo aspetto è l’impossibilità di descrivere la vita di un critico senza seguirne la "produzione" nei suoi temi nodali e nelle sue svolte: sicché diventano rilevanti gli incontri e i legami intellettuali (con Brecht, Bloch, Adorno, ad esempio) e l’indicazione dei testi pubblicati non può fare a meno di soffermarsi sul loro contenuto sostanziale e di slittare dalla descrizione all’interpretazione e alla valutazione critica. Non per niente, il libro ha per sottotitolo, dopo il nome dell’autore in oggetto, Walter Benjamin. Una biografia critica, segno che di una vita devoluta alla critica non si può parlare che criticamente. Nel titolo originale, per altro, si legge A critical life: quindi, una "vita critica", che indica insieme (con un gioco che si perde nel sottotitolo italiano) il consistere delle vita nel "compito del 7 013 | gennaio 2016 critico", ma anche la criticità delle situazioni, proprio lo "stato di emergenza" da cui Benjamin consapevolmente traeva lo stimolo improrogabile a pensare agli estremi. Il libro spesso sottolinea il carattere di Benjamin come uno schermo difensivo della sua interiorità: «proteggeva accuratamente la sua vita privata anche dagli amici più stretti»; «la sua innata prudenza (…) il velo che nascondeva i pensieri e le azioni di Benjamin (…) la sua circospezione e la sua ritrosia»; e ancora: «un uomo la cui interiorità si trincerava dietro la facciata imperturbabile e impenetrabile della sua cortesia». Su questa via, il ritratto del personaggio isolato e poco pratico, rischia di prendere pendenza verso affermazioni opinabili vagamente moraleggianti sulla «mancanza di empatia» (oh, bella! che fosse un androide di Philip Dick?) o vagamente psicoanalitiche sulla «mancanza quasi assoluta di un erotismo corporeo». E però quella riservatezza caratteriale è qualcosa di più, contiene risvolti critico-teorici che è utile esplicitare nella nostra epoca di narcisismo in vetrina e facebookismo imperante. Benjamin pare che dicesse ad Adorno «dell’interiorità me ne impipo». Egli credeva alla comunicazione come fatto "esteriore" e all’intimità stessa come esterno introflesso: lo attesta quella straordinaria pagina della Infanzia berlinese dedicata al calzerotto arrotolato, in cui l’interno è precisamente l’esterno («forma e contenuto, custodia e custodito, il "tesoro" e il suo scrigno erano una cosa sola – precisamente una terza cosa»); nonché, nel Benjamin saggista, il "valore espositivo" che viene contrapposto al "valore cultuale", non solo come passivo riflesso della "riproducibilità tecnica", ma anche come risposta laica alla sacralità dell’arte; o l’apprezzamento dell’allegoria rispetto al simbolo come l’enigma rispetto al mistero: dove il senso allegorico non è segreto destinato a pochi, ma una significazione che viene verso di noi, con la carica delle energie impresse nel linguaggio. Sapere tutto di Benjamin è indubbiamente ciò che vogliono i suoi ammiratori: ma, poiché il suo fascino è dovuto in gran parte alla difficoltà di consumarlo, occorre mettere in conto la sua "resistenza". Gli autori concludono proprio sul rifiutarsi del materiale biografico benjaminiano rispetto «a ogni tentativo di imbalsamazione e di reificazione»; compresa, 8 013 | gennaio 2016 aggiungo io, alla tendenza falsamente umanizzante e in realtà banalizzante di certo biografismo attuale. 9 013 | gennaio 2016 visioni LA SCRITTURA DELL'IMMAGINE sandro sproccati Riflessioni su un auspicabile progresso – nel rapporto tra parola e immagine – dall’immagine de-scritta all’immagine scritta, e sulla scrittura di Marcel Proust, dove la genialità di parola giunge a creare l’immagine dell’immagine (ovviamente) servendosi dell’immaginazione. Io in questa sede scrivo di visioni – di cinema, di teatro, di pittura – e pertanto di immagini, ben sapendo la subalternità della parola (scritta, sopra tutto) all’immagine che va a descrivere, e conoscendo il fatto che un’immagine tutt’al piú si può de-scrivere e niente affatto scrivere. La scrittura storico-artistica, quella della critica d’arte, le scritture tutte della de-scrizione dell’immagine, si dànno nella migliore delle ipotesi come viatico alla conoscenza dell’oggetto di cui parlano, blande didascalie che servono a poco o a nulla, e (oppure) comunque servono, letteralmente servono, dato che sono all’immagine completamente asservite. Tale implacabile sottomissione, per non dire schiavitù, fu del resto ampiamente evidenziata da René Magritte, il quale mise sotto l’immagine di una pipa la dicitura "Ceci n’est pas une pipe", e ottenne il risultato di suddividere il proprio pubblico in due opposte fazioni: il partito di coloro che pensavano che la frase è erronea perché l’immagine mostra esattamente una pipa, e quello di coloro che pensavano (e ancora pensano) che la frase sia veritiera, dato che non si tratta affatto di una pipa bensí (soltanto) dell’immagine di una pipa. I secondi (per quel che ne capisco assai piú stolti dei primi) si affannarono in séguito, onde avvalorar la tesi, a dichiarare che quell’immagine non scotta tra le dita, che non è fatta di radica e di bachelite, che non si può riempire di tabacco, che non si può fumare... 10 013 | gennaio 2016 ossia – in definitiva e per farla breve – sostennero con forza che non è affatto una pipa pur assomigliandole per certi aspetti non propriamente funzionali. Ma Santo Iddio, la questione era e rimase ostinatamente quella: la frase verbale, che nega che si tratti di una pipa, mente o dice il vero? E a nessuno transitò mai per il vestibolo anteriore o posteriore della più minuscola delle sinapsi neuroniche, neppure per un attimo, il minimo dubbio che potesse essere invece l’immagine a mentire... A nessuno, ripeto! Dico, nessuno che abbia mai provato a formulare il seguente ragionamento, politicamente assai corretto: un segno iconico esprime il concetto che c’è una pipa e nel medesimo contesto un segno verbale nega che di pipa possa trattarsi, pertanto una delle due proposizioni è erronea (oppure, peggio, menzognera) e non abbiamo nessuno strumento, in base ai dati di cui disponiamo, per acclarare chi dei due stia dicendo il vero e chi il falso, chi sia in errore e chi no. Il fatto è che la potenza eidetica (e referenziale) dell’immagine ha sempre la meglio sulla vaghezza simbolica (e astratta) della parola. E non c’è dunque da stupire della sudditanza psicologica che da sempre la seconda vive nei confronti della prima. Terreno di coltura di tale irreparabile secondarietà è il campo della critica d’arte e – fin dai tempi del Vasari – della storiografia artistica, dove la penna o la tastiera dell’autore saggistico per lo piú si dichiarano (quasi a-priori) incapaci di restituire pienamente ciò che l’immagine produce e acconciano il proprio testo al ruolo di glossa o di postilla, tutt’al piú di chiosa esplicativa, senza mai giungere a una scrittura vera (e a sua volta artistica) come cosí spesso succede alla critica letteraria, la quale riesce a porsi come scrittura dotata d’argomento ma senza patemi di inferiorità rispetto alla scrittura di cui parla. Il massimo d’autonomia creativa fu raggiunto in Italia dalla formidabile scrittura di Roberto Longhi, capace quasi di competere con le immagini (i dipinti, per lo piú) che esaltava, e dunque due volte "scrittura d’arte": per l’oggetto di cui tratta e per il modo con cui lo fa. Una qualità evocativa immensa, un accento sempre visionario, una caparbietà inventiva nel dar corpo visivo all’immagine per tramite verbale, un "dono divino" si potrebbe supporre, che lo sottrae ad ogni piatta didascalia filologica e storiografica, quando argomenta degli amati "primitivi" quattrocentisti, Piero e i veneziani, e del Caravaggio, e 11 013 | gennaio 2016 anche d’altre stagioni della pittura della grande tradizione, anche contro – io credo – quei seguaci i quali, difendendolo come storico e filologo, non solo non hanno saputo realmente coglierne e mostrarne la grandezza, ma hanno finito piuttosto con l’esporre il loro (presunto) maestro a troppo facili ironie, e perfino a condanne senza appello, da parte di un mondo di accademici a cui egli mai appartenne e i suoi discepoli invece sí. Basterà leggere un passo dal Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946), dove Longhi, premesso che il lavoro storico l’han già fatto i curatori della mostra che commenta, si lancia nella scrittura ("descrizione" sarebbe qui davvero un concetto riduttivo) della Pietà del Buonconsiglio che si trova al Museo di Vicenza: «L’accordo straziante tra la spoglia livida del Cristo, come corazzato dalla morte, e il picco immobile della Vergine impietrita che sovrasta i monti lontani; il funereo pennacchio e lo sterpo attoscato sulla roccia levata di quinta a stringere l’intarsio freddo e rigato del cielo dopo la tempesta d’autunno; i monti di verde lavato presso il borgo pallido; ogni cosa si rilega in una lettura netta e crudele, senza comparazione a quei tempi.». [ed. Sansoni, pp. 18-19]. Qui la parola dà prova di una capacità di ingiunzione di senso presso i caratteri formali di un testo pittorico che è "senza comparazione a quei tempi" (e non solo a quelli), benché facile sarà per un filologo dalle dita paralitiche osservare, ghignando, che la Pasqua di Resurrezione non cade propriamente in autunno. Ma – a marzo o in ottobre, o in qualunque altro periodo dell’anno – si potrà pur sempre cadere in ginocchio dinnanzi un altro brano dello stesso Viatico, dedicato questa volta al genio di Giovanni Bellini: «Uomo di meditazioni instancabili, mai pago di evocare l’antico, d’intendere il nuovo e di provarli, egli fu tutto quel che si dice: prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco; eppure sempre lui, caldo sangue, alito accorato, accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia, e il manto della natura. Accordo fra le masse umane prominenti e le nubi alte, lontane, e cariche di sogni narrati; tra le chiostre dei monti e le absidi antiche, le grotte di pastori e le terrazze cittadine, le chiese color tortora del patriarcato e il chiuso delle greggi, le rocche medievali e le rocce friabili degli Euganei. Una calma che spazia fra i sentimenti eterni dell’uomo: cara 12 013 | gennaio 2016 bellezza, venerata religione, eterno spirito, vivo senso; e una pacificazione corale che fonde e sfuma i sentimenti, dall’alba di rosa al tramonto di viola, secondo l’ora del giorno.» [idem, pp. 15-16]. Ecco, in Longhi abbiamo l’esempio di una scrittura che tenta di vincere la partita sull’immagine, quasi ricreandola piuttosto che commentarla, e che sottilmente impone all’immagine – come per una nemesi o per un contrappasso – di farsi chiosa del testo scritto. Esito non dissimile da quello conseguito nella magnifica "poesia critica" di Emilio Villa, ad esempio nei testi ispirati alle opere di Alberto Burri, oggi raccolti in Pittura dell’ultimo giorno, che sono dotati di una potenza d’espressione tale da emozionare ed entusiasmare anche chi li leggesse senza aver mai visto un dipinto dell’autore a cui si riferiscono. Tuttavia lo stupore che si prova dinnanzi a certe pagine della Recherche, dove Marcel Proust spalanca per noi l’estremismo della sua parola totalizzante, e dunque finalmente vittoriosa (anche) sulle immagini, al punto da farne dipendere l’esistenza da quella parola stessa, è qualcosa su cui bisognerebbe meditare con attenzione ancora piú devota. Corrono forse alla mente di chi mi sta leggendo le pagine intorno alla Veduta di Delft, memorabili per l’accanimento con cui la pittura di Johannes Vermeer è riformata e riformulata a mezzo di un approccio decisamente allucinogeno, che rinviene miracoli epifanici pressoché invisibili (in quanto non isolabili dal contesto) se si prescinde della loro proustiana re-iscrizione: «Una piccola ala di muro gialla, di cui non si ricordava, era dipinta così bene da apparire, a guardarla isolatamente, simile ad una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che basta a se stessa.». Ma si può intendere ben altro: ad esempio l’evocazione di opere visuali del tutto inesistenti e quindi letteralmente create da un testo verbale che le materializza dinnanzi all’occhio (interiore) del lettore, con una forza di persuasione e di definizione del dettaglio visivo che si direbbe quasi sovrannaturale, mostruosa secondo qualunque semiotica, tanto che è come se quelle immagini vivessero di una vita materiale ed effettiva, paragonabile a quella dei dipinti o delle sculture che effettivamente esistono e si vedono nei nostri musei. Due esempi: il lungo passo sul portale della chiesa di Balbec – 13 013 | gennaio 2016 forse una sintesi o una proiezione di portali medievali realmente presenti sul territorio normanno, o dell’Ile-de-France, o di Borgogna – che viene narrativamente trattato come referto di una lezione critica effettuata dal pittore Elstir a beneficio del Narratore, in A’ l’ombre des jeunes filles en fleur; o ancora il brano (nello stesso libro ma poco piú avanti) in cui è finta la descrizione, questa volta da parte del Narratore in persona, di un quadro meraviglioso dello stesso Elstir (una "marina" che rimanda a quelle normanne di Claude Monet). In quei luoghi – che mi paiono unici nella storia della letteratura e (perché no?) anche nella storia delle arti visive – la scrittura si fa davvero imago-poietica: piú potente dell’immagine sul terreno dell’immagine stessa, immaginifica nel significato piú profondo del termine. «Come, – mi disse, – siete stato deluso da quel portale? Ma è la piú bella Bibbia istoriata che il popolo abbia mai potuto leggere. Quella Vergine e tutti i bassorilievi che ne raccontano la vita sono l’espressione piú tenera, piú ispirata, di quel lungo poema d’adorazione e di lodi che il Medioevo svolse in gloria della Madonna. [...] L’idea di quel grande velo nel quale gli angeli portano il corpo della Vergine, troppo sacro perché usino toccarlo direttamente […]; nell’incontro fra la Vergine ed Elisabetta, il gesto di quest’ultima che tocca il seno di Maria e si meraviglia di sentirlo gonfio; e il braccio bendato della levatrice che non aveva voluto credere, senza toccare, all’Immacolata concezione […]; e, anche, quel velo che la Vergine si strappa dal seno per velare le nudità di suo figlio da un fianco del quale la Chiesa raccoglie il sangue, il liquore dell’Eucaristia, mentre, dall’altro lato, la Sinagoga, il cui regno è finito, ha gli occhi bendati, tiene uno scettro mezzo spezzato e si lascia sfuggire, con la corona che le cade dal capo, le tavole dell’antica Legge…» [Ed.it. Millenni Einaudi, I, pp. 907-908]. Ed è questo solo un breve spezzone di quel lungo resoconto su un’opera formidabile che in realtà non esiste (se non nelle pagine della Recherche) e che Proust – nel fingerla oggetto della parola critica di Elstir – ha inventato per noi tramite una vis immaginativa non inferiore a quelle di Gislebertus o del Maestro di Vézelay, i campioni assoluti della grande plastica medievale della Francia del Nord. Ma non meno impressionante è, come detto, 14 013 | gennaio 2016 l’ideazione delle opere di Elstir medesimo, che il Narratore, dotato di una sensibilità critica a sua volta non inferiore a quelle di un Ruskin o di un Warburg, fa nascere dinnanzi ai nostri occhi stupefatti come vivide e autenticamente straordinarie: «Effettivamente, si sarebbero detti immensi archi rosa. Ma, dipinti in una giornata torrida, sembravano ridotti in polvere, volatilizzati dal calore, che aveva per metà bevuto il mare, quasi passato, in tutta la distesa della tela, allo stato gassoso. In quella giornata, in cui la luce aveva come distrutto la realtà, questa era concentrata in creature scure e trasparenti, che, per contrasto, davano un’impressione di vita piú forte, piú vicina: le ombre. Assetate di freschezza, disertando la maggior parte il mare aperto divampante, s’erano rifugiate ai piedi degli scogli, al riparo del sole; altre navigando lentamente sulle acque come delfini si attaccavano ai fianchi di barche da diporto, di cui allargavano lo scafo, sull’acqua pallida, col loro corpo terso turchino...» [idem, pp. 969-970]. Il Poeta si è fatto pittore, non c’è dubbio: un artista che dipinge con la parola. Di questi quadri inesistenti, che mi parrebbero appartenere di diritto alla storia della nostra tradizione artistica accanto alle tele di Monet o di Courbet che li hanno ispirati, la parola autrice ci ha restituito infatti la potenza espressiva, l’originalità linguistica, l’afflato sentimentale, l’anima luminosa, e anche una serie di altre mirabili qualità che nessun artista (in quei medesimi termini) ha mai potuto allestire, in oggetti fisici, per la gioia del nostro sguardo. 15 013 | gennaio 2016 È guasto il giorno (Tracce Edizioni, prefazione M. Carlino) e Me Dea (Edizioni Progetto Cultura, prefazione P. Perilli): anno fertile per l'autore romano Marco Palladini. Ospitiamo volentieri un'interessante e approfondita lettura critica delle due opere di Simone Rebora. indagini MARCO PALLADINI 2015 simone rebora In un passaggio di Se una notte d’inverno un viaggiatore, Lotaria intrattiene il protagonista con la nuova invenzione ingegneristica, il non plus ultra della critica letteraria: M’ha spiegato che un elaboratore [elettronico] debitamente programmato può leggere un romanzo in pochi minuti e registrare la lista di tutti i vocaboli contenuti nel testo, in ordine di frequenza. – Posso così disporre subito d’una lettura già portata a termine, – dice Lotaria, – con un’economia di tempo inestimabile. Cos’è infatti la lettura di un testo se non la registrazione di certe ricorrenze tematiche, di certe insistenze di forme e di significati? (Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore [1979], in Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1992, Vol. 2, pp. 794-95) Trentacinque anni più tardi, proviamo a inserire nell’elaboratore di Lotaria È guasto il giorno. Questa è la sua risposta: di che la non il del si una sono le della ma mi come ci nel più da se rap al dei perché lo c’è vita senza (dati ricavati tramite il tool online TAPoR Text Analysis: <http://taporware.ualberta.ca/~taporware/textTools/listword.shtml?>). 16 013 | gennaio 2016 Sarà una coincidenza, ma ci si stupisce nel ritrovare, precisamente con venti ricorrenze a testa, due vocaboli che formano una combinazione tra le più eloquenti: vita-senza, "senza vita". Come ha notato Marco Buzzi Maresca a proposito della Me Dea di Palladini, "Medea è la poesia, il suo tendere oltre il limite, alla morte, è l’assoluto crudele della poesia. Medea, come la poesia, non ha compagni, mondo, figli. Medea è la poesia, e dunque [si chiede Maresca] è Palladini?" (Recensione su Le reti di Dedalus: www.retididedalus.it/Archivi/2015/luglio/LETTURE/1_palladini.htm). Leggere È guasto il giorno con il filtro di Me Dea ci offre quello che si potrebbe definire uno sketch sintetico su venticinque anni di produzione letteraria. Da un lato, una raccolta poetica impegnata – e impregnata – di contemporaneità, con brani tutti databili agli ultimi cinque anni; dall’altro, un testo che risale fino alle origini della scrittura poetica e teatrale di Palladini, tutta proiettata verso una dimensione atemporale e archetipica, sospesa su un assoluto che è anche nichilistico specchio dell’assenza. Una contraddizione all’apparenza insanabile, ma che, come ho cercato di suggerire, svela la presenza di radici comuni ben più profonde. Evito lo strazio di sottoporre anche Me Dea alla lettura dell’elaboratore calviniano (il quale ovviamente è parodico – ma fino a un certo punto…) e torno su canali critici più ortodossi. Come scrive Plinio Perilli nel (densissimo) saggio introduttivo, quella di Palladini è "una Medea finalmente liberata da ogni 'sacra' ipoteca del mito classico, ma anche da ogni rocambolesco, sinuoso ribaltamento moderno"; "l’ispirazione è tutta introiettata" (in Me Dea, p. 4). In È guasto il giorno, invece, abbiamo le immagini dei campi di sterminio nazisti osservate tramite Youtube, gli agghiaccianti spettacoli dei barconi che affondano in un Mediterraneo che non è più "nostrum", ma anche gli spettacoli queer del gay pride, gli spettacoli freak del nuovo mercato librario… La contemporaneità dilaga, il ritmo si fa sempre più frenetico, eppure il tutto s’inscrive in una cornice di forte intimità (col riproporsi, in avvio e in chiusura, della figura del padre) e scivola gradualmente 17 013 | gennaio 2016 (soprattutto nelle ultime due sezioni della raccolta) verso un discorso identitario, esistenzialista, a-teologico ma venato di una percezione religiosa, mistica dell’essere. Leggiamo ad esempio Poesie per nessuno. L’avvio sembra quello tipico del polemista, oltretutto piegato dalla fisicità di una "estate rovente / al limite dei 40 gradi all’ombra": Poesie per nessuno al cospetto del MUSE l’avveniristico nuovo Museo di Trento ipertecnologico e caotico, trionfo della conoscenza spiegata al popolo, anche se poi la scienza non incrementa i quanti del nostro normale stato di (in)coscienza (È guasto il giorno, p. 35) La rievocazione procede con ritmo incalzante, fra birre, panini e Frankie hi-nrg, mentre il poeta esperisce tutta la più bruciante inattualità del suo ruolo: una comparsa fuori luogo in uno spettacolo convulso, paradossale. Eppure, proprio quando il grande baraccone sembra sul punto di implodere su se stesso: […] repentinamente, quasi a tradimento ecco l’alba, l’improvviso passaggio dal buio alla luce mi emoziona, però anche discopre figure come fantasmi che barcollano, ubriachi stravolti dalla notte in bianco, ma l’alba radians col suo primo chiarore fatato ci ingloba perentoria in sé, ci reclama a ulteriore, malmessa vita quali postremi naufraghi di mondo, poeticamente perduti per tutti o per nessuno, e mi lascia stordito a pensare che probabilmente 18 013 | gennaio 2016 nulla è a caso e a casa nel cosmo (Ivi, pp. 36-37) In conclusione, non vi è affatto l’abbandono naif all’emozione irriflessa dell’apparire dell’alba, ma non vi è nemmeno la sua totale anestetizzazione di fronte alla disarmonia del vivere. Quello che nasce, è piuttosto una dinamica complessa – che si nutre, appunto, della contraddizione. La natura è e resta matrigna, mater terribilis e sanguinaria (nulla è a casa nel cosmo), ma non per questo priva il poeta di una cognizione ulteriore, capace di percepire un ordine che è immanente, ma sempre un poco oltre la superficie delle cose (nulla è a caso nel cosmo). Tra la Medea che s’indìa recidendo alla radice i propri più viscerali legami terreni, e il poeta che resta sospeso in questo continuo riflusso tra l’utopia e il disincanto, il passaggio è breve e al contempo vertiginoso. La "vita-senza" di È guasto il giorno non è quindi la semplice denuncia della decadenza morale e umanitaria di questo inizio di nuovo millennio. Come Palladini afferma: "il mostro siamo (anche) noi". Pretendere che quell’impulso abnorme che porta a sterminare i propri figli o fratelli sia pura disumanità, isolata dalla cortina fumogena delle mitologie o separata dall’incomunicabilità delle ideologie, è abominio esso stesso. È solo, invece, nel riconoscere come tale impulso sia parte anche della propria natura, che il cosiddetto "male" può non essere ridotto a quella banalità che fu tra gli ingredienti principali di tanti abomini. Per tornare alla domanda iniziale di Marco Buzzi Maresca: certo, Palladini è anche Medea. Col suo mestiere di scrittore penetra entro le pieghe più recondite della voce poetica per svelarne l’inesauribile potenza creatrice – ma anche distruttrice. Col suo impegno di critico sempre vigile e attento alla più prosaica attualità, accetta di mettere in crisi la propria stessa identità (di poeta, ma pure di uomo), per non appiattirla entro canoni o ruoli prefissati, ma cercando sempre la vitale contraddizione, lo scontro di petto con la realtà. E alla convergenza tra queste due tendenze si colloca proprio la ricerca teatrale, l’esperienza del performer, che esperisce sul proprio stesso corpo quell’insanabile, inesauribile contraddizione. 19 013 | gennaio 2016 Inevitabilmente, lungo il mio discorso si è più volte infiltrato quel concetto che Marcello Carlino ha posto al centro della sua lettura critica di È guasto il giorno, e che lo stesso Palladini dichiara con il componimento che chiude la prima sezione: Poesia della contraddizione. Il contrasto, la dialettica non risolvibile, è certo una componente determinante dell’intera raccolta. E dialettica (per citare ancora una volta il controcanto teatrale della mia analisi) è la dinamica che s’instaura nella Me Dea messa in scena nel maggio dello scorso anno al Teatro Aleph di Roma. Sul palco due attrici (Nina Maroccolo e Giulia Perroni), due voci che scindono non solo l’identità della protagonista Medea, ma quelle di tutti i comprimari in scena. In È guasto il giorno, questa intima scissione emerge secondo molteplici dinamiche, ma è evidente già nella cifra stilistica della scrittura poetica, che costringe il lettore a mutare continuamente di registro, nella ricerca di un’interpretazione che la possa sostenere dall’inizio alla fine. Alcuni esempi: il primo è ovviamente Rap rap rap (che porta oltretutto l’ironico sottotitolo: Canzone?), che chiama a un’interpretazione sincopata, ritmicamente ossessiva. Il testo si lascia attraversare con grande semplicità, e stimola quasi una simbiosi immediata tra il lettore che prende in mano il libro per la prima volta, e l’autore-performer che l’ha composto (e che gli ridarà vita a ogni interpretazione). Lo si legga ad alta voce: Io non rappresento quelli a cuor contento Nemmeno rappresento le suore del convento Io di notte rappresento la rabbia e lo sgomento I dubbi che con Dylan soffiano nel vento (È guasto il giorno, p. 38) Ma basta passare al componimento successivo (Libri & Libroidi) per incontrare invece un testo che si mette piuttosto di traverso, che almeno al primo impatto lascia il lettore incerto su quale strada prendere: 20 013 | gennaio 2016 "I libroidi sono all’apparenza, nella confezione del tutto simili ai libri, epperò ne sono la loro ontologica negazione, sono di altra e aliena natura…" (Ivi, p. 40) Si noti la rima interna confezione/negazione, che potrebbe dare qualche dritta per l’interpretazione, ma che infine aggroviglia, piuttosto che dipanare il percorso ritmico. Il testo sembra insomma mostrare una doppia natura, che richiede un esame approfondito (o forse l’intervento dello stesso autore-interprete) per essere riconciliata. E per chiudere la terna di esempi, la seconda sezione del libro si chiude con un testo "a chiave", Terzina neodada: Pata-tì, Pata-tà, Pata-tina (turner) Pata-trac (o Pata-crac?) (Ivi, p. 42) Il gioco si ripete in vario modo lungo la raccolta, ed è forse riassunto da un’ulteriore caratteristica della poesia di Palladini, la quale non solo si diverte a mescolare le carte ritmiche in tavola, ma anche, a tratti, scinde la propria tonalità dominante, fino a far convivere due voci all’apparenza contraddittorie. Si vedano per esempio i passaggi in cui l’autore assume le posture tipiche del critico e del saggista (ciò che, di norma, dovrebbe venire dopo la poesia), lasciando il poeta ad attendere sulla soglia. La poesia-saggio (come pure il romanzo-saggio) non è certo una novità in letteratura, ma Palladini si scopre più volte intento a mimare in maniera fin troppo consapevole questo atteggiamento, quasi a scoprirvi, piuttosto che un valore estetico-ermeneutico, una potenzialità in primo luogo performativa. Parlando di Scacco (divino), per esempio, il poeta ragiona sul fatto che di fronte all’indicibile e all’incomunicabile, l’uomo si trova necessariamente a interpretare una doppia parte, quella di se stesso e quella del dio muto: 21 013 | gennaio 2016 La recito in un orizzonte di attesa permanente come genialmente intuì Samuel Beckett nella pièce En attendant Godot (Ivi, p. 64) Alcuni componimenti sono interamente costruiti su questo registro (penso a Italian Theory or not?), ma la sua efficacia emerge con più forza quando il cambio di tono avviene all’improvviso, con dei portati piuttosto stranianti. Che non sono affatto parodici, ma che ci permettono di comprendere come il "genere" poetico, per Palladini, sia inteso come un collettore di molteplici tendenze (tendenze spesso, appunto, contraddittorie). Un collettore che è anche l’unico capace di esaltarne il potenziale comunicativo, spesso incatenato dentro strutture di pensiero e di elocuzione troppo rigidamente definite. Si legga il termine di La tristezza oggettiva: i conti con l’uomo tristemente non tornano mai. Perché, come chiosa Roberto Bolaño, anche quando mi oppongo all’orrore mi aggiungo all’orrore (Ivi, p. 70) Una chiosa che non cito a caso, perché permette d’introdurre un termine sul quale l’elaboratore calviniano, probabilmente, si era un poco inceppato. È certo che la parola "orrore" non compare tante volte quanto "rap". Però, nell’economia della raccolta, assume un peso specifico ben più rilevante. Il termine orrore (espressionisticamente scritto con la "H" davanti: "horrore") compare quattro volte nella raccolta: Guardate, vi dico, non distogliete lo sguardo, anche se il tour filmico dell’horrore diventa presto insostenibile (Ivi, p. 14) 22 013 | gennaio 2016 I veteromoralisti si proiettano un film dell’horrore Ma è tutto un errore (Ivi, p. 34) l’edificio post-mod del Beaubourg parigino, monstrum di meraviglia o di horrore a seconda dei punti di vista (o di svista) (Ivi, p. 36) Così, più riesci ad alzare la soglia del dolore E meno dentro ti cresce la voglia di horrore (Ivi, p. 38) Indubbiamente c’è tutta la dimensione pop-pulp dell’horror di celluloide, l’horror che diventa oggetto di consumo, ma quel semi-anglicismo dell’H a inizio parola richiama forse ancora più direttamente quel lamento ("The horror! The horror!") del Cuore di tenebra conradiano. Oltretutto il richiamo è evidente nel primo componimento della raccolta, Mio padre a Bergen-Belsen, nel quale oltretutto il "cuore di tenebra della guerra" (Ivi, p. 13) sembra già guardare a certe reinterpretazioni filmiche, dove il Colonnello Kurtz non muore ormai solo e malato sul battello di Marlow, ma nel corso di uno scontro dal sapore rituale e iniziatico. Nel film di Francis Ford Coppola, la scena assumeva i tratti edipici dell’uccisione del padre; in Palladini (che pure era entrato nelle vesti della madre che stermina i propri figli) la figura del padre non viene certo uccisa, ma piuttosto ne viene constatata la decomposizione, la graduale deriva fino al limite del vuoto e del non essere. Quello che resta (e ce lo suggeriva già Caproni, pur con tutte le complessità di un rapporto mai pacificato…) è piuttosto un ammonimento, un invito a non cedere alla lusinga del nonsenso oltre cui tutto si tace: Quello che resta del padre 23 013 | gennaio 2016 è allora resistenza al vivere e resa all’assurdo del vivere Quello che resta del padre è la menzogna di ciò che siamo, la verità di quello che vorremmo essere (Ivi, p. 72) Con queste parole giungiamo al termine della raccolta, ma non possiamo non sentire l’invito a ripercorrerla a ritroso, a riprendere appunto quell’ammonimento che, sempre per il tramite del padre, l’aveva aperta. "Fa bene qualche volta ricordare […] è necessario ancora e sempre non smemorare" (Ivi, p. 13). Di fronte all’orrore dei campi di concentramento, la poesia non si può affatto tacere, ma può ed anzi deve riprendere un nuovo slancio. E la scelta di rievocarli proprio in avvio di raccolta, con ben due componimenti (Mio padre a Bergen-Belsen, appunto, e Guardate) sembra collocarsi già come una dichiarazione di poetica. Una poetica della contraddizione, della quasi-negazione e della quasi-sparizione, in un mondo sempre più inondato di nuovi idoli sintetici e di un nichilismo facile, quasi consolatorio. Ma finché una voce riesce a farci sentire l’inadeguatezza di quelle basi su cui pretendiamo di aver costruito il nostro futuro, finché quella voce (che è del poeta, ma che è anche la nostra) riesce a mettere i bastoni fra le ruote o anche solo a disturbare un poco i "manovratori" della civiltà attuale, allora fare, leggere e sperimentare la poesia non potrà mai essere un vuoto e barbaro esercizio dello spirito. 24 013 | gennaio 2016 open space ECCEITAS vincenzo ostuni "se lo sai, lo puoi spiegare in cinque righe." Si percepisce in maniera netta la sensazione di trovarsi di fronte a una poesia concepita quale indefessa indagine sullo stare al mondo, e in particolare sullo stare al mondo della nostra specie. (Massimiliano Manganelli) La storia e la natura cominciano allo stesso tempo in cui comincia l’esperienza dell’io. La questione è di grana filosofica, ma la forma resta poetica. (Fabio Zinelli) 25 013 | gennaio 2016 1. («Non si tratta della bassa definizione del ricordo, non è in ogni caso una questione percettiva: i corpi del pensiero non hanno nessun bordo o confine segnato, gli manca come un intero strato, d’ecceità o d’altro genere di sostanza; i corpi visti sullo schermo, i corpi riflessi nello specchio persino non terminano prima di quello che hanno intorno: vi confluiscono o ne sono congenerati»). («Il tuo essere qui non è davvero tuo, sta in quella pellicola che brilla e trema appena, che seguendolo ritaglia, elimina il corpo dall’aria»). 013 | gennaio 2016 2. («Sono molto preoccupato per qualcuno, credo oggi sia caduto dalla moto, così mi dice il suo status di Facebook e qualcuno me ne ha riferito. Abbiamo tutti quanti i nostri limiti, il mio è che non ho un interruttore generale/particolare, per questo m’interrogo sulla condizione del singolo come deviazione dalla condizione della specie, per questo credo che l’essere percepito differisca da altre forme di relazione col soggetto per una sottrazione di generalità, per un toglimento e non per un’aggiunta, per un grado e non per la natura, non per il tempo, non per la distanza»). 013 | gennaio 2016 3. («Da questo incalcolabile affaticamento, da questa estenuazione programmata, da questa spossatezza immedicata, da questa circostanza senza immediatezza, da questa vicissitudine di combustione, dall’abisso di questa fiacca quadratica, dalla rottura dei margini e quasi delle acque, da questa violenza ingoiata, ingoiata come una pietra rovente nel petto, da questa doppia mano di spettro, da questa civetta che ha strabuzzato e poi chiuso le palpebre, da questo faticoso e scontato riuso, da questo tondo di cenere senza faville, da questo occhio di lepre notomizzata, da questa vergogna-ciaccona che rolla di flauti mediocri, da questo camino che avvita sé attorno al tempo dei tuoni»). 013 | gennaio 2016 4. («Qualche cosa brilla, qualche altra è taciuta; qualche cosa spinge o carica da sopra o da sotto, qualcosa è trattenuta o premuta; qualcosa scorrazza, qualche altra si arresta, si incista, qualcosa trasforma poi la cosa ferma, la dondola o gira o la instilla in giunture di lepri, corsieri; qualche cosa è nuova, qualche altra è di ieri o l’altroieri e cammina come tirando a ogni istante le somme, le cuoia, qualcosa non ha né tempo né voglia, qualche cosa rovina da sempre per sempre e non c’è modo di tirarla o frenarla, qualche cosa è una redine, un giogo, qualche cosa è un giochetto da poco, come questo qui ultimo, qualche cosa è questo sogno delle mani, degli occhi, qualche cosa è la vista e qualcosa è l’assenza finale di odore, qualche cosa domanda quando non c’è risposta, qualche cosa è serrata in sé stessa e qui intorno prilla; qualche cosa è nel nero del nero che sbatte, che stride, che strilla, qualche cosa poi ride nel tratto di una singola, lunga favilla»). 013 | gennaio 2016 hanno collaborato in questo numero: marcello carlino, ha insegnato alla Sapienza, Università di Roma. Nei corsi che ha tenuto e nelle opere che ha scritto si è occupato particolarmente di teoria della letteratura, di sperimentalismo, di avanguardie; da anni conduce ricerche sulle connessioni intersemiotiche attive nel testo letterario. Tra gli ultimi suoi libri: Poetica e Gli scrittori italiani e la pittura, del 2011. francesco muzzioli, insegna Critica letteraria all’Università "Sapienza" di Roma. Ha iniziato il suo lavoro negli anni Settanta, puntando soprattutto l’attenzione sulle posizioni di avanguardia, di sperimentalismo e di scrittura alternativa, discutendole sulla scorta di una "teoria materialistica" della letteratura. Come critico ha pubblicato numerosi studi, nonché lavori teorici comprendenti quadri complessivi. Recente contributo è il libro sul Gruppo ’63. Istruzioni per la lettura (Odradek). vincenzo ostuni, è nato nel 1970 a Roma, dove ha studiato (laurea in psicologia, dottorato in filosofia) e vive. Redattore di minimum fax, poi editor di saggistica e in seguito direttore editoriale di Fazi, dal 2008 lavora per Ponte alle Grazie come editor di saggistica e narrativa. Negli anni Novanta ha fondato il Laboratorio Aperto di Ricerca Poetica e ha fatto parte della redazione della rivista Dàrsena. Nel 2004 ha pubblicato Faldone zero-otto (Oèdipus). Nel 2009 è stato fra i vincitori del Premio Delfini. Faldone zero-venti è uscito per Ponte Sisto nel 2012. Una scelta dal Faldone zero-trentanove è stata pubblicata in volume da Aragno nel 2014, con il titolo Faldone zero-trentanove. Estratti 2007-2010, I. Nel 2014 ha terminato il Faldone zero-sessanta, novantotto-novantanove. 30 013 | gennaio 2016 Ha curato Poeti degli anni Zero, che antologizza tredici autori contemporanei (L'Illuminista, n. 30 del 2010; nel 2011 ristampato in volume dal medesimo editore, Ponte Sisto). È fra gli animatori della rassegna di letteratura ESCargot. È stato tra i fautori di Generazione TQ e redattore del Caffè illustrato. Testi su: www.faldone.it. simone rebora, Tortona 1981, laureato in Ingegneria Elettronica (Politecnico di Torino) e Filologia Moderna (Università degli Studi di Firenze), è attualmente dottorando in Letterature Straniere e Scienze della Letteratura presso l’Università degli Studi di Verona. Ha pubblicato la monografia critica Claudio Magris (Cadmo, 2015). Giornalista pubblicista, collabora con giornali e riviste letterarie. sandro sproccati, (Ferrara, 1954) insegna Semiotica dell’Arte e Storia del Cinema all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Tra i suoi libri: Prose per l’arte odierna (Ravenna 1989); La concreta utopia, 1905-1930 (Bologna 1994); Monet, la vita e l’opera (Milano 2000); Per una logica della pittura (Bologna 2006); Critica della rappresentazione (Arezzo 2009). Ha pubblicato inoltre quattro raccolte di testi poetici e diversi saggi di teoria dell’arte e della letteratura sulle riviste "Il Verri", "Testuale", "Altri Termini", "Rivista di Estetica", "Corposcritto", "Hortus Musicus", "Carte di cinema", "Rifrazioni". pier luigi zanzi, "contro le ipotesi dei maggiori bookmakers, nasce giovanissimo a Roma". È statistico, lavora nella consulenza informatica, scatta foto (possibilmente non visto), critico musicale per diverse riviste, bassista, cantante e appassionato di enogastronomia. 31 013 | gennaio 2016 nei numeri precedenti: andrea annessi mecci, franco basilea, robert becker, filippo bianchi, giorgio biferali, massimiliano borelli, gherardo bortolotti, luca bucci, ugo capezzali, giancarlo caracuzzo, maria teresa carbone, marcello carlino, barbara castaldo, giorgia catapano, alessandro chiappanuvoli, comitato 3e32/casematte l'aquila, sc, riccardo de gennaro, flavio de marco, ilaria drago, roberta durante, michele fianco, francesca fiorletta, antonio gasbarrini, giancarlo gentilucci, anna maria giancarli, michela giannotti, paolo guzzi, dino ignani, giovanni la torre, canio loguercio, gabriele lucci, elio mazzacane, francesco muzzioli, laura palmieri, mauro patrizi, pierfranco pellizetti, elena petrone, luciana preden, laura pugno, marilena renda, paolo restuccia, antonio rezza, maria silvia reversi, lidia riviello, beppe sebaste, sandro sproccati, lamberto tassinari, walter tortoreto, isabel violante, michele zaffarano, federica zammarchi, sergio zuccaro. 32