Nell`ottobre del 2005 usciva il Senza Soste n. 0. Dopo quasi 10 anni

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Nell`ottobre del 2005 usciva il Senza Soste n. 0. Dopo quasi 10 anni
Periodico livornese indipendente - anno X n. 100 - in uscita dal 16 gennaio 2015
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Validità dal 05/04/2007
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La difesa
delle libertà
Q
uando avvengono fatti drammatici come quello dell’uccisione di 12 membri della redazione
del giornale satirico Charlie Hebdo,
diventa complicato fare analisi perché si viene immediatamente circondati da un’emotività che cerca solo il
conformismo da social network e la
corsa allo schieramento virtuale sotto la cornice di una pressione mediatica a reti unificate. Premettendo che
quello che è successo è un abominio
e rischia di portare l’Europa indietro
di secoli, abbiamo anche definito
come un errore la linea editoriale di
Charlie Hebdo, non certo per dire
che se la sono cercata, ma per aprire
un dibattito sul concetto di libertà
di espressione e sulle strumentalizzazioni di giornalisti e politici che
in passato non avevano esitato a
chiedere censure e sostenere leggi in
Parlamento in quel senso. A queste
persone noi chiediamo se avrebbero
pensato la stessa cosa circa l’assolutezza della libertà di espressione
se qualcuno avesse pubblicato una
vignetta con Hitler che gioca con
una saponetta dileggiando gli ebrei,
oppure se le Femen avessero fatto la
loro performance dentro il Vaticano
invece che in una chiesa ortodossa
nella lontana Russia. Oppure se sul
famoso striscione appeso a Livorno
durante Effetto Venezia ci fosse stato scritto “Forza Hamas, mettili tutti
in un forno” invece che un’accusa
contro lo Stato di Israele per i bombardamenti su Gaza. Ogni volta
che qualcuno di noi scrive, protesta,
provoca o accusa, lo fa perché ha un
obiettivo. L’articolo, lo striscione o
la manifestazione sono strumenti
per porre un problema e cercare di
risolverlo. Fare vignette con Gesù,
Maometto o Buddha che vengono
sodomizzati non è una questione
da codice penale ma una questione
politica e come tale la commentiamo. La satira dovrebbe servire a destrutturare e smascherare un potere,
prendendolo in giro. Se poi uno è di
“sinistra” l’obiettivo dovrebbe essere
anche quello di usare strumenti per
deconfessionalizzare il dibattito e
concentrarsi semmai sui poteri legati all’Islam e sostenuti anche dall’occidente. Dileggiare Maometto in
quel modo genera l’effetto contrario,
cioè alimenta l’identità religiosa di
centinaia di migliaia di musulmani
francesi e dà ad Isis, Al Qaeda o le
cellule di assassini un argomento
in più. Ed è un errore. Quindi se la
sono cercata? No, niente giustifica
ciò che è successo. Anzi, ognuno di
noi deve lavorare affinché non avvenga più. Ma mentre alcuni esaltano la genialità e la linea editoriale di
quel giornale, noi diciamo che ancora non abbiamo capito la genialità, e
non condividiamo i loro strumenti e
i loro obiettivi, anche se ovviamente avevano il diritto di fare tutto ciò
che hanno fatto senza essere uccisi.
Redazione
Foto di Irene Carmassi
100!
Nell’ottobre del 2005 usciva il Senza Soste n. 0. Dopo quasi 10 anni e 100 numeri
il progetto è mutato insieme al mutare della città, senza però perdere la propria
indipendenza e cercando di dare voce ai movimenti che crescono dal basso e
che perseguono i principi di sostenibilità, solidarietà e giustizia sociale.
S
enza Soste nacque alla fine
dell’estate del 2005, quando un
gruppo di compagni legati a varie
situazioni di movimento all’interno della città si ritrovarono nella
palazzina di via dei Mulini 29 che
ospitava il Csa Godzilla e il Cp
1921. La provenienza di quella
dozzina di persone che poi fondò
la redazione era variegata: dall’esperienza di Indymedia alla Curva Nord, dal movimento antagonista al sindacalismo di base fino
all’associazionismo culturale. Un
bel mix di esperienza, di pratiche
e di competenze che a volte hanno portato a duri scontri ma che
più che altro hanno portato un
arricchimento e una visione più
completa di ciò che ci circondava
e ci circonda. Molti fanno tutt’ora
parte della redazione, altri ne sono
usciti ma continuano a sostenerla
dall’esterno con i propri contributi
sia giornalistici che economici. Ma da cosa era nata la necessità
di creare innanzitutto un nuovo
strumento di comunicazione dal
basso? Sicuramente la motivazione non era solo dovuta all’analisi
politica, cioè l’assunzione dell’importanza della comunicazione per
chiunque volesse fare politica, ma
soprattutto difensiva. Il 2004-2005
era stato un biennio all’insegna
della repressione sia per il movimento ma soprattutto per la curva, con il duo Puglisi (questore)-
Pennisi (Pm) che imperversava in
città e distribuiva perquisizioni e
denunce per associazione a delinquere come se piovesse, con Il
Tirreno a sostenere la campagna
terroristica. Dalle perquisizioni a
Csa Godzilla e Cp 1921 del marzo e giugno 2004 con tanto di elicotteri e squadre speciali, fino al
sequestro di massa dei tifosi del
Livorno a Roma dopo la partita
con la Lazio, la cosa che più sconvolgeva non era tanto la sproporzione degli strumenti repressivi
messi in atto ma soprattutto il circo mediatico che stravolgeva quotidianamente notizie e realtà. Il 23 ottobre 2005, in occasione di
Livorno-Reggina, venne distribuito allo stadio il numero 0 di Senza
Soste (nella foto di pagina 4), che fu
stampato in una tipografia ma che
riportava il “Fotocopiato in proprio via dei Mulini 29” per non incorrere nel reato di stampa clandestina. In prima pagina c’era la foto
dei partigiani Barontini, Frangioni
e Leonardi (poco dopo avrebbero
perso la vita in un incidente stradale) che si preparano ad un comizio sul terrazzino della tribuna
coperta dello stadio Armando Picchi. L’editoriale invece si intitolava: “A casa nostra” e cominciava
così: “Questo cartaceo, che porta
un nome dal sapore antico e, allo
stesso tempo, attualissimo, ricorda
la figura di Ilio Dario Barontini e
gli anni duri della formazione del
partito comunista di massa, della
costruzione dell’egemonia rossa
a Livorno. Ma è anche il ritmo
di vita al quale siamo sottoposti
quotidianamente: senza soste e,
non di rado, senza meta o senza
soddisfazione. Lo scopo di questo
periodico livornese è quello di far
sentire a casa propria tutti quelli
che vivono senza soste in questo
territorio. Farli sentire, anzi farli
essere a casa propria, seguendo un
comportamento che ai comunisti
viene naturale: parlare una lingua
semplice e diretta ma mai banale,
parlare di problemi concreti senza
essere seri ad ogni costo, parlare
per dare la parola e non toglierla
[…]”. Il nome Senza Soste, infatti,
viene proprio da un opuscolo edito dalla Federazione livornese del
Pci nel febbraio del 1951, in memoria dei tre partigiani scomparsi in un incidente stradale. All’interno del numero 0, che al
tempo era di 4 pagine a differenza delle 8 attuali, la rivolta delle
Banlieue di Parigi, l’occupazione del cinema Odeon e la mappa
della precarietà con tutti i contratti precari in essere dopo le leggi
Treu e Biagi e un focus sul call
center Telegate, oggi People Care
e a rischio chiusura, che al tempo
aveva assunto centinaia di giovani livornesi solo con contratti a
progetto. Una battaglia vinta con
l’intervento dell’allora Collettivo
Precari Autorganizzati, con il sostegno mediatico di Senza Soste
e con una sentenza storica dopo
una battaglia legale portata avanti
dai Cobas e dall’avvocato Marco
Guercio che sancì l’assunzione
con un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato di
oltre 300 lavoratrici e lavoratori.
In ultima pagina, infine, “Spalti
Ribelli”, una rubrica dedicata alla
Curva Nord in cui veniva subito
denunciata l’immotivata e sproporzionata repressione che ha
fatto diventare la curva livornese
come la più “daspata” d’Italia. In questi 10 anni Senza Soste è
cambiato molto, ma non certo per
golpe interni o decisioni strategiche. È cambiato perché è cambiato, e molto, il territorio di cui
parla, sono cambiati i movimenti,
è cambiata la curva e sono cambiate le priorità. Senza Soste era
ed è soprattutto la voce di coloro
che fanno, indagano, partecipano,
organizzano e quindi muta con il
mutare delle priorità e degli obiettivi di tutte le persone e le organizzazioni con cui collaboriamo o
con cui condividiamo una visione
del mondo e del territorio dove
viviamo. Negli ultimi anni ci siamo concentrati più sulle inchieste
e sui poteri forti della città. E abbiamo seguito il nascere e lo svilupparsi di... (continua a pagina 4)
2
internazionale
anno X, n. 100
SPECIALE CUBA - L’annuncio del disgelo tra Washington e L’Avana
E ora arriverà la fine dell’embargo?
Pagina a cura di Nello Gradirà
I
l 17 dicembre il pre­si­dente cubano Raúl Castro e quello sta­tu­ni­
tense Obama hanno annunciato
l’inizio di trattative per il ripristino
di normali relazioni diplomatiche
tra i due paesi. Gli Stati Uniti hanno liberato i tre agenti cubani del
gruppo dei “Cinco” (nella foto)
ancora detenuti, mentre i cubani
hanno scarcerato la spia statunitense Alan Gross. Cuba dovrebbe essere cancellata dalla lista dei
paesi complici del terrorismo in
cui è stata inserita dagli Usa nel
1982. Questo processo potrebbe
portare alla fine dell’”embargo”,
il blocco economico e commerciale contro Cuba introdotto nel
1962, ma non si tratta di un esito
scontato: sarà necessario un voto
favorevole del nuovo Congresso
dove i Repubblicani, contrari ad
ogni apertura, hanno la maggioranza in entrambe le Camere. Nel
frattempo vediamo quali fattori
hanno determinato una svolta
nella politica estera Usa, che resta
comunque clamorosa. Isolamento diplomatico Il 28 ottobre l’assemblea generale
delle Nazioni Unite aveva approvato per il 23° anno consecutivo
una mozione contro l’embargo,
con i soli voti contrari degli Stati Uniti e di Israele. L’immagine
internazionale dell’isola è molto
solida nel sud del mondo e la cooperazione sanitaria con i paesi colpiti dall’Ebola l’ha ulteriormente
rafforzata. Nel 2015 si svolgerà a
N
el novembre 2010 a Cuba
vennero pubblicati i Lineamientos de la Política Económica
y social del Partido y la Revolución,
documento che proponeva riforme strutturali molto radicali.
Queste proposte furono poi discusse ed emendate in assemblee popolari molto partecipate
svoltesi in tutto il paese e formalmente approvate dall’Asamblea
Nacional nel maggio successivo. Il documento partiva da una
valutazione molto critica sulla
situazione economica dell’isola,
pregiudicata non solo da fattori
esterni come la crisi globale e il
bloqueo, ma anche da una scarsa
produttività delle imprese pubbliche (un solo esempio: il 42%
delle terre statali non coltivate) e
dall’inefficienza dell’apparato statale. In questo contesto, i costi per
i servizi sociali e sanitari stavano
diventando insostenibili. Le proposte principali riguardavano la riduzione di almeno
500mila unità lavorative nel settore pubblico e il loro assorbimento nel settore cooperativo
(soprattutto agricolo) e in quello
privato - con l’ampliamento delle attività autorizzate, che oggi
sono arrivate a ben 178 con più di
400mila occupati e la possibilità
Panama il Vertice delle Americhe,
al quale quasi tutti i governi latino americani avevano dichiarato
di non voler partecipare se non vi
fosse riammessa anche Cuba. Ma
non sono queste le ragioni principali dell’apertura di Obama. Strategie elettorali Il presidente ha bisogno di portare a
casa risultati tangibili in politica estera prima delle elezioni del 2016, nelle
quali il voto dei latinos, che ormai
rappresentano il 15% della popolazione Usa, sarà fondamentale. Tra
questi vi sono 2 milioni di immigrati
di origine cubana, che si concentrano
soprattutto in Florida, uno stato decisivo per gli equilibri elettorali. Nel
2008 Bush, alla ricerca di consensi
tra la mafia anticastrista di Miami,
inasprì la politica migratoria e la normativa sulle rimesse verso Cuba, ma
fu una autorete clamorosa: i cubani
(tra i quali gli esuli politici sono una
di assumere dei dipendenti - l’abolizione del sistema della libreta (che
ha finora assicurato ai cubani la disponibilità di beni di prima necessità
a prezzi politici), il superamento del
doppio regime monetario e una liberalizzazione degli investimenti stranieri. Veniva anche autorizzata la
compravendita delle case tra privati,
liberalizzato il mercato dei pc e cellulari e facilitati i visti per l’estero. Su
queste riforme a Cuba è in corso un
dibattito estremamente interessante
che riguarda le prospettive stesse del
socialismo nel XXI secolo. I sostenitori delle riforme sostengo-
L’ingresso massiccio
di capitali esteri e lo
sviluppo del settore
privato rischiano
di trasformare il
socialismo in un
guscio vuoto
no che non si tratta di un ritorno al
capitalismo ma di un attualizzazione del modello socialista. “Marx - si
dice - non ha mai scritto che lo Stato
dovesse gestire direttamente anche i
piccola minoranza) non gradirono e
la Florida, tradizionalmente repubblicana, passò ai democratici. Pressione
dei
media
e
degli imprenditori Il New York Times ha pubblicato
cinque editoriali in meno di un mese
a sostegno della riapertura delle relazioni con Cuba. Vi è una forte
pressione degli imprenditori che vorrebbero investire nell’isola e vedono
imprese cinesi, spagnole, canadesi
e brasiliane aggiudicarsi importanti
“fette” di un mercato che potrebbe
essere molto redditizio, come nel
settore turistico e nelle telecomunicazioni: “Nella visione del big data ame­
ri­cano nel futuro di Cuba potreb­bero
esserci distese di call cen­ter” scrive
Il Manifesto. Da parte sua Cuba ha
bisogno di valuta estera pregiata per
importare combustibile e alimenti,
in una fase in cui la crisi che attraversano Russia e Venezuela limita gli
aiuti provenienti dall’estero. Nuovo corso Usa? L’apertura nei confronti di Cuba,
più che una svolta ideologica, appare come un tentativo di rompere il
fronte progressista latinoamericano:
tanto è vero che
all’indomani del
discorso di Obama gli Stati Uniti
hanno deciso il
congelamento dei
beni e il diniego
dei visti d’ingresso per i funzionari venezuelani
accusati di aver
“violato i diritti
umani”. In questo
momento per gli Usa il “nemico
pubblico numero uno” è proprio il
Venezuela, che insieme alla Russia
e all’Iran è bersaglio anche di una
guerra commerciale contro i paesi
Cambiano le strategie
ma gli Usa non
vogliono rinunciare
alla loro tradizionale
egemonia
sull’America Latina
Cuba in mezzo al guado
parrucchieri”. Inoltre
promuovere il settore
cooperativo
chiuderebbe
l’epoca della
pianificazione burocratica e permetterebbe
la
costruzione
di un socialismo meno
centralizzato,
basato
sulla partecipazione e sulla democrazia diretta. Sicuramente tutto ciò è
vero, ma le misure previste sono idonee a raggiungere questi obiettivi? A quattro anni di distanza dalla loro
approvazione, la produttività non
sembra molto migliorata, e questo
non ha permesso un aumento significativo dei salari. Il superamento
del regime della doppia moneta, che
provoca profonde disuguaglianze
sociali tra chi può disporre solo di
pesos nazionali e chi ha accesso ai
pesos convertibili (tramite le rimesse
degli emigrati o impieghi nel settore
“informale”) non è stato realizzato,
“non allineati” esportatori di petrolio. Lo stesso discorso di Obama lascia prevedere che le strategie di destabilizzazione contro
Cuba proseguiranno utilizzando
metodi più efficaci, come l’intervento di orga­niz­za­zioni pseudoumanitarie e il finanziamento dei
cosiddetti dissidenti. Il ruolo della Chiesa Raúl ha rin­
gra­
ziato il Vati­
cano
per la mediazione. Già nel 1998,
in visita a Cuba, Karol Wojtyla
aveva condannato l’embargo sta­
tu­ni­tense definendolo “ingiu­sto
ed eti­ca­mente inac­cet­ta­bile”. Ma
l’appoggio alle dittature militari
negli anni ’70-’80 e la condanna
della Teologia della Liberazione
hanno pregiudicato la credibilità
della Chiesa cattolica nel continente aprendo la strada alle sette
evangeliche. Oggi papa Bergoglio
cerca di recuperare il terreno perduto. Vittoria cubana In ogni caso per
Cuba si tratta di
una grande vittoria politica e
diplomatica. Al
di là di ogni retorica, il popolo
cubano resistendo al bloqueo ha
dimostrato la
sua volontà di difendere l’indipendenza dell’isola contro ogni forma
di neocolonialismo. Ma quali sono
le prospettive? Lo vediamo nell’altro articolo di questa pagina.
ma senza un aumento della produttività non avrebbe neanche risultati
tangibili sulla qualità della vita. Il settore cooperativo stenta a decollare, sia per la mancanza di tecnologie che per la scarsa propensione
a tornare alla campagna da parte di
una popolazione molto scolarizzata. Inoltre, la crisi globale ha ridotto
il volume degli aiuti provenienti da
paesi amici. Le riforme che sembrano marciare più velocemente sono
quelle relative alla liberalizzazione
degli investimenti esteri: nei Lineamientos venivano previste Zone Speciali di Sviluppo, la prima delle quali
è stata realizzata nel porto di Mariel con capitali cinesi e brasiliani,
e grazie ad una legge approvata
nello scorso aprile ora sono possibili investimenti con il 100% di
capitale straniero. L’abolizione dell’embargo sarebbe una grande sfida e una grande
opportunità ma l’ingresso massiccio di capitali stranieri rischia
di tramutarsi in uno tsunami che
può travolgere l’isola. Il timore
è che il socialismo possa ridursi
progressivamente ad un guscio
vuoto e che si approfondiscano e
si solidifichino differenze di classe
che già oggi sono visibili. Probabilmente in passato si poteva fare
di più utilizzando meglio i proventi del turismo (principale fonte di valuta pregiata per l’isola) e
puntando con più decisione sulla
riconversione agricola, la sovranità alimentare e l’autonomia energetica. E anche su incentivi ben
mirati per migliorare l’efficienza
dell’apparato statale. La soluzione, come spesso abbiamo avuto modo di scrivere, sta
nella sempre maggiore integrazione latinoamericana, alla quale
Cuba può partecipare da protagonista con i suoi professionisti e il
suo modello di welfare che rimane un esempio per tutto il mondo.
in uscita dal 16 gennaio 2015
3
interni
ECONOMIA - Un quadro sulla situazione europea e italiana in vista delle prossime elezioni greche
Germania, Grecia e tagli di casa nostra
JIMMY CASE
I
l destino della Grecia? Alla
Germania di Angela Merkel
non interessa probabilmente più.
È la conclusione a cui si arriva
nel leggere le dichiarazioni che
Michael Fuchs, membro senior
del partito cristiano-democratico
della cancelliera, ha rilasciato al
quotidiano tedesco Rheinische
Post. Il punto cruciale dell’intervista è nella seguente frase:
“L’Eurozona non è più obbligata
a salvare la Grecia”. Il paese non
ha infatti più una importanza sistemica per l’Eurozona e, di conseguenza, Atene non potrà più
“ricattare” gli altri paesi membri.
Allo stesso tempo, il numero due
del governo tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, non
solo fa affermazioni che stanno
esattamente al contrario di quelle di Fuchs, ma sembra in pieno
accordo con Angela Merkel. Entrambi però si scontrano col capogruppo Spd al parlamento tedesco che sembra, anche lui, vederla come Fuchs: la Grecia può
lasciare l’Eurozona (visto che ha
ripagato buona parte, o perlomeno quella esigibile, dei debiti
contratti con le banche francesi
e tedesche). Intanto ad Atene si
è sciolto il parlamento. I greci
torneranno alle urne il prossimo
25 gennaio, dopo la disfatta del
premier Antonis Samaras che lo
scorso 29 dicembre, per la terza
NELLO GRADIRÀ
S
econdo l’Onu negli ultimi
dieci anni almeno 500 giornalisti sono morti in tutto il
mondo nell’esercizio della loro
professione. Stando al rapporto annuale della Federazione
Internazionale dei Giornalisti,
nel 2014 i reporter e gli operatori uccisi sono stati 118, 13 in
più rispetto all’anno precedente.
Altrettanti sono stati sequestrati e 178 arrestati. Il paese più
pericoloso è stato il Pakistan
con 14 morti, al secondo posto
la Siria (12), poi Afghanistan e
Palestina con 9 ed Iraq e Ucraina con 8. Della maggior parte
di questi giornalisti sappiamo
poco o nulla, perché i media ufficiali (anche se si tratta di loro
colleghi) ne parlano solo quando i responsabili sono i “nemici dell’Occidente”. Silenzio
(quasi) assoluto, invece, quando
la loro morte si deve a governi
amici o ai loro servizi segreti, a
una banda paramilitare pagata
per destabilizzare qualche regione strategica o al narcotraffico,
perché in fondo non è bello far
sapere che molti paesi “democratici” sono ormai totalmente controllati dalla criminalità
organizzata. In questo articolo
abbiamo scelto di parlare bre-
volta, non è riuscito a ottenere
il numero di voti necessari per
il suo candidato alla presidenza
della repubblica, Stavros Dimas,
uomo della burocrazia liberista
della Ue.
Le preoccupazioni della rete finanziaria globale riguardano ora
la molto probabile vittoria del
partito di Syriza, che rifiuta di accettare le condizioni di austerity
imposte dalla troika in cambio di
quelli che vengono chiamati aiuti. Ma che di fatto sono prestiti
in cambio di privatizzazioni e di
trasferimento. La Commissione
formata da membri di Ue, Bce e
Fmi ha deciso di estendere il programma di invio fondi fino alla
fine di febbraio, rifiutandosi però
di concedere un’altra linea di cre-
dito per il periodo successivo, in
attesa di nuove negoziazioni con
Atene. Tanto per condizionare le
elezioni, s’intende.
Il punto è che il paese ha davanti
a sé il pressante pagamento di debiti a scadenza nei primi tre mesi
del 2015, che ammontano a quasi
5 miliardi di euro; e questo fattore riporta l’ipotesi di un default
disordinato e di un’uscita della
Grecia dall’euro, visto che Tsipras
non sarebbe disposto a mettere in
atto quelle misure di austerity tanto care alla Germania. Paese che,
almeno per bocca di una parte dei
suoi esponenti, potrebbe anche
fare a meno della Grecia. Ma non
è un caso che lo stesso Economist
si sia lanciato esplicitamente contro la parte di ceto politico tedesco
che sarebbe anche
disposta
a lasciar
andare la
Grecia.
Esplicito
il messaggio
del
settimanale inglese: “non
fate come
ai tempi
Lehman”.
Nel 2008
infatti
la banca
di
affari
americana fu ritenuta sacrificabile, come oggi potrebbe esserlo la
Grecia, e fu fatta fallire perché
ritenuto troppo
oneroso il suo
salvataggio. Finì
che
Lehman
Brothers,
fallendo, trascinò
con sé non solo
importanti fondi assicurativi
ma anche una
parte significativa della finanza
globale. Aprendo una crisi che
non si è ancora conclusa. In Italia, a livello di opinione pubblica,
l’effetto-Grecia è visto ancora con
gli occhi della paura. Ma le pa-
role di Renzi “non rischiamo il
contagio Grecia” non sono solo
false, visto che la borsa di Milano ha già perso valore proprio
a causa del paese ellenico, ma
proprio non riflettono il contesto. Se c’è una cosa su cui tutti
i maggiori partiti sono d’accordo in Germania è che, comunque vada con la Grecia, l’Italia
deve continuare la “cura” fatta
di tagli e dismissioni dei beni
comuni. Anche perché, se l’Eurozona schiva l’effetto negativo
dei mercati, la Grecia rimane un
piccolo paese che pesa il 2 per
cento circa del Pil dell’area. Per
l’Italia, terza economia Eurozona, non ci sarebbero dubbi: se la
Germania vuol mantenere una
politica liberista il nostro paese
dovrebbe andare
avanti con austerità e privatizzazioni. I mercati
sono già andati in
subbuglio a partire dal giorno della disfatta di Samaras, con Atene
che ha perso fino
a -11%. E, come
si è visto, la borsa
di Milano ne ha
risentito. Resta
da dire una sola cosa: invece di
impaurirsi per il contagio greco
sarà meglio aiutare la sinistra
greca. Il loro destino è il nostro.
Divisi si finisce tutti in miseria.
Per la Germania,
comunque vada in
Grecia, l’Italia dovrà
continuare la
“cura” fatta di tagli e
dismissioni dei
beni comuni
LIBERTÀ DI STAMPA - Nel 2014 nel mondo sono stati uccisi 118 giornalisti
“Matite spezzate”... del tutto ignorate
vemente di quattro di questi casi,
che ai più saranno sconosciuti.
Invitiamo i lettori a cercare le loro
storie in rete per rendersi conto di
quale sia stata la copertura mainstream delle loro vicende. Serena Shim Trentenne statunitense di origini
libanesi, seguiva per l’iraniana
Press Tv gli sviluppi della guerra
Quando ad uccidere
i giornalisti non sono
i “nemici dell’Occidente” nessuno ne
parla e nessuno
scende in piazza
in Siria e in particolare l’assedio
di Kobane. Aveva documentato
i traffici di armi e di combattenti islamici attraverso la frontiera
turca smascherando la complici-
tà tra le
autorità
di Ankara e l’Isis. Il 17
ottobre
era stata
accusata
di “spionaggio”
dai servizi segreti turchi, ed
aveva detto di temere un arresto.
Le cose sono andate ancora peggio. Due giorni dopo, di ritorno
da Kobane, Serena è rimasta uccisa in uno strano incidente stradale. La famiglia e la sua rete televisiva accusano apertamente di
omicidio il governo di Erdogan. Khalid Reyad Ahmad Venticinquenne, lavorava per
un’agenzia di Gaza. Durante l’Operazione Protective Edge, l’attacco israeliano dell’estate scorsa,
stava documentando il coraggioso lavoro sotto le bombe degli
operatori sanitari. Il 20 luglio
un missile israeliano ha colpito
l’ambulanza su cui si trovavano
Khalid e un medico, uccidendoli
entrambi. Le 9 vittime in Palestina riportate dalle statistiche citate all’inizio sono state tutte provocate dalle forze israeliane, ma
secondo fonti palestinesi i giornalisti uccisi sarebbero 17. Herlyn Espinal Reporter trentaduenne, era corrispondente di Channel 3 da San
Pedro Sula, la città honduregna
che oggi “vanta” il più alto tasso
nel mondo di omicidi per abitante. È stato il trentaquattresimo giornalista ucciso in Honduras dall’inizio del 2013. Nella
regione, ormai dominata dalle
bande criminali, spicca il Messico con 102 casi negli ultimi dieci
anni. Più del 90% degli omicidi
rimane impunito. Serghei Dolgov Era il direttore di un giornale
chiamato “Rivoglio l’Urss” e
documentava le violazioni dei
diritti umani da parte delle forze golpiste di Kiev nell’Ucraina
dell’Est. Rapito il 18 giugno, è
stato torturato e ritrovato morto il 13 luglio. Se si eccettua il
caso avvenuto durante le manifestazioni di EuroMaidan,
in tutti gli omicidi avvenuti nel
paese (compreso il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli, ucciso il 24 maggio) sembra evidente la responsabilità
dei militari ucraini. Per questi giornalisti nessuno è
sceso in piazza con la matita in
mano.
4
Livorno
anno X, n. 100
LA NOSTRA STORIA - Il traguardo del numero 100 di questo giornale
Alle radici di Senza Soste
(segue da pagina 1) ...una coscienza più attenta alla sostenibilità ambientale e alla salute, insieme con i vari comitati
sorti in questi anni. Lo ritenevamo e lo riteniamo importante in un territorio che ha
vissuto il declino degli ultimi 20
anni arroccato sulle posizioni
di rendita di una classe dirigente coperta e sostenuta dai media
mainstream locali: Il Tirreno
e Granducato Tv. Ma il progetto Senza Soste in questi anni è cambiato molto anche
graficamente ed ha cercato di allargarsi e migliorare sempre di più,
non senza alcuni ostacoli da dover
superare. Dopo il successo dei primi numeri, i carabinieri fecero visita alla tipografia che lo stampava.
Al tempo non eravamo registrati
presso il Tribunale di Livorno e
quindi non eravamo autorizzati a
diffondere il giornale. Dovemmo
fermare per tre mesi la stampa, ci
mettemmo alla ricerca di un giornalista che ci facesse da direttore
e facemmo un’associazione che
deteneva la proprietà della testata.
Il 2 marzo del 2006 il Tribunale ci
dette l’ok e da metà marzo potemmo tornare a stampare il giornale
uscendo da quel momento con
regolarità ogni mese per 11 mesi
all’anno, periodicità che manteniamo ancora attualmente. Quattro
pagine però erano poche e ad ogni
numero qualche buona proposta
JACK RR
I
l 21 marzo 2013 pubblicammo un articolo on line dove
facevamo cenno alle microplastiche che ormai rappresentano il principale inquinante del
nostro mar Ligure e di tutti i
mari in generale. Il mare è il corpo ricettore finale
e l’acqua che attraversa le zone
emerse è il primo veicolo di trasporto, oltre all’aria, di inquinanti che rimarranno per decine di
anni a modificare in negativo le
condizioni di vita naturali della
biosfera. La liquidità del mare
non crea presidi contro gli inquinanti mescolando ogni elemento
dannoso, facendolo poi interagire con flora e fauna e addirittura
con l’aerosol marino. Quindi se
andiamo a valutare tutto nel suo
complesso non esistono veri e
propri presìdi contro gli impatti
antropici ed ogni elemento immesso nel sistema naturale ritorna e colpisce indistintamente quei
processi che si reggono su equilibri naturali molto precisi e delicati. Plastiche, minerali, fenoli e
diossine sono gli elementi “non
costitutivi” del nostro mondo di
vita e l’atteggiamento umano incredibilmente continua a seguire
la strada della rilevazione del grado di dispersione dell’inquinante
di articolo rimaneva tagliata fuori.
Al numero 9 già eravamo passati
a otto pagine con il conseguente “impegno” raddoppiato. Così
come erano raddoppiati i punti di
distribuzione. Nel giro di pochi
mesi almeno 20 edicole e altrettanti tra bar, ristoranti, spazi sociali e
biblioteche distribuivano, a offerta
libera, il nostro giornale. Avevamo
però il problema dei portalocandine per le edicole ed un compagno
con una ditta di carpenteria ce ne
costruì e regalò una decina. Se oggi siamo arrivati al numero
100 è anche grazie a tutte queste
persone che ci hanno aiutato a sostenere e distribuire il progetto. Il definitivo salto di qualità è avvenuto, però, nel gennaio 2007, quan-
do con l’aiuto di compagni fiorentini legati ai collettivi di Indymedia,
sbarcammo online con il nostro
sito www.senzasoste.it. Nel giro
di poche settimane avevamo centinaia di contatti singoli giornalieri,
ma soprattutto la redazione dovette
darsi regole e ritmi nuovi, perché se
il cartaceo usciva mensilmente, con
il sito il lavoro da fare era diventato
quotidiano. Adesso siamo alla terza versione del sito, che speriamo
di poter rinnovare presto, con quasi
20.000 articoli caricati in questi 8
anni di presenza in rete e oltre 2000
ingressi quotidiani da aggiungere
a quelli dei social network. A fine 2008 è stata invece la volta
della sperimentazione di Facebook
e Twitter. Una sperimentazione che
mano a mano è diventata una piattaforma che integra quotidianamente il sito e che
in questi anni ci ha
dato la possibilità
di far commentare
le notizie a chi ci
segue e ha allargato la platea di chi
si interfaccia con
noi. Il mese scorso abbiamo avuto
il record di copertura settimanale
della notizie sulla
nostra pagina Facebook: oltre 198.000 contatti. In mezzo a tutto questo, non sono
mancate le querele. Dai militari, ai
fascisti fino all’Autorità Portuale di
Livorno. Al momento in tribunale
ci siamo andati una volta, proprio
per volontà del presidente genovese dell’Autorità Portuale. Avevamo raccontato la storia di un
ricorso contro la graduatoria di
un concorso per entrare nell’ente
dove aveva vinto il portaborse del
senatore Filippi. Una denuncia
non certo fatta di illazioni, calunnie o sentiti dire (anche se come si
suol dire, lo sapevano tutti e ci avevano annunciato in anticipo chi
avrebbe vinto) ma con in mano i
documenti della candidata che
aveva fatto ricorso. La denuncia
non è partita sui contenuti dell’articolo (probabilmente perché era
inattaccabile) ma perché nella
locandina abbiamo scritto come
gioco di parole “Pork Authority”.
In primo grado
abbiamo perso.
Ora andiamo in
appello. Sono i
rischi del mestiere, specialmente
quando si vuole
andare contro i
poteri consolidati
e incancreniti di
questa città. In
questi anni di attività e militanza,
abbiamo giù contribuito a mandarne a casa qualcuno…
Una redazione e
100 numeri che si
portano dietro tante
storie e tanti
cambiamenti
nell’arco di quasi
10 anni
Redazione
AMBIENTE - L’inquinamento delle acque, un problema sempre più grave
Il mare e i distruttori endocrini
piuttosto che prendere in considerazione una rivoluzione in ambito
produttivo eliminando in senso assoluto gli scarti. I tentativi esistono
ma i risultati sono ancora limitati
per cui l’economia non si arresta e
continua a imperversare sulla natura dei luoghi e infine del mare. Restando comunque nell’ambito
delle analisi che misurino lo status
È stato stimato a
livello europeo un
costo sanitario dovuto agli effetti dei
distruttori endocrini
pari a 31 miliardi di
euro all’anno
quo del mare che viviamo, attendiamo i risultati dei programmi
di studio dell’Università di Siena
riguardanti la quantità di polimero
presente nei
tessuti
dei
mammiferi e
l’apporto di
microplastiche da parte
dell’Arno
e del Tevere e anche i
risultati e i
suggerimenti
del progetto
Gionha
(Governance
and Integrated
Observation
of marine Natural Habitat) condotto localmente
dall’Arpat. Gli elementi dannosi
vengono definiti “interferenti o
distruttori endocrini” e sono catalogati normativamente a livello comunitario come: “sostanza che altera
la funzionalità del sistema endocrino,
causando effetti avversi sulla salute di
un organismo, oppure della sua progenie o di una (sotto)popolazione”. Alcune di queste sostanze come ftalati,
bisfenoli e parabeni si ritrovano in
materiali utilizzati quotidianamente e prodotti per la cosmesi che nei
periodi di balneazione addirittura
vengono accompagnati dall’uomo
direttamente in mare. Gli interferenti possono essere anche naturali
come gli estrogeni, il progesterone
e il testosterone ma le quantità non
sono di certo il risultato di una produzione industriale su scala planetaria. È ormai conclamata la dannosità di tali sostanze a tal punto
che l’Unep nel suo rapporto Endocrine Disrupting Chemicals 2012
ne ha definito l’impatto come
una “minaccia globale” da combattere. Esiste infatti ormai la certezza scientifica che questi ormoni di sintesi entrano nei processi
endocrini naturali alterandone gli
equilibri, quindi possono inibire o
accelerare le funzioni biologiche
di riproduzione cellulare. Così quel mare che noi osserviamo spesso con tanta poesia e
tanta soddisfazione, da cui la vita
prende la sua forza, crea al contrario la base di molte malattie
che affliggono le specie e di conseguenza l’uomo. È stato stimato
a livello europeo un costo sanitario dovuto agli effetti antropici
dei distruttori endocrini pari a 31
miliardi di euro all’anno. La valutazione fatta dall’Heal (Health and
Environment Alliance) è divenuta
argomento di discussione interna
alla Commissione e richiamata
spesso da rappresentanti alla sanità dei singoli paesi, specialmente dalla Francia.
in uscita dal 16 gennaio 2015
5
Livorno
PORTO - Intervista con Vladimiro Mannocci sul senso e sulle ragioni dell’opera Darsena Europa
Una Darsena elettorale...?
V
ladimiro Mannocci è il responsabile del Settore portuale della Federazione Prc di Livorno e vanta una lunga esperienza lavorativa in porto nella Compagnia Lavoratori Portuali. Lo
abbiamo incontrato per capire
meglio, fuori dalle sparate elettorali, dai giochi di potere e dagli
interessi dei “soliti”, quale potrà
essere il futuro del Porto di Livorno. Dopo i convegni, le polemiche e
le promesse elettorali di questi
giorni, come vedi la questione
della Darsena Europa? Quali rischi e tipi di finanziamento si
porta dietro? Al di là della posizione dei 5 Stelle che pare superficiale, ci sono anche pareri discordanti su questa opera: chi
dice che ne serve una “light”,
chi dice che è irrinunciabile, chi
dice che è un’opera che rischia
di costare troppo rispetto ai traffici che riuscirà poi ad intercettare. Mai come oggi l’intreccio tra il
porto e il tessuto economico e sociale della nostra area sono indissolubili. O si comincia a ragionare in termini di sistema o imbocchiamo la via del declino. Nel
programma elettorale della coalizione della sinistra livornese abbiamo mosso non poche critiche
al Piano Regolatore Portuale, a
partire dal sovradimensionamento della Darsena o Piattaforma
Europa nella sua versione
“mega”. Una infrastruttura pensata per operare 3 milioni di Teu,
che a Livorno non faremo nemmeno tra cent’anni, con un costo
di 1,2 miliardi di euro sui quali
sarebbe difficile anche trovare dei
finanziatori privati, non per la
quantità di risorse da investire,
ma per il fatto che non sarebbero
remunerativi. Il problema della
overcapacity non sta riguardando
solo i grandi vettori marittimi,
ma anche il terminalismo portuale, specie in Italia. Se analizziamo i progetti presentati dalle varie Autorità Portuali ci accorgiamo che produrrebbero da oggi al
2025 un’offerta di 37 milioni di
Teu, mentre le statistiche più ottimistiche prevedono che nei porti
gateway (porti che hanno collegamenti logistici con il continente,
come il nostro), quindi escludendo i porti di transhipment (porti
di trasbordo/smistamento dove
le merci sono caricate su navi più
piccole), arriveremo ad una capacità di movimentazione di circa
13 milioni di Teu. È nel suo complesso che la parola programmazione si scontra con i processi reali in corso nello shipping. Noi
però non abbiamo mai messo in
discussione lo sviluppo a mare
del porto, a partire dall’utilizzo
delle due vasche di colmata. Mi
sembra che gli obiettivi attuali,
chiamiamoli light, siano molto
più realistici rispetto alla versione
“monster”. La proposta del presidente Rossi, che ha tutte le carat-
Foto di Giacomo Spagnoli
teristiche elettoralistiche, non può
però cadere nel vuoto livornese.
Dobbiamo prenderne atto e rilanciare anche con proposte concrete
per superare la crisi che attanaglia
la città. Non illudiamoci però che
la realizzazione delle infrastrutture
portuali sia di per sé generatrice di
sviluppo automatico della nostra
area, come si diceva quando i “mulini erano rossi”: è condizione necessaria ma non sufficiente. A tuo avviso a quale modello di
porto e a quali traffici dovrebbe
guardare il porto di Livorno sulla
proiezione dei traffici di merci e
passeggeri e sul modello di trasporto e logistica dei prossimi 20
anni? Come dicevo, il modello porto va
ripensato a partire dal suo consolidamento di scalo “multipurpose” a
trazione commerciale, cercando di
servire le filiere. Uno studio Irpet/
Autorità Portuale, mai
presentato e infilato subito in un cassetto, arriva
alla conclusione che le
attività turistiche e crocieristiche, che pure devono essere sviluppate,
non sarebbero in condizione di sostituire il valore aggiunto che deriva
dal settore commerciale
sia in termini di creazione di ricchezza, sia in
termini di occupazione.
Però, se guardiamo il settore portuale nazionale
ci accorgiamo che il
trend dei traffici è passato da movimentare nel 2005 circa
490 milioni di tonnellate, con un
picco del 2007 di oltre 500 milioni
di tonnellate, fino al 2013 nel quale
il movimento delle merci si attesta
su una cifra inferiore ai 460 milioni
di tonnellate. Quindi nei porti si è
aperta una gara competitiva per accaparrasi la poca merce che circola
in Italia. Livorno, specie nel settore
dei contenitori non è certo messo
bene, anzi ha perso quote di mercato che devono essere recuperate.
Nel 2013 sono stati movimentati
nel nostro scalo circa 28 milioni di
tonnellate di merce rispetto agli oltre 34 milioni movimentati nel
2008. Sul contenitore si sono movimentati 546.046 teu, ritornando
sui livelli di 10 anni fa. Se analizziamo il rapporto tra import ed export ci accorgiamo che il secondo
prevale sul primo e questo dato indica una la ridotta attività produttiva e di consumi. In Toscana abbiamo perso il 25% della produzione
industriale che ha inciso non poco
sulla riduzione dei traffici. Il nostro
obiettivo deve essere quello di creare le condizioni per attrarre su Livorno quelle merci ad alto valore
aggiunto che siano in condizione
di reggere i costi di servizi che potrebbero essere realizzati nel nostro
territorio. Un esempio? Oggi l’industria automobilistica italiana si è
ridotta a produrre 380 mila veicoli
(dato 2013) mentre le immatricola-
zioni sono circa 1,4 milioni. Allora
io vedo per Livorno una funzione
hub per il traffico delle auto nuove
dove oltre che a garantire lo sbarco
e l’imbarco si possa anche offrire
nel nostro territorio, lavorazioni di
assemblaggio, personalizzazioni,
etc.. Insomma non
mancano le opportunità, mancano studi e progetti
seri che, anche attraverso delle facilitazioni che possono derivare da
un formale riconoscimento di area
di crisi complessa,
possono
essere
messi in campo.
Questo era solo un
esempio. Non dovremmo sottovalutare la nuova tendenza
alla rilocalizzazione delle attività produttive
(backshoring), che guarda caso riguardano in
gran parte settori qualificati dell’industria italiana e americana. Cioè,
per vari fattori (aumenti
salariali, qualità inferiore, costi dei trasporti e
inefficienze logistiche)
oggi diventa più conveniente ritornare a produrre in Italia alcune
produzioni che erano
state delocalizzate in
Asia o nel Medio Oriente. Insomma, se invece di guardarsi
l’ombelico guardassimo a ciò che
sta accadendo nel mondo ci accorgeremmo che, seppure in una fase
di crisi, esistono possibilità concrete di ricostituire un tessuto economico e produttivo partendo da una
relazione funzionale più stretta
tra porto e territorio. Superiamo i
campanilismi e valorizziamo le
infrastrutture che già abbiamo, a
partire dall’interporto Amerigo
Vespucci ed altre aree, implementiamo le infrastrutture immateriali, dando una nuova centralità ad
un lavoro qualificato utilizzando
la formazione. È chiaro che sta
alla politica, alle amministrazioni
ai vari livelli, creare un progetto
di sviluppo che sia basato su analisi e non su suggestioni. PRG portuale e Porta a Mare.
Quale futuro ha la Porta a Mare?
È veramente a rischio flop
sull’investimento turistico e
commerciale? Cosa deve fare
l’Amministrazione? Se non partiamo da questi obiettivi prioritari, sviluppo del porto e
realizzazione di nuovi insediamenti industriali, non possiamo
parlare di sviluppo del commercio, turismo, valorizzazione dei
nostri beni paesaggistici e culturali e comunque non possiamo pensare che queste attività siano in
condizione di sopperire alla costante deeconomizzazione che
fin dai primi anni novanta ha caratterizzato il trend economico
della nostra città. Come dicevo
all’inizio, manca una visione di
insieme anche rispetto a ciò che
accade a pochi km da noi, penso
a Piombino che
ha saputo portare avanti una
battaglia per salvaguardare la
sua identità industriale anche
perché si è puntato sul porto
come
fattore
centrale. Sulla
Porta a Mare,
navi grandi sì o
navi grandi no,
potrei cavarmela dicendo che
possiamo farci
le attività compatibili con le prescrizioni che saranno indicate. Io sono convinto
che in una logica di leale collaborazione vi siano margini per votare questo “calimero” di Piano
Regolatore Portuale, aprendo al
contempo delle varianti su quegli
elementi che oggi sono fattore di
divisione ideologica. Io sono molto critico su questo Prg, ma penso
che si debba completare velocemente tutte le procedure, lo dico
soprattutto perché se non si mettono dei paletti è forte il rischio
che si acceleri una fase di conflitto commerciale interno al porto
basato sul ribasso tariffario, in
particolare nel settore dei contenitori, che andrebbe tutto a detrimento, della qualità dei servizi,
del lavoro e dei lavoratori che in
questi anni sono quelli che più di
ogni altro hanno pagato la crisi
sulla propria pelle.
Mai come oggi
l’intreccio tra il porto
e il tessuto economico e sociale della
nostra area sono
indissolubili, è necessario ragionare in
termini di sistema
Redazione
6
per non dimenticare
NELLO GRADIRÀ
E
ric Arthur Blair (questo il vero
nome di George Orwell) nasce il 25 giugno 1903 a Motihari,
nel Bengala, territorio appartenente all’Impero britannico di cui
suo padre era funzionario. All’età di quattro anni si trasferisce in Inghilterra con la madre e
studia in alcune prestigiose scuole
britanniche, tra cui il College di
Eton dove tra gli insegnanti trova
Aldous Huxley, l’autore di Brave
New World, un capolavoro della
letteratura distopica [1] che avrà
su di lui molta influenza. Stanco
dello snobismo dei suoi coetanei
delle classi più elevate, si arruola
nella polizia imperiale di stanza
in Birmania, un’esperienza dalla
quale ricava la più totale repulsione per l’imperialismo britannico.
Si riferiscono a questo periodo il
romanzo Giorni in Birmania (1934)
e brevi racconti come Un’impiccagione (1931) e Uccidendo un elefante
(1936) [2]. «Ero gravato da un immenso senso di colpa che dovevo
espiare», scrive «Sentivo di dovermi sottrarre non soltanto dall’imperialismo ma da ogni forma di
dominio dell’uomo sull’uomo».
Tornato in Europa (1928), si reca
a Parigi per conoscere la realtà dei
bassifondi. Sopravvive facendo
i mestieri più umili e grazie alla
carità. Contrae la tubercolosi, che
gli sarà letale. Scrive Senza un soldo
a Parigi e Londra (1933), dove usa
per la prima volta lo pseudonimo
di George Orwell, e poi La strada
per Wigan Pier (1937), sui minatori
dell’Inghilterra settentrionale. Milita nell’Independent Labour
Party, e allo scoppio della Guerra
Civile spagnola ottiene il lasciapassare per arruolarsi nelle file del
anno X, n. 100
GENNAIO 1950/1 - 65 anni fa moriva l’inventore del “Grande Fratello”
George Orwell
Una vita per la libertà
va: da una parte uno
Stato centralizzato
e dominato da una
burocrazia di partito,
dall’altra un modello di società basata
sull’autogestione e la
democrazia diretta. Orwell riesce a stento a sottrarsi alla repressione stalinista e
torna in Inghilterra.
Sull’esperienza spagnola scrive nel 1938
“Omaggio alla Catalogna”. Ha maturato
un profondo orrore
per ogni forma di autoritarismo e per la
politica in generale,
ma continua a diOrwell al fronte a Huesca nel marzo 1937 (è il più alto in piedi), in basso la moglie Eileen
chiararsi di sinistra.
Riformato come inaPoum, organizzazione collegata blicane che provocano centinaia di bile, durante la Guerra Mondiale
all’Ilp [3]. Giunto a Barcellona nel morti. Tra i due schieramenti c’e- diventa direttore del Tribune, giornovembre 1936, vive con entusia- rano profonde divergenze su come nale socialista, e comincia a scrismo il clima rivoluzionario di quei condurre la guerra contro Franco: vere La fattoria degli animali, una
giorni e chiede di essere inviato in gli stalinisti erano contrari a for- feroce caricatura della burocrazia
prima linea. Ferito da un cecchino zature in senso rivoluzionario per sovietica che aveva tradito la Risul fronte aragonese, torna a Bar- evitare di rompere il fronte antifa- voluzione. Il libro sarà terminato
cellona proprio nei giorni (maggio scista con la borghesia, mentre per nel 1944 ma - a causa dell’allean1937) in cui gli stalinisti danno l’as- gli anarchici, i trotskisti e il Poum za tra Urss e Regno Unito - verrà
salto alla centrale telefonica con- la guerra e la rivoluzione sociale pubblicato solo nel 1947. trollata dagli anarchici, episodio dovevano marciare di pari passo. Si trasferisce alle Isole Ebridi, e
dal quale prendono il via durissimi Ma c’erano - anche e soprattutto qui scrive 1984. Orwell teme che
scontri tra le varie fazioni repub- - irriducibili diversità di prospetti- anche dopo la fine del nazismo le
tendenze al totalitarismo possano
estendersi anche all’Occidente e
che possano emergere due o tre
superpotenze guidate da nuovi
“führer” capaci di dominare non
tramite la forza bruta ma con
raffinati strumenti di controllo
sociale. Nel frattempo le sue condizioni di salute peggiorano e lo
costringono a continui ricoveri.
Morirà nel gennaio del 1950 in
un ospedale londinese. A qua-
“Un bel giorno il
partito avrebbe
proclamato che due
più due fa cinque, e
voi avreste dovuto
crederci “
(Da 1984)
si settant’anni dalla sua uscita,
1984 continua ad essere uno dei
libri più letti e più attuali: l’utopia
negativa di Orwell oggi più che
mai rischia di realizzarsi.
Note: [1] Distopica è un termine che sta ad
indicare un’utopia negativa [2] Essendo reperibili in rete, consigliamo vivamente di scaricarli [3] Il Poum (Partido Obrero de Unificación Marxista) viene spesso definito erroneamente come “trotskista”.
Forse è più adatta la definizione di
comunista libertario (anche se non
nel senso che a questo termine danno
gli anarchici)
GENNAIO 1950/2 - 65 anni fa l’eccidio delle Fonderie di Modena: 6 morti, nessun colpevole
NELLO GRADIRÀ
I
l 3 dicembre 1949 i 565 lavoratori delle Fonderie Riunite
di Modena ricevono le lettere di
licenziamento. Le Fonderie non
sono in crisi: durante l’anno la
produttività e i profitti sono cresciuti, e anche gli straordinari
sono aumentati. I salari, quelli
sì, sono diminuiti. Il padrone è il
conte Adolfo Orsi, pezzo grosso
della Confindustria, proprietario della Maserati e di varie altre
imprese, arricchitosi con le forniture militari. Orsi non vuole il
sindacato tra i piedi: ha in mente
di mandare via gli operai più politicizzati e poi riaprire le Fonderie
con 250 dei licenziati e un centinaio di nuovi assunti. Il 9 gennaio 1950 è il giorno previsto per la riapertura e viene dichiarato uno sciopero provinciale.
Il governo democristiano vuole
mostrare i muscoli: 800 tra poliziotti e carabinieri, dotati di autoblindo, affluiscono a Modena da
tutta la regione. Le Fonderie sono
presidiate dalla Celere armata, la
città è in stato d’assedio. Alle 10 è
previsto un comizio nella centrale Piazza Roma. Per le strade ci
sono diecimila lavoratori, ma non
c’è alcun corteo organizzato. E
Gli anni di piombo della Dc
le “forze dell’ordine” cominciano
a sparare. Dopo un lancio di lacrimogeni e raffiche in aria, un carabiniere appostato sulla terrazza delle
Fonderie uccide Arturo Chiapelli
(43 anni) mentre attraversa la ferrovia accanto allo stabilimento. Non
è facile recuperare il corpo, perché
il cecchino spara anche sui soccorritori. Intanto un agente uccide
Angelo Appiani (30 anni), che si
trovava davanti ai cancelli con altri
lavoratori. Poi il terzo assassinio:
c’è un lancio di lacrimogeni e una
violenta carica contro un corteo
di circa 200 lavoratori. Nel fuggi
fuggi, l’operaio Roberto Rovatti di
36 anni, ex
partigiano, viene
agg redito,
percosso
con i calci
dei fucili,
gettato in
un fossato
e finito con
un
colpo
alla nuca.
Dopo una
breve fase di calma, verso le 12
riprendono le cariche e gli spari: i
lavoratori vengono spinti verso il
viale Ciro Menotti dove vengono
aggrediti e molti di loro arrestati.
Qui un carabiniere uccide a sangue freddo prima Ennio Garagnani
e poi Renzo Bersani, fratello di un
giovane fucilato dai nazisti. Poi, in
circostanze rimaste oscure, viene
assassinato l’operaio Arturo Malagoli. Tutti e tre avevano 21 anni. Non c’è stato nessuno “scontro”, nessun “atto di violenza” e
nessuna “provocazione” contro
le cosiddette forze dell’ordine.
Si tratta, come scriverà L’Uni-
tà, di “omicidi premeditati”. Ma
i colpevoli saranno assolti. Prima di Modena in soli due mesi
c’erano stati tre eccidi di braccianti
in lotta: a Melissa (Kr), il 29 ottobre 1949 la Celere ne aveva uccisi
tre; il 29 novembre a Torremaggiore (Fg) i carabinieri avevano
fatto due vittime,
e il 14 dicembre
a Montescaglioso
(Mt) c’era stato
un altro omicidio.
Perfino il moderato Corriere della
Sera condanna la
repressione: “C’è
una realtà disonorevole per il
nostro paese: la
rivoltante uccisione di contadini affamati, la Celere come capitolo della scienza economica, mentre i proprietari di immense terre se ne stanno a Roma o a Capri, a intrigare con
la politica o con l’alta società”. Sono anni di piombo: tra il gennaio 1948 e il giugno 1950 il bilancio
è di 62 lavoratori uccisi, 3.126
feriti e 92.169 arrestati (solo nel
1948 tra questi ultimi vi furono
77 segretari di Camere del lavoro). Dati impressionanti che una
propaganda unilaterale e faziosa
cerca di cancellare dalla memoria
collettiva. Ma la Dc resterà per
sempre il vero “partito armato”
della storia d’Italia. “Il dispositivo di
polizia per tutti gli
anni ’50 è interamente nelle mani
di funzionari di
provenienza fascista. Dei 64 prefetti non di primo
grado e 241 prefetti, soltanto due
prefetti di primo
grado non hanno
fatto parte dell’ingranaggio fascista.
Dei 135 questori e
139 vicequestori,
che hanno tutti iniziato la loro carriera con il fascismo, solo cinque vicequestori hanno avuto rapporti con
la Resistenza. La continuità del ceto
che esercita le funzioni repressive dello Stato tra fascismo e post-fascismo,
quindi, non potrebbe essere più netta”
(C. Bermani, La democrazia reale).
Il padrone aveva in
mente di mandare via
gli operai politicizzati
e poi riaprire le
Fonderie con 250
dei licenziati e un
centinaio di
nuovi assunti
in uscita dal 16 gennaio 2015
7
stile libero
LETTURE - Un interessante e stimolante testo critico che mette in discussione il sistema economico
I
l 25 maggio del 2011 a Bourges, cittadina della Francia
centrale, si è tenuto un interessante incontro dibattito tra due
dei più interessanti intellettuali
europei espressione di due delle
correnti di pensiero che mettono in discussione il modello di
società capitalista: l’economista
e filosofo francese Serge Latouche, conosciuto al vasto pubblico
come il padre della “Decrescita”
ed il filosofo tedesco Anselm Jappe, studioso di Debord e del Situazionismo ed uno dei massimi
teorici della “Critica del Valore”.
Incontro dibattito che aveva per
tema centrale la messa in discussione dell’Economia e soprattutto la ricerca ed analisi su come
si è sviluppata e poi imposta
come paradigma assoluto, e che
sia proprio questo paradigma a
determinare l’inevitabile crisi.
In rete esiste un video in lingua
originale che documenta quell’evento, ma da poche settimane è
adesso disponibile, tradotto in
italiano, un libro che raccoglie
quegli interventi ed il dibattito
che ne è seguito: Serge Latouche,
Jappe Anselm. Uscire dall’economia.
Un dialogo fra decrescita e critica del
valore: letture della crisi e percorsi di
liberazione, pubblicato a fine 2014
da Mimesis Edizioni e curato
da Massimo Maggini, attivista
storico livornese impegnato da
anni sulle tematiche sociali ed
ambientali.
Il libro si apre con una interessante introduzione di Maggini
Fuori dall’economia
(che per Mimesis, sempre nella
collana Eterotopie, ha già curato il volume Terremoto nel mercato
mondiale, uscito a metà del 2014),
ricca di riferimenti
e citazioni ed utile
per inquadrare gli
autori, il contesto
del dibattito e l’orizzonte storico e
politico che lo contiene. Una introduzione nella quale
Maggini individua
ed isola dei temi
fondamentali della riflessione e del
confronto teorico
tra “Decrescita” e
“Critica del Valore”: Lavoro, Moneta,
Rivoluzione culturale
e immaginario, Modernità. Temi che
ritorneranno naturalmente anche nella lettura successiva
dei due interventi e
del dibattito.
Molto attuali le domande e considerazioni che lo stesso
Maggini pone rispetto ad esempio
al tema Lavoro: sia
la “Decrescita” che
la “Critica del Valore” (e che Jappe preferisce definire
Critica del feticismo, rivalutando
uno dei temi centrali della riflessione di Marx) ad esempio cerca-
no di decostruire il mito del lavoro
e può sembrare controproducente
in questo contesto sociale in cui
il lavoro non c’è più (pensiamo
alla sola situazione di Livorno ad
esempio) avanzare certe idee. A
ben vedere però, ed andando al di
là delle semplificazioni superficiali, il punto non è tanto lavorare o
meno o mettere in discussione il
lavoro come attività manuale o
intellettuale, ma quello astratto,
ossia una delle categorie di base
(insieme al valore, la merce ed il
denaro) del capitalismo: il lavoro
strutturato dunque, organizzato
e metabolizzato
per come lo conosciamo oggi.
In questa prospettiva anche il
concetto stesso
di Decrescita in
realtà non mette
in discussione la
dimensione produttiva in sé, ma
la dimensione produttiva, ormai
ecologicamente insostenibile, del
capitalismo. Ed ovviamente la domanda è sempre la solita: è possibile un’alternativa? E come organizzarla? Quali risposte pratiche
alternative?
Nella già citata introduzione di
Maggini, a proposito della ne-
cessità di trovare soluzioni concrete, si ritrova ad esempio un
ampio stralcio di una intervista
del maggio 2010 (dal titolo La
teoria di Marx, la crisi e l’abolizione
del capitalismo) ad un altro esponente della Critica del Valore, il
filosofo marxista tedesco Robert
Kurz. Ne riportiamo una passaggio significativo, invitando
successivamente alla lettura di
questo importante volume attraverso il quale riscoprire alcuni
fondamenti del pensiero critico marxista e non.
«Un “antiproduttivismo” ugualmente astratto, o la regressione a una
povertà idilliaca in un’economia di
sussistenza e l’atmosfera socialmente
oppressiva di confuse “comunità”,
non è alternativa,
ma solo il rovescio
della stessa medaglia. Il compito è
dunque di rivoluzionare le condizioni materiali
di
produzione
a livello sociale
globale e mirare
come obiettivo la
soddisfazione dei bisogni, così come
la preservazione delle basi naturali.
Ciò significa che non potrà più aversi lo sviluppo incontrollato secondo
il criterio generale e astratto della
cosiddetta razionalità dell’economia
d’impresa».
“Siamo entrati
in una crisi che
è economica,
ecologica ed
energetica allo
stesso tempo”
A cura di Lucio Baoprati
INTERVISTA - La nostra città diventa sede nazionale della solidarietà con il popolo curdo
È
nata l’associazione Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia Onlus, diramazione italiana dell’organizzazione internazionale umanitaria Heyva Sor a Kurdistanê
(www.heyvasor.com), che ha
scelto Livorno come sede base nazionale per i propri progetti e campagne di solidarietà in favore delle
popolazioni civili, curde e non,
vittime della guerra e altre calamità. Ne parliamo insieme al neopresidente, l’amico Alican Yildiz,
che ringraziamo per aver scelto il
nostro giornale per questa prima
“uscita” sulla stampa.
Come nasce la “Mezzaluna Rossa Curda” italiana? E perché
proprio a Livorno? Ormai sono diversi anni che vivo
in Italia. Ho un lavoro, una casa,
sono al sicuro e al caldo. Ma
quando vedevo le immagini in tv
o leggevo le notizie dei massacri,
delle sofferenze, delle ingiustizie
subite dal popolo curdo, mi sentivo impotente. E mi chiedevo:
cosa posso fare io per loro? Come
posso dare il mio aiuto? Un’esigenza che si è rivelata pressante
negli ultimi mesi, da quando cioè
le popolazioni del Kurdistan siriano sono impegnate in una feroce
resistenza contro l’assedio dello
Stato Islamico. Pensavo che fosse
necessario, allora, creare un’associazione, ma non sapevo come
Livorno chiama Kurdistan
fare. Allora ne ho parlato con un
gruppo di amici, curdi e italiani.
Sapevamo che la Mezzaluna Rossa Curda, organizzazione nata
in Germania nel 1993 con scopi
umanitari, ma attiva anche in altri
paesi europei, non era presente, tuttavia, in Italia. Così, ragionandone
tra di noi, abbiamo pensato che il
modo migliore per mettere in pratica gli obiettivi che volevamo raggiungere fosse quello di creare una
La Onlus ha come
obiettivo l’aiuto
alle popolazioni in
difficoltà a seguito
di guerre, carestie o
calamità naturali
“Mezzaluna Rossa Curda” anche
sul territorio italiano, in modo che
i numerosi curdi che ci vivono, e
in generale anche tutti coloro che
sono vicini alle popolazioni che soffrono potessero avere a disposizione un canale diretto per esprimere
concretamente tutta la loro solidarietà. Perché Livorno? Beh, non è
stata una scelta difficile. Certamente non solo a causa del fatto che
diversi del gruppo dei promotori
sono livornesi, ma soprattutto perché Livorno ha sempre espresso in
maniera forte la sua solidarietà nei
confronti di popoli in guerra o vittime di calamità. È una città aperta,
che ha sempre accolto, e continua
ad accogliere, gente da ogni parte
del mondo. Tanti esponenti delle
comunità curde in Italia erano d’accordo su questa soluzione. Che natura ha la vostra associazione?
E
quali
sono
gli obiettivi che si propone? Anzitutto l’associazione, come si
può vedere già nel nome e come
espressamente indicato nello statuto, è una onlus a carattere volontario, apartitico e aconfessionale, che
opera nei settori della beneficenza,
della formazione, dell’istruzione e
della tutela dei diritti civili e umanitari. Persegue in modo esclusivo
finalità di solidarietà sociale, e,
come tale, è aperta a tutti coloro
che ne condividono i principi ispiratori. Attraverso l’invio di aiuti
e contributi in denaro e non, si
propone di intervenire, in Italia e
all’estero, per soccorrere e aiutare
le popolazioni in difficoltà a seguito di guerre, carestie e calamità
naturali; inoltre, anche in collaborazione con altre associazioni
nazionali e internazionali, vuole
realizzare corridoi umanitari per
alleviare le condizioni di disagio
e di sofferenza delle popolazioni
sfollate, in particolare quelle del
Kurdistan. Ma le attività nelle
quali l’associazione sarà impegnata sono davvero tante, non è possibile elencarle tutte. Cosa deve fare chi fosse interessato a saperne di più o ad
iscriversi?
In questi giorni stiamo ultimando il
nostro sito dove saranno disponibili tutte le informazioni utili sull’associazione. Comunque è già possibile scrivere un’email all’indirizzo
mezzalunarossacurda@gmail.
com o consultare la pagina facebook Mezzaluna Rossa Kurdistan
Italia Onlus.
Redazione
PAGINA OTTO
ANNO X - n. 100 - in uscita dal 16 gennaio 2015
Il terzo incomodo
TITO SOMMARTINO
R
iprendiamo, con questa
seconda e ultima parte, il
viaggio in alcune delle più importanti città europee alla ricerca delle terze squadre calcistiche
e delle loro storie. Beşiktaş (Istanbul, Turchia)
Adesso è una potenza crescente
del calcio europeo, soprattutto
dal punto di vista finanziario, ma
il Beşiktaş è a tutti gli effetti la
terza squadra di Istanbul. Il Galatasaray, oltre ad essere la squadra
più amata di Turchia, è l’emblema dell’élite, mentre il Fenerbahçe, l’altra grande di Istanbul,
è da sempre piena di soldi e tifosi
vip. Due squadre ricche, di potere
e tradizione. Mentre il Beşiktaş è
da sempre l’outsider, la squadra
che non molla mai, la squadra
di quartiere: 13 campionati vinti
contro i 19 a testa di Galatasaray
e Fenerbahçe, 9 coppe di Turchia.
Squadra di popolo, di sfortunati e
operai, di pochi notai e molti disoccupati. Un senso collettivo di
appartenenza, solido e corporativo come pochi. Non a caso è la
squadra preferita degli armeni. Il
Beşiktaş è la squadra più vecchia
di Turchia e i suoi ultras, i Çarşi
(che letteralmente significa “mercato”, “bazar”), politicamente
schierati a sinistra, sono di gran
lunga la curva più calda di tutto
il paese e con pochi eguali in Europa. Ma in realtà definire i Çarşi
l’anima ultrà della tifoseria è limitativo: l’intero stadio segue in tutto e per tutto i cori dei Çarşi, sono
loro a dettare le regole del gioco
sugli spalti. Nei match più caldi
si fa fatica a distinguere il nucleo
portante dei Çarşi dal resto della tifoseria. Ecco perché i Çarşi
sono la tifoseria del Beşiktaş e
forse il Beşiktaş stesso. Di loro si è iniziato a sentir parlare fuori dai confini nazionali
nel 2013 in occasione delle rivolte
in Turchia. Sono stati loro tra i
più attivi nelle proteste di piazza
Taksim e del Parco Gezi e sono
riusciti a convincere gli ultrà di
Galatasaray e Fenerbahçe a scen-
CALCIO - Seconda e ultima parte dedicata alle terze
squadre calcistiche delle più importanti città europee.
Un panorama estremamente variegato che spazia
dal club in procinto di scalare le gerarchie del calcio
continentale, alla piccola ma blasonata realtà che
ancora gioca in uno stadio costruito 111 anni fa che in
tribuna coperta non offre comodi seggiolini ma rigide
panche di legno segnate dal tempo e dall’usura.
dere in piazza al loro fianco, tutti insieme, dimenticando vecchie
ruggini in nome di qualcosa di ben
più importante. La vendetta dei
poteri politici e militari turchi non
si è fatta attendere e lo scorso 16
dicembre a Istanbul, tra le proteste, è iniziato il processo contro i
leader del gruppo, 35 tifosi accusati di aver tentato di rovesciare il
governo. Fuori dal tribunale centinaia di tifosi del Besiktas hanno
protestato con slogan e fumogeni
e non sono mancate neanche delegazioni di ultrà di Fenerbahce, Galatasaray e persino Trabzonspor.
I tifosi del Besiktas
prendevano a
modello la tifoseria
del Livorno, come
scrissero su uno
striscione.
Qualche anno più
tardi hanno guidato
le rivolte di piazza
Taksim e Gezi Park
Aek (Atene, Grecia) Può suonare strano definire terza
squadra cittadina un club che negli incontri di cartello può portare
allo stadio 70 mila spettatori, ma
per titoli conquistati e numero
di tifosi l’Aek è senza dubbio un
passo dietro a Panathinaikos e
Olympiakos. Relegato due anni
fa in terza serie per problemi economici (oggi è primo in seconda
serie), l’Aek non è sicuramente inferiore a nessuno per calore della
propria tifoseria e si contende con
quella del Paok e forse dell’Aris
la palma di più calda della nazione. Proprio con il Paok Salonicco
(ma i rapporti tra le due tifoserie
sono pessimi sebbene entrambe le
tifoserie siano collocate a sinistra)
condivide quella “k” finale che
è qualcosa di più di una semplice lettera: la “k” (che in greco si
legge kara) sta per Costantinopoli
perché entrambi i club sono stati
fondati a distanza di appena due
anni da un gruppo di rifugiati provenienti dall’attuale Istanbul. Un
ormai storico gemellaggio lega
gli Original 21 (il gruppo degli ultrà gialloneri fondato nel lontano
1982 dalle ceneri del Gate 21, nato
sette anni prima) alla Curva Nord
del Livorno e al Commando Ultrà
’84 dell’Olympique Marsiglia. Ultimamente è nata un’amicizia anche con gli ultrà del Fenerbahce. Bohemians (Praga, Rep. Ceca) Il Bohemians 1905, fino al 2005
noto come Bohemians Praga, è attualmente la terza società calcistica
della capitale ceca dopo lo Sparta
e lo Slavia, ma per numero di tifosi
è secondo soltanto allo Sparta (il
Dukla, mitico sodalizio cecoslovacco, si è sciolto nel 1996). Attualmente gioca nella massima serie e tra i calciatori più famosi che
hanno militato nel club biancover-
de c’è l’attuale presidente Antonín
Panenka, l’inventore del cosiddetto “cucchiaio” con il quale segnò
il rigore decisivo nella finale Germania Ovest-Cecoslovacchia degli
Europei di calcio 1976, svoltosi in
Jugoslavia. Nato prima di Slavia
e Dukla, è sempre stato oscurato
dal cammino delle altre squadre
concittadine che insieme hanno
vinto quasi 40 campionati cecoslovacchi (contro l’unico conquistato dal Bohemians nella stagione 1982/83). È uno dei pochi club
del paese ad avere una tifoseria organizzata ideologicamente spostata a sinistra. Il “Vršovice Derby”
contro lo Slavia è il match più sentito (entrambi i club si trovano nel
quartiere di Vršovice e i loro stadi
sono separati da un solo km). Iraklis (Salonicco, Grecia) Quando una città di neanche 400
mila abitanti ha tre tifoserie del
calibro di Paok, Aris e Iraklis, vince per dispersione il titolo di città europea con i tifosi più caldi e
numerosi. L’Iraklis, oggi scivolata
fino in terza serie per vicissitudini
societarie, è un club storico nel panorama calcistico greco: ha vinto
una coppa nazionale, ha partecipato a 50 edizioni del massimo campionato e a 6 dell’ex Coppa Uefa.
L’Iraklis, fondato nel 1908, è anche il primo club di Salonicco per
data di fondazione e come le altre
polisportive della città e del paese
è dotata anche di forti sezioni nelle discipline della pallacanestro e
pallavolo. Ma soprattutto conta un
consistente numero di tifosi. La
squadra è molto seguita in città
e la tifoseria è stata protagonista
di veri e propri esodi come testimoniano i 17.000 che nel 1987
viaggiarono fino ad Atene per la
finale della coppa nazionale persa contro l’Ofi Creta. La tifoseria
dell’Iraklis è sostanzialmente di
sinistra, così come quelle di Aris
e Paok, e il Gate 10 (15 filiali in
Grecia settentrionale) ne è il gruppo portante. Organizza ogni anno
un festival antirazzista per gruppi
ultras ed è gemellato con le tifoserie di Mainz, Rayo Vallecano e
Buducnost Podgorica. Altre città
Terze squadre cittadine sono anche l’Ofk (Belgrado, Serbia),
una vita all’ombra delle due grandi serbe di sempre Stella Rossa
e Partizan, il Gwardia (Varsavia, Polonia), nobile decaduta
che al proprio attivo ha anche
due partecipazioni in Coppa dei
Campioni e il Rapid (Bucarest,
Romania), spesso antagonista
di Steaua e Dinamo e capace di
conquistare tre campionati e ben
13 coppe nazionali. I bianconeri
dello Slavia (Sofia, Bulgaria) con
la vittoria di sette campionati, altrettante coppe nazionali e una
semifinale di Coppa delle Coppe
sono invece il terzo club bulgaro
per importanza dopo i concittadini del Cska e del Levski. E poi
come non citare il Weiner SK
(Vienna, Austria), oggi mediocre club di terza serie, che nel suo
splendido Wiener Sportclub-Platz
Stadion, inaugurato nel 1904 e ad
oggi il più antico terreno di gioco
ancora usato in patria, ha scritto pagine importanti nella storia
del calcio austriaco a cominciare
da un 7-0 rifilato alla Juventus di
John Charles nei sedicesimi di
finale della Coppa dei Campioni
1958/59.