I FRATELLI MONACI DI NOTRE-DAME DE

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I FRATELLI MONACI DI NOTRE-DAME DE
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I FRATELLI MONACI DI NOTRE-DAME DE-TIBHIRINE
Christian, Luc, Christophe, Bruno, Michel, Célestin, Paul: sono i nomi dei sette monaci che
nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 sono stati rapiti dai fratelli della montagna e sono partiti per
l’ultimo viaggio. In maniera quanto mai suggestiva e rispettosa degli eventi, tuttora non chiariti, il
film “Uomini di Dio” termina con la scena di una montagna innevata sulla quale si inerpicano
faticosamente i sette monaci prigionieri dei fratelli della montagna. La scena non era stata
programmata; per caso, il giorno in cui si stavano girando le ultime riprese, si mise a nevicare e il
regista decise di cambiare la finale che aveva programmato. I sette scompaiono; forse non sapremo
mai la verità sui veri artefici della loro morte, ma sappiamo che sono stati comunque vittime della
violenza e testimoni di amore e di fraternità fino alla fine. È di questa fraternità che vi vorrei parlare
questa sera, di come l’hanno vissuta questi sette nostri fratelli. Ma innanzitutto vorrei brevemente
collocarli nello spazio e nel tempo, ricordando qualche data e i luoghi nei quali hanno vissuto.
Dove e quando
Nel 1938 giungono a Tibhirine, in Algeria, alcuni monaci dall’abbazia di Nostra Signora
della Liberazione a Rahjenburg, nell’attuale Slovenia e dell’abbazia di Aiguebelle, in Francia, che
assumerà la paternità della fondazione e da cui proverrà fr. Christian, priore di Tibhirine a partire
dal 1984. Sono dodici in tutto – il governo algerino successivamente imporrà che questo numero
non sia mai oltrepassato. Che ci fanno dei monaci trappisti sloveni e francesi in Algeria, in una terra
a stragrande maggioranza musulmana? Chiaramente non sono a caccia di vocazioni, come invece
accade purtroppo qualche volta con le fondazioni europee in altri continenti. È praticamene certo
che nessuna nuova vocazione sarebbe venuta dall’Algeria. I fondatori di Notre-Dame-de-Tibhirine
stanno semplicemente mettendo in pratica quello che il monachesimo ha fatto fin dai suoi inizi:
vivere la xenitéia. Il termine greco indica l’essere straniero, xénos; il monaco vuole vivere in fondo
la dimensione dell’essere “straniero e pellegrino” sulla terra che riguarda ogni cristiano come ci
ricorda la lettera di Pietro (1Pt 2,11); come i nostri padri nella fede che “morirono nella fede, senza
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aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere
stranieri e pellegrini sulla terra” (Eb 11,13). Per il monaco questa dimensione di stranierità diventa
essenziale soprattutto quando termina la stagione delle persecuzioni. In una chiesa che si è installata
in questo mondo, il monaco cerca di ricordare, innanzitutto a se stesso e poi agli altri cristiani, che
su questa terra siamo viandanti e fratelli di tutti gli uomini, al di là delle appartenenze di sangue,
razza, lingua. Segno di fraternità dunque, in mezzo a persone altre, diverse, riconoscendosi ospiti
prima ancora di ospitare, perché la terra è di Dio, perché la casa del monaco è la casa di Dio, in cui
il monaco stesso è ospite, prima ancora di essere ospitato. Vorrei leggervi alcune righe del foglietto
di presentazione che vi è nella foresteria del monastero di Tibhirine; in ogni monastero, di solito, si
trova un foglietto del genere in ogni stanza riservata agli ospiti. Dice il foglio di presentazione di
Tibhirine:
“Ospiti del popolo algerino, musulmano nella sua quasi totalità, questi fratelli vorrebbero
contribuire a testimoniare che la pace tra i popoli è un dono di Dio fatto agli uomini di ogni luogo e
di ogni tempo e che spetta ai credenti, qui ed ora, rendere manifesto questo dono inalienabile, in
particolar modo attraverso la qualità del loro rispetto reciproco e il sostegno esigente di una sana e
feconda emulazione spirituale. Accanto agli oranti dell’islam, essi fanno professione di celebrare,
giorno e notte, questa comunione in divenire e di non stancarsi di accoglierne i segni, come eterni
mendicanti d’amore, per tutta la loro vita, se così piace a Dio, nel recinto di questo monastero
dedicato a Maria, madre di Gesù, sotto l’appellativo di Notre-Dame-de-l’Atlas” (pp. 35-36).
Vorrei sottolineare quell’espressione “eterni mendicanti d’amore”; l’amore non lo si può
pretendere, appartiene al registro della gratuità e del dono. Amare non garantisce di essere amati.
Bernardo di Chiaravalle diceva: “L’amore basta all’amore”; non esige ricompensa, non ha pretese,
può soltanto mendicare amore.
Fondazione del monastero, dunque, nel 1938; venticinque anni più tardi, nel 1963, la
comunità vota la chiusura progressiva del monastero che viene convalidata dall’abate generale. La
decisione non verrà mai attuata; anzi, l’anno successivo le abbazie di Timadeuc e Aiguebelle
inviano quattro fratelli ciascuna. Nel 1984 viene eletto priore fr. Christian; lo resterà per due
mandati. Nei giorni antecedenti al rapimento la comunità si preparava a eleggere un nuovo priore (o
a riconfermare fr. Christian). Cosa accade nel frattempo in Algeria? Nel 1991 il Fronte islamico di
salvezza vince il primo turno di elezioni e conta di giungere per il secondo turno alla maggioranza
dei due terzi che gli consentirebbe di modificare la costituzione. Cinque giorni prima delle elezioni
l’esercito attua un colpo di stato che annulla le elezioni e scioglie il Fronte islamico di salvezza.
Fanno la loro comparsa a questo punto diversi gruppi clandestini di opposizione tra cui il GIA
(Gruppo islamico armato), gruppo radicale che attacca civili, intellettuali, giornalisti, stranieri. La
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notte di Natale del 1993 un gruppetto di uomini del GIA fa irruzione nel monastero. Pochi mesi
prima – il 3 ottobre – avevano rapito tre stranieri e li avevano rilasciati con l’ordine di riferire a tutti
gli stranieri che avrebbero dovuto lasciare immediatamente l’Algeria e quindici giorni prima, il 14
dicembre erano stati assassinati quattordici operai iugoslavi. Fr. Christian nei mesi precedenti e
seguenti l’irruzione del GIA in monastero viene convocato ripetutamente dal prefetto che gli
consiglia di far rientrare tutti i monaci in Francia, gli propone di presidiare il monastero con una
scorta armata, di accettare delle armi per difendersi nel caso di una nuova irruzione. Il priore,
d’accordo con la comunità, rifiuta ogni proposta. Nella casa di Dio non entreranno armi. I fratelli
della pianura – così i monaci chiamano i soldati del regime corrotto che governa l’Algeria – non
entreranno con le loro armi. La prima visita avviene a Natale; questa festa nella tradizione orientale
viene chiamata Pasqua di Natale, perché è già sotto il segno del rifiuto, della passione. La passione
morte di Gesù non si svolgono nel volgere di tre giorni, ma a partire dall’incarnazione. Nelle
riflessioni di fr. Christian per la Quaresima troviamo questo legame tra Pasqua e Natale nel ricordo
della prima visita dei fratelli della montagna. Scrive:
“Pasqua inizia dalla partecipazione di Dio alla finitudine dell’uomo. Tutto è pasquale nella
vita del Figlio di Dio … Morte e resurrezione fanno parte del mistero dell’incarnazione che consiste
nel prendere l’umanità per introdurla nella gloria di Dio. Dobbiamo trovare nel mistero
dell’incarnazione le vere ragioni della nostra presenza. Nella Pasqua di Cristo, la redenzione è il
motivo, ma l’incarnazione è il modo. Dopo la prima visita di un gruppo armato in monastero, il
Natale del 1993, abbiamo celebrato la messa di mezzanotte. Dovevamo accogliere questo bambino
indifeso e già minacciato. Attraverso questi eventi ci siamo sentiti invitati a ‘nascere’. La vita di un
uomo passa di nascita in nascita. Giovanni, l’evangelista dell’incarnazione – ‘e il Verbo si è fatto
carne’ (Gv 1,14) -, era l’unico discepolo presente ai piedi della croce. Ci presenta l’intera vita di
Cristo come un mistero di incarnazione. Nella nostra vita c’è sempre un bambino da mettere al
mondo: il figlio di Dio che noi siamo. ‘Bisogna rinascere’ ha detto a Nicodemo”. (p. 211)
Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 vi è la seconda visita dei fratelli della montagna. Da
allora il monastero è vuoto.
Una scuola per il servizio del Signore
Constituenda est ergo nobis dominici schola servitii (RB Prol. 45). “Dobbiamo dunque
costituire una scuola per il servizio dl Signore”: così afferma Benedetto nel Prologo della sua
regola, regola secondo la quale vivono i monaci trappisti. Vivono, o meglio, lottano prestando
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servizio. È difficile rendere in italiano la forza di quel militans sub regula vel abbate (RB 1,2) che
per Benedetto definisce il monaco cenobita. Per i monaci di Tibhirine la regola è quella di
Benedetto vissuta nella riforma attuata da Bernardo nel XII secolo e l’abate è fr. Christian. Vivono di
preghiera e di lavoro: ora et labora.
“Siamo arrivati a definirci ‘oranti in mezzo ad altri oranti’. Provenienti dalla nostra campana
o dal muezzim, gli inviti alla preghiera creano tra noi ‘una sana emulazione reciproca’” (p.85). La
comunità prega sette volte al giorno, come è previsto dalla regola (RB 16,1). La fraternità nasce
dall’apertura a Dio, dalla preghiera al Padre con Cristo e in Cristo, nostro fratello. “Ognuno
imparerà che il canto ha un nome segreto: è un atto di fede al quale bisogna offrire la propria voce”
(p. 74), scrivono i monaci nella Lettera circolare della comunità. Avevano chiamato un fratello di
Tamié ad aiutarli per il canto. La preghiera deve essere vera e bella. È un atto di fede al quale deve
accordarsi la voce. Mens nostra concordet voci nostrae (RB 19,7), dice Benedetto. Il cuore si
accordi alla voce; non si tratta più di fare delle preghiere, ma di diventare preghiera. È tutto il nostro
essere che viene lavorato a poco a poco dalle parole della Scrittura. Diceva Cassiano, padre
monastico per eccellenza: “Leggi, rileggi, medita e rimedita la Parola di Dio finché la sua forma
passi in te”. La quotidiana lectio divina, la preghiera delle ore con la lettura degli scritti dei padri
hanno trasformato a poco a poco i monaci di Tibhirine in uomini di preghiera, in oranti, in uomini
rappacificati con se stessi e con gli altri. Di fr. Christian si racconta che ogni giorno pregava con
queste parole: “Signore disarmami; Signore disarmali!” (p. 235). Essere disarmati: non fare più la
guerra né con se stessi, né con gli altri, né con la realtà. “Nella notte prendo il Libro. Altri prendono
le armi. E leggo: ‘Beatitudine del leggere e ascoltare le profezie e di spiarne il testo, perché questo è
il momento: sia pronto chi legge (cf. Ap 1,3)”; è ancora fr. Christian che parla (p. 206) facendo sua
la traduzione di Chouraqui. Certamente c’è una lotta da sostenere, una resistenza contro il male, ma
nella pace, nel rifiuto categorico di qualsiasi forma di violenza. La preghiera comunitaria si affianca
a quella personale, l’una porta l’altra; si è portati dalla preghiera dei fratelli quando il cuore è arido
come deserto. La Scrittura letta, editata, pregata, svela il mio volto e allora prendo coscienza della
violenza che mi abita, del male che si annida dentro di me, invoco compassione, mi apro alla
compassione. Fr. Christian sempre attento a cogliere il Logos disseminato presente nelle altre
culture cita il Dalai Lama: “Fino a quando durerà lo spazio e con esso le creature viventi, possa
anch’io concorrere a cancellare i dolori del mondo” (p. 207).
“È un tempo in cui ciascuno si pone nuovamente la domanda: ‘Perché sono venuto qui?’. È
il tempo di ricominciare” (p. 203). Così scrivono i fratelli nella lettera circolare del 14 dicembre
1995. Troviamo accostate due espressioni tipiche della tradizione monastica. La prima: “Perché
sono venuto qui?” riecheggia le parole di RB 60,3: Amice, ad quid venisti? che cita Mt 26,50, le
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parole rivolte da Gesù a Giuda. Benedetto vuole che questa domanda sia rivolta al presbitero che
chiede di diventare monaco; egli dovrà attenersi in tutto alla regola senza eccezione alcuna dare
prova di sé e poi rispondere a questa domanda. È sottesa la possibilità di essere Giuda, di diventare
traditore dell’amore, e non discepolo, fratello del Signore. Non c’è nessuna garanzia. Non è l‘abito
che fa il monaco. Ma ben prima di Benedetto, abba Arsenio, che era stato precettore dei figli
dell’imperatore alla corte di Costantinopoli, ed era poi divenuto monaco nel deserto egiziano, si
chiedeva ogni giorno: “Arsenio, a qual fine sei uscito dal mondo?” (Detti: Arsenio 40). È la
domanda che ogni monaco/a impara a posi fin dai primi anni di noviziato: “Perché sono qui? Cosa
cerco?”. È la domanda che aiuta a non perdere di vista il vero e ultimo scopo: l’amore, nient’altro se
non l’amore. Tentati di perdersi negli affanni quotidiani, tentati di cercare se stessi, la vittoria del
proprio io sugli altri, ripetiamo incessantemente la domanda: Ad quid venisti? Che cosa vuoi? Che
cosa cerchi in verità? qui e ora? Nell’hic et nunc.
La seconda espressione: “È tempo di ricominciare”. Questo verbo è molto caro alla
tradizione monastica. Fin dalle origini il monachesimo ha colto l’urgenza evangelica di
un’incessante conversione per ricominciare ogni giorno, nonostante le cadute e le infedeltà, la
sequela del Signore. Atanasio il Grande nella Vita di Antonio, “regola di vita monastica sotto forma
di racconto” (Gregorio di Nazianzo, Discorsi 21,5), afferma:
“Antonio non si ricordava del tempo trascorso, ma ogni giorno, come se incominciasse in
quel momento la vita di ascesi, intensificava i suoi sforzi per progredire e ripeteva continuamente le
parole di Paolo: Dimentico del passato, tendo verso ciò che sta innanzi (Fil 3,13). Ricordava anche
le parole del profeta Elia che dice: È vivente il Signore alla cui presenza io oggi sto (1Re 17,1).
Osservava, infatti, che dicendo: ‘oggi’, il profeta non misurava il tempo trascorso, ma, come se ogni
volta incominciasse, cercava ogni giorno di presentarsi a Dio così come bisogna comparire dinanzi
a lui con cuore puro, pronto a obbedire alla sua volontà e a nessun altro”. (Vita di Antonio 7,11-13)
Questo tema lo troviamo con grande frequenza nei detti dei padri del deserto, ma vorrei
ricordare un altro testo di Gregorio di Nissa, padre cappadoce del
IV
secolo. Scrive Gregorio
commentando il Cantico dei cantici:
“Quando l’anima ha goduto in parte dei doni di Dio, il Verbo di nuovo l’attira a partecipare
alla sua bontà per mezzo di una rinuncia … e l’anima scopre beni ulteriori e le sembra sempre di
non essere che al principio dell’ascesa; è per questo che il Verbo ripete ‘Alzati’ a colei che è già
alzata, ‘Vieni’ a colei che è già venuta. E chi si alza veramente bisognerà che si alzi sempre; colui
che corre incontro al Signore non si arresta mai, andando da inizio a inizio con degli inizi che non
hanno mai fine” (Sul Cantico, om. 5).
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Questo incessante ricominciare riguarda il singolo cristiano, la chiesa, la comunità
monastica, ogni comunità cristiana. Il discepolo del Signore che cerca di vivere alla sequela del suo
maestro conosce lungo il suo cammino l’insidia dell’ipocrisia, che conduce ad essere cristiani
“apparenti”, soltanto di nome, che porta a sedersi, a ripetere gesti svuotati di senso,
meccanicamente. I grandi santi che di generazione in generazione hanno dato avvio alla riforma
della chiesa o alla riforma della vita monastica, hanno sempre condotto una strenua battaglia contro
il formalismo religioso, contro la terribile accidia che a volte minaccia la chiesa intera. Un giorno
un monaco sapiente a chi gli chiedeva che cosa facessero i monaci in monastero rispose con queste
parole: “Noi cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo ancora”. La vita
monastica, o meglio, la vita cristiana in qualsiasi vocazione sia vissuta, è un “luogo” nel quale si
cade e ci si rialza e di nuovo si cade e ci si rialza fino al giorno in cui il Signore tornerà e troverà
che siamo caduti ma che ci stiamo rialzando e allora lui stesso ci rialzerà definitivamente e ci
porterà con sé. La perseveranza nella preghiera, nell’ascolto della parola di Dio, nell’eucarestia,
nella comunione fraterna sostengono il credente nella lotta contro la rassegnazione alla propria
mediocrità, contro l’assuefazione al male e la complicità con esso, e ravvivano nel cuore il desiderio
di Dio, desiderio insaziabile, desiderio rinnovato dalla continua esperienza della misericordia di Dio
nella propria vita. I monaci di Tibhirine sono stati capaci di ricominciare ogni giorno, ogni
momento, a rivivere il dono della propria vita già avvenuto nel battesimo e che attende di essere
portato a compimento. Hanno vissuto il loro battesimo fino alla fine. Nessuno poteva più rapire loro
qualcosa, avevano già donato tutto nel battesimo, avevano concretizzato questo dono nella
professione monastica. Un giovane algerino dirà di Henri, un prete assassinato ad Algeri: “Non gli
hanno rubato la vita, l’aveva già donata!”(p. 143). È un tema che ritroviamo nel Testamento di fr.
Christian: “Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che
sembra coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia
chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese” (p. 219).
Accanto alla preghiera, all’ora c’è il labora, il lavoro a servizio della comunità, degli ospiti,
in collaborazione con i fratelli algerini. È necessario anzitutto un lavoro per sostenere la vita
comune. I fratelli della comunità sono molto diversi: fr. Christian era un profondo conoscitore
dell’islam, molto dotato umanamente e intellettualmente; fr. Luc: medico, rimasto semplice fratello
(e non ordinato presbitero) per scelta, per poter continuare a esercitare la sua professione, aveva 82
anni, un carattere gioviale e molto aperto; fr. Cristophe aveva un passato sessantottino e un
temperamento vulcanico; fr. Michel: uomo semplice, il cuoco della comunità; fr. Célestin con un
passato di infermiere e di educatore di strada in mezzo ad alcolizzati, prostitute, omosessuali, molto
malato; fr. Paul, idraulico continua a fare questo mestiere curando l’impianto di irrigazione degli
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orti. Nel marzo 1996 era appena rientrato da una sosta in famiglia portando una scorta di vanghe e
di giovani faggi da piantare; fr. Amedée e fr. Jean-Pierre che al momento dell’irruzione del gruppo
del GIA si nascondono e riescono a salvarsi. Non si sono scelti; ciascuno ha una sua storia alle
spalle. Sono diversi per formazione umana, cristiana e monastica; un conto è essere trappisti prima
del concilio, altro conto dopo … Non si sono scelti, ma hanno scelto di amare come fratelli quelli
che avrebbero incontrato in monastero ancor prima di conoscerli. La vita comune lima le durezze, le
asperità dei caratteri. (Diceva un padre del deserto: Per vivere insieme bisogna essere non un cubo,
ma una sfera”). Ci si lascia levigare dalla vita comune, dagli eventi. Il monastero è una schola
caritatis, si impara ad amare, si può imparare ad amare. Scrive fr. Christian nella Lettera circolare
del 25 aprile 1995, un anno prima della morte: “All’inizio della quaresima ci siamo presi il tempo
per uno scambio prolungato sul tema: ‘Quali cambiamenti in noi e tra di noi in questi ultimi diciotto
mesi?’. Apparentemente nulla è cambiato: stessi luoghi, stesse persone! Eppure … mentre i nostri
caratteri restano gli stessi, con il loro fascino e le loro durezze, c’è tra di noi una qualità nuova di
armonia e di accettazione reciproca. Siamo arrivati a una maggiore capacità di ascolto, grazie
all’urgenza coinvolgente delle decisioni da maturare e nella consapevolezza che dobbiamo andare
avanti insieme, passo dopo passo, nella fede” (p. 174). Riunioni, scambi sotto la sapiente guida del
priore. Nulla va da sé; tutto chiede un lavoro su di sé per predisporsi all’ascolto dell'altro, per
superare generi letterari nel linguaggio dell’altro non sempre affini al proprio sentire e cogliere, al
di là di tutto, ciò che palpita nel cuore del fratello. È ancora fr. Christian che in un’omelia
ammonisce: “C’è comunità possibile solo là dove c’è disponibilità alla contemplazione delle
meraviglie di Dio nascoste in ciascuno, dei segni dell’Unico che vengono scritti su nostri volti …
Anche se è ancora necessario, per un po’ di tempo, che questo sia per noi difficile da vedere” (p.
79). Cercare di scoprire nell’altro l’immagine di Dio, anche se vederla non è immediato. Secondo la
teologia patristica orientale e occidentale Dio ha creato l’essere umano a propria immagine e
somiglianza, o meglio a propria immagine perché diventi a propria somiglianza. L’immagine c’è in
ogni uomo, per quanto peccatore, che lo sappia o non lo sappia, che lo voglia o non lo voglia. Spetta
al cristiano, nell’incontro con l’altro, ridestare questa immagine. La somiglianza dipende
dall’adesione, dalla risposta; si diventa somiglianti se lo si vuole, se ci si incammina verso questo
meta, accettando la fatica di diventare pura trasparenza dell’immagine di Dio. La comunità cristiana
– la chiesa o la comunità monastica – non è il regno di cieli; si deve faticare per discernere nell’altro
l’immagine di Dio, per saper superare l’opacità in cui essa è avvolta … A Tibhirine si assume
questa fatica. La RB 3,1.3-4 prevede che “Ogni volta che in monastero si deve trattare qualcosa di
importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l’argomento in questione
… Abbiamo detto di convocare tutti perché spesso il Signore rivela al più giovane la decisione
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migliore. I fratelli però diano il loro parere in tutta umiltà e sottomissione e senza la pretesa di
difendere ostinatamente il loro punto di vista”. Fr. Luc, l’anziano, ha un ruolo fondamentale. È
l’anziano che ha saputo invecchiare bene, che sa ringraziare per la vita che gli è stata donata. Il 1
gennaio del 1994 pochi giorni prima del suo ottantesimo compleanno la comunità riunita in festa
ascolta la cassetta che Luc tiene in disparte per il suo funerale. Contiene una canzone di Edith Piaf
che canta: “Non, je ne regrette rien”. “No, nulla di nulla, non rimpiango nulla; né il bene che mi è
stato fatto, né il male; tutto questo mi è proprio uguale. No, nulla di nulla, non rimpiango nulla,
perché la mia vita, perché le mie gioie, oggi, cominciano con te”.
Tunc vere monachi sunt (RB 48,7), dice Benedetto; “quando i monaci dovranno occuparsi
essi stessi del raccolto, non ne siano rattristati, perché proprio allora sono veramente monaci”. Il
monaco vive del proprio lavoro. La riforma trappista insiste sul lavoro manuale. A Tibhirine si
coltivano i campi, si va al mercato a vendere gli ortaggi, il miele; vi è poi Luc, il medico, che presta
servizio gratuito in un ambulatorio. Cura tutti, i poveri, donne, bambini, i fratelli della montagna ...
“Accettare anche di ricevere frequenti richieste: servizi prestati, servizi ricevuti costituiscono la
trama di un vissuto quotidiano in cui l’altro sconvolge sempre un po’. A nostro modo di vedere, in
questo consiste il luogo più autentico della nostra testimonianza” (p. 86). Servire l’altro, lasciarsi
scomodare. E difficoltà dell’ambiente circostante aiutano a restare piccoli e dipendenti.
Condividono la povertà dei loro vicini algerini. “Sarebbe scandaloso vivere male la nostra
vocazione in un contesto simile. Sanno praticare la condivisione. I rapporti e l’ospitalità contano
molto ai loro occhi. Ci esercitiamo in questo, accettando delle lezioni …” (p. 87).
L’islam
Fr. Christian ha meditato più volte sul mistero della Visitazione: Maria porta in sé il Figlio
di Dio, va a servire l’anziana cugina ed Elisabetta riconosce questa presenza in Maria. Giovanni nel
suo seno sussulta e Maria innalza il Magnificat. Scrive fr. Christian: “Siamo invitati a essere
continuamente in stato di visitazione, come Maria accanto a Elisabetta, per magnificare il Signore
per quanto ha compiuto nell’‘altro’ … e in me” (p.260). Ma nella sua storia concreta questo ‘altro’ è
l’islam. Lo si visita in atteggiamento di servizio, colmi di sollecitudine, nella certezza che anche
altrove c’è un seme della Parola, c’è un Giovanni Battista pronto a sussultare. “Anche noi siamo
venuti un po’ come Maria, innanzitutto, per rendere servizio: è il suo primo intento … Ma portiamo
anche questa buona notizia, e come fare per dirla? E sappiamo che coloro che siamo venuti a
incontrare sono un po’ come Elisabetta: portatori di un messaggio che viene da Dio” (p. 262). Non
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sappiamo qual è il legame esatto tra chiesa e islam però “quando Maria arriva, è Elisabetta a parlare
per prima… Anzi, non esattamente, perché Maria ha salutato sua cugina, le ha detto: ‘Pace, la pace
sia con te’ . E questo è qualcosa che possiamo fare”. Essere messaggeri di pace, come agnelli in
mezzo ai lupi. È già faticoso restare agnelli tra gli agnelli, ma a noi è chiesto di restare agnelli in
mezzo ai lupi. Continua fr. Christian: “Questo semplice saluto ha fatto vibrare qualcosa, ‘qualcuno’
in Elisabetta. E in questo sussulto ‘qualcosa’ è stato detto, qualcosa che era la buona notizia, non
‘tutta’ la buona notizia, ma ciò che di essa si poteva percepire in quel momento” (p. 263). Di questi
sussulti Christian ha fatto esperienza durante gli incontri del Ribat es-Salam (vincolo di pace), un
gruppo di incontro tra islamici e cristiani fondato nel 1979, che redige delle proposizioni per
concretizzare la volontà di comunione da ambedue le parti. Troviamo scritto in questo documento:
“Lasciamoci interpellare, destabilizzare, arricchire dall’esistenza dell’altro; ascoltiamolo, cerchiamo
di capire meglio la sua tradizione così come la proclama e di rispettarla così come la vive” (p. 65).
Cercano un dialogo “esistenziale”, non teologico. Si impegnano a riflettere su un tema e si ritrovano
poi a discuterlo insieme. Mantengono rapporti frequenti con una confraternita sufi restando in
attento ascolto delle “note che si accordano” (p. 85). Certamente vi è una fatica: “C’è l’ostacolo
della lingua – “croce delizia”! … - e quello altrettanto consistente, della cultura che si scontra
frontalmente con i nostri pregiudizi, i nostri temperamenti, i nostri modi abituali di pensare e di
agire. Si scopre perfino di avere riflessi inconsciamente razziali” (p. 88). È una confessione onesta.
I nostri principi, o meglio ciò che diciamo essere i nostri principi è messo a dura prova dalla realtà
quotidiana.
“È da tanto tempo che non abbiamo più scavato il nostro pozzo!”: sono parole con le quali
un ospite musulmano chiedeva a fr. Christian di riprendere i loro colloqui sulla preghiera.
“L’immagine è rimasta. La usiamo quando sentiamo il bisogno di un dialogo i profondità. Una
volta, per scherzo, gli chiesi: ‘E in fondo al nostro pozzo, cosa troveremo? Acqua musulmana o
acqua cristiana?”. Mi ha guardato tra il sorridente e il rattristato: “Ti poni ancora questo
interrogativo? Sai, quello che si trova in fondo a questo pozzo è l’acqua di Dio” (p. 61). Questa
immagine del pozzo, d’origine biblica, è molto amata da Origene. In fondo al pozzo c’è l’acqua che
viene da Dio, dice, ma il pozzo è ostruito dai filistei come narra il racconto biblico, occorre
ripulirlo. Ciascuno deve aver il proprio pozzo per dissetarsi. Chi commenta le Scritture in chiesa è
uno che convoca il popolo presso il pozzo, come faceva Mosè. Sono numerosi gli ospiti che si
recano al monastero e molti musulmani. Nella regola di Benedetto si dice che tutti gli ospiti vanno
accolti “come Cristo, perché egli ci dirà: ‘Ero forestiero e mi avete accolto’ (Mt 25,35)” (RB 53,1).
Si dice ancora che l’ospite va accolto cum omni officio caritatis, “con tutte le premure che la carità
ispira” (RB 53,3) e haec omnis ei exhibeatur humanitas “gli si mostri ogni segno di umanità” (RB
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53,9). Ma si dice ancora una cosa molto bella, che chi incontra l’ospite è bene che gli chieda la sua
benedizione. È l’inverso di ciò che accade normalmente. Di solito si chiede: “Padre, mi benedica!”,
ma per Benedetto è l’ospite che benedice, la sua presenza è una benedizione. Dovrà riconoscerla e
dire: “Abbiamo ricevuto, Signore, la tua misericordia in mezzo al tuo tempio” (RB 53,14).
Un altro episodio è estremamente commovente. Una sera dopo compieta, fr. Christian torna
in cappella e si mette a pregare, in ginocchio, tra l’altare e il tabernacolo. Ed ecco che a un certo
momento sente una presenza accanto a sé e un mormorio che sale: “Allâh! Âkbar! (il Grande!)”.Tra
un’invocazione e l’altra l’uomo sospira; dopo un po’ di tempo si rivolge a fr. Christian e chiede:
“Preghi per me”. Questi comincia a balbettare in francese una preghiera composta all’istante:
“Signore unico e onnipotente, Signore che ci vedi, tu che unisci tutto sotto il tuo sguardo, Signore di
tenerezza e di misericordia … insegnaci a pregare insieme”. Anche l’ospite prega, il francese e
l’arabo si mescolano. Poi giunge un altro e si unisce alla preghiera. “Dove due o tre sono riuniti nel
mio nome, io sono in mezzo a loro!” (p.39). Sono trascorse tre ore; poi si lasciano in silenzio nella
notte. Il terzo arrivato, anche lui un ospite musulmano, il giorno successivo commenta: “Tutto è
semplice quando è Dio che guida” (p. 41).
La vita quotidiana è vissuta nell’umiltà; il cristiano è disposto a imparare da tutti. C’è molto
da imparare da quel bosniaco musulmano che salvò la vita a tre compagni cristiani. Un gruppo di
terroristi giunge in un cantiere dove lavorano degli operai iugoslavi. Ne uccidono quattordici. In una
stanza trovano altri quattro tecnici; li legano. Uno, un bosniaco grida: “Sono musulmano”. Gli è
chiesto di recitare la professione di fede; è salvo. Allora indica gli altri tre compagni e grida: “Qui
tutti musulmani!”. Gli credono e i tre si salvano. “È al loro compagno musulmano che devono la
sorte di essere ritornati vivi al loro paese. Lo stesso versetto del Corano prosegue: … e chi salverà
anche un solo uomo sarà considerato come uno che avrà salvato la vita a tutta l’umanità” (Corano
5,32) (pp. 139-140). Ancora una volta il commento di fr. Christian cerca ciò che unisce.
I tre anni dal 1993 al 1996 sono segnati dall’interrogativo: è bene restare? Più volte i monaci
si incontrano e ne parlano, così come più volte ne parlano personalmente con il loro priore.
Scelgono di restare per fedeltà a una chiamata interiore, per solidarietà con il popolo algerino,
soprattutto con i poveri, le donne e i bambini che non possono fuggire; scelgono di restare in
comunione con una chiesa che è nella prova. Vogliono vivere fino in fondo la solidarietà “con tutti
quegli algerini e algerine che hanno già pagato con la vita, semplicemente solidali con tutti questi
sconosciuti innocenti” (p. 28).
Amore per il nemico
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I discepoli del Signore sono inviati come pecore in mezzo ai lupi, come trasparenza
dell’amore del Signore in un modo che ha perso la sua bellezza originaria. “Dio vide ed era cosa
buona e bella”. Il cristiano è chiamato a porre dei segni di questa bellezza. Henri, prete ucciso da un
rapinatore, aveva fondato una biblioteca e un centro per aiutare i giovani a studiare. Diceva: “Questi
giovani vivono ciascuno la violenza ovunque, per strada come a casa. Bisogna che qui facciano
l’esperienza della pace possibile che portano in sé” (p.145). Il monastero a Tibhirine era circondato
da un parco coltivato con cura che faceva esclamare ai visitatori : “Che bello! Che pace!”. I monaci
devono essere degli innamorati della bellezza spirituale, dice Agostino. Questa bellezza cercano di
tradurla nella loro vita, nella loro persona, nei luoghi in cui vivono. Ma soprattutto cercano di
tradurla nei rapporti con le persone che incontrano, disponendosi ad amare tutti, l’amico e il
nemico. È facile dire queste parole, un po’ romantico, suggestivo, forse commovente. L’arte è
tradurle in realtà. E la realtà fr. Christophe non se la nasconde. Scrive: “Sì, ci sono dei nemici. Non
ci si può obbligare a dire troppo velocemente che li amiamo, senza recare oltraggio alla memoria
delle vittime il cui numero cresce ogni giorno. Dio santo, Dio forte, vieni in nostro aiuto!” (p. 26).
Io aggiungerei che ciò vale anche nei rapporti personali: “per non recare oltraggio a quella vittima
che sono io”. Fr. Cristophe si esprime con parole molto simili: “L’ufficio. Le parole dei salmi
resistono, fanno corpo con la situazione di violenza, di angoscia, di menzogna e di ingiustizia. Sì, ci
sono dei nemici. Non possiamo essere obbligati a dire troppo in fretta che li amiamo, senza
offendere la memoria delle vittime il cui numero cresce ogni giorno. Dio santo! Dio forte! Vieni a
salvarci! Vieni presto in nostro aiuto” (p. 133). Le parole dei salmi, dei cosiddetti salmi imprecatori,
consentono di portare davanti a Dio i sentimenti di violenza e di vendetta scatenati dall’altrui
violenza per affidare a Dio la ricostituzione della giustizia, per rinunciare a farci giustizia da noi
stessi, e – per noi cristiani – per contemplare il Cristo che dalla croce perdona: “Padre, perdona loro,
non sanno quello che fanno!”.
L’anziano fr. Luc scrive in una sua lettera: “Qui la violenza è sempre allo stesso livello,
nonostante la censura voglia nasconderlo. Come venirne fuori? Non penso che la violenza possa
estirpare la violenza. Non possiamo esistere come uomini se non accettando di farci immagini
dell’Amore, come si è manifestato nel Cristo, che giusto, ha voluto subire la morte dell’ingiusto” (p.
215).
D’altra parte potremmo dire con un monaco del VI secolo, abba Zosima, che il nemico è
nostro medico e nostro maestro; ci fa scoprire tutta la rabbia che ci abita, l’incapacità di fare
misericordia, il desiderio di vendetta, il rancore. Sono pensieri che troviamo anche in uno splendido
testo del Dalai Lama pubblicato su La vie spiritelle, rivista notissima che sicuramente a Tibhirine
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ricevevano. Troviamo considerazioni che si riallacciano a questo tema in un testo, forse un’omelia,
di fr. Christian scritto il giorno in cui la chiesa fa memoria dei primi martiri africani nel 180 d. C.
egli si stupisce del fatto che spesso i primi martiri si sentivano assolutamente innocenti e certi della
condanna eterna dei loro persecutori. “Cosa pensare di questa intrepida consapevolezza di essere
dalla parte dei ‘puri’? E di questa certezza, sovente manifestata, che il persecutore andrà diritto
all’inferno? È questo l’amare i nemici e il ‘pregare per quelli che vi perseguitano’ (Mt 5,44)? … Il
santo e l’assassino sono solo due ladroni che dipendono dallo stesso perdono. A volte basta
pochissimo perché i loro ruoli siano intercambiabili!” (pp. 142-143). Perdonare esige un atto di
conversione anche da parte di chi dà il perdono; poi, forse, anche chi ha fatto il male si pentirà.
Nel testamento di fr. Christian troviamo parole di perdono per “l’amico dell’ultimo minuto”
(p. 221). Poco per volta si è preparato a perdonare e a familiarizzarsi con l’al di là, “il cielo si
riempie di amici” (p. 198). I fratelli di Tibhirine non hanno cercato un suicidio collettivo (p. 125),
non hanno cercato né desiderato il martirio – la chiesa antica scomunicava chi si autopresentava per
essere martirizzato - ; “Gesù non riceve gloria da Giuda” (p. 143). Hanno voluto soltanto vivere la
fraternità fino in fondo. Impressiona vedere le motivazioni con cui i fratelli della montagna
spiegano il loro gesto: “Tutti sanno che il monaco che si ritira dal mondo per raccogliersi in una
cella, presso i nazareni si chiama eremita;” l’uccisione di tali uomini è proibita dalla tradizione
islamica “ma se un tale monaco esce dal suo eremo e si mischia alla gente, la sua uccisione diventa
lecita. È il caso di questi monaci prigionieri che non si sono separati dal mondo. Al contrario vivono
con la gente e la allontanano dal cammino divino invitandola a evangelizzarsi. L’accusa contro di
loro è ancora più grave” (p. 29).
Conclusione
Quanto più si è uniti al prossimo, tanto più si è uniti a Dio. Lo troviamo espresso attraverso
l’immagine del cerchio in un testo che costituisce un libro di noviziato fondamentale per ogni
monaco d’oriente e di occidente. È una pagina tratta dalle catechesi di Doroteo, monaco e superiore
di una comunità monastica a Gaza nel VI secolo.
“Se possedessimo l’amore, l’amore stesso coprirebbe ogni nostra caduta e noi saremmo
come i santi quando vedono i difetti degli uomini. Sono forse ciechi i santi così da non vedere i
peccati? Chi odia i peccati quanto i santi? E tuttavia non odiano il peccatore, non lo giudicano, non
fuggono lontano da lui, ma ne hanno compassione, lo esortano, lo consolano, lo curano come un
membro malato; fanno di tutto per salvarlo … Così dobbiamo anche noi aver compassione gli uni
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degli altri, aver cura di noi stessi, da soli o con l’aiuto di altri più capaci, e pensare a tutto e fare di
tutto per esser d’aiuto a noi stessi e agli altri. Siamo infatti membra gli uni degli altri, come dice
l’Apostolo: “Siamo membra gli uni degli altri” (cf. Rm 12,5). Ora, se formiamo tutti un solo corpo,
e se siamo, ciascuno per la sua parte, membra gli uni degli altri, se un membro soffre, tutte le
membra soffrono con lui (cf. 1Cor 12,26) … Ciascuno lavori a vantaggio del corpo secondo le sue
possibilità e cercate sempre di aiutarvi gli uni gli altri sia ammaestrando il fratello e seminando la
parola di Dio nel suo cuore, sia consolandolo nel tempo della tribolazione, prestandogli aiuto nel
lavoro e aiutandolo. Insomma, ciascuno, secondo le sue capacità, cerchi di rimanere unito al
prossimo; quanto più si è uniti al prossimo, tanto più si è uniti a Dio. E perché comprendiate il
senso di queste parole, vi presento un’immagine tratta dai padri. Immaginate che per terra vi sia un
cerchio, cioè una linea circolare tracciata con un compasso a partire dal centro. Prestate attenzione a
ciò che vi dico. Immaginate che questo cerchio sia il mondo, il punto centrale del cerchio Dio, e i
raggi che dalla circonferenza vanno al centro siano le vie o i modi di vivere degli uomini. Quanto
più i santi, desiderando avvicinarsi a Dio, avanzano verso l’interno, quanto più avanzano, tanto più
si avvicinano a Dio e si avvicinano gli uni agli altri. Quanto più si avvicinano a Dio, tanto più si
avvicinano gli uni agli altri, e quanto più si avvicinano gli uni agli altri, tanto più si avvicinano a
Dio. E immaginate nello stesso modo la separazione: infatti è chiaro che quando si separano da Dio
e ritornano verso l’esterno, quanto più escono e si allontanano da Dio, quanto più si allontanano gli
uni dagli altri e quanto più si allontanano gli uni dagli altri, tanto più si allontanano anche da Dio.
(Doroteo di Gaza, Insegnamenti 6,76-78).