Benedetta Tobagi: «Come mi batte forte il tuo cuore» Storia di mio

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Benedetta Tobagi: «Come mi batte forte il tuo cuore» Storia di mio
Marcello MALAGUTTI (cl. 4a C)
Benedetta Tobagi :
«Come mi batte forte il tuo cuore»
Storia di mio padre
BENEDETTA TOBAGI è la figlia minore del giornalista Walter Tobagi, assassinato dalla
"Brigata XXVIII marzo" il 28 maggio 1980. Si professa atea, ma afferma anche di ricordare
sempre un versetto della Bibbia:
"La verità vi farà liberi"
(Giovanni, 8:32)
Laureata in Filosofia, ha lavorato alcuni anni nella produzione audiovisiva, occupandosi in
particolare di documentari, e in campo editoriale. Collabora con il quotidiano la Repubblica.
Per la sua attività giornalistica ha vinto il Premiolino 1 nell'edizione del 2011. Segue le attività
di associazioni e centri di documentazione dedicati ai terrorismi e alle mafie (Rete degli
archivi per non dimenticare). È stata promotrice del progetto della costituenda "Casa della
memoria" sul terrorismo e le stragi a Milano.
Il suo primo libro “Come mi batte forte il tuo cuore”, pubblicato nel 2009 e dedicato alla
memoria del padre, ha vinto numerosi premi, tra cui il Premio Estense, il Premio Sciascia, il
Premio Capalbio, il Premio Brignetti Isola d'Elba, il Premio Napoli 2010 per la sezione
"Letteratura italiana" e il Premio Libraio di Padova.
«Come mi batte forte il tuo cuore»
Walter Tobagi Era una delle firme più prestigiose del «Corriere della Sera». Morì a Milano il 28 maggio
1980, assassinato sotto casa da una semisconosciuta formazione terroristica la "Brigata XXVIII marzo".
Aveva trentatrè anni e la figlia Benedetta che aveva tre anni era lì e vide il padre colpito. Benedetta,
raggiunta l’età a cui la vita del padre era stata stroncata, ha voluto “capire”. Con forza, con delicatezza, ha
ricostruito la figura pubblica e privata del padre in un racconto che intreccia spietate vibrazioni intime ad
analisi storiche lucide e rigorose, cercando di comprendere cos'erano gli anni Settanta. Di quel padre così
noto, a Benedetta sono rimasti pochi ricordi. Ma di Walter Tobagi, giornalista di spicco del Corriere della
1
Il Premiolino è uno fra i più antichi e importanti premi giornalistici italiani. Viene assegnato annualmente a sei
giornalisti della carta stampata e della televisione come premio alla carriera e per il loro contributo nel campo della
libertà di stampa.
1
Sera, alla figlia sono rimasti i pensieri - racchiusi in articoli, diari, pagine di appunti, libri - e il motto,
tratto dall'Etica di Spinoza, che aveva guidato il suo lavoro di giornalista: “humanas actiones non ridere,
non lugere, necque detestari, sed intelligere” (“non bisogna deridere le azioni umane, né piangerle, né
disprezzarle, ma comprenderle”). Con questo spirito Benedetta Tobagi ne ha ricostruito la vita,
pubblica e privata. A guidarla un'esigenza personale - «Non potevo tollerare di avere solo
quell'immagine di mio padre, ucciso quella mattina», ha dichiarato Benedetta - ma anche la
consapevolezza che la perdita non ha toccato solo la sua famiglia «ma tutta la società perché il terrorismo
l'ha privata di risorse che avrebbero potuto renderla diversa».
Dai primi anni in un paesino vicino a Spoleto agli studi classici al liceo Parini di Milano, fino agli esordi
come giornalista e alla piena affermazione professionale nella redazione del Corriere della Sera,
Benedetta Tobagi ha ripercorso la vita e la carriera del padre con la partecipazione e l'affetto della figlia,
ma senza mai rinunciare all'obiettività dello storico che si documenta con scrupolo, consultando
documenti pubblici e privati e interrogando chi allora c'era. Ne nasce un ritratto del giornalista, ma anche
dell'uomo e del padre che fu Walter Tobagi, e di un periodo della storia italiana di cui è ancora difficile
parlare. Un ritratto che restituisce di quel padre una immagine più vicina alla verità, senza
strumentalizzazioni di parte. «Sono allergica alla retorica vuota del martire e dell'eroe, che troppo
spesso si applica alle vittime del terrorismo. Papà ha avuto paura, ha faticato, ha assunto posizioni
impopolari e molto discusse, ha continuato a scrivere le cose che gli sembravano giuste, ha cercato di
riempire ogni giorno di senso il suo ideale di democrazia: questo, non il "martirio", fa di lui un punto di
riferimento».
A “Come mi batte forte il tuo cuore” Roberto Saviano ha dedicato, su Repubblica del 2 novembre 2009,
una lunga recensione in copertina di cultura con richiamo in prima pagina. «Molti libri iniziano davvero
nel titolo. Il titolo è già un capitolo, anzi è il primo capitolo del libro. In questo caso, per il libro di
Benedetta Tobagi, il titolo è davvero fondamentale. Non solo perché è il più bel titolo di un libro uscito
negli ultimi anni, ma perché è capace di suggerire senza tradire tutto quanto ci sarà dentro quelle pagine
che protegge come un sigillo.» - ha scritto Saviano - «Il libro di Benedetta Tobagi dimostra che noi
possiamo capire; che anzi abbiamo capito benissimo cosa hanno fatto questi terroristi che volevano
mutare il mondo e l'hanno peggiorato, distratto l'attenzione da quello che combinava la criminalità
organizzata e la politica corrotta, ucciso la parte migliore del paese.[...] Questo libro dà spazio a chi ha
dato voce al meglio di questo paese, raccontandolo e difendendolo, un paese che sembra avere perso
quella voce. Ma queste parole scritte da Benedetta Tobagi permettono di accorgerci che in molti di noi
batte ancora forte il loro cuore». 2
Il Corriere della Sera del 2 novembre 2009 ha pubblicato un'anticipazione tratta da “Come mi batte forte
il tuo cuore”, a cui era dedicato anche l'editoriale del direttore Ferruccio De Bortoli sulla prima pagina
del quotidiano. «Un libro che andrebbe letto anche a scuola» - ha scritto De Bortoli - «Noi ci auguriamo,
leggendo queste pagine così belle e nobili, di non dover più rivivere gli anni di piombo, anche se ne
vediamo ripetersi alcuni dei sintomi. E immersi nel liquido, a volte maleodorante, della nostra
contemporaneità, ci domandiamo, con senso di angoscia, come ci ricorderanno i nostri figli. E se stiamo
facendo di tutto per consegnare loro una società migliore».
Benedetta ha compiuto cammino che l’ha condotta a una consapevolezza straordinariamente equilibrata e
da questa a un impegno di informazione seria, “onestà”, obiettiva (che non fa mai leva deliberatamente
sull’empatia emozionale, quanto su di una lucida condivisione di dati storici). E’ proprio questa capacità
di narrare episodi, che tanto l’hanno coinvolta “da vicino”, che tanto ne hanno segnato la vita, con una
professionalità impeccabile a far acquisire alla sua testimonianza valenza di grande attendibilità. Non si
tratta di “freddezza”, bensì di quel distacco, di quello “sguardo dall’alto” (M. Calabresi) da cui non può
prescindere un giudizio oggettivo ed equilibrato. Esplicativa del “percorso” intrapreso da Benedetta è
l’intervista da lei rilasciata alla giornalista Corona Perer e da questa trascritta nell’articolo qui di seguito
riportato:
2
Il testo completo dell’articolo è riportato nell’Appendice A
2
Sentire, Agosto 2010
Benedetta Tobagi, come mi batte forte il tuo cuore
di Corona Perer
Ha ottenuto recensioni eccellenti come quella di Roberto Saviano che ne ha elogiato il titolo "bello e profondo, è da
sé un intero capitolo del libro". Dalle colonne del Corriere della Sera che ebbe in Walter Tobagi una tra le firme di
spicco, il direttore Ferruccio de Bortoli ha scritto che il libro andrebbe letto a scuola. "Ci auguriamo, leggendo
queste pagine così belle e nobili, di non dover più rivivere gli anni di piombo, anche se ne vediamo ripetersi alcuni
dei sintomi".
Emerge la figura di un uomo alla costante ricerca della comprensione dei fatti. Il motto di Walter Tobagi era tratto
dall'Etica di Spinoza: "non bisogna deridere le azioni umane, né piangerle, nè disprezzarle, ma comprenderle". A
raccontarlo è la figlia: Benedetta Tobagi in "Come mi batte forte il tuo cuore". Difficile intervistarla: un riccio, e del
resto è comprensibile. "Tutto quel che dovevo dire è nel libro" afferma precisando di non essere una giornalista ma
una ricercatrice di storia contemporanea, che collabora con Repubblica per le pagine culturali. "Ma il mio settore è
la storia" dice.
Naturalmente a pelle emerge l'emotività di un racconto che solo negli ultimi anni ha potuto avvalersi dell'oggettività
della carte di Walter Tobagi grazie alle quali - da figlia - ha sanato i vuoti di chi ha perso il proprio padre a soli tre
anni. Benedetta Tobagi porta un nome importante e di quel padre assassinato nel 1980 dai terroristi della «Brigata
XXVIII marzo», se prima aveva pochi ricordi, ora conserva il pensiero racchiuso in articoli, diari, appunti e libri.
Senza mai rinunciare all'obiettività dello storico che si documenta con scrupolo, consultando documenti pubblici e
privati e interrogando chi c'era, ce lo racconta attraverso i fatti.
Cosa le ha portato umanamente questo lavoro?
Nonostante la premessa legata al dolore di una rievocazione dei fatti, questo libro rappresenta il mio tentativo di
reincontrarlo. L'ho costruito superando il fatto in sé per scoprirne il metodo. Non avendolo potuto conoscere come
padre l'ho affrontato professionalmente.
Che metodo aveva Walter Tobagi?
Lui era giornalista fino al midollo, ma era anche uno storico. Direi uno storico de presente, senza approcci
ideologici. Cercava sempre di inserire i fatti nel contesto storico e siccome mi interessa la storia, lo trovo un metodo
prezioso.
L'eredità quindi è questa?
Sì, posso dire che il metodo l'ho imparato da lui. La ricerca condotta su una persona, mi ha portata al metodo che ora
si alimenta continuamente.
Cosa ha cercato di non dire?
Benchè la morte sia la premessa da cui parte il libro ho cercato di sottrarmi al clichè della vittima o dell'eroe per la
libertà di stampa. Ho cercato in tutti i modi invece che si sentisse dentro il libro che lui c'era.
Come ha affrontato negli anni dell'infanzia e adolescenza questo vuoto?
Il mio primo ricordo della mia vita è quello di un padre morto, dunque ha sempre dominato. Ma anche nel libro,
superate le prime due istantanee sul momento subito prima e subito dopo la sua uccisione, io lo racconto da vivo,
tant'è che muore solo al 13° capitolo.
Cosa non si è detto di suo padre?
C'è stata tanta strumentalizzazione politica, in una lettera del 1978 che io riporto integralmente lui parla del suo
lavoro e definendosi persona intellettualmente onesta spiega che il suo lavoro è stato essenzialmente capire il suo
paese. Scrive testualmente: "ho cercato di capire come si è arrivati a questo punto".
Forse lo direbbe ancora...che ne dice?
Non amo dire cosa direbbe oggi. La morte trent'anni fa lo ha sottratto, ma sicuramente non troverebbe un'Italia tanto
diversa da quella che lui cercava di capire. Lo scandalo P2 e' scoppiato poco dopo la sua morte nel marzo 1981 (lui
morì nel maggio 1980) in un epoca in cui la P2 controllava il Corriere della Sera. Trent'anni dopo si parla della P3.
Come ha affrontato questo lavoro?
Posso dire di aver navigato dentro la gran molte dei materiali di mio padre e scrivendo ho pensato molto a chi non
ha vissuto quel periodo e quindi a come fargli capire gli anni '70. Attraverso i suoi scritti, l'ho avvicinato, sono
partita dalle carte per una ricostruzione storica che per tasselli mi ha permesso di incontrarlo per davvero.
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Lei va molto nelle scuole. Come si avvicinano i giovani a queste pagine di storia?
Osservo che hanno voglia di sapere e che il libro fa venire la voglia di approfondire. In genere alle presentazioni ho
sempre di fronte a me due tipi di pubblico: chi non ha vissuto quegli anni e un pubblico maturo che invece porta con
sé un vissuto politico, di chi ha sperimentato anche politicamente quegli anni.
Le verrà spesso chiesto di spiegare cosa accadde...
Un problema molto grosso, perché ci furono terrorismi di diverse matrici, stragi e documenti che dicono con
chiarezza il coinvolgimento di apparati deviati dello stato. E la verità manca. Fa specie che nel trentennale dalla
morte di Moro sia stata approvata una legge che limitava il segreto di stato a 30 anni. A due anni dall'annuncio
nessun atto è stato fatto e persino si sta dubitando sulla percorribilità di questo disposto. Queste cose sfuggono, ma
sono altrettanto gravi: un vero danno per la nostra democrazia. Non si può consolidare una memoria del passato utile
e condivisa per affrontare il futuro.
Lei riesce a rispondersi alla domanda "che razza di paese è questo?"
E' una domanda che continuo a farmi e forse per questo ho scelto la ricerca storica. Quello che riscontro è che c'è un
pessimismo diffuso, scoramento, una rassegnazione quasi, ma anche tanto cinismo che è ancora più negativo. Ma ci
sono vie d'uscita che spesso i giornali non ci aiutano a intravvedere.
Quali secondo lei?
Sarebbe importante non dimenticarsi mai che comunque, anche nei momenti più bui, c'è sempre la possibilità di
lavorare bene e produrre risultati.
Cosa manca di più agli italiani in questo momento?
Ora ci manca la fiducia e l'ottimismo della volontà che faccia da antidoto al pessimismo della ragione.
Chi era Walter Tobagi?
Walter Tobagi, giornalista, studioso e sindacalista, è stato definito “testimone del tempo, e anticipatore
del nuovo” e ha lasciato un’eredità preziosa.
Tobagi, infatti, credeva in un giornalismo forte, libero, pluralistico, capace di svolgere una funzione
seriamente critica. Un sindacato non ideologico, non condizionato o condizionabile dai partiti,
democratico al suo interno, in grado di prefigurare il futuro del sistema informazione e perciò di guidare i
giornalisti attraverso le nuove frontiere dell’editoria, tutelandoli, mantenendone la centralità nelle
redazioni.
Queste erano le idee di Walter Tobagi nel panorama degli anni Settanta sconvolto dalla violenza che
chiamava altra violenza. Idee “ragionevoli” che pure, ad alcuni, dovevano apparire destabilizzanti. Certo,
la loro traduzione in pratica presupponeva una contrapposizione senza tentennamenti ai poteri forti, palesi
e occulti, al totalitarismo, alla sudditanza, alla giustificazione di situazioni ingiustificabili, tanto nei
giornali e quanto nel sindacato.
Come? Questo giovane intellettuale catturato dal giornalismo credeva in un preciso modus operandi:
osservare, riflettere, comprendere. Poi agire e osare, con l’arma principe della democrazia, la dialettica.
Ha osato, Walter Tobagi. Ha raccolto consenso diventando il leader di un drappello di giornalisti che,
come lui, non volevano essere omologati, credevano nella professionalità e in un sindacato in grado di
dialogare e confrontarsi con il potere, restandone ben distante. No al compromesso, no alla cogestione.
Insieme sarebbero scesi in campo e avrebbero dato vita a Stampa Democratica, una nuova componente
del sindacato che si poneva fuori dagli schemi precostituiti, Destra, Sinistra, o con l’una o con l’altra. Si
demoliva, con la ragione e i comportamenti, un assunto imperante: chi non è con me è contro di me, un
nemico da combattere ad armi pari per alcuni, da abbattere per altri. Furono gli “altri” a prendere il
sopravvento. E lui, il cronista-intellettuale, mite eppure determinato, fu abbattuto.
Diceva nel 1978 in una relazione sindacale:
“Possiamo annoverare i terroristi tra quelli che si propongono di far tacere, o almeno intimorire,
la stampa. Sarebbe sciocco ignorare questa realtà, ma non possiamo nemmeno farci impaurire.
Dev’essere chiaro che i giornalisti non vanno in cerca di medaglie, non ambiscono alla qualifica
di eroi; però non accettano avvertimenti mafiosi”.
E ancora:
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“Evitiamo che si avveri, come vuole il terrorismo, l’imbarbarimento del Paese, che interrompa il
civile dibattito. Noi giornalisti tutte le volte ripetiamo lo stesso appello, poi le cose vanno avanti
come prima e stiamo a vedere a chi toccherà la prossima volta”.
La risposta, ancora una volta, Tobagi la indicava nel rispetto delle regole democratiche, solo all’interno
delle quali sarebbe potuto esistere un sistema informativo libero. Fra le libertà che mantengono un
giornalista libero, Walter poneva come centrale la questione delle retribuzioni, ferme da anni, inadeguate.
Non c’è libertà nella povertà: c’è appiattimento, spesso uno sconforto pericoloso perché può trasformarsi
in accettazione passiva dei diktat del potere, editori o partiti che siano e il sindacato doveva essere il
portabandiera di richieste legittime: “... non dobbiamo avere vergogna di quello che chiediamo”, diceva
“Se i giornalisti devono mantenere la “schiena dritta”, non possono essere ricattabili.”
E ancora Tobagi poneva il problema delle concentrazioni, delle tecnologie, della disoccupazione,
dell’accesso alla professione che lui vedeva, con lungimiranza, agganciato alle Università. Sono temi
sempre sul tappeto, irrisolti, aggravati, se possibile, dall’evolversi rapidissimo dei mezzi di
comunicazione. Nodi ancora da sciogliere dopo trent’anni …
In sintesi lo straordinario messaggio umano e professionale lasciato da Walter Tobagi è quello che
l’informazione libera NON deve restare una “straordinaria utopia”
Come? Essendo fortemente impegnati, nel lavoro e nella società, e rimanendo liberi, senza acconsentire
ad alcun “patto” … compromesso.
Quanto lui, che aveva una visione positiva del futuro, fosse esempio di tutto ciò in prima persona con la
sua vita e quale “faro” fosse per i colleghi, nonostante la giovane età, trapela fortemente nell’articolo di
Feruccio De Bortoli, pubblicato il 25 maggio 2010 sul “Corriere della Sera”, riportato nell’Appendice B.
Tale articolo, che descrive l’arrivo in redazione, quella terribile mattina del 28 maggio 1980, della notizia
dell’uccisione di Tobagi, dà conto di tutto lo smarrimento, disorientamento, dei colleghi che paiono quasi
una spedizione di esploratori privati improvvisamente della guida.
D’altra parte testimonianza estremamente esplicativa sia della personalità di Tobagi che della sua “fede”
nella professione scelta si trova nell’intervista rilasciata dalla moglie di Tobagi (Stella Tobagi) a Michele
Branbilla e pubblicata su “La stampa” il 29 maggio 2010 , riportato nell’Appendice C. Questa
intervista, per altro, oltre a rivelare come, nonostante il grande amore per la mogli e i figli, Tobagi fosse
portato dai suoi ideali professionali a trascorrere molto tempo fuori casa, dà pure testimonianza del
dramma vissuto dalla famiglia sia nell’immediato dell’uccisione che negli anni a venire e, ciononostante,
del persistere immutato degli affetti che li legavano.
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Appendice A
Repubblica, 2 novembre 2009
“Tobagi, il terrorismo e il cuore di una figlia”
di Roberto Saviano
Molti libri iniziano davvero nel titolo. Il titolo non è lì a sintetizzare, a suggestionare, a indicare. Il titolo è già un
capitolo, anzi è il primo capitolo del libro. In questo caso, per il libro di Benedetta Tobagi, il titolo è davvero
fondamentale.
Non solo perché è il più bel titolo di un libro uscito negli ultimi anni, ma perché è capace di suggerire senza tradire
tutto quanto ci sarà dentro quelle pagine che protegge come un sigillo. Come mi batte forte il tuo cuore: il verso
della poetessa Wislawa Szymborska. E il sottotitolo è Storia di mio padre. Il padre di Benedetta è Walter Tobagi, il
giornalista del Corriere della Sera ucciso nel maggio del 1980 a Milano, dai terroristi della Brigata XXVIII marzo.
Sciascia scrisse di lui "lo hanno ammazzato perché aveva metodo". Benedetta non ricorda il padre, era piccolissima
quando l'hanno ammazzato. Aveva tre anni. Ricorda il giorno della morte, ne ricorda le sensazioni. I bambini non
hanno mediazione. A scuola nel cortile raccontava a increduli compagni: "papà è morto: gli hanno sparato bum
bum!" Quando decide di occuparsi di suo padre, si ritrova ad occuparsi pure del suo Paese e ancor più a mettere le
mani nella storia peggiore italiana, complicata, labirintica. Ma lei ha un obiettivo diverso. Capire se stessa, il suo
dolore, non semplicemente sondare un frammento d'Italia. Benedetta diventa esperta d'archivi e addirittura porta
nuovi elementi ai magistrati che dopo più di vent'anni dalla morte del padre non avevano colto passaggi importanti.
Tobagi non era un giornalista d'inchiesta. I terroristi non uccisero giornalisti d'inchiesta, ma giornalisti come Carlo
Casalegno e, appunto, Walter Tobagi che analizzavano le questioni, davano nomi e interpretazioni. Non rivelazioni
di nuovi elementi. E questo li condannava a morte. "Scrivere chiaro è difficile" diceva Walter Tobagi. Lo sa anche
sua figlia. Difatti cerca di lavorare sulla parola, sulla narrazione dei fatti, sul racconto di se stessa, della sua famiglia.
La cosa più difficile possibile è raccontare e insieme rispettare, mostrare ma non sbirciare, urlare ma non gridare. Il
suo libro non è un saggio, non è un romanzo, non è un trattato scientifico, non è nemmeno un omaggio. E' scritto
come un romanzo ma con contenuto privo d'invenzione e con disciplina dei dati.
Quello che Benedetta Tobagi fa è togliere al padre l'elmo da eroe. Proprio nei modi raccontati da Omero. Ettore,
prima della battaglia, si avvicina a salutare il piccolo Astianatte che però scoppia a piangere perché non lo riconosce.
Ettore allora si toglie l'elmo e Astianatte gli salta al collo. Benedetta Tobagi fa lo stesso: "Imbarcarmi in una duplice
ricerca intorno alla persona pubblica e privata di mio padre è stato il modo di sfilargli l'elmo impostogli dalla
retorica postuma".
Chiama spesso in questo libro suo padre semplicemente Walter e cerca di sottrarlo a tutti i commenti, alle
commemorazioni, persino alle carezze postume. E ricorda invece tutto ciò che dal suo ambiente gli arrivò in vita
come accuse, la sua presunta sudditanza a Craxi, l'accusa di essere diventato direttore dell'Associazione Lombarda
Giornalisti brigando e orchestrando chissà quali manovre. E' raccontato assai bene in questo libro l'ambiente dei
giornalisti subito pronti a stringersi intorno al martire, ma che un attimo prima e subito dopo si dilanieranno in
invidie, insulti, discredito gettato l'un contro l'altro. La madre di Bendetta "vedeva il giornale come uno strumento di
potere e la redazione come un ricettacolo di rancori, gelosie, e lotte intestine sotto lo smalto del prestigio". Tobagi
era un riformista e un uomo capace di leggere il suo tempo con analisi profonde. C'è una frase che mi ha colpito per
la sua attualità "a me pare che si corra il rischio di dire che è democratico il giornale che dice quello che mi piace".
Benedetta è severissima nel rileggere gli articoli del padre. Quando per la prima volta, grazie a Giovanni Minoli che
per primo dedicò uno spazio televisivo alla vicenda Tobagi in anni dove sembrava si volesse rimuoverla, ascolta la
voce di suo padre, dichiara addirittura di esserne rimasta delusa. Si aspettava un'altra voce. L'onestà di Benedetta in
questo libro non sta nel cercare la distanza obiettiva che non esiste se non in matematica, e qui si parla di uomini e
non di algoritmi. Ma riesce a raccogliere tutte le possibili sfumature, i dati, le problematiche. Questo libro è il
contrario di una celebrazione. La lotta sindacale di Tobagi per avere giornalisti più liberi ossia meno condizionati da
chi gli dava lo stipendio e meno anche punibili dai direttori, era un modalità d'intervento che coltivava l'utopia di far
coincidere la propria ambizione con la possibilità di migliorare le cose per tutti.
All'interno del “Corriere della Sera”, Walter Tobagi ha combattuto contro le infiltrazioni piduiste. Benedetta scova
che in una valigetta di Gelli era stato ritrovato il documento di rivendicazione della morte di suo padre. E Benedetta
fa senza problemi nomi e cognomi delle firme, degli azionisti, dei progetti di controllo del Corsera a cui il padre
continuamente si era opposto. Benedetta nelle carte del padre ritrova un giovanissimo Ferruccio de Bortoli che
Tobagi considerava un suo allievo.
L'omicidio Moro lo fece molto riflettere sul suo destino, in una lettera alla moglie scrive: "Se un giorno non dovessi
più esserci ti prego di spiegargli di ricordare. Mi sentirei ancora più in colpa se oggi non spendessi quei talenti che
mi sono stati affidati". Ricorda. E' ciò cui Tobagi tiene, "ricorda ciò che non sono riuscito a spiegare ai miei figli".
Ricorda. Perché è diverso sapere di rischiare di morire se si ha la certezza che qualcuno proteggerà le persone che
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più ami dalle migliaia di versioni che gli altri daranno sulla tua vita. Tobagi venne ucciso con cinque colpi di pistola
da un gruppo di circa sei terroristi, Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele
Laus e Manfredi De Stefano, volevano accreditarsi nel mondo della lotta armata, un omicidio di promozione nella
massima serie dei banditi rossi. Figli di famiglie della borghesia milanese, due membri del commando in particolare
appartengono all'ambiente giornalistico: sono Marco Barbone, figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della
casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo RCS), e Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico del
quotidiano Morando Morandini. A sparare sono Mario Marano e Marco Barbone. Barbone, quando Tobagi si
accascia per terra, gli dà il colpo di grazia.
Subito dopo il suo arresto, il 25 settembre del 1980, Barbone inizia a collaborare con gli inquirenti. Grazie alle sue
rivelazioni l'intera “Brigata 28 marzo” finisce in carcere insieme a più di un centinaio di sospetti terroristi di sinistra,
con cui Barbone è venuto in contatto nel corso della sua breve carriera da terrorista. Loro adesso hanno l'età matura
che avrebbe avuto suo padre, ma quando l'hanno ucciso avevano la stessa età di Benedetta. Nelle pagine si vede il
tormento di una donna che lavora su se stessa e si ripete che deve capire, da storica, le ragioni che hanno spinto
questi ragazzi a uccidere "per dimostrare di essere vivi". Poi a volte cede. Non ce la fa, vorrebbe gridare: ma vi
rendete conto che cosa avete fatto. Vorrebbe andare a vederli uno per uno ora divenuti cattolici di “Comunione e
Liberazione”. O, come i capi di Prima Linea, profeti vegani dell'impegno sociale. E dopo aver massacrato, oggi
ripetono, con le facce contrite, la solita omelia del "voi oggi non potete capire".
Invece il libro di Benedetta Tobagi dimostra che noi possiamo capire; che anzi abbiamo capito benissimo cosa
hanno fatto questi terroristi che volevano mutare il mondo e l'hanno peggiorato, distratto l'attenzione da quello che
combinava la criminalità organizzata e la politica corrotta, ucciso la parte migliore del paese. I giudici che vengono
uccisi non sono quelli reazionari, pesanti con i deboli e deboli con i potenti. Sono i giudici riformisti, democratici,
capaci di considerare la giustizia che i terroristi definiscono borghese come uno strumento di miglioramento sociale
e di vedere la legge come difesa, sempre di chi non ha strumenti altri di difesa che il diritto.
Benedetta Tobagi è bravissima nel raccontare le perversioni dei terroristi di quegli anni: la concorrenza tra chi
uccideva di più e i nomi più "organici al sistema". E di come lo Stato all'epoca sottovalutava tutto, quando il nome
di Walter Tobagi viene trovato in una schedatura di un terrorista. Consigliano a Tobagi di uscire di casa dopo le
nove perché "quelli uccidono dalle sette alle otto". Incredibile ma questo fu la ricetta per salvarsi la vita. Le pagine
più dure di Benedetta sono su Caterina Rosenzweig, appartenente ad una ricca famiglia milanese. Giocava a fare la
terrorista.
Benedetta non sopporta le commemorazioni vuote del martire che serve ad allontanare la sua figura umana: come a
dire che è impossibile vivere come lui. Invece bisogna avvicinare, mostrare le fragilità, le contraddizioni. E così la
targa sul posto dove è morto Tobagi, non è retorica. Dice poeticamente usando le parole bibliche: "Più tenace della
paura, più profonda del tuo dolore nel silenzio dell'essere, la vita canta".
Questo libro non poteva essere scritto che da una persona nata in una famiglia di persone che si amavano. E' una
fesseria credere che le famiglie felici si somiglino tutte e quelle infelici sono infelici ognuna a modo suo. Anche la
felicità ha una declinazione tutta sua. E questa famiglia di cui scrive Benedetta, una famiglia schiacciata per sempre
sul nascere da un lutto assurdo, fatto da terroristi dell'ultima ora, ma tenuta insieme dal ricordo di un tempo felice.
La felicità del fratello Luca, il rigore della madre. Ebbene questa famiglia riesce a non sfaldarsi. Nel mio paese si
dice che la malta buona non fa cadere nessuna casa. Credo sia proprio così. Nei diari di Walter Tobagi c'è un
passaggio che dedica alla moglie. "Stasera mi sento solo le poltrone vuote ma sono felice. Penso a te e mi sento
felice". Ma l'amore che prova per lui dev'essere immobile e non dinamico come è la vita. E questo libro è la
declinazione del suo amore, vivo, fluido e non museale. Alla fine è il desiderio di una figlia che parla al padre, certa
che da qualche parte quel padre la sta ascoltando. C'è una scena che non ti dimentichi più dopo averla letta.
Benedetta mentre spulcia negli archivi, cassetti, nell'ordine postumo che la madre aveva dato alla vita di suo marito,
trova una cassetta. Una registrazione di pochi minuti fatta il giorno del compleanno di Walter. E' una registrazione
gioco, Walter accende il registratore, il piccolo Luca parla e non smette e la piccola Benedetta è timida e tace. Ma
poi il padre riesce miracolosamente a convincerla. Allora si fa coraggio si avvicina e dice con la vocina "tanti auguri
papà". Ed è il simbolo di un padre che aiuta a parlare. Questo libro da spazio a chi ha dato voce al meglio di questo
paese, raccontandolo e difendendolo, un paese che sembra aver perso quella voce. Ma queste parole scritte da
Benedetta Tobagi permettono di accorgerci che in molti di noi batte ancora forte il loro cuore.
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Appendice B
“Corriere della Sera” ,
25 maggio 2010
L’eredità di Tobagi un valore da custodire
Walter Tobagi assassinato. La lezione del cronista che capì i nuovi barbari
di Ferruccio De Bortoli
Quel 28 maggio di trent’anni fa, era un mercoledì, pioveva e faceva ancora freddo. La primavera a Milano era
stata inclemente e l’emergenza del terrorismo, che vivevamo con angoscia quotidiana, sembrava essersi trasformata
persino in un cupo fenomeno atmosferico.
Il cielo color piombo, come i troppi anni di soffocante assedio della violenza e del terrore. La mattina, nello
stanzone a pian terreno della cronaca di Milano, scorreva regolare nei suoi riti: il caffè, la riunione, le chiacchiere
sciolte. Eravamo in due o tre, non di più. Allora i giornali si facevano soprattutto di sera e di notte, le redazioni si
animavano verso le cinque del pomeriggio, il ticchettio assordante delle macchine per scrivere (oggi non lo
sopporteremmo) si scatenava verso le sette, le otto. Non passava giorno, in quegli anni, che non venisse ucciso o
gambizzato (brutto neologismo dell’epoca) qualcuno. E anche noi giornalisti avevamo la netta sensazione di poter
essere, come lo eravamo già stati, nel mirino dei terroristi. C’era chi, esagerando come spesso ci accade, si era
comprato un’arma, così per sentirsi più sicuro; chi uscendo di casa cambiava ogni giorno percorso; chi confessava di
continuare a guardarsi le spalle.
Fabio Mantica, vice capocronista, un maestro della cronaca, alzò il pesante telefono di bachelite nera. Il suo viso si
fece all’improvviso scuro e una smorfia gli disegnò il volto già scavato dagli anni. Era un uomo di poche parole,
Mantica, ma di rara umanità. Scattò verso l’uscio e salì di corsa in direzione al primo piano. Walter Tobagi era già
stato ucciso, ma noi non lo sapevamo ancora. Non c’erano telefonini, siti online, non c’era twitter, solo quei pesanti
telefoni fissi, insopportabili in duplex, che restarono ammutoliti per interminabili secondi, durante i quali i nostri
sguardi di cronisti si incrociarono nel tentare di capire che cosa fosse accaduto. Poi cominciarono a squillare tutti
insieme. Un inferno. Mantica scese in lacrime quando noi avevamo già capito e ci sentivamo sperduti e paralizzati
dal dolore. Si appoggiò allo stipite della porta principale dello stanzone, quasi lasciandosi andare. «Ma forse non è
morto », disse un collega. «No, nulla da fare, Walter è morto».
Uscimmo tutti di corsa, saltammo in fretta sulle macchine posteggiate più vicino e ci precipitammo sul luogo
dell’agguato. Lungo il tragitto, lo ricordo perfettamente, eravamo in tre, nessuno di noi parlò. Appena arrivati,
vedemmo una scena alla quale eravamo largamente abituati e che ormai non ci faceva più il minimo effetto: le
pantere della polizia e le gazzelle dei carabinieri, come si diceva allora, le ambulanze, la concitazione, le urla, il
disordine assoluto. La gente era assiepata, tenuta a bada con fatica e come prigioniera di un senso generale
d’impotenza e di sconforto. Le parole spezzate, gli sguardi fissi. Ma c’era chi girava il capo e proseguiva allungando
il passo, cercando di dimenticare tutto in fretta. Come se la battaglia contro il terrorismo fosse stata ormai persa,
definitivamente, e si dovesse per forza convivere con il terrorismo omicida. Levando lo sguardo: una sorta di
omertà. In altre occasioni un pensiero del genere non mi era venuto in mente, non ci avevo fatto caso. Quella volta sì
perché sotto il lenzuolo sporco di sangue e intriso di pioggia c’era uno di noi, un collega, un amico. Il velo di
cinismo che accompagna il lavoro del cronista, e ne fa un testimone utile proprio perché non sopraffatto
dall’emotività, aveva lasciato il posto al dolore e alla rabbia, a un senso opprimente di ingiustizia.
Mi vergognavo di non averlo provato altre volte, quel sentimento. Ho riletto l’articolo di Fabio Felicetti,
pubblicato il giorno dopo l’agguato in prima pagina sul Corriere. Un pezzo di rara tenerezza espressiva e nello
stesso tempo asciutto e privo di retorica, quasi distaccato: descriveva quel corpo sbattuto sull’asfalto davanti al
ristorante «Dai gemelli», come se lo dovesse toccare, sorreggere, quasi rianimare: la penna schizzata via dal
taschino, l’ombrello caduto, la mano che sembrava ancora muoversi. Non dimenticherò di quelle ore convulse il
pianto del direttore, Franco Di Bella, il dolore composto del suo vice Gaspare Barbiellini Amidei, il questore
Sciaraffia che tentava di consolarli entrambi, la faccia impietrita di Angelo Rizzoli. Ma soprattutto gli sguardi
smarriti dei tanti colleghi che erano accorsi lì, in via Salaino, una via sconosciuta, laterale, che poi per molti anni
nessuno di noi avrebbe avuto più il coraggio di percorrere. Il direttore Di Bella era uomo duro, schietto, ma di
straordinaria carica umana: sembrava aver perduto ogni forza. E ogni speranza. Come noi. Al funerale di Walter
gridò la sua rabbia contro uno Stato che non sapeva difendere un suo cittadino. Ancora una volta, come tante volte.
Eppure, non lo sapevamo e nessuno di noi lo immaginava, la lotta contro il terrorismo stava per essere vinta grazie
ai tanti semi gettati con coraggio in una società provata e disillusa. Molti di quei semi erano nelle parole e negli
articoli di Walter, come nei gesti e nell’opera silenziosa di tanti servitori dello Stato.
Il tempo, quel mercoledì, si era fermato all’improvviso. L’arrivo del padre di Walter, il suo urlo («Figlio mio») e
il suo amorevole tentativo di nascondere alla nuora Stella la vista del corpo di Walter, ancora schiacciato contro il
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marciapiede: scene rimaste scolpite per sempre nella mia mente. La rappresentazione del dolore più profondo. Il
calvario senza resurrezione. Ma l’immagine che mi è sembrata rappresentare di più la tragedia è quella di Walter
ancora vivo, un po’ stanco, ma come sempre arguto e intelligente, la sera prima, al Circolo della Stampa di Milano a
un dibattito sull’informazione e sul terrorismo. «È vero, c’è un imbarbarimento della società italiana che tocca tutti,
ma sappiamo come nasce, e non possiamo meravigliarci ogni volta che ne scopriamo gli effetti... dobbiamo impedire
che si propaghi». Walter parlava, citando Mario Borsa, direttore del «Corriere» nell’immediato dopoguerra, della
libertà di stampa e della necessità che il pluralismo fosse garantito dalla corretta e aperta concorrenza fra gruppi
editoriali. E aggiungeva: «Non è assolutamente sano in un Paese democratico che la politica si faccia nei palazzi di
giustizia». Sono passati trent’anni, tutto è cambiato, ma le parole di Walter conservano una straordinaria attualità. La
sua eredità morale e culturale rimane integra e viva. Intatta la testimonianza professionale di un cronista libero;
fecondo il lascito di un pensatore riformista; profonda la scia di un cattolico impegnato nella società, desideroso di
comprenderne le trasformazioni e di segnalarne con onestà e precisione le anomalie, i germi della violenza e del
terrorismo.
Quella mattina, prima di sapere che era stato ucciso, una voce parlava di un portavalori ammazzato. Dopotutto,
l’informazione non era errata, Walter è stato ed è il nostro portavalori. E che valori! A noi il compito arduo di
custodirli senza retorica e amnesie.
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Appendice C
La Stampa, 29 maggio 2010
Stella Tobagi: l’assassino di Walter mi portò una scatola di cioccolatini
di Michele Brambilla
Ci sono tanti modi per cominciare un’intervista con una persona che non ha mai rilasciato interviste eppure ha tante cose da dire.
Forse per l’emozione che mi provoca l’incontro (ero al «Corriere d’Informazione» quella mattina del 28 maggio 1980 e ricordo le
lacrime del capocronista Mario Palumbo) scelgo il modo più idiota e chiedo a Stella Tobagi: «Come sta?». E come vuoi che stia
una persona che sta vivendo il trentesimo anniversario dell’omicidio di suo marito? Ma questa donna – sarà così anche nelle due
ore successive di colloquio – è sempre sorridente e ha occhi luminosi. Risponde: «Bene, ci sono comunque tanti motivi per stare
bene». Stella Tobagi abita ancora nella casa in cui abitava allora. Le finestre del soggiorno si affacciano sul parco Solari. La
vietta qui dietro è via Salaino: è lì che Walter Tobagi, 33 anni, inviato speciale del «Corriere della Sera» e presidente del
sindacato lombardo dei giornalisti, fu accoppato da una banda di giovani delinquenti: figli della buona borghesia che volevano
giocare alla rivoluzione proletaria.
Che cosa ricorda di quella mattina?
«Tutto, in modo molto nitido. Avevo accompagnato a scuola Luca. Walter era in casa con Benedetta. Quando rientrai era già
sveglio, ma ancora a letto. La sera prima, come al solito, aveva fatto molto tardi, era stato a un dibattito. Gli portai, come sempre,
la mazzetta dei giornali. Poi uscii con Benedetta, volevo andare in viale Coni Zugna a comperare una torta di verdura».
Chi le disse che avevano ucciso suo marito?
«Non me lo disse nessuno. Lo vidi. Tornando dal parco Solari cominciai a sentire le sirene. Mi misi a correre con Benedetta, non
le dico che avevo il cuore in gola perché era più che sentirsi il cuore in gola. Arrivai in via Salaino praticamente insieme con la
polizia. Vidi che un agente aveva in mano il tesserino da giornalista di Walter. Gridai: ma è mio marito, fatemi passare!».
Benedetta era lì con lei?
«Sì. Non mi sono mai perdonata di averla portata lì».
Quanti anni aveva Benedetta?
«Tre. L’altro nostro figlio, Luca, ne aveva sei».
Da quanti anni eravate sposati?
«Nove. Ma non so quanto tempo abbiamo passato insieme. Walter faceva l’inviato, lavorava sempre anche la domenica: poi
insegnava all’università e faceva il presidente del sindacato, e con i colleghi erano sempre riunioni, riunioni… Quando li
sbattevano fuori dall’Associazione lombarda venivano qui a continuare a casa nostra… Parlavano fino a notte fonda, fumavano…
Però erano anni intensi, e anche molto belli».
Qual è l’ultimo ricordo sereno di voi due insieme?
«Pochi giorni prima che lo uccidessero, a Venezia. Lui ci andò per lavoro, io volli fargli una sorpresa e mi feci trovare alla
stazione. Ma sa che non riuscimmo a pranzare insieme neanche a Venezia? Non so quante volte abbiamo mangiato insieme
neppure qui a casa. Lui mi telefonava dal “Corriere” e mi diceva: sto uscendo. Ma arrivava sempre due ore dopo, quanto cibo ho
dovuto buttare via».
Lei non ama il mondo del giornalismo.
«No. Non l’ho mai amato. Non mi piaceva neanche il “Corriere”, ero un po’ anarchica e lo consideravo troppo asservito al
potere. Poi non mi piaceva la competitività, anzi la rivalità fra i giornalisti: si scannano per una firma in prima pagina. Adesso
capisco quanto bene ha fatto Walter con i suoi articoli, ma prima pensavo che il giornalismo mi ha portato via troppo di lui.
Quando eravamo fidanzati andavo a prenderlo all’”Avvenire”, cenavamo in orari che per me, che sono mattutina, erano
impossibili. E poi non eravamo mai soli: c’erano sempre dei suoi colleghi, io mi sentivo tagliata fuori perché i giornalisti parlano
sempre delle loro cose».
Però ha sposato un giornalista.
«Io non ho sposato un giornalista, ho sposato Walter. Io e lui eravamo un tutt’uno. L’ho conosciuto che avevo sedici anni. Tutti
lo ricordano oggi come un cronista che voleva capire per spiegare. Ma io l’ho conosciuto come un uomo che amava per capire.
Mi ricordo un giorno in cui gli dissi che non capivo i miei suoceri, che abitavano con noi. Walter mi disse: non li devi capire,
devi volergli bene. E io compresi che faceva così anche con me».
Signora, posso chiederle perché non ha mai rilasciato un’intervista? Perché non si fida dei giornalisti?
«Non è per quello. È che lei sa bene che cosa è successo dopo la morte di Walter. C’è stata una caccia agli assassini dentro il
“Corriere”. Il direttore Franco Di Bella veniva qui e insisteva: Stella, devi raccontarmi che cosa ti confidava Walter, forse
capiamo chi lo voleva morto».
Lei non crede che ci siano state complicità all’interno del «Corriere»?
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«Ci fu senz’altro un’atmosfera di grande ostilità, una campagna velenosa fatta da alcuni colleghi di sinistra e dalla corrente
sindacale di Rinnovamento. Ma non credo che il mandato a uccidere sia partito da via Solferino, né che lì dentro ci siano stati dei
complici. Ecco, io tacevo perché temevo strumentalizzazioni politiche».
I socialisti hanno sostenuto a lungo l’ipotesi della «pista interna» al «Corriere», o al sindacato.
«Craxi veniva qui, si sedeva dov’è seduto lei adesso. Mi dava del tu, e io gli davo del lei. Portava dei giocattoli ai bambini, ma io
li davo ai poveri, sapevo che Luca e Benedetta non gradivano».
Lei pensa che il Psi abbia strumentalizzato suo marito?
«Non mi piacque quando misero la sua faccia sui manifesti elettorali. Walter, poi, non era neanche più iscritto al partito».
Lei pensa che quei giovani terroristi agirono da soli?
«Io penso che furono loro a decidere di uccidere Walter. Ma ho il sospetto che qualcuno li abbia lasciati fare».
A chi pensa? «Penso alla P2. Ci sono molti elementi che me lo fanno credere».
Ad esempio?
«Senta, erano in molti a sapere che Walter era sotto tiro. Avevano già cercato di rapirlo. Persino io mi ero accorta che lo
pedinavano. Non mi faccia dire di più».
Ha mai incontrato Marco Barbone, uno degli assassini?
«Venne qui dopo la sua rapida scarcerazione. Credo che furono i suoi avvocati a consigliargli quel gesto».
Le chiese perdono?
«No. Mi portò una scatola di cioccolatini, che abbiamo lasciato andare a male».
Ha avuto un risarcimento?
«Cento milioni dallo Stato e l’assicurazione sulla vita che il “Corriere” gli stipulò due mesi prima che lo ammazzassero. Dagli
imputati niente. Barbone risultava nullatenente. Gli chiedemmo una cifra simbolica, ma ci rispose che se lo avesse fatto avrebbe
provocato un trauma ai suoi figli».
Lei non crede al pentimento di Barbone? Ha un giudizio negativo sul suo conto?
«Non lo giudico».
Che rapporto ha oggi con il «Corriere»?
«Ci sono degli amici. E ho molta stima di Ferruccio De Bortoli, ha grandi qualità umane».
Signora, lei prima ha detto che ci sono tante cose che l’aiutano comunque a stare bene. Posso chiederle quali sono?
«Questi due figli meravigliosi. La solidarietà di tanta gente. La condivisione del lavoro di mio marito che ha continuato a dare
frutti. La fede, che non ho per nulla perduto, anzi. E poi Walter: per me lui è sempre stato vivo, io lo sento vivo adesso».
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Appendice C
Repubblica, 2 novembre 2009
“Tobagi, il terrorismo e il cuore di una figlia”
di Roberto Saviano
Molti libri iniziano davvero nel titolo. Il titolo non è lì a sintetizzare, a suggestionare, a indicare. Il titolo è già un
capitolo, anzi è il primo capitolo del libro. In questo caso, per il libro di Benedetta Tobagi, il titolo è davvero
fondamentale.
Non solo perché è il più bel titolo di un libro uscito negli ultimi anni, ma perché è capace di suggerire senza tradire
tutto quanto ci sarà dentro quelle pagine che protegge come un sigillo. Come mi batte forte il tuo cuore: il verso
della poetessa Wislawa Szymborska. E il sottotitolo è Storia di mio padre. Il padre di Benedetta è Walter Tobagi, il
giornalista del Corriere della Sera ucciso nel maggio del 1980 a Milano, dai terroristi della Brigata XXVIII marzo.
Sciascia scrisse di lui "lo hanno ammazzato perché aveva metodo". Benedetta non ricorda il padre, era piccolissima
quando l'hanno ammazzato. Aveva tre anni. Ricorda il giorno della morte, ne ricorda le sensazioni. I bambini non
hanno mediazione. A scuola nel cortile raccontava a increduli compagni: "papà è morto: gli hanno sparato bum
bum!" Quando decide di occuparsi di suo padre, si ritrova ad occuparsi pure del suo Paese e ancor più a mettere le
mani nella storia peggiore italiana, complicata, labirintica. Ma lei ha un obiettivo diverso. Capire se stessa, il suo
dolore, non semplicemente sondare un frammento d'Italia. Benedetta diventa esperta d'archivi e addirittura porta
nuovi elementi ai magistrati che dopo più di vent'anni dalla morte del padre non avevano colto passaggi importanti.
Tobagi non era un giornalista d'inchiesta. I terroristi non uccisero giornalisti d'inchiesta, ma giornalisti come Carlo
Casalegno e, appunto, Walter Tobagi che analizzavano le questioni, davano nomi e interpretazioni. Non rivelazioni
di nuovi elementi. E questo li condannava a morte. "Scrivere chiaro è difficile" diceva Walter Tobagi. Lo sa anche
sua figlia. Difatti cerca di lavorare sulla parola, sulla narrazione dei fatti, sul racconto di se stessa, della sua famiglia.
La cosa più difficile possibile è raccontare e insieme rispettare, mostrare ma non sbirciare, urlare ma non gridare. Il
suo libro non è un saggio, non è un romanzo, non è un trattato scientifico, non è nemmeno un omaggio. E' scritto
come un romanzo ma con contenuto privo d'invenzione e con disciplina dei dati.
Quello che Benedetta Tobagi fa è togliere al padre l'elmo da eroe. Proprio nei modi raccontati da Omero. Ettore,
prima della battaglia, si avvicina a salutare il piccolo Astianatte che però scoppia a piangere perché non lo riconosce.
Ettore allora si toglie l'elmo e Astianatte gli salta al collo. Benedetta Tobagi fa lo stesso: "Imbarcarmi in una duplice
ricerca intorno alla persona pubblica e privata di mio padre è stato il modo di sfilargli l'elmo impostogli dalla
retorica postuma".
Chiama spesso in questo libro suo padre semplicemente Walter e cerca di sottrarlo a tutti i commenti, alle
commemorazioni, persino alle carezze postume. E ricorda invece tutto ciò che dal suo ambiente gli arrivò in vita
come accuse, la sua presunta sudditanza a Craxi, l'accusa di essere diventato direttore dell'Associazione Lombarda
Giornalisti brigando e orchestrando chissà quali manovre. E' raccontato assai bene in questo libro l'ambiente dei
giornalisti subito pronti a stringersi intorno al martire, ma che un attimo prima e subito dopo si dilanieranno in
invidie, insulti, discredito gettato l'un contro l'altro. La madre di Bendetta "vedeva il giornale come uno strumento di
potere e la redazione come un ricettacolo di rancori, gelosie, e lotte intestine sotto lo smalto del prestigio". Tobagi
era un riformista e un uomo capace di leggere il suo tempo con analisi profonde. C'è una frase che mi ha colpito per
la sua attualità "a me pare che si corra il rischio di dire che è democratico il giornale che dice quello che mi piace".
Benedetta è severissima nel rileggere gli articoli del padre. Quando per la prima volta, grazie a Giovanni Minoli che
per primo dedicò uno spazio televisivo alla vicenda Tobagi in anni dove sembrava si volesse rimuoverla, ascolta la
voce di suo padre, dichiara addirittura di esserne rimasta delusa. Si aspettava un'altra voce. L'onestà di Benedetta in
questo libro non sta nel cercare la distanza obiettiva che non esiste se non in matematica, e qui si parla di uomini e
non di algoritmi. Ma riesce a raccogliere tutte le possibili sfumature, i dati, le problematiche. Questo libro è il
contrario di una celebrazione. La lotta sindacale di Tobagi per avere giornalisti più liberi ossia meno condizionati da
chi gli dava lo stipendio e meno anche punibili dai direttori, era un modalità d'intervento che coltivava l'utopia di far
coincidere la propria ambizione con la possibilità di migliorare le cose per tutti.
All'interno del “Corriere della Sera”, Walter Tobagi ha combattuto contro le infiltrazioni piduiste. Benedetta scova
che in una valigetta di Gelli era stato ritrovato il documento di rivendicazione della morte di suo padre. E Benedetta
fa senza problemi nomi e cognomi delle firme, degli azionisti, dei progetti di controllo del Corsera a cui il padre
continuamente si era opposto. Benedetta nelle carte del padre ritrova un giovanissimo Ferruccio de Bortoli che
Tobagi considerava un suo allievo.
L'omicidio Moro lo fece molto riflettere sul suo destino, in una lettera alla moglie scrive: "Se un giorno non dovessi
più esserci ti prego di spiegargli di ricordare. Mi sentirei ancora più in colpa se oggi non spendessi quei talenti che
mi sono stati affidati". Ricorda. E' ciò cui Tobagi tiene, "ricorda ciò che non sono riuscito a spiegare ai miei figli".
Ricorda. Perché è diverso sapere di rischiare di morire se si ha la certezza che qualcuno proteggerà le persone che
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più ami dalle migliaia di versioni che gli altri daranno sulla tua vita. Tobagi venne ucciso con cinque colpi di pistola
da un gruppo di circa sei terroristi, Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele
Laus e Manfredi De Stefano, volevano accreditarsi nel mondo della lotta armata, un omicidio di promozione nella
massima serie dei banditi rossi. Figli di famiglie della borghesia milanese, due membri del commando in particolare
appartengono all'ambiente giornalistico: sono Marco Barbone, figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della
casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo RCS), e Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico del
quotidiano Morando Morandini. A sparare sono Mario Marano e Marco Barbone. Barbone, quando Tobagi si
accascia per terra, gli dà il colpo di grazia.
Subito dopo il suo arresto, il 25 settembre del 1980, Barbone inizia a collaborare con gli inquirenti. Grazie alle sue
rivelazioni l'intera “Brigata 28 marzo” finisce in carcere insieme a più di un centinaio di sospetti terroristi di sinistra,
con cui Barbone è venuto in contatto nel corso della sua breve carriera da terrorista. Loro adesso hanno l'età matura
che avrebbe avuto suo padre, ma quando l'hanno ucciso avevano la stessa età di Benedetta. Nelle pagine si vede il
tormento di una donna che lavora su se stessa e si ripete che deve capire, da storica, le ragioni che hanno spinto
questi ragazzi a uccidere "per dimostrare di essere vivi". Poi a volte cede. Non ce la fa, vorrebbe gridare: ma vi
rendete conto che cosa avete fatto. Vorrebbe andare a vederli uno per uno ora divenuti cattolici di “Comunione e
Liberazione”. O, come i capi di Prima Linea, profeti vegani dell'impegno sociale. E dopo aver massacrato, oggi
ripetono, con le facce contrite, la solita omelia del "voi oggi non potete capire".
Invece il libro di Benedetta Tobagi dimostra che noi possiamo capire; che anzi abbiamo capito benissimo cosa
hanno fatto questi terroristi che volevano mutare il mondo e l'hanno peggiorato, distratto l'attenzione da quello che
combinava la criminalità organizzata e la politica corrotta, ucciso la parte migliore del paese. I giudici che vengono
uccisi non sono quelli reazionari, pesanti con i deboli e deboli con i potenti. Sono i giudici riformisti, democratici,
capaci di considerare la giustizia che i terroristi definiscono borghese come uno strumento di miglioramento sociale
e di vedere la legge come difesa, sempre di chi non ha strumenti altri di difesa che il diritto.
Benedetta Tobagi è bravissima nel raccontare le perversioni dei terroristi di quegli anni: la concorrenza tra chi
uccideva di più e i nomi più "organici al sistema". E di come lo Stato all'epoca sottovalutava tutto, quando il nome
di Walter Tobagi viene trovato in una schedatura di un terrorista. Consigliano a Tobagi di uscire di casa dopo le
nove perché "quelli uccidono dalle sette alle otto". Incredibile ma questo fu la ricetta per salvarsi la vita. Le pagine
più dure di Benedetta sono su Caterina Rosenzweig, appartenente ad una ricca famiglia milanese. Giocava a fare la
terrorista.
Benedetta non sopporta le commemorazioni vuote del martire che serve ad allontanare la sua figura umana: come a
dire che è impossibile vivere come lui. Invece bisogna avvicinare, mostrare le fragilità, le contraddizioni. E così la
targa sul posto dove è morto Tobagi, non è retorica. Dice poeticamente usando le parole bibliche: "Più tenace della
paura, più profonda del tuo dolore nel silenzio dell'essere, la vita canta".
Questo libro non poteva essere scritto che da una persona nata in una famiglia di persone che si amavano. E' una
fesseria credere che le famiglie felici si somiglino tutte e quelle infelici sono infelici ognuna a modo suo. Anche la
felicità ha una declinazione tutta sua. E questa famiglia di cui scrive Benedetta, una famiglia schiacciata per sempre
sul nascere da un lutto assurdo, fatto da terroristi dell'ultima ora, ma tenuta insieme dal ricordo di un tempo felice.
La felicità del fratello Luca, il rigore della madre. Ebbene questa famiglia riesce a non sfaldarsi. Nel mio paese si
dice che la malta buona non fa cadere nessuna casa. Credo sia proprio così. Nei diari di Walter Tobagi c'è un
passaggio che dedica alla moglie. "Stasera mi sento solo le poltrone vuote ma sono felice. Penso a te e mi sento
felice". Ma l'amore che prova per lui dev'essere immobile e non dinamico come è la vita. E questo libro è la
declinazione del suo amore, vivo, fluido e non museale. Alla fine è il desiderio di una figlia che parla al padre, certa
che da qualche parte quel padre la sta ascoltando. C'è una scena che non ti dimentichi più dopo averla letta.
Benedetta mentre spulcia negli archivi, cassetti, nell'ordine postumo che la madre aveva dato alla vita di suo marito,
trova una cassetta. Una registrazione di pochi minuti fatta il giorno del compleanno di Walter. E' una registrazione
gioco, Walter accende il registratore, il piccolo Luca parla e non smette e la piccola Benedetta è timida e tace. Ma
poi il padre riesce miracolosamente a convincerla. Allora si fa coraggio si avvicina e dice con la vocina "tanti auguri
papà". Ed è il simbolo di un padre che aiuta a parlare. Questo libro da spazio a chi ha dato voce al meglio di questo
paese, raccontandolo e difendendolo, un paese che sembra aver perso quella voce. Ma queste parole scritte da
Benedetta Tobagi permettono di accorgerci che in molti di noi batte ancora forte il loro cuore.
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