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Conoscenza e impresa
SALVATORE VICARI*
Abstract
La conoscenza è un concetto centrale nella teoria economica, in quanto essa è legata ad
alcuni suoi problemi chiave: valore, sviluppo, risorse. Essa è stata sottovalutata per un lungo
periodo, anche se oggi molti studiosi condividono l’idea che essa giuochi un ruolo molto
importante. Sono state elaborate diverse teorie per spiegare la natura dell’impresa in termini
di conoscenza. La mia opinione al riguardo è piuttosto radicale: l’impresa altro non è che un
sistema cognitivo, in grado di trasformare la conoscenza in valore economico. Essa utilizza
una particolare capacità, quella di utilizzare le sue risorse di conoscenza al fine di generare
nuove risorse, attraverso un processo di creazione di valore economico.
Parole chiave: conoscenza, teoria dell’impresa, sistema cognitivo, risorse, auto-generazione
Knowledge is a central issue in economic theory, because it is linked with some key
problems: value, development, resources. It has been undervalued a long time but now most
scholars agree about its role and importance. Many theories have built up to explain the
nature of the firm in terms of knowledge. My opinion is quite radical: the firm is nothing else
than a cognitive system, able to transform knowledge in economic value. It uses a peculiar
capacity to use its existing knowledge resources to generate new resources, through a process
of economic value creation.
Keywords: knowledge, theory of the firm, cognitive system, resources, self-generation
1. Conoscenza ed economia
Ciò che dà valore a una qualunque attività, merce, intrapresa non è null’altro che
la conoscenza.
Questo concetto che, quando lo affermai la prima volta negli anni ’80, poteva
sembrare apodittico e provocatoriamente esagerato, oggi anche se non pienamente
condiviso viene ormai accettato da molti e addirittura è entrato nei templi sacri degli
economisti, divenendo uno dei filoni più seguiti dalle teorie emergenti dello
sviluppo economico.
Alcuni tendono a collocare storicamente la questione della rilevanza della
conoscenza alla fine del XX secolo parlando dell’emergere della knowledge society
(Drucker, 1992) e della circostanza per cui in futuro la conoscenza avrebbe
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Ordinario di Economia e gestione dell’innovazione - Università Bocconi
e-mail: [email protected]
sinergie n. 76/08
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rappresentato una risorsa importante per la società nel suo insieme. La terra, il
lavoro e il capitale sarebbero diventati fattori produttivi secondari rispetto alla
conoscenza. Il ruolo della conoscenza in effetti è divenuto evidente soltanto nel
secolo scorso perché, come vedremo, in quell’epoca alcune sue caratteristiche sono
diventate particolarmente visibili. In realtà da sempre nella storia dell’umanità la
conoscenza è l’elemento fondamentale dello sviluppo della civiltà e della società.
In particolare, con riferimento alla dimensione economica, la conoscenza è
l’elemento fondamentale per la creazione di valore. Qualunque manufatto possiede
un valore che è commisurato alla quantità di conoscenze che incorpora. Prendiamo
un qualunque oggetto, una lampada, e domandiamoci cosa dia valore, per quale
motivo essa venga comprata e cosa la renda differente rispetto a qualunque altro
strumento di illuminazione. La risposta è che ciò che dà valore a quest’oggetto non è
null’altro che la conoscenza, quella di chi progetta lo stile, l’apparato di
alimentazione, il meccanismo di accensione e spegnimento, poi di chi la costruisce,
di chi la vende e anche di chi la utilizza. Questo era vero per una lampada prodotta
nel I o nel XV secolo e lo è ancora di più oggi, con le moderne lampade a luce
cangiante, gestite da potenti microprocessori.
Tale semplice affermazione illustra come il concetto di valore e quello di
conoscenza siano intrinsecamente collegati al punto che essi, pur essendo differenti
in termini epistemologici e fattuali, sono quasi indistinguibili dal punto di vista
economico.
2. Perché la conoscenza ha valore
Cerchiamo di capire perché la conoscenza abbia valore economico e perché i
processi di creazione di valore dell’impresa altro non siano che processi di utilizzo e
creazione della conoscenza. Tentiamo dunque di comprendere quali caratteristiche
abbia il concetto di valore connesso a quello di conoscenza.
Vorrei dividere il ragionamento in due affermazioni che cercherò di illustrare:
1. il valore di una conoscenza sta nell’utilizzatore;
2. il valore di una conoscenza sta nella sua distribuzione.
2.1 Il valore di una conoscenza sta nell’utilizzatore
Intanto il valore di una conoscenza nasce dal tipo di utilizzo che è possibile fare.
Questo è facilmente comprensibile: se una conoscenza è utile vale molto. Meno
chiaro è forse che questa utilità dipende dall’agente economico.
Cerchiamo pertanto di chiarire l’affermazione. Innanzitutto possiamo concordare
sul fatto che il valore che un’informazione possiede dipende dalla capacità di un
agente economico di utilizzare quell’informazione. E’ necessario ora fare un
ulteriore passo: il valore di un’informazione non dipende da essa, ma è funzione
della conoscenza di chi la utilizza.
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Il valore di una conoscenza pertanto discende non soltanto dalle sue
caratteristiche ontologiche, essendo anche funzione delle qualità dell’utilizzatore.
Spesso conoscenze ritenute poco proficue o addirittura inutili si sono rivelate poi
enormemente utili, al di là della più fervida immaginazione. Si pensi al calcolo
binario, che sembrava un divertissement matematico, privo di vera utilità. Potremmo
dire che gran parte delle conoscenze matematiche, filosofiche e letterarie sono
estremamente utili anche da un punto di vista pratico, solo che la loro utilità non è
immediatamente chiara nel momento in cui le conoscenze si formano.
Diciamo allora, più propriamente, che il valore della conoscenza dipende
necessariamente dall’utilizzatore di quella conoscenza. Il conoscere l’esatta
sequenza del codice genetico di un batterio a me è di scarsa utilità (e forse anche al
lettore), ma è importantissimo per un genetista e può avere un valore molto alto per
un’impresa del comparto biotecnologico. E’ pertanto chiarito che il valore
economico della conoscenza non dipende in astratto dalla conoscenza in sé, ma
dall’utilizzatore di quella conoscenza. Detto in altri termini, il valore d’uso dipende
dalle conoscenze già possedute dall’utilizzatore.
2.2 Il valore di una conoscenza sta nella sua distribuzione
Il concetto di valore è sempre stato collegato a quello di scarsità delle risorse,
anzi l’economia, si è sempre detto, è la scienza del valore in quanto studia il
problema dell’allocazione delle risorse scarse. Ora, la posizione qui sostenuta è che,
con riferimento al tema della conoscenza, possiamo parlare di valore non solo
quando vi sia poca disponibilità di risorse, ma soprattutto quando vi sia ineguale
distribuzione di informazione tra soggetti.
Già von Hayek (1988) aveva mostrato come il problema economico della società
non possa essere confinato a quello delle risorse disponibili, giacché non vi è
nessuno che abbia completa conoscenza dei mezzi disponibili e del sistema di
preferenze. Se vi fosse questa conoscenza concentrata in una sola testa, il quesito
economico sarebbe una pura questione di calcolo. Il problema consiste, invece,
nell’assicurare un efficiente uso delle risorse conosciute da parte dei vari soggetti
economici secondo schede di preferenza e secondo obiettivi noti solo ai singoli.
In realtà il calcolo economico non è solo una questione di allocazione di risorse
scarse; il crederlo nasce da una sottovalutazione del ruolo dell’informazione e della
conoscenza. Il problema economico nasce dalla disomogenea distribuzione
dell’informazione. La scarsità delle risorse è solo una parte del problema il cui
contesto è dato dalla ineguale distribuzione di informazione.
Per quanto riguarda la disponibilità il concetto di valore di scambio è
strettamente connesso a quello di domanda e offerta: se un bene fosse disponibile,
ma solo uno fosse a conoscenza di questa disponibilità, per tutti gli altri si porrebbe
il problema della scarsità quando in realtà sarebbe solo un problema di
informazione. In questa circostanza, infatti, il prezzo sarebbe alto non per la scarsità
del bene, ma solo in quanto mancherebbe l’informazione circa la disponibilità di
quel bene.
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Il prezzo non si formerebbe dunque sulla base della scarsità di quel bene, ma
sarebbe invece una misura della distribuzione dell’informazione tra i potenziali
acquirenti. Come si vede il prezzo diventa un misuratore della varianza nella
distribuzione della conoscenza circa la disponibilità dell’offerta. Il ragionamento
vale anche se ci si sposta sull’altro lato del mercato: se vi è offerta di beni, ma non si
conosce l’esistenza di una domanda elevata per quei beni, il prezzo sarà basso non
perché l’offerta eccede la domanda, ma solo perché questa non è a conoscenza
dell’esistenza della domanda. Ancora una volta il prezzo non misura il divario tra
domanda e offerta, ma il differenziale di informazione.
Così come il prezzo misura tale asimmetria, in modo analogo ciò che assegna
valore alla conoscenza non è la quantità della conoscenza che si possiede, ma la sua
distribuzione. Essa, a parità di altre condizioni, ha grande valore quando è detenuta
da pochi. Se un’impresa trova un procedimento di lavorazione assolutamente nuovo
e con questo procedimento riesce ad ottenere una produttività superiore alla
concorrenza, “possiede” una conoscenza che ha un alto valore. Nel momento in cui
questa informazione diventa disponibile ad altri perde di valore. Se un’impresa
produce certe informazioni che altre non possiedono acquisisce un vantaggio
competitivo proprio perché le altre imprese non possiedono la stessa conoscenza.
3. La visibilità del valore della conoscenza
Ciò che è cambiato radicalmente nel XXI secolo e che ha avuto un’accelerazione
enorme rispetto al passato, non è tanto il ruolo della conoscenza nel processo di
creazione economica, ma la circostanza che la conoscenza è divenuta trattabile in
quanto tale e non più solo attraverso i manufatti in cui era incorporata. La
conoscenza non è più solo “inserita” nelle strutture fisiche e chimiche dei manufatti,
ma può essere incorporata in quelle strutture logiche che sono i bit. Ciò rende la
conoscenza estremamente facile da essere trattata, manipolata, immagazzinata e
trasferita.
Quando la conoscenza non poteva essere immagazzinata se non in strutture
chimiche e molecolari, alla maggiore complessità della conoscenza corrispondeva
necessariamente una grande dimensione e complessità delle strutture fisiche e di
conseguenza organizzative. Ciò richiedeva investimenti massicci e risorse
finanziarie coerenti con la complessità della conoscenza. La rivoluzione industriale e
la nascita dell’impresa moderna, come sappiamo, sono state una risposta al bisogno
di maggiore complessità dell’attività economica. Ciò che dobbiamo chiederci è se
oggi, alla luce delle nuove caratteristiche di utilizzo della conoscenza, siano ancora
necessari le enormi quantità di capitale e le strutture organizzative di grandi
dimensioni tipiche del XX secolo.
Ciò che è certo è che le nostre teorie e le tecniche di gestione si riferiscono a
imprese che oggi non esistono più. Faticosamente stiamo cercando di mettere a
punto nuove idee, nuovi approcci, nuove teorie. Tuttavia, sfortunatamente, questo
compito è oggi più nelle mani dei divulgatori, o comunque delle opere di
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divulgazione che degli scienziati, degli studiosi di impresa, i quali sono costretti a
occuparsi di particolari spesso irrilevanti. La produzione scientifica a livello
internazionale oggi emargina i tentativi di disegnare il quadro di insieme.
Le strutture delle imprese, i metodi di governo, la contabilità sono fondati tutti su
modelli obsoleti, che non hanno al centro la misura, le modalità di gestione, i modi
di accumulazione della conoscenza. Come si classifica? Come si misura? Come si
cambia? Come si accresce? Sono domande a cui non esiste risposta operativa, ma
solo vaghi modelli astratti di scarsa utilità manageriale.
4. Conoscenza e sviluppo: la rivalità dei beni
La principale modalità di trasformazione e di sviluppo economico è stata per
millenni originata dal lavoro umano, fino al momento in cui un’altra forma lo ha
sostituito utilizzando l’energia sviluppata attraverso diverse fonti, da quella animale,
idrica, eolica, da combustione, fino a quella nucleare e alle più recenti da fonti
cosiddette “rinnovabili”. Ma ora un’altra modalità di trasformazione sta sostituendo
quella originata dall’energia: si tratta dell’informazione, la quale sta divenendo il più
importante fattore propulsivo dell’attività produttiva non solo del mondo economico,
ma di tutta la società nel suo complesso.
Il motivo per cui la conoscenza si sta manifestando come la più importante delle
risorse produttive non è tanto da ricercare, come si è detto poc’anzi, nel fatto che
l’informazione sia oggi più importante di ieri, ma nella circostanza che essa sia
disponibile e immagazzinabile in grandi quantità a costi bassi manipolabile,
riproducibile con facilità e trasferibile a costi contenuti, facile da estrarre nella
quantità e qualità voluta, facile da elaborare e da finalizzare allo scopo voluto
(Vicari, 1989).
Anche nelle nuove teorie sulla crescita economica viene dato un crescente spazio
al tema della conoscenza, la quale viene tuttavia trattata in modo molto diverso
rispetto al passato: il progresso tecnologico non è più visto come forza motrice di
tipo esogeno che traina l’economia; esso diviene invece quel tipo di energia capace
di conferire valore (Romer, 1990). Ci si serve della conoscenza per dare a beni e
servizi una caratteristica, una forma astratta, che abbia un valore maggiore di quella
iniziale.
La conoscenza ha in termini economici un’ulteriore caratteristica che la rende
unica: è un elemento di propulsione che continua a essere applicato allo sviluppo
economico. In modo diverso da tutti gli altri beni, infatti, la conoscenza ha la
caratteristica di essere intrinsecamente propulsiva: più cose si sanno e più è possibile
impararne.
Ciò significa che la base dello sviluppo è data dalla conoscenza e più conoscenza
si possiede più è possibile crescere. Mentre le teorie economiche prevedevano una
diminuzione del tasso di crescita, in realtà dalla fine del ’700 la crescita economica è
aumentata e non diminuita, proprio a causa del ruolo che la conoscenza ha esercitato
come propulsore di crescita.
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Questi fatti hanno reso evidente come il sapere sia risorsa centrale nel processo
produttivo, nel senso che esso sempre più svolge un ruolo fondamentale nella
produzione e nel consumo, divenendo la risorsa critica ai fini della trasformazione
economica. In sostanza il valore aggiunto che l’informazione dà ai processi e ai
prodotti supera di gran lunga quello apportato dalle trasformazioni chimiche, fisiche
o di altra natura possibili con i tradizionali processi di trasformazione.
Se per scienza si intende la conoscenza teorica delle leggi che governano la
natura e la società, per tecnologia il complesso di mezzi materiali e di conoscenze
atte a trasformare entrambe, per produzione il processo di creazione di nuove
caratteristiche tecniche e fisiche, il processo di attivazione del potenziale insito
nell’attuale fase scientifica e tecnologica risiede prima di tutto nell’unificazione
della scienza con la tecnologia, con la produzione e con il management.
Ciò implica che il confronto competitivo tra i soggetti economici non dipende
più solo dalla proprietà dei fattori produttivi e di risorse materiali di cui essi
dispongono, ma anche e soprattutto dal sapere. Il valore aggiunto e il vantaggio
competitivo risiedono oggi nella capacità di originare nuova conoscenza, di
scambiarla al fine di accrescerne il valore, di appropriarsi del sapere originato da
altri.
E il sapere, rispetto alle altre risorse che storicamente hanno accompagnato lo
sviluppo dell’umanità e dei suoi sistemi di produzione, possiede alcune
caratteristiche assolutamente specifiche. L’informazione è input dei processi
economici ed essa è anche il risultato dei processi di trasformazione. Il sapere,
infatti, in quanto risorsa produttiva, non è “deperibile”, intendendo con questo
termine la caratteristica di usurabilità e di riduzione al momento dell’utilizzo. Anzi,
ogniqualvolta esso viene utilizzato, “trasformato” in nuova conoscenza, diviene più
ricco, si incrementa di nuovi elementi. In passato ho sostenuto che il concetto di
valore coincide con quello di potenziale generativo: il motivo sta in questa capacità
della conoscenza di generare nuova conoscenza.
Una questione di assoluta importanza per capire l’unicità della conoscenza sotto
il profilo economico può essere fatto risalire alla distinzione tra beni rivali e non
rivali: i primi sono rivali dal punto di vista delle possibilità di utilizzo, mentre i
secondi possono essere utilizzati più volte o da più persone in modo non rivale.
Ciò significa che a differenza di ogni altra risorsa materiale, l’informazione non
ha i vincoli della irriproducibilità. Essa dunque, una volta prodotta, può essere poi
duplicata in un numero altissimo di copie in molti casi perfettamente identiche
all’originale.
La conoscenza quando viene utilizzata può generare un flusso di reddito che può
alimentarsi anche grazie alla caratteristica della riproducibilità. Quest’ultima tuttavia
ne contiene un’altra, quella di fragilità, in quanto le rendite derivanti dalla
conoscenza sono facilmente appropriabili da terzi. Le imprese investono in
conoscenza sapendo che per un periodo più o meno limitato di tempo possono
contare su un sovrareddito. Quanto più la conoscenza può essere riprodotta da terzi,
tanto meno si può contare su una rendita monopolistica: questo è il motivo per cui è
diventata così importante la questione della proprietà intellettuale.
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Tuttavia vi è un’altra faccia della medaglia che è emersa in tempi relativamente
recenti: mettere in comune la conoscenza non necessariamente implica rinunciare
alla rendita derivante dal suo possesso. Se infatti si condivide la conoscenza con
terzi ma si mantiene una capacità di utilizzo differenziale rispetto agli altri, ci si può
appropriare non solo dei vantaggi dei redditi derivanti dalla conoscenza, ma lo si
può fare in misura amplificata rispetto alla gestione proprietaria della stessa.
Un’altra caratteristica fondamentale del sapere quale risorsa produttiva è infatti
quella della forza sinergica connessa al suo scambio. Quanto più alcuni soggetti
mettono in comune le proprie conoscenze scambiandosi in sostanza il sapere, tanto
più essi generano nuova conoscenza. Scambiare le informazioni, lungi
dall’impoverire il sapere, ne accresce sia la quantità che la qualità. La conoscenza
che è generata dallo scambio diviene di gran lunga più produttiva di quella
originaria.
La conoscenza ha pertanto proprietà diverse da quelle di tutte le altre risorse
materiali: può essere condivisa senza che per chi la offre vi sia una perdita. In
secondo luogo, se messa in comune, genera per solo questo fatto ulteriore sapere.
5. La natura dell’impresa
Il tema della conoscenza, pur non essendo stato un argomento centrale nella
teoria sull’impresa, è sempre stato trattato in modo indiretto nella questione
riguardante la natura dell’impresa. Solo nelle teorie più recenti l’impresa viene vista
come struttura di gestione e di valorizzazione della conoscenza. La mia opinione al
riguardo è invece ancora più radicale: l’impresa non è altro che un sistema
cognitivo. Conviene ripercorrere velocemente le teorie sull’impresa per arrivare a
questo tema centrale: l’impresa come sistema cognitivo.
Possiamo partire dalla questione più importante, vale a dire il ruolo della
conoscenza nella natura dell’impresa, questione che è stata affrontata in modo
radicalmente diverso in linea con l’evoluzione delle teorie sull’impresa.
La teoria neoclassica vede l’impresa come modalità tecnica per trasformare i
prodotti. Si riconosce quindi un ruolo alla conoscenza vista come tecnologia a
disposizione dell’impresa, ma non si è in grado di dire nulla sul perché questa
conoscenza esista e sui processi di sua acquisizione e sviluppo. Tutte le imprese
dispongono della medesima funzione di produzione, possedendo le medesime
conoscenze tecnologiche.
Coase (1937), con la teoria dei costi di transazione, evidenzia il ruolo
dell’organizzazione come modalità di governo più efficiente rispetto alle transazioni
di mercato. La maggiore efficienza deriva dalla capacità di governare i processi
attraverso la gerarchia, la quale non può che derivare da quella che oggi
chiameremmo la conoscenza manageriale. Il tema del governo, approfondito e
sviluppato da Williamson (1996), tuttavia non ha portato a un riconoscimento
esplicito del ruolo della conoscenza, mentre peso maggiore è stato assegnato ai
meccanismi prodotti dalla gerarchia.
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Il ruolo giocato da una nuova classe, quella manageriale, che si caratterizza
rispetto alla proprietà esclusivamente per il tipo di competenze di cui è portatrice,
riconosciuto inizialmente da Chandler (1962), viene esplicitamente trattato da
Jensen e Meckling (1976), i quali vedono l’impresa come un insieme di contratti, il
cui compito è quello di organizzare l’attività attraverso una serie di vincoli che
disciplinano le relazioni tra i soggetti.
Il problema dell’agenzia nasce in quanto la direzione dell’impresa è portatrice,
oltre che di interessi specifici, di un insieme di conoscenze e di informazioni diverse
rispetto alla proprietà. Ed è proprio la qualità e l’importanza di questa conoscenza
che determina un potere che va in qualche modo controllato e limitato attraverso il
sostenimento dei costi di agenzia.
Nello stesso periodo in cui Chandler descriveva la nuova impresa manageriale,
Penrose (1973) avanzava l’idea che l’impresa potesse essere vista come collection of
resources e qualche anno dopo, nello sviluppare ipotesi teoriche sull’espansione
dell’impresa, Rubin (1973) definì le risorse come input fissi che consentono
l’effettuazione di una certa attività, ove per input fissi si intende una combinazione
di capitale umano e di immobilizzazioni tecniche.
E’ tuttavia con il lavoro di Nelson e Winter (1982) che viene chiaramente
espresso il concetto di routine, vale a dire di comportamenti regolari, che
scaturiscono dalle abilità aziendali e sui quali l’impresa basa le proprie scelte. Esse
giocano nell’impresa lo stesso ruolo che i geni rivestono negli organismi biologici:
sono una caratteristica intrinseca dell’organizzazione e ne determinano il possibile
sviluppo. Si tratta ovviamente di conoscenza che viene riprodotta attraverso processi
che divengono risposte automatiche a determinati stimoli. Le routine altro non sono
che conoscenza che viene proceduralizzata.
L’articolo di Wernerfelt del 1984 chiarisce che il vantaggio competitivo
dell’impresa dipende da diversi tipi di risorse e capacità dell’impresa, tra cui la
conoscenza gioca un ruolo di primo piano. Per la prima volta si riconosce che la
capacità di reddito e di sviluppo dell’impresa non risiede nelle scelte che di volta in
volta essa compie, ma nelle risorse di cui dispone, che in gran parte vanno fatte
risalire alla dotazione iniziale, che si rivelerà appropriata nel tempo in funzione di
una grande lungimiranza o della fortuna (Barney, 1991). In seguito si comprende
che non tutte le risorse possono essere fonte di un reale vantaggio competitivo, ma
solo quelle che non sono negoziabili nel mercato, vale a dire quelle dotate di elevata
specificità e che sono il frutto della continua accumulazione all’interno dell’impresa
(Dierickx e Cool, 1989). Ci si rende conto che tali risorse debbono essere in qualche
modo di natura molto particolare, legate a quello che l’impresa sa e sa fare.
Entra quindi prepotentemente il tema della conoscenza come elemento
costituente le risorse fondamentali dell’impresa. Uno sviluppo significativo viene
dal riconoscimento che ciò che è davvero importante in contesti di cambiamento non
è soltanto la quantità e qualità di risorse esistenti, ma anche la capacità evolutiva del
patrimonio di assetti iniziali, che è fornita dalle cosiddette dynamic capabilities
(Teece, Pisano, Shuen, 1990 e 1997; Iansiti, Clark, 1994, Verona, 1999). Il filone
della Resources Based View diviene così il primo che riconosce esplicitamente
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all’insieme delle risorse, in cui la conoscenza gioca un ruolo di primo piano, la fonte
dell’esistenza e del successo dell’impresa.
Ma è soltanto con quella che viene definita The Knowledge-Based Theory of the
Firm che viene riconosciuta in modo finalmente pieno l’importanza della
conoscenza. Tuttavia ciò che viene definito “teoria” in realtà è un insieme di visioni
molto differenti tra loro, provenienti da concezioni epistemologiche estremamente
articolate, in cui l’unico elemento realmente unificante è il riconoscimento del ruolo
che la conoscenza gioca come elemento costitutivo dell’impresa.
Una prima distinzione tra i vari contributi che compongono la Knowledge Theory
è data dalla diversa interpretazione filosofica del concetto di conoscenza (Nonaka e
Peltokorp I., 2006): da un lato quella positivista secondo cui essa non ha un carattere
universale, dotata di univocità e indipendenza dai soggetti e dalle istituzioni,
soggetta ad accumulazione basata su una capacità di ricerca e comprensione delle
leggi della natura; dall’altro una visione della natura soggettiva della conoscenza,
frutto non solo di apprendimento individuale, ma anche di fenomeni di interazione
sociale. La distinzione in qualche modo è stata oggetto di un tentativo di sintesi
attraverso la concettualizzazione dell’esistenza di due tipi di conoscenza, basata sul
lavoro di Michael Polany I. (1967): da un lato quella esplicita, dotata delle
caratteristiche dell’articolazione, codificabilità, comunicabilità; dall’altro quella
tacita, intimamente connessa all’individuo, intuitiva, non articolabile, difficilmente
trasmissibile.
Un secondo aspetto che differenzia i diversi filoni è costituito dal rilievo dato al
soggetto che conosce. Da un lato vi è una visione dell’impresa come struttura che
consente agli individui di avere uno “spazio sociale” entro il quale svolgere la
propria attività e dove avere identità condivisa (Kogut e Zander, 1992, 1996).
Dall’altro lato l’organizzazione è vista come luogo in cui ogni individuo, avendo
una conoscenza limitata, organizza lo scambio di conoscenza con altri individui per
accrescere la propria (Conner e Prahalad, 1996).
La questione da porsi è se la conoscenza di un’impresa sia la somma di quelle
individuali oppure se esista una conoscenza dell’organizzazione diversa da quella
degli individui che la compongono. In realtà la posizione prevalente nella KBV è che
le imprese sono viste come modalità per la creazione e l’utilizzo della conoscenza
(Barney, 1991; Grant, 1996). Le organizzazioni cioè, così come nella Resources
Based View, sono viste come modalità attraverso cui gli individui possono
scambiare la propria conoscenza e in questo modo accrescere il vantaggio
competitivo dell’impresa, il cui compito è coordinare i processi di accumulo e
scambio (Teece et al. 1997). L’organizzazione dunque, basandosi sul proprio
capitale sociale, vale a dire sul proprio network di relazioni, può facilitare lo
sviluppo del capitale intellettuale attraverso le condizioni che crea in termini di
linguaggi, codici, meccanismi di comunicazione (Nahapiet e Ghoshal, 1998; von
Krogh, 1998).
In realtà un’organizzazione non è solo uno strumento degli individui per
scambiarsi la conoscenza e non è neanche soltanto un contesto in cui quest’ultima
può essere messa in comune tra differenti soggetti. L’impresa, come tutte le
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organizzazioni sociali, è in realtà un sistema cognitivo, vale a dire un soggetto che
ha una propria conoscenza diversa da quella degli individui che la compongono. La
conoscenza di un’organizzazione è sì il risultato dell’azione degli individui, ma non
è mai soltanto la somma delle conoscenze individuali.
È vero che lo sviluppo della conoscenza di un’organizzazione è il frutto
dell’interazione tra gli individui e dunque è condizionata dall’esistenza di un
capitale relazionale. Ma è altrettanto vero che la conoscenza di un’organizzazione è
anche il frutto della capacità di assorbire conoscenza dall’esterno (absorptive
capacity)1, della combinazione tra le competenze degli individui che sono all’interno
e quelle che sono all’esterno, della capacità di utilizzare concretamente queste
conoscenze, delle procedure che si sono accumulate nel tempo e delle routine
organizzative che prescindono dalle singole conoscenze, del tipo di attrezzature di
cui l’impresa dispone, della conoscenza che è in essa incorporata.
La conoscenza dei singoli individui è ovviamente un elemento costitutivo
fondamentale di quella dell’organizzazione. Tuttavia la conoscenza di un soggetto
ha senso nel contesto dell’impresa, assume cioè un significato e ha un ruolo in
quanto opera insieme a quella di altri individui e all’interno di una specifica
organizzazione. Quella stessa persona possiede altre conoscenze oltre a quelle che
porta all’interno dell’organizzazione, ad esempio ha hobby, attività nel tempo libero,
interessi individuali. Ciò che, tuttavia, rende la conoscenza un elemento così
rilevante sotto il profilo economico è la sua collocazione in una organizzazione, in
un sistema sociale, che in quanto momento della creazione di valore economico non
è più solo un concetto ascrivibile al solo individuo, ma un fatto collettivo, che ha
cioè rilevanza in quanto operante nel contesto della conoscenza collettiva
dell’impresa.
6. Conoscenza e informazione
Nonostante la KBV abbia avuto una notevole condivisione e diffusione nel
mondo accademico, tuttavia non esiste una definizione unanimemente accettata del
concetto di conoscenza, talvolta definita in modo sbrigativo know-how. Ad esempio
Von Hippel (1988) avanza la definizione secondo cui il know-how è costituito di
quelle abilità che permettono a un individuo di fare qualche cosa in modo semplice
ed efficiente. Questa definizione tuttavia sembra molto superficiale e del tutto
insoddisfacente.
Una modalità molto diffusa è quella di non fornire una vera definizione, ma di
riferirsi alle caratteristiche che qualificano i diversi tipi di conoscenza, ne è esempio
la definizione utilizzata da Kogut e Zander (1992, 1996), secondo cui una
distinzione significativa è quella tra conoscenza non applicata (knowledge-that) e
applicata (knowledge-how). Un altro esempio è dato da quella molto diffusa, e già
citata di Polany (1967), divulgata da Nonaka (1994), che distingue tra conoscenza
1
Di cui parlano Cohen e Levinthal (1990).
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tacita e conoscenza esplicita. La prima è stata collegata al know-how (Conner e
Prahalad, 1996; Kogut e Zander, 1992), mentre la seconda alla conoscenza
dichiarativa (Hansen, 1999).
Un’altra modalità diffusa per definire il concetto di conoscenza è quella di
distinguerla dal concetto di informazione e di dato. Tuttavia spesso anche questa
modalità è viziata da una non chiarezza circa il significato di questi ulteriori termini.
E’ bene pertanto chiarire il significato dei vari concetti poiché, come già detto, non
ne esiste una definizione unanimemente accettata.
Il dato (dal latino “data”, cioè cose che sono date) in realtà è costituito da fatti,
proposizioni e simboli che un certo soggetto raccoglie e utilizza per dare un senso
all’ambiente in cui opera. Si tratta dunque di una rappresentazione dei fatti. Quindi
non è vero che i dati sono riproduzioni del reale: essi sono invece rappresentazioni
mai oggettive, giacché sono formate comunque da un osservatore. I dati sono infatti
circostanze che un soggetto seleziona, elementi che cerca, situazioni che percepisce.
La selezione dei dati ha luogo con un processo dapprima di ricerca e poi di
percezione, che dipende non dall’ambiente ma dall’impresa: viene percepito solo ciò
che interessa, che è in grado di essere utile (Bateson, 1984). Possiamo tuttavia
ammettere che il livello di soggettività dei dati è limitato, potendo esistere su di essi
un consenso, se non unanime, comunque ampiamente diffuso.
Una volta raccolti i dati (meglio dire una volta cercati questi dati), l’impresa
attribuisce loro un significato organizzandoli in relazione agli obiettivi: si può dire
che i dati vengono allora trasformati in informazioni. Le informazioni, come dice il
termine, sono dati cui è “conferita forma”, cui cioè è assegnato un significato
preciso, uno scopo nell’ambito dell’impresa. Una serie di numeri sulle vendite della
settimana sono dati, ma se questi numeri sono organizzati in vista ad esempio del
lancio di un prodotto diventano un’informazione. L’organizzazione dei dati in
informazioni implica appunto il fatto di mettere in relazione tra loro i dati in modo
che essi assumano un senso in vista di uno scopo.
Nessuna informazione è pertanto una riproduzione asettica e oggettiva del reale,
in quanto comunque essa comporta un processo di “assimilazione” a strutture
cognitive precedenti, ove per assimilazione si intende appunto il conferire un
significato a ciò che è stato percepito (Piaget, 1983). Questa attività cognitiva
consiste nel produrre differenze. L’informazione consiste infatti in una “differenza”
che produce una differenza.
Combinando due informazioni diverse o provenienti da dati diversi si ottiene un
aggregato che è maggiore della somma delle parti. Non si tratta di una semplice
addizione, ma piuttosto di una moltiplicazione, di un prodotto logico (Bateson,
1984). La conoscenza è un tipo logico diverso rispetto all’informazione. La
questione è rappresentabile con un esempio: il direttore vendite riceve dei dati
sull’andamento delle vendite, che rappresentano l’evoluzione di un certo prodotto.
Sa che le cose vanno bene o male. Fino a quando non passa al tipo logico superiore
ha informazione solo dei fatti particolari, non comprensione della dinamica generale.
Se si osservano dei fenomeni si producono informazioni su di essi. Tuttavia, quando
si costruiscono le relazioni tra i fenomeni osservati sulla base della conoscenza
54
CONOSCENZA E IMPRESA
generale posseduta, allora si ha un nuovo ordine di informazione, si ha quella che è
qui definita conoscenza.
Il legame che esiste tra conoscenza e informazione è dato dal fatto che attraverso
la conoscenza posseduta è possibile organizzare (cioè creare) i fatti nuovi percepiti (i
dati), ma la qualità e la quantità della conoscenza dipende a sua volta dall’attività di
creazione dell’informazione precedentemente realizzata. La conoscenza consiste
nell’integrazione delle informazioni prodotte in passato e quelle oggetto di
creazione, in modo da dar luogo a una nuova conoscenza.
7. Il ruolo della conoscenza nell’impresa
Dopo avere chiarito il significato dei vari termini è opportuno riprendere la
questione del ruolo della conoscenza nell’impresa. Orbene, si è detto che le diverse
teorie riconoscono che la conoscenza gioca un ruolo fondamentale nei processi di
funzionamento dell’impresa. Ora è possibile fare un ulteriore passo, riconoscendo
che l’impresa altro non è che un sistema cognitivo, capace di dare un valore
economico alla conoscenza di cui dispone, capace cioè di trasformare in valore
economico la conoscenza tramite la propria azione.
Un’impresa dunque non funziona “anche” sulla base della conoscenza, la
conoscenza non è un elemento che aggiunge valore, non è uno dei componenti, è
invece la caratteristica essenziale, l’elemento fondante dell’esistenza dell’impresa e
del processo di creazione del valore. Quindi se si vuole davvero capire l’impresa
bisogna coglierla nella sua essenza, in quanto sistema cognitivo (Vicari 1991).
L’impresa è un sistema cognitivo di tipo particolare, essendo il suo
funzionamento basato su un meccanismo a sua volta particolare, cioè sulla continua
generazione di valore, attraverso cui l’impresa è in grado di alimentare i meccanismi
della propria riproduzione. Essa è pertanto un sistema che utilizza le proprie risorse
per produrre ulteriori risorse attraverso la creazione di valore economico.
Si tratta di un sistema in grado di funzionare sulla base della sua conoscenza e in
grado di alimentare continuamente la conoscenza di cui è dotato. Questa conoscenza
è basata su quella delle componenti che ne fanno parte (quelli che vengono
comunemente definiti stakeholder) e, in quanto sistema sociale, sui meccanismi di
comunicazione tra le componenti stesse.
I meccanismi cognitivi che presiedono al funzionamento dell’impresa assumono
concretamente la forma di risorse, basate sulla conoscenza e sulla comunicazione,
che si compone di fiducia.
La conoscenza di cui è costituita l’impresa si qualifica dunque in termini di
risorse di competenza e risorse di fiducia. Le capacità dell’impresa basate sul
“sapere” sono risorse di competenza, quelle invece basate su modelli cognitivi di
altri soggetti sono risorse di fiducia (Vicari, 1992). Tra le due categorie di risorse
esistono strette interrelazioni: alla crescita di conoscenza è necessaria l’esistenza
della fiducia, e la conoscenza a sua volta alimenta la fiducia. Le risorse si
alimentano vicendevolmente.
SALVATORE VICARI
55
7.1 Risorse di conoscenza e capacità di trasformazione
La nozione di conoscenza e l’atto stesso di conoscere non consistono nel
riprodurre o rappresentare la realtà aggiungendo nuove informazioni a quelle
esistenti, ma significano agire sulla realtà, trasformarla. Ed è proprio il fatto che il
concetto di conoscenza sia legato a quello di azione che rende la conoscenza così
importante per l’impresa: essa è ciò che attiva nell’organizzazione i processi di
creazione di valore.
Attraverso le proprie risorse di conoscenza l’impresa interpreta i segnali
provenienti dall’ambiente esterno, li organizza in un insieme di informazioni, decide
quali siano le migliori strutture organizzative, predispone le necessarie condizioni
operative e attraverso le proprie decisioni crea una serie di opzioni di crescita per il
futuro. In questi termini la conoscenza può essere vista come insieme delle
condizioni necessarie perché l’impresa disponga di un set di opzioni riguardanti il
futuro (Kogut e Zander, 1992, 1996).
Per un’impresa la conoscenza è infatti l’insieme delle istruzioni utilizzate per
definire cosa produrre, come produrre, a chi vendere, come vendere, e così via. Chi
ha le migliori istruzioni produce migliori prodotti e produce a un costo inferiore o
con una qualità superiore. Molto semplicemente, molto banalmente, la conoscenza si
traduce in estrema sintesi nelle “istruzioni” su cosa fare e come fare, e sul perché di
queste istruzioni.
Il processo di creazione di valore che rappresenta il senso dell’esistenza
dell’impresa, in quanto senza di esso le imprese non avrebbero senso e non
esisterebbero, non è null’altro che un processo di creazione di conoscenza. In effetti
le imprese possono agire, individuare le migliori fonti di materie, trasformarle in
prodotti finiti, venderli e trasferirli ai clienti solo in quanto possiedono un’adeguata
conoscenza su come trasformare i prodotti, come trovare nuove soluzioni tecniche,
come interpretare i segnali provenienti dal mercato e dall’ambiente, come gestire il
fenomeno delle relazioni interne ed esterne, come trovare nuove vie di sviluppo.
Le imprese dotate di “migliore” conoscenza sono quelle in grado di affrontare in
modo più adeguato la propria esistenza, sono cioè quelle in grado di svolgere
correttamente le proprie attività, creando continuo valore economico.
E ciò che caratterizza ciascuna impresa rispetto a tutte le altre non è altro che
questo insieme di conoscenze e della capacità di apprendere continuamente. Il
“materiale” di cui l’impresa è costituita, la materia che viene utilizzata per realizzare
i processi dell’impresa stessa è definibile in termini di risorse che essa
concretamente utilizza nei suoi processi di funzionamento secondo la prospettiva
resource-based.
Le risorse fondamentali dell’impresa sono costituite dalla conoscenza, vale a dire
dagli schemi cognitivi già formatisi, sufficientemente stabili, che consentono
all’intero sistema di funzionare. Gli elementi cognitivi che presiedono al
funzionamento dell’impresa, dunque, sono definibili in termini di risorse basate sulla
conoscenza.
56
CONOSCENZA E IMPRESA
7.2 Risorse di fiducia e relazioni
La conoscenza sistemica non si compone solo di capacità di trasformazione della
realtà, ma anche di un particolare tipo di risorsa, che è l’effetto dei processi
comunicativi e che possiamo chiamare “fiducia”. Essa consiste di modelli cognitivi
che, pur essendo propri di soggetti esterni all’impresa, dal punto di vista di
quest’ultima altro non sono che proprie risorse.
La fiducia può essere interpretata come uno schema cognitivo di previsione del
comportamento di altri soggetti. Questa previsione nasce dalla tendenza a cercare
conferme a quanto già sperimentato, in termini di comportamenti altrui. La fiducia si
alimenta di informazioni, di conferme o di smentite allo schema cognitivo che un
certo individuo ha costruito. Ogniqualvolta che questo schema viene confermato, si
crea ulteriore fiducia, mentre ogni volta che l’attesa di un certo comportamento non
viene soddisfatta, si distrugge la fiducia.
Una volta che un soggetto ha maturato un certo grado di fiducia, tende a
confermare il suo schema cognitivo, e quindi ad avere una inerzia comportamentale.
Questo significa che non è semplice modificare i comportamenti dei soggetti che
hanno fiducia, in quanto essi tendono a rifiutare le informazioni non coerenti con le
attese e con la fiducia maturata. Tuttavia, quando il numero o la qualità di
informazioni contraddittorie con le attese è tale da costringere a cambiare lo schema
cognitivo precedentemente adottato, il cambiamento è radicale, e allora la fiducia è
distrutta ed è difficilissimo recuperarla.
La fiducia è necessaria per ridurre l’incertezza, il rischio e l’ambiguità (Castaldo,
2007), in modo alternativo alla produzione di informazioni. Ad esempio un
consumatore non ha modo di valutare a priori con certezza se ciò che acquisterà sarà
realmente rispondente a quanto atteso: per ridurre l’incertezza può ricercare un
numero elevatissimo di dati tecnici sul prodotto, oppure può sostituire la produzione
di informazioni con un adeguato livello di fiducia nel prodotto o nel produttore, che
è ciò che chiamiamo “fedeltà alla marca”.
I soggetti economici sono posti di fronte a innumerevoli occasioni di scelta; uno
dei modi di diminuire lo sforzo necessario alle scelte è quello di ridurre il numero di
dati necessari e di ricorrere a strategie sperimentate in passato (inerzia cognitiva). La
fiducia altro non è che uno schema cognitivo, un modello di strutturazione di
informazioni, che richiede un minore numero di dati per consentire una
interpretazione e dunque un comportamento adeguato ad un certo obiettivo. In ogni
negoziazione, in ogni scambio, in ogni rapporto vi è un elemento di fiducia, in
mancanza della quale sarebbe necessario possedere tutte le informazioni relative allo
scambio (Arrow, 1984). Sotto questo profilo la fiducia è una forma di conoscenza,
che consente un minor numero di dati necessari per effettuare una qualunque scelta.
In questa circostanza risiede il valore economico delle risorse di fiducia.
Perché si generi fiducia è necessario che esista un certo livello di comunicazione,
di linguaggio comune, in definitiva che esista una relazione stabile. La relazione è
infatti una specie di canale attraverso cui vengono effettuati gli scambi tra soggetti
(Bertoli, Busacca e Vicari 2000).
SALVATORE VICARI
57
La relazione è un’interazione stabile tra diverse entità. Essa, non essendo
composta di materiale fisico, ma di eventi effimeri, per mantenere continuità deve
continuamente essere riprodotta a partire dalla fiducia preesistente e avendo come
risultato nuova fiducia. Le relazioni sono dunque processi ricorsivi di creazione di
fiducia a partire dalla fiducia generata nel precedente processo di interazione.
Possiamo dividere le risorse di fiducia di cui un’impresa dispone in due grandi
categorie. La prima riguarda la fiducia che è insita nelle relazioni interne, ad
esempio tra proprietà e management, tra livelli gerarchici, tra funzioni, tra organi e
reparti, tra colleghi, ecc. Una seconda categoria risiede nelle relazioni esterne
dell’impresa, quali quelle con la comunità finanziaria e quella sociale, con i partner
strategici, con i canali di distribuzione, con la clientela, e così via.
Se la conoscenza nelle due dimensioni di risorse ora viste riveste dunque un
ruolo critico, addirittura fondante l’impresa, una questione importante è
comprendere in quali elementi essa risieda, dove sia cioè “immagazzinata”, e come
possa essere accresciuta. Esamineremo il tema affrontando la questione della
conoscenza come stock e come flusso.
8. La conoscenza come stock
La conoscenza è dunque un sistema organizzato di informazioni messe in
relazione tra loro. È stato detto, ed è convinzione diffusa, che l’informazione sia
transitoria, passeggera, effimera, mentre la conoscenza sarebbe permanente,
duratura, uno stock (Machlup, 1983).
La metafora della conoscenza come stock di informazioni ha sempre esercitato
un certo fascino, tuttavia questa metafora è fuorviante: la conoscenza non è solo
informazione immagazzinata, è soprattutto informazione organizzata in un sistema
coerente, determinato dall’impresa stessa, e in un processo di auto-organizzazione: è
questa organizzazione che consente di trattare ogni nuova informazione facendola
entrare nel sistema. Ciò significa che le nuove informazioni non vengono aggiunte a
quelle precedenti, come la nuova merce viene aggiunta a quella esistente in un
magazzino, ma ogni nuova informazione modifica necessariamente l’organizzazione
del “magazzino”.
Si è detto che la conoscenza può essere vista come l’elemento alla base della
creazione di valore. Abbiamo già chiarito che è un errore immaginare la conoscenza
come il “magazzino” delle informazioni. Tuttavia il fatto che non esista un tale
“deposito” non significa che la conoscenza non risieda in alcuni elementi all’interno
dell’impresa. La questione da affrontare è pertanto dove questa conoscenza risieda,
in quali elementi o attività essa possa essere trovata.
Possiamo subito dire che essa risiede fondamentalmente in cinque tipi di
“contenitori”: il capitale fisico, le strutture organizzative, le routine, gli individui e,
per quanto concerne la fiducia, nel tipo di relazioni di cui essa dispone.
CONOSCENZA E IMPRESA
58
Tab. 1: I “contenitori” della conoscenza
Capitale
Fisico
Macchine
Sistemi
Informativi
Strutture
Organizzative
Architettura
organizzativa
Organizzazione del
lavoro
Sistemi di
incentivo e
valutazione
Sistemi di controllo
e reporting
Software
Sistemi di qualità
Brevetti
Cultura, norme e
valori codificati
Attrezzature
Materiali
Routine
Individui
Relazioni
Metodi di
management
Modalità
decisionali
Pratiche
manageriali
Abilità
individuali
Esperienze
personali
Conoscenze
manageriali
Orizzontali, all’interno
dell’organizzazione
Verticali, con i clienti, i
fornitori, i finanziatori
Laterali, con partner e
concorrenti
Procedure
operative
Conoscenze
specifiche
tecnologiche
Conoscenze
specifiche di
mercato
Conoscenze
personali
generali
Estese, con la comunità
locale, nazionale e
internazionale
Prassi operative
Fonte: ns. elaborazione
Ovviamente si tratta di classificazioni di carattere generale, potendosi
interpretare alcune modalità in una o in altra fattispecie. Il senso di una tale
ripartizione non sta nella classificazione ma nell’espressione di un concetto
fondamentale: laddove esista vantaggio competitivo, che esso risieda nelle
caratteristiche uniche delle macchine, nella qualità dei sistemi informativi, nella
cultura aziendale o nelle abilità dei tecnici o dei manager, in ultima analisi troviamo
una conoscenza distintiva.
Sul tema del trattamento della conoscenza intesa come stock sono rilevanti i
problemi di categorizzazione, immagazzinamento, capacità di recupero, rilevazione,
misurazione, modalità di utilizzo e soprattutto di modalità di sfruttamento, utilizzo
della conoscenza: quella che in letteratura viene definita processo di exploitation.
9. La conoscenza come flusso
9.1 L’incremento dello stock di conoscenza
Il tema più importante, tuttavia, non è quello delle modalità di
“immagazzinamento” della conoscenza, ma quello, ben più complesso, delle
modalità di accrescimento: il tema della conoscenza come flusso, come processo
continuo di accumulazione.
Concretamente,
l’incremento
di
conoscenza
nell’impresa
avviene
sostanzialmente attraverso sei modalità (Vicari, 1998):
SALVATORE VICARI
-
59
learning by doing
creazione/condivisione di nuova conoscenza
investimenti specifici di accrescimento
imitazione
condivisione con terzi
acquisizione dall’esterno
Ci sono dei momenti in cui il management utilizza, per affrontare gli eventi che
via via si pongono, le routine esistenti. Queste sono procedure basate su schemi
cognitivi consolidati, che cioè in passato hanno dato risposte convincenti. In queste
circostanze l’impresa non apprende, si limita a fornire una risposta a uno stimolo
ricevuto e conosciuto. Ci sono invece momenti ed eventi in cui il management si
rende conto che le sue routine disponibili sono inadeguate, in quanto i problemi sono
del tutto nuovi rispetto a quanto già sperimentato dall’impresa.
Questi eventi sono visti come perturbazioni che producono complessità,
disordine: l’impresa si trova di fronte a una situazione nuova e quindi
potenzialmente a una crisi che può essere assolutamente lieve o al contrario
fortemente minacciosa. In queste circostanze l’impresa non può applicare le routine
esistenti, ma deve apprendere, deve cioè creare un set di competenze e di risorse più
consone alla nuova realtà. Se l’impresa riesce, utilizzando questa situazione di
maggiore o minore difficoltà, a fare fronte alla nuova situazione, il risultato è la
produzione di nuova conoscenza che accresce il set di routine disponibili. La
crescita del patrimonio di conoscenza avviene, concretamente, utilizzando processi
di learning by doing.
Il problema della conoscenza va strettamente collegato con il problema dei
processi di creazione/condivisione della conoscenza nell’impresa. A questo riguardo
è utile la distinzione, ripresa da Nonaka (1994), tra conoscenza esplicita e,
conoscenza tacita, che non è trasmissibile facilmente e che è arduo codificare in
qualche forma. Una certa conoscenza è più facilmente trasmissibile quanto più sia
articolabile, vale a dire comunicabile a terzi in forma esplicita, mentre è tacita
quando non è possibile fornire un’utile spiegazione delle leggi o delle regole che la
originano. Pur con diverso grado di difficoltà, tuttavia, è sempre possibile
trasmettere la conoscenza a terzi anche quando essa è tacita. In questo contesto la
creazione di nuova conoscenza è un processo che parte dai singoli e dalle loro
conoscenze individuali in interazione tra loro. Questa interazione è esprimibile in
termini di “conversione” dell’una, la conoscenza implicita, nell’altra, la conoscenza
esplicita, e viceversa.
Un modo per accrescere la conoscenza dell’impresa è quello di mettere in atto
azioni specifiche per l’aumento tramite appunto un investimento orientato alla
produzione di nuova conoscenza, ad esempio attraverso l’attività di ricerca e
sviluppo di nuovi prodotti o gli investimenti in formazione. Si tratta di investimenti
volti a creare nuova conoscenza in tempi relativamente brevi, al fine di realizzare
strategie e attuare comportamenti basati sulla nuova conoscenza posseduta.
60
CONOSCENZA E IMPRESA
Le aziende che operano in mercati caratterizzati da una concorrenza molto
intensa e che non dispongono delle capacità e delle competenze delle imprese in
grado di effettuare significativi investimenti nella conoscenza, possono imitare i
comportamenti delle imprese leader o che comunque costituiscano un punto di
riferimento. Tuttavia, in un contesto dove la conoscenza gioca un ruolo chiave,
imitare i soli comportamenti può non essere sufficiente ed è importante cercare di
percorrere anche la strada della replicazione delle competenze-chiave.
L’imitazione più importante non è infatti nei confronti della concorrenza diretta,
ma avviene prendendo a riferimento le prassi e le routine in uso presso imprese
operanti in contesti diversi. Spesso, anzi, le maggiori innovazioni nei prodotti o nei
processi, con la conseguente creazione di nuove capacità, avvengono proprio
adottando comportamenti in uso in differenti mercati.
Si è detto in precedenza della caratteristica di “non rivalità” della conoscenza. La
conoscenza è trasferibile o condivisibile con altri all’esterno dell’organizzazione,
senza che ciò provochi una perdita da parte dell’impresa. Ciò implica che,
trattandosi di bene non rivale, vi è la possibilità di condivisione con terzi. La
conoscenza ha infatti la qualità di accrescersi tramite il processo di scambio in
quanto, nell’essere messa a contatto con altre conoscenze, genera apprendimento. I
processi di scambio avvengono quando le competenze necessarie non sono
acquisibili e non sono producibili in via autonoma all’interno dell’organizzazione, in
tempi e a costi adeguati. In queste circostanze i processi di scambio di informazione
tramite relazioni con altre imprese consentono di produrre la conoscenza necessaria.
L’acquisizione dall’esterno di capacità necessarie per produrre conoscenza è in
qualche caso molto più conveniente della creazione interna. In queste situazioni la
via è quella dell’acquisto delle capacità critiche per lo sviluppo della conoscenza.
Prima di procedere va sgombrato il campo da un’idea di acquisizione di conoscenza
che rischia di essere fuorviante (von Foerster, 1987). Infatti noi abbiamo una
nozione di acquisizione di nuova conoscenza che assomiglia a quella del volantino
di Norimberga del Sedicesimo secolo, il quale mostra uno studente seduto, con la
testa scoperchiata, nella quale è inserito un imbuto. Accanto a lui sta il professore,
che versa nell’imbuto un secchio pieno di conoscenza, ossia di lettere dell’alfabeto,
numeri ed equazioni. Questa idea della trasmissione di conoscenza, diffusa e
fuorviante, contraddice le moderne teorie sull’apprendimento. Essa in realtà è
un’attività, come ci insegna la moderna scienza cognitiva, che consiste nel creare le
condizioni per l’apprendimento, che è ben altra cosa. Il sapere cioè non si può
trasmettere, si può solo acquisire. Non si può dunque importare semplicemente
conoscenza dall’esterno: essa è sempre il prodotto di un processo di generazione
interna. Ciò che si acquisisce sono delle capacità di produzione di conoscenza, non
la conoscenza in quanto tale.
Ciò detto, l’acquisizione di capacità per produrre conoscenza avviene in più
modi, ma fondamentalmente attraverso un continuum di possibili soluzioni che
vanno dall’acquisto di servizi di consulenza, alla assunzione di personale, fino ad
arrivare all’acquisizione di un’intera impresa.
SALVATORE VICARI
61
9.2 Errore e apprendimento
L’impresa, come ogni sistema cognitivo, tende a produrre conferme alla
situazione esistente. Talvolta è necessario mettere in atto strategie di apprendimento,
di cui si è parlato poc’anzi, ma la tendenza naturale è quella al ritorno alla situazione
precedente, alla stabilità, all’equilibrio. Soprattutto nei momenti di successo, quando
la situazione è positiva, è molto difficile modificare la conoscenza esistente. Il
successo, infatti, è il più potente fattore di inibizione al cambiamento e quindi
all’apprendimento. Tuttavia è proprio nei momenti di successo che per i sistemi
cognitivi è importante porre le condizioni per lo sviluppo futuro e dunque attraverso
l’apprendimento creare una nuova conoscenza necessaria per il domani.
L’impresa dunque, come ogni altro sistema sociale, ha bisogno di continua
destabilizzazione capace di generare la messa in crisi degli schemi cognitivi esistenti
e dunque l’apprendimento (Atlan, 1986).
Le imprese capaci di apprendere sono quelle in grado di sfruttare le perturbazioni
dell’ambiente al fine di mettere in discussione le conoscenze consolidate. Le
perturbazioni, cui l’impresa è continuamente soggetta durante la propria vita, sono le
condizioni che consentono alle imprese di ampliare e modificare la propria
conoscenza. L’impresa capace di apprendere reagisce alle perturbazioni
organizzandosi, trovando nuove idee, nuove soluzioni, nuovi prodotti, nuovi
approcci al mercato, invece di essere messa in crisi dal cambiamento.
Lo strumento concreto che viene utilizzato per modificare gli schemi cognitivi è
l’“errore”. Con tale termine intendiamo la distanza tra due schemi cognitivi, la
divergenza tra eventi attesi ed eventi percepiti, il differenziale rispetto al sistema di
aspettative dell’impresa (Vicari e Troilo, 1998). Tale distanza spinge l’impresa a
reperire nuovi dati, a interpretarli e a creare nuovo senso, quindi nuovi schemi
cognitivi. Ciò significa che il processo di apprendimento significativo più stabile e
duraturo avviene attraverso la produzione di “errori”.
Alla base di quelli che abbiamo definito “errori” vi è sempre quella che possiamo
chiamare una “perturbazione”. Essa consiste in una grande difficoltà, una situazione
fortemente imprevista, una sfida considerata estremamente rischiosa, un pericolo
imminente. In queste situazioni spesso si sprigionano energie che consentono un
rapido ed efficace apprendimento e che consentono di fronteggiare efficacemente la
“perturbazione”.
Le crisi, le grandi difficoltà, le sfide drammatiche, possono dunque rappresentare
grandi opportunità di apprendimento e di sviluppo, se a partire da quelli che
abbiamo chiamato errori, generano l’energia positiva per il cambiamento. Quanto
più si riesce a generare la tensione per la sfida alla crisi, per la correzione di quello
che viene percepito come errore, tanto più è possibile, attraverso le strategie volte a
risolvere il problema, generare apprendimento.
Le difficoltà, le perturbazioni, gli errori, sono fattori distruttivi solo se l’impresa
non riesce a mettere in atto strategie di apprendimento in modo efficace. Ad
esempio, la crisi introdotta da una nuova tecnologia che irrompe nel settore, che
rende obsoleto un processo produttivo di cui l’impresa dispone, è una perturbazione
62
CONOSCENZA E IMPRESA
che può generare grandi difficoltà; se l’impresa sa dotarsi delle competenze per
adottare la nuova tecnologia, il risultato è apprendimento e crescita di competenze
dell’impresa che ora ha inglobato, oltre che la vecchia, anche la nuova tecnologia,
intraprendendo un processo fortemente innovativo. Se però essa non è in grado di
reagire alla crisi, di fronteggiare l’errore derivante dal non aver saputo adottare per
prima la nuova tecnologia, ecco che il rumore, il disordine, hanno funzionato da
elementi disgregatori e hanno provocato solo una rapida crisi dell’impresa.
Il modo attraverso cui l’errore viene affrontato e risolto è ciò che chiamiamo
apprendimento. Esso si avvale di un processo di ricerca della soluzione che, essendo
difficile da individuare, incerta e costosa, si avvale di un procedimento per tentativi.
Si tratta di quello che viene solitamente definito come “processo di exploration”.
Vi sono sostanzialmente due diverse modalità con cui vengono messe in atto da
tali comportamenti esplorativi: direzionale ed euristica (Nickerson e Zenger, 2004).
La ricerca di tipo direzionale è basata sulle conoscenze esistenti che vengono
modificate esclusivamente dai feedback che vengono ricevuti a mano a mano che si
procede con i diversi tentativi. Di volta in volta vengono modificati quegli elementi
della soluzione che sembrano meno appropriati in funzione delle risposte che
originano dai tentativi messi in atto (March e Simon, 1958; Cyert e March, 1963).
Naturalmente questo approccio può funzionare solo se i problemi sono scomponibili
in diversi elementi e ciascuno può essere modificato in modo indipendente dagli
altri. Si tratta solitamente di situazioni relativamente semplici, in cui il problema è
ben definito, come ad esempio una situazione di ricerca in un laboratorio.
La ricerca di tipo cognitivo è quella in cui le azioni sono disegnate sulla base di
un modello cognitivo, di una “teoria” a priori, capace di interpretare la situazione e
di determinare possibili esiti delle azioni messe in atto. In questo modo ogni
feedback produce un ripensamento della teoria, cioè del modello cognitivo alla base
del comportamento esplorativo. Tale approccio è più efficace laddove le situazioni
affrontate sono di forte complessità, caratterizzate cioè da una significativa
interdipendenza delle variabili e da un cambiamento sistematico delle stesse nel
tempo (Simon, 1991).
10. La capacità auto-generativa della conoscenza dell’impresa
L’impresa si distingue rispetto a ogni altro sistema sociale per la particolare
natura del meccanismo di riproduzione delle risorse di cui dispone. Tutti i sistemi
sociali, infatti, perseguono un medesimo scopo che è quello del mantenimento della
propria capacità di esistenza o, detto in altro modo, della propria capacità di creare le
condizioni della propria esistenza, vale a dire della propria “autocreazione”.
Tuttavia, se non esistono differenze nella finalità di fondo delle organizzazioni,
esistono invece profonde diversità nel modo in cui i diversi sistemi sociali realizzano
la propria autocreazione (Vicari, 1991). Ciò comporta che le modalità concrete
attraverso cui l’impresa riesce a esistere sono diverse da quelle di qualunque altra
organizzazione.
SALVATORE VICARI
63
Per la tradizione economica ciò che caratterizzerebbe un’impresa è il profitto o il
reddito. Tuttavia, se condividiamo l’impostazione che l’impresa, in quanto sistema
cognitivo, è caratterizzata dalla conoscenza di cui dispone, diventa difficile pensare
a una finalità che non sia connessa al tema della conoscenza stessa. Tuttavia è a tutti
evidente che l’aspetto economico gioca un ruolo fondamentale nell’impresa, a
differenza che nelle altre organizzazioni sociali.
In realtà il valore economico è la componente centrale dell’autocreazione
dell’impresa, è ciò che la distingue dalle altre istituzioni economiche e sociali. La
creazione di valore economico è il mezzo attraverso cui vengono generate nuove
possibilità di esistenza. Ricollegandoci a quanto detto a proposito dell’impresa come
sistema cognitivo, l’impresa produce continuamente conoscenza sotto forma di
risorse, attraverso la produzione di valore.
Per cui non bisogna considerare l’impresa come insieme di risorse, ma come
meccanismo di autoriproduzione delle risorse, spostando l’accento dallo stock alla
funzione di trasformazione dello stock in un nuovo stock: “In our view it (the firm)
is not only the bundle of resources that matters, but the mechanisms by which firms
accumulate and dissipate new skills and capabilities, and the forces that limit the rate
and direction of this process” (Teece, Pisano e Shuen, 1990).
Se si sposta la prospettiva dal tema delle risorse a quello del processo di
autocreazione, si vede come l’aspetto critico non è il livello di conoscenze esistenti,
ma di capacità di produrre nuova conoscenza, perché da quest’ultima dipende il
successo dell’impresa.
Ciò è funzione del modo in cui essa concretamente è capace di mettere in atto i
comportamenti tesi non solo a preservare il patrimonio di conoscenza esistente, ma
anche ad alimentarlo.
Questo modo può essere definito in termini di concezione concretamente
operativa, come capacità autocreativa che è unica e irripetibile in ciascuna impresa,
una teoria in essere di ogni singola impresa. Ognuna deve dunque scoprire la propria
teoria in essere, renderla esplicita, codificarla, trasmetterla e tentare di essere
coerente con essa. L’impresa funziona bene quando sa essere coerente con la propria
modalità di autocreazione, con la propria teoria in essere. Il principale ingrediente
del successo è dunque la conoscenza e la capacità di assecondare il meccanismo di
autoalimentazione della conoscenza.
L’impresa alimenta in questo modo i suoi processi di produzione di conoscenza,
che assume la forma di risorse. Si tratta pertanto di un processo di produzione di
risorse che ha come risultato le risorse stesse, che sono dunque contemporaneamente
la materia prima e il prodotto del funzionamento dell’impresa.
Queste sono caratterizzate dal fatto di possedere valore economico, che è una
sorta di catalizzatore in grado di trasformare l’energia contenuta nelle risorse in
nuove risorse. Sotto questo profilo si può dunque dire che anche il valore è prodotto
del valore stesso, nel senso che la sua generazione avviene a partire dal valore già
accumulato nell’impresa.
64
CONOSCENZA E IMPRESA
11. Conclusioni
Siamo entrati in un’era nuova caratterizzata da una possibilità di sviluppo data
dal riconoscimento pieno del ruolo che la conoscenza gioca nell’economia. Per la
prima volta forse nella storia dell’umanità, grazie alle possibilità legate allo sviluppo
tecnologico, una risorsa fondamentale per lo sviluppo dell’economia, la conoscenza,
è disponibile a basso costo e senza vincoli di scarsità.
La produzione dei beni ha il suo perno nella nozione di scarsità, che infatti ha
definito la teoria economica. La produzione della conoscenza ruota intorno alla
nozione di abbondanza, essendo essa disponibile senza limiti e riproducibile senza
costi. L’economia si trasforma: da scienza che tratta dell’allocazione ottimale di
risorse scarse diviene scienza della riproduzione e dell’utilizzo di risorse cognitive
crescenti.
La capacità di operare in questo contesto richiede che l’impresa sia capace di
trasformarsi, dando forma alla propria realtà nel contesto in cui opera, quello
dell’economia della conoscenza. Solo le imprese capaci non solo di prendere atto di
questa nuova situazione, ma di modellare l’offerta, organizzare le strutture, generare
le risorse sulla base della capacità autogenerativa della conoscenza, sono in grado di
prosperare in questo nuovo mondo. Sappiamo che alcune delle più grandi imprese
oggi esistenti sono nate da start up negli ultimi quaranta anni, proprio perché nate
all’interno e sulla base del nuovo paradigma dell’economia della conoscenza.
Probabilmente i colossi del 2020, imprese capaci di operare facendo leva sulle
infinite possibilità offerte dalle reti che connettono la conoscenza in tutto il mondo,
stanno nascendo e prosperando in questi giorni.
La questione più critica oggi è come accedere alla quantità di conoscenza
praticamente illimitata che sta fuori dall’impresa, facendola entrare all’interno di
circuiti di riproduzione della conoscenza all’interno delle reti di relazioni, interne ed
esterne, che costituiscono la moderna impresa. In futuro le imprese capaci del
maggiore sviluppo non saranno quelle dotate della migliore conoscenza, ma quelle
capaci di accedere alla conoscenza inserendola nei propri meccanismi riproduttivi
nel modo più efficace ed efficiente.
L’ingresso in questa economia che rinuncia alla scarsità naturalmente non
significa aumento costante della crescita economica, del tenore di vita o mito
dell’abbondanza. Sappiamo che lo sviluppo e la crescita economica non sono privi
di incoerenza anche nell’economia della conoscenza. L’aumento della popolazione,
le contraddizioni nello sviluppo dei paesi emergenti, la progressiva distruzione delle
risorse naturali, non necessariamente producono nel breve termine miglioramenti
significativi nel tenore di vita della popolazione mondiale, possono anzi produrre
sprechi, differenziali di crescita e sviluppo, tensioni, conflitti. Tuttavia ciò non toglie
che, alla lunga, la conoscenza divenga il principale motore di sviluppo economico e
che affondi la sua capacità propulsiva nella logica di risorse cognitive abbondanti e
crescenti.
Ciò non implica che l’avvenire dell’uomo in una siffatta economia sia senza
problemi, ma sicuramente significa che il futuro della società si libera dai limiti di
SALVATORE VICARI
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una scarsità endemica e sempre più dipendente dalla capacità dell’uomo stesso di
utilizzare in modo proficuo le conoscenze di cui dispone.
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