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SENTENZE IN SANITÀ – CORTE D’APPELLO DI MILANO
CORTE D’APPELLO DI MILANO – Sezione II- Sentenza del 14 marzo 2006
È colpevole il medico che delega alla sua paziente, il compimento di un'attività di particolare rilevanza
(nella fattispecie la misurazione della pressione sanguigna inerente una gravidanza a rischio per sospetta gestosi), senza avere alcuna certezza che la stessa disponga di un apparecchio in regolari condizioni
di manutenzione e che sia in grado di adoperarlo con attendibilità di risultati. Il tasso di scolarità della
paziente non può affatto giustificare una tale delega, in quanto si tratta di svolgere un'attività di particolare delicatezza, tale da comportare una lucida e "mirata" attenzione e dai cui esiti dipende la scelta terapeutica.
Omissis
Svolgimento del processo
L'odierna appellante veniva citata a giudizio, avanti al Tribunale di Monza, per rispondere del
reato di cui all'art. 17 l. 22 maggio 1978, n. 194, perché, quale medico specialista in ostetricia
presso il Consultorio di Sesto San Giovanni, cagionava a R.S. l'interruzione della gravidanza per
imprudenza, negligenza ed imperizia; in particolare, per non avere disposto un immediato ricovero ospedaliero e per non avere attuato l'intervento terapeutico (taglio cesareo), pur avendo,
nella visita del 26 agosto 1999, qualificato la paziente con gravidanza a rischio per sospetta gestosi.
In esito al dibattimento, nel corso del quale veniva anche disposta d'ufficio una perizia per accertare le cause dell'interruzione della gravidanza e per valutare gli eventuali profili di responsabilità dell'imputata, il Tribunale riteneva la dott.ssa E.P. colpevole del reato ascrittole e, concesse le attenuanti generiche, la condannava alla pena di mesi quattro di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena; condannava altresì la P. al risarcimento del
danno in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede, assegnando una provvisionale di Euro 80.000, immediatamente esecutiva.
Il Giudice di primo grado, quanto alla responsabilità, affermava che il medico aveva tenuto una
condotta imprudente, perché, pur disponendo, alla visita del 26/8/1999, di dati clinici riconducibili ad un quadro di gestosi, quali ipertensione, edemi, proteinuria, aumento ponderale anomalo
della paziente e iposviluppo del feto, aveva nondimeno omesso di disporre - in via di assoluta
urgenza - tutti gli accertamenti, che avrebbero potuto confermare o meno l'ipotesi (che pure lo
stesso medico aveva formulato, ponendo un'indicazione di "gravidanza 35ma settimana a rischio
gestosi"), prenotando personalmente un'ecografia e flussimetria, che però si sarebbe potuta eseguire soltanto cinque giorni dopo la visita ed anzi dissuadendo la paziente dal recarsi immediatamente presso un pronto soccorso; il Giudice di primo grado riteneva, inoltre, che fosse particolarmente censurabile la scelta della dott.ssa P. di delegare alla paziente il controllo dei valori
pressori, nonostante la loro decisiva rilevanza ai fini di una diagnosi di gestosi, anche perché la
paziente non era stata adeguatamente informata circa il significato delle misurazioni.
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Era, quindi, accaduto che la R., nella notte tra il xxx, avvertisse una serie di contrazioni anomale
e che, nelle prime ore del mattino del xxx, si facesse accompagnare al pronto soccorso dell'Ospedale xxx, ove, dopo una serie di controlli, essendo emerso il sospetto della morte del feto, era
stata sottoposta ad induzione medica del travaglio, che aveva avuto come esito l'espulsione del
prodotto del concepimento, effettivamente già privo di vita. Il successivo 8/9 era stata infine
dimessa dall'Ospedale con diagnosi di "morte endouterina del feto alla 35ma settimana. Preeclampsia Hellp Sindrome".
Quanto alle statuizioni civili, il Tribunale, nel rinviare a separato giudizio la liquidazione dei
danni, motivava la liquidazione di una provvisionale nella misura di 80.000 Euro con la circostanza che si trattava della prima gravidanza della R. dopo dodici anni di matrimonio e con il
pericolo insorto per la sua stessa salute a causa dell'evoluzione ulteriore del processo patologico.
Proponeva appello l'imputata allegando che la causa della morte del feto era da individuarsi in
un acuto e non prevedibile peggioramento degli scambi placentari, evento che si era sovrapposto
ad un quadro di danno placentare cronico lieve (manifestatosi sino ad allora con una crescita fetale nei limiti della norma e con un lieve rialzo pressorio materno) e che era idoneo ad integrare
una causa sopravvenuta, dotata di efficienza causale esclusiva rispetto all'evento e tale da interrompere il nesso di causalità rispetto alla condotta colposa attribuita all'imputata.
In presenza, poi, di dati (quelli rilevati nella visita del 26/8/1999) tutti al limite tra normalità e
sospetta preeclampsia lieve, il prudente (e mediamente atteso) comportamento del medico era
proprio quello tenuto dall'appellante, che aveva informato la paziente del problema potenziale e
programmato esami di conferma e approfondimento, oltre a prescrivere un rilievo longitudinale
dei valori pressori; sicché il Giudice di primo grado era incorso in errore laddove aveva ritenuto
che, in presenza di un quadro di preeclampsia lieve, l'indicazione del medico alla paziente dovesse necessariamente essere quella di recarsi per controlli ad un pronto soccorso
Con ulteriore motivo l'appellante censurava la sentenza di primo grado per difetto totale di motivazione in punto di accertamento della sussistenza del rapporto di causalità tra condotta omissiva ed evento. Concludeva, quindi, per la propria assoluzione, previa rinnovazione del dibattimento, volta a consentire l'espletamento di nuova c.t.u. medico-legale.
Chiedeva, in ogni caso, la concessione del beneficio della non menzione e la revoca (o comunque la riduzione) della provvisionale, non avendo il Giudice di primo grado specificato adeguatamente i criteri di quantificazione adottati.
Motivi della decisione
La sentenza di primo grado merita integrale conferma. Ed invero, alla visita del 26 agosto 1999,
l'imputata aveva a propria disposizione i seguenti elementi e dati clinici: a) pressione arteriosa
130/100 (misurata in ambulatorio); b) presenza eccessiva di proteine nelle urine (+1), come da
esame del 23/8; c) iposviluppo fetale, segnalato principalmente dall'ecografia eseguita presso
l'Ospedale di xxx in data 9/8/1999; d) rilevante incremento del peso corporeo materno, aumentato in cinque settimane (rispetto alla precedente visita ginecologica) di kg. 4,400.
A tali dati si deve aggiungere la presenza di edemi diffusi, dei quali la scheda ostetrica non reca
alcuna indicazione, ma che vari testi hanno avuto occasione di rilevare nei giorni precedenti il
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26/8/1999, rimanendone anzi notevolmente impressionati (valga per tutte la deposizione di F.B.,
la quale ha riferito - cfr. udienza 22/10/04 - di un "gonfiore" manifestatosi agli "inizi del mese di
agosto", di caviglie "spaventose perché erano diventate come dei cilindri, non avevano più sagoma, non riusciva a mettersi le scarpe").
Non pare dubbio che la dott.ssa P. avesse ben compreso il significato del quadro clinico, che si
era andato così svolgendo alla sua attenzione, perché, a conclusione della visita, ebbe a prescrivere una "ecografia ostetrica+flussimetria" per "sospetto iposviluppo e pielectasia", ponendo la
diagnosi di "gravidanza a rischio per sospetto iposviluppo 35ma settimana", ed a prescrivere,
altresì, una serie di esami di laboratorio, ponendo la diagnosi di "gravidanza 35ma sett. a rischio
gestosico".
Non pare dubbio, inoltre, che la P. fosse anche preoccupata per il decorso del quadro clinico e
per la possibilità di un suo rapido peggioramento, solo così potendosi spiegare la sua condotta
alla visita del 26/8/99 e, in particolare, la circostanza di aver preso personalmente un appuntamento presso l'ambulatorio dell'Ospedale di xxx (appuntamento che le venne fissato per il
31/8/99) per l'esecuzione del controllo ecografico, nonché la circostanza di avere fornito alla
paziente tutti i propri recapiti telefonici anche personali (cfr. memoria 5/10/03).
Del resto, una tale preoccupazione era del tutto coerente, da un lato, con l'indicazione di "rischio
gestosico", espressa dall'imputata, e, dall'altro, era pienamente giustificata dalla compresenza di
dati di oggettivo rilievo, come gli anomali valori della pressione sanguigna (130/100) registrati
alla visita, o come un aumento ponderale veramente fuori della norma per una donna in gravidanza (kg. 4,400 in sole cinque settimane, quando anche per la dott.ssa P. l'incremento di peso
deve essere "di circa 1 kg/mese": cfr. ancora memoria 5/10/03), o come i segni di iposviluppo
fetale. E' comune patrimonio di conoscenza, nel campo della ostetricia, che la preeclampsia (già
denominata "gestosi tri-sintomatica", in quanto segnalata da ipertensione, proteinuria, edemi)
può facilmente evolvere da lieve a moderata e, quindi, a severa e a grave, complicandosi talvolta
nella pericolosa "HELLP Syndrome"; e che - come osservato dal consulente d'ufficio, prof. B.D.
- tale condizione patologica presenta, anche nei paesi sviluppati, una non trascurabile mortalità
perinatale.
Ora, a fronte di un quadro clinico caratterizzato dalla convergenza di una pluralità di dati ed elementi significativi, il problema è essenzialmente, ed in primo luogo, quello di valutare il tipo
di "risposta" dato dall'imputata, la quale - come si è già posto in evidenza - si è bene ed esattamente rappresentata tanto l'ascrivibilità a preeclampsia del quadro clinico postosi alla sua attenzione, quanto il rischio di una sua sfavorevole evoluzione in tempi rapidi. Tale risposta, tuttavia,
si deve ritenere insufficiente e inidonea, configurando - alla stregua di quanto richiesto dalle circostanze - una condotta omissiva colpevole. Al riguardo, la dott.ssa P. ha dichiarato, in sede di
esame dibattimentale, che "il caso R. era un caso importante", tale da richiedere una valutazione
successiva, e che poteva dar luogo ad "una situazione di allarme" qualora la paziente le avesse
comunicato "nella giornata stessa o anche nei giorni successivi la persistenza di valori pressori"
anomali o magari "il rallentamento dei movimenti fetali" o "le sensazioni che lei rilevava a livello dell'addome per esempio" (cfr. udienza 7/10/04, trascrizioni, pag. 50).
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In tale ambito era maturata la specifica raccomandazione di controllare la pressione frequentemente (almeno due volte al giorno) e, in particolare, di effettuare altra misurazione a distanza di
quattro ore rispetto a quella effettuata in ambulatorio la mattina del 26/8/99, con l'ulteriore e
conseguente raccomandazione di dare notizia di ogni eventuale variazione.
Tuttavia, così facendo, il medico ha delegato al suo paziente, da una parte, il compimento di
un'attività di particolare rilevanza nella specie, come la misurazione della pressione sanguigna,
senza avere alcuna certezza che la R. disponesse di un apparecchio in regolari condizioni di manutenzione e, anche disponendone, che la stessa o i suoi familiari fossero davvero in grado di
adoperarlo con attendibilità di risultati; dall'altra, ha delegato al paziente il compimento di un'attività di "lettura" critica e di valutazione di segnali (anche questi di ritenuta particolare rilevanza), che invece per sua natura, e per le implicazioni che la stessa imputata mostra di volerle attribuire, avrebbe potuto aver luogo soltanto in una struttura specializzata e attrezzata e ad opera
di personale competente. Tanto più che non vi è prova che l'imputata abbia accompagnato le
prescrizioni e raccomandazioni, con le quali si è conclusa la visita del 26/8/99, con quell'opera
di informazione sui rischi ed i pericoli della situazione, che pure e soltanto avrebbe consentito
alla R. di cogliere e apprezzare convenientemente i fenomeni indicati come sintomatici di sfavorevole evoluzione del quadro clinico.
Né il tasso di scolarità della paziente, probabilmente assai più elevato della media delle donne
che frequentano il Consultorio familiare, presso il quale operava la dott.ssa P. nell'agosto 1999,
può minimamente giustificare una tale delega, trattandosi nella specie non già di avere attenzione all'ingestione di determinati alimenti notoriamente rischiosi in gravidanza o ad altri aspetti
consimili (per i quali la condizione economico-sociale e il tasso di istruzione può dare evidentemente sicure garanzie), ma - come si è posto in rilievo - di svolgere un'attività di particolare
delicatezza, tale da comportare una lucida e "mirata" attenzione e dai cui esiti sarebbe inesorabilmente dipesa, in tempi strettissimi, l'una o l'altra scelta terapeutica.
Di ciò fornisce conferma la stessa imputata, laddove dichiara che, se i valori pressori fossero
rimasti "inalterati" nel pomeriggio, si sarebbe risolta a dare l'indicazione "di un monitoraggio
presso una struttura ospedaliera" (pag. 51). La dichiarazione conferma, tra l'altro, come la situazione non consentisse di aspettare altri cinque giorni, prima di avere il referto del controllo ecografico (fissato per il 31/8/99) e di poter verosimilmente disporre dei risultati degli altri esami di
laboratorio, se è vero che sarebbe stato sufficiente il rimanere inalterato del dato della pressione
per determinare l'indicazione di un ricovero in struttura ospedaliera.
In definitiva, l'accertamento di un dato dirimente, come quello della pressione arteriosa, non poteva essere lasciato alla R., sia, e sotto un profilo generale, tenuto conto della particolare condizione psicologica, in cui spesso versa la donna in gravidanza e che la rende soggetto bisognoso
di speciale e più attenta assistenza; sia avuto riguardo alla circostanza che la stessa R. aveva
compiuto nel corso della sua gestazione scelte un poco erratiche, rivolgendosi a centri diversi
per i controlli periodici e gli esami: con la conseguenza che, nella specie, il medico avrebbe dovuto, a più forte ragione, sottolineare il ruolo di tutela, che gli compete nel rapporto con il paziente, fornendo quella completa e ragionata informativa circa le caratteristiche della situazione
clinica e i pericoli nella medesima insiti, che invece deve ritenersi essere mancata, e comunque
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delineando il percorso, che più efficacemente potesse garantire le soluzioni terapeutiche necessarie a proteggere la vita e la salute della madre e della sua creatura, senza lasciare spazio, per
attendismo o indeterminatezza di discorsi, a momenti discrezionali.
Che non vi sia stata una comunicazione chiara e completa da parte del medico, in rapporto al
quadro clinico che si andava ormai configurando, trova riscontro nella circostanza - già posta in
evidenza dal Giudice di primo grado - che la R. non ritenne di mettersi in contatto telefonico
con la P., né il 26/8/99, né nei giorni seguenti, nonostante che il dato della pressione arteriosa
diastolica fosse sempre stato rilevato tra i 90 e i 95 mm/HG, vale a dire superiore alla soglia di
attenzione di 90 mm/HG, su cui anche l'imputata concorda (cfr. memoria 5/10/03, già citata). Si
può, pertanto, concludere nel senso che quest'ultima ha realizzato una condotta improntata ad un
attendismo, che non poteva considerarsi né giustificato, in ragione di un quadro clinico già di
per sé abbastanza eloquente (e che la dott.ssa P. - come più volte notato - aveva ben presente dal
punto di vista diagnostico); né prudente, perché, una volta individuato il rischio di una possibile
preeclampsia, era da valutare congiuntamente il rischio di una altrettanto possibile e rapida evoluzione sfavorevole, tale da condurre - attraverso le tappe cui si è sommariamente fatto cenno ad esiti pregiudizievoli.
L'appellante dubita della sussistenza del rapporto di causalità tra condotta omissiva ed evento,
sul rilievo che la causa della morte del feto sarebbe da individuarsi in un acuto e non prevedibile
peggioramento degli scambi placentari, evento, questo, che si sarebbe sovrapposto ad un quadro
di danno placentare cronico lieve e che costituirebbe una causa sopravvenuta, dotata di efficienza causale esclusiva rispetto all'evento.
L'assunto non può essere condiviso.
Ed invero il nesso causale può e deve essere ravvisato tutte le volte in cui, alla stregua del giudizio c.d. controfattuale, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l'evento non si sarebbe verificato. Sul punto, giova sottolineare due aspetti: a) che la corretta e prudente indicazione del medico curante sarebbe stata, nella specie, quella di indirizzare
la paziente ad una struttura ospedaliera specializzata per un iniziale (ma costante) monitoraggio
e controllo di tutti i parametri significativi; b) che la R. ha cominciato ad avvertire, sia pure confusamente, qualcosa di anomalo nella tarda serata del xxx, cioè ad oltre due giorni dalla visita
presso il Consultorio, avvenuta - secondo ciò che è pacifico - la mattina del 26/8/99.
Ora, è da ritenersi semplicemente certo che una struttura ospedaliera specializzata, per le sue
stesse funzioni, per l'organizzazione ed i mezzi di cui dispone, per le elevate competenze professionali che corredano il personale medico e infermieristico che vi presta servizio, avrebbe
immediatamente sottoposto a visita una paziente con diagnosi di sospetta "gestosi", rilevando in
maniera certa il dato della pressione arteriosa (e reiterando la rilevazione alla più esatta distanza
temporale); avrebbe altresì immediatamente disposto ed eseguito gli esami di laboratorio ritenuti essenziali ai fini di una conferma della diagnosi; avrebbe rilevato e interpretato tutti quegli indici, che avrebbero potuto segnalare una situazione ingravescente, risolvendosi, in caso di conferma di una sofferenza fetale, alla scelta dell'induzione del parto (o di un parto cesareo). E' altresì da considerare che la R. era gravida alla 35ma settimana e che il feto pesava kg. 1,900 (peso più che rassicurante - come già esattamente osservato dal Giudice di prime cure - rispetto alle
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concrete possibilità di sopravvivenza, alla luce delle conoscenze e delle tecniche ormai acquisite); sicché non vi erano, in tal senso, controindicazioni alla scelta di accelerare il parto, inducendo il travaglio.
Tale soluzione avrebbe permesso di evitare ulteriori complicazioni della gravidanza, senza rischi prevedibili per la vita del nascituro: così da raccomandarsi, anche per la condizione di primipara della R. (che - giova ricordare - aveva 36 anni all'epoca dei fatti e aspettava invano un
figlio da molti anni), come quella imposta da sicuro buon senso e da trovare conseguentemente
attuazione. E' poi certo che il feto era ancora vivo il 26/8/99 e che il peggiorare della situazione
può verosimilmente collocarsi, tenuto conto degli sviluppi, nella giornata del xxx, poiché è proprio nella tarda serata di questo giorno e nella notte del xxx che la R. ebbe ad avvertire contrazioni anomale.
In concreto, vi era tutto il tempo, a partire dal pomeriggio del 26/8, per un monitoraggio della
situazione e, con il feto ancora vivo, per la realizzazione degli interventi terapeutici necessari; e
ciò vale ad escludere che possa attribuirsi rilevanza a quell'improvviso e non prevedibile peggioramento acuto degli scambi placentari, che l'appellante individua come causa della morte del
feto e che, nella sua prospettazione, sarebbe evento idoneo ad assurgere al rango di causa sopravvenuta, dotato di efficienza causale esclusiva rispetto all'evento e tale da interrompere, ai
sensi dell'art. 41 c.p., il nesso di causalità.
Ed infatti, se anche un tale episodio si fosse verificato e fosse da considerarsi come causa della
morte del feto, esso si collocherebbe nella parte terminale o critica della sequenza di eventi
compresi tra il xxx ed il xxx, rimanendo così di fatto prevenuto dalla tempestiva adozione, in
ambiente ospedaliero e attrezzato, degli interventi terapeutici segnalati come necessari dal costante monitoraggio della situazione. Si deve, pertanto, ritenere che la condotta omissiva, consistita nel non inviare la paziente ad una struttura ospedaliera, si ponga, sulla base delle circostanze di fatto del caso concreto e degli elementi di valutazione disponibili, come condizione necessaria dell'evento lesivo e ciò con un grado di probabilità che è da reputarsi prossimo alla certezza. Del resto, a tale conclusione sono pervenuti tutti i qualificati esperti che hanno fornito, come
consulenti d'ufficio o di parte, il loro contributo di conoscenza ed esperienza, con la sola eccezione del c.t. dell'imputata
Per tutte le considerazioni ed i rilievi svolti, non vi è luogo ad una rinnovazione del dibattimento, al fine di dare ingresso ad altra consulenza tecnica d'ufficio, intesa a valutare il comportamento professionale della P. e ad accertare la sussistenza del nesso di causalità. Si duole, poi,
l'appellante, con riferimento alle statuizioni civili della sentenza impugnata, che il Tribunale avrebbe omesso di specificare adeguatamente i criteri di quantificazione adottati per determinare
una provvisionale di 80.000,00 Euro, di cui ha chiesto, in ogni caso, la riduzione, siccome di
ammontare eccessivo.
La censura è infondata.
Il Giudice di primo grado ha, infatti, posto in evidenza i tre elementi di fatto, che dovevano essere tenuti presenti per la determinazione della provvisionale nell'importo suddetto: l'epoca cui
era giunta la gestazione; la circostanza che si trattava della prima gravidanza della R. dopo dodici anni di matrimonio; il pericolo insorto per la sua stessa salute a causa dell'evoluzione ulte-
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riore del processo patologico. Come è evidente, il Tribunale ha compiuto, così facendo, una determinazione di tipo equitativo, enunciando i fatti essenziali che concorrevano a quantificare la
somma liquidata: ciò che peraltro deve ritenersi idoneo e sufficiente, ai fini dell'emanazione del
provvedimento di cui all'art. 539, comma 2, c.p.p., posto che la liquidazione definitiva del danno
conseguente al reato è rimessa, in caso di condanna generica, al giudice civile e che è sufficiente, anche per la natura meramente delibativa del provvedimento, che il Giudice penale, nell'assegnare la provvisionale, si limiti a dar conto di avere tenuti presenti i dati di fatto risultanti dal
processo.
Si tratta comunque, nel caso di specie, di elementi significativi, singolarmente presi e nel loro
insieme, idonei, come tali, ad avere una rilevante incidenza nella liquidazione definitiva del
danno non patrimoniale (nelle sue varie componenti). Ne consegue che la misura liquidata in
sentenza appare non eccessiva, avuto riguardo alle peculiarità del caso concreto e ai riflessi che
l'evento lesivo ha presumibilmente avuto sulla vita personale e familiare della persona offesa; e,
in ogni caso, può fondatamente esprimersi - allo stato - la valutazione della sussistenza del danno sino all'ammontare della somma liquidata.
Quanto, infine, alla doglianza relativa alla mancata concessione del beneficio della non menzione, non sembra che, anche per questa parte, la sentenza di primo grado meriti censure. Il fatto in
esame si presenta invero connotato da gravità, perché, prescindendo da qualsiasi indagine in relazione al grado della colpa e pur tenuto conto dello stato di incensuratezza dell'imputata (oltre
che della sua condotta susseguente al reato, con la visita in ospedale alla R.), devono comunque
e necessariamente venire in considerazione gli altri criteri delineati dall'art. 133 c.p. e, in particolare, quelli di cui ai nn. 1) e 2) del comma primo del medesimo articolo, laddove si fa riferimento all'oggetto e alle altre circostanze dell'azione e alla gravità del danno e del pericolo cagionato alla persona offesa.
Dal rigetto dell'appello consegue la condanna dell'appellante, ex art. 592 c.p.p., al pagamento
delle ulteriori spese del grado. Consegue altresì la condanna della stessa appellante alla rifusione
delle spese sostenute dalla parte civile nel presente grado di appello e liquidate - con una contenuta riduzione rispetto alla nota spese prodotta, in considerazione della completezza delle difese
svolte - in complessivi Euro 4.700,00, comprensivi di rimborso spese generali su diritti e onorari, oltre accessori di legge
P.Q.M.
Visti gli artt. 541, 592, 605 c.p.p.
conferma
la sentenza emessa dal Tribunale di Monza in data 3/3/05, appellata dall'imputata P.E.M., che
condanna
al pagamento delle ulteriori spese del grado;
condanna
altresì l'imputata alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in grado di appello, liquidate in complessivi Euro 4.700,00 comprensivi di rimborso spese generali, oltre Iva e Cpa.
Così deciso in Milano l'1 marzo 2006.
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