I manager e il peccato mortale degli stipendi ultramilionari

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I manager e il peccato mortale degli stipendi ultramilionari
CRONACA REGIONALE
L’UNIONE SARDA
domenica 1 settembre 2013 - www.unionesarda.it
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IL PERSONAGGIO
FRATELLI
D’ITALIA
CHI È
LE STORIE
Sandro Catani, 66 anni,
è un affermato
consulente d’azienda
di GIORGIO PISANO
Compensation consultant. Detto così, fa
perfino impressione. Quando poi lo traducono in italiano è ancora peggio. Chi è
e cosa fa un compensation consultant?
Sandro Catani, voce autorevole della categoria, risponde così: «Aiuto le aziende
a trovare un giusto equilibrio tra le aspirazioni e le pretese dei dirigenti». Più terra terra, suggerisce ai padroni del vapore il giusto compenso per l’amministratore delegato o Ceo (Chief executive officer), che vuol dire quasi lo stesso. Manager che strappano contratti da cinque,
dieci milioni l’anno. Strapagati: come un
calciatore, una stella del pop, un attore.
Fino ad arrivare al supercapo della Disney che ha guadagnato 115.500 volte
lo stipendio di un lavoratore medio.
Se non ci credete andate a sfogliare le
pagine di Manager Superstar, lettura illuminante. Catani lo ha scritto qualche
anno fa (per Garzanti) accompagnandolo con un eloquente sottotitolo: merito,
giusto compenso e disuguaglianza sociale. Cagliaritano residente da sempre a
Milano, 66 anni, una figlia, laurea in Economia, master e cattedra alla Scuola superiore Mattei dell’Eni, offre un formidabile ventaglio di cifre ed esempi sulle entrate stratosferiche magari di un manager pubblico che è riuscito o quasi a far
fallire una compagnia area o un’azienda
ferroviaria. In sostanza, rielaborando un
eterno dilemma da bar sport Italia: chi
sono i manager e perché rastrellano
montagne di danaro? La domanda non
è peregrina in un Paese crocefisso dalla
crisi, che non riesce a fermare la disoccupazione e tantomeno a rimarginare la
ferita sempre aperta del debito pubblico.
Dunque, scandalizzatevi pure: Paris
Hilton («giovane bellezza dal mestiere
imprecisato») ha intascato più soldi dell’amministratore delegato di Luxottica,
Harrison Ford raggranellato 65 milioni
di dollari per un solo film, calciatori
come Ronaldinho o Kakà volano sopra i 15. All’anno,
s’intende.
Contrariamente a
quanto si potrebbe
pensare
tenuto
conto del campo
in cui opera,
Sandro Catani è
riuscito a conservarsi umano.
La ricerca di un
equilibrio tra desideri di un Ad e
ingaggi siderali
non gli ha fatto
perdere di vista l’altro mondo. Nel suo libro cita Catullo, Collodi, Marziale e tanti altri.
Buone letture come antidoto
al pericolo-aridità? Senz’altro. «Mi
spaventano quei manager che stanno
prigionieri in ufficio 12-14 ore al giorno,
che non vanno mai al cinema o all’opera. Che, insomma, non vivono».
Cos’è il giusto compenso?
«Dichiaro la mia inadeguatezza a definirlo con precisione. Il compenso riguarda qualcosa che uno fa, quindi parliamo di lavoro. E mica c’è sempre. Giusto è invece un termine variabile nel tempo e nello spazio: quello che ad alcuni
può sembrare una fortuna, chessò cinque milioni di euro, per altri può essere
perfino poco. Ma badate che anche certe segretarie guadagnano cinque volte lo
stipendio di un operaio».
Pochi?
«Ricordo un Ad che, davanti a questa
cifra, mi disse sconsolato: tutto qui? Ho
faticato a fargli notare che normalmente non guadagnava così tanto in un solo
anno. Mi ha cacciato, non sono più il suo
consulente».
Dunque?
«Il termine giusto, riferito a compenso,
deve tener conto del momento, del tipo di
azienda, dei risultati che si vogliono raggiungere. È il pagamento per una prestazione. Pay for performance, dicono gli
americani».
In fondo è anche la filosofia delle Olgettine.
«Non c’è dubbio: 2.500 euro al mese,
versate dal mitico ragionier Spinelli in
nome e per conto dell’azionista di riferimento, rappresentano un giusto compenso».
Eccessi da supermanager.
«Sono quei casi in cui si prendono i
soldi senza aver eseguito la prestazione
a regola d’arte. Esempi? Sarebbe troppo
facile citare il caso del banchiere Geronzi: ogni volta che ha lasciato un’azienda,
si è fatto accompagnare all’uscita da un
I RECORD
L’Ad della Disney
guadagna 115.000 volte
un salario medio
CAMPIONI D’INCASSO
Il capo di un’industria
come una rockstar:
i casi Luxottica e Geronzi
LA PAGELLA
«L’Italia è governata
da circa 500 persone
che siedono nei Cda»
Sandro Catani. Sotto, in senso orario Leonardo Del Vecchio (Luxottica), Alessandro Profumo (Mps) e Sergio Marchionne (Fiat).
[FOTO MAX SOLINAS]
I manager e il peccato mortale
degli stipendi ultramilionari
sacco di soldi. Secondo lui, si
tratta di giusti compensi; secondo altri, che hanno
qualche ragionevole
controdeduzione, decisamente no».
Lei ha fatto pa ralleli con calcio,
cinema, arte.
«Bisogna interrogarsi: perché
pagano un calciatore molto più
d’un suo compagno di squadra?
Un grande economista statunitense dice che le competenze
sono distribuite in modo
diseguale, quello che ne ha
un po’ di più incasserà necessariamente cifre maggiori. È come nei
tornei medievali: chi vince prende il piatto. Il secondo sarà a debita distanza.
Questo discorso si può applicare anche a
cinema, musica, arte».
Si dice che in Italia servano più manager che calciatori: è vero?
«C’è da essere pessimisti. Guardiamo
gli scandali recenti: Fonsai-Sai, Finmeccanica, Monte dei Paschi, Popolare di Milano. I vertici di queste aziende, che erano le più importanti d’Italia, sono tutti in
galera o ai domiciliari. Gotti Tedeschi,
ex presidente della banca vaticana e autore di un saggio sull’etica, è stato silurato e questo significa che il problema
ha lambito, anzi travolto di liquame,
perfino la Chiesa. Ne consegue che abbiamo molto bisogno di veri manager.
Ci hanno lasciato in eredità un disastro».
Cioè?
«Ci siamo venduti i gioielli di famiglia,
le aziende e le banche più solide: Edison, Parmalat, Bulgari. Potrei continuare. Ci siamo venduti perfino la Borsa valori di Milano».
Sarà per questo che in Sardegna non
c’è una banca o un’industria che appartenga ai sardi?
«Ho lavorato per le banche sarde. Banche burocratiche, un po’ antiquate. Però
conoscevano il territorio, avevano una
certa sintonia con la popolazione locale.
Ho lavorato anche per Bper, la Banca
dell’Emilia Romagna che ha acquisito
Banco di Sardegna e Popolare di Sassari. Mica è molto più grande o più tecnologica di quello che ha comprato».
E allora?
«Allora è successo che Bankitalia ha
deciso di far assorbire tutte le piccole
banche del Sud dalle banche del Nord
nella speranza di farle crescere. Risultato?»
Non esiste più un’industria sarda.
«Quando vengono vendute le banche,
il resto segue a ruota: si crea desertificazione».
È vero che quella dei manager è una
categoria ad altissimo indice di avidità?
«Loro dicono di no ma non c’è dubbio
che l’avidità sia una molla importante. E
non solo per danaro. Un manager vuole
guadagnare più di uno che fa il suo stesso mestiere. Direi perfino che vive per
sapere quanto ricevono i suoi colleghi e
organizzare le contromosse».
Esempi?
«Ammettiamo che De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, scopra di guadagnare meno di Enrico Mentana, direttore del Tg7. Credete che la cosa lo lasci
indifferente?, che non aggiornerà le sue
pretese? Il danaro, in un certo ambiente, è l’indicatore che io sono più bravo di
altri».
Il manager che fallisce perde al massimo il posto: a pagare sono altri.
«In parte è così. Solo in parte però: il
nome e l’autorevolezza di un manager
crescono in proporzione ai risultati. Se
non arrivano, viene incasellato nella media manageriale italiana, ovvero mediocrità assoluta».
È morale che Marchionne, ammini stratore delegato Fiat, guadagni 1.300
volte più di un operaio?
«Credo vada oltre. Ma non so se sia
morale. Marchionne, che non apprezzo
affatto, è uno che si muove da solo, senza team. Uno che non fa sapere quale sia
il suo piano industriale, tanto è vero che
il segretario della Fiom gli sta continuamente addosso. Marchionne è però il futuro, Landini purtroppo il passato».
D’accordo, ma è morale che guadagni
tanto?
«Lo ripeto: non lo so. So che il mio è un
Paese gestito da gerontocrati.
Ci sono circa 500 persone
sparse nei Consigli di
amministrazione: il
potere è nelle loro
mani. I più anziani
sono degli anni
Trenta e via via
fino ai giovani.
Marchionne invece gioca con
regole nuove,
tutte sue».
Nel frattempo
viviamo in una
nazione che umilia
gli insegnanti, che
pure sono i macchinisti del futuro.
«Insegnanti e pubblici
dipendenti in genere sono i più
sfigati. Che siano medici o commessi
della Camera, per la gente guadagnano
comunque troppo per il poco lavoro che
fanno. Un Paese che non ha una burocrazia capace e ben pagata non può affrontare il futuro».
Sta insinuando che stiamo strangolando il futuro?
«Sicuramente, a furia di spending review. La filosofia dei tagli che colpiscono
soprattutto il settore pubblico è ispirata,
non a caso, dal mondo delle imprese.
Nuovi e recenti esponenti di governo
non arrivano forse dal sistema bancario e industriale?»
Disastri Fs, Alitalia, eccetera: cosa rischiano i manager specializzati in fallimenti?
«Oggi va per la maggiore fare i commissari. Che guadagnano più dei manager. Cosa rischiano? Niente».
È favorevole ad un tetto sugli stipendi
dei manager pubblici?
«No, nel modo più assoluto. Così li vedremmo espatriare. Il vero problema
non è cercare un tetto ma stabilire se un
manager è veramente bravo oppure no.
Se è davvero bravo, torniamo ai paralleli con sport, cinema e arte. Al giusto compenso, insomma».
Criteri per stabilire la bravura di un
manager?
«Valutazione della performance sul
medio periodo. Non ci si può fermare al
bilancio annuale. Vecchi criteri, che noi
non utilizziamo, riguardano anche la
soddisfazione del cliente, qualità e soddisfazione delle risorse umane».
Ha mai incontrato un manager incapace, cretino?
«Se ne ho incontrato? Ho parlato prima di una ragnatela, poche persone che
occupano tutti i Consigli d’amministrazione. E qui mi fermo».
Luca Cordero di Montezemolo?
«Non ho lavorato per lui. Non
lo conosco».
Poi ci sono i manager
per diritto ereditario:
John Elkann.
«Probabilmente è
una persona normale. Questo è
purtroppo il male del nostro capitalismo: anziché chiamare dirigenti capaci, affidiamo l’azienda
a figli, nipoti, eccetera. Ligresti, il costruttore, faceva così».
Dove sono i Ligresti,
padre e figli, attualmente?
«Tutti o quasi in carcere».
Non ritiene che gli stipendi stellari
siano un intollerabile segno di disuguaglianza?
«Sicuramente sì».
La disuguaglianza è il detonatore delle rivoluzioni.
«I sistemi sociali sono complicati. Una
volta si impiccavano i re, secoli dopo
hanno cominciato a massacrare dirigenti e poveracci qualunque».
In Italia il clima è questo?
«Non penso. Il governo ha neutralizzato il pericolo finanziando la cassa integrazione in deroga: continuiamo a pagare salari per lavori che non esistono e
non esisteranno più».
Non c’è bisogno d’essere marxisti per
parlare di immoralità.
«Immorale è che uno stagista guadagni
600 euro e un dirigente cinque milioni.
Considero immorali anche le aziende che
applicano questo sistema. Ma la vera immoralità è un’altra: illudere i giovani, fargli credere che hanno un futuro».
Come attenuare una sperequazione così offensiva?
«Tutti pensano al tetto sugli stipendi. Io
sono invece per un’imposizione fiscale
ben mirata. E smettiamola con le bugie,
smettiamola di dire che le super-pensioni non possono essere toccate».
Il danaro è il simbolo di quanto vale
un uomo?
«Non c’è dubbio. Nella nostra cultura
ragioniamo in funzione di quanti soldi
abbiamo accumulato. Ci siamo americanizzati».
Danaro e felicità sono parenti stretti?
«Se ti propongono un aumento di stipendio, hai una botta di felicità ma un
mese dopo te ne sei dimenticato. Servono dosaggi sempre crescenti: un attimo di euforia non basta per dirsi felici».
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