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Estratto dal Volume “Aerobiologia ed Allergeni Stagionali” – Cap . 2
CAMBIAMENTI AMBIENTALI E MALATTIE ALLERGICHE
Renato Ariano
Unità Operativa Complessa di Medicina Interna
A.S.L. n. 1 Imperiese – Ospedale “Saint Charles” di Bordighera
La distribuzione naturale delle piante è il risultato delle esigenze ecologiche e della storia del
territorio. Ciascuna specie vegetale occupa determinati territori, in conformità a particolari
parametri ecologici. Tra questi sono importanti la temperatura dell’aria e del terreno, l’irradiazione
solare, l’altitudine, l’umidità relativa, la disponibilità di nutrimento, la concorrenza di altre specie
vegetali in prossimità. Ovviamente, secondo la nostra prospettiva allergologica, la distribuzione
delle diverse specie d’erbe o piante condiziona di conseguenza l’impatto potenziale sui soggetti
atopici che abitano nella stessa zona. Tuttavia anche uomo ha sempre condizionato, con la propria
attività la presenza delle specie vegetali sul territorio dove viveva, sin dai tempi più antichi (1).
Nel 10.000 A.C. iniziò il disgelo dell'ultimo glacialismo che aveva caratterizzato per circa un
milione di anni il clima della Terra. Per tutto il Paleolitico la razza umana, per dedicarsi alla caccia
e alla raccolta dei frutti, era costretta a condurre una vita nomade, quando le risorse naturali del
territorio si esaurivano. Con l’avvento del periodo Neolitico, in cui avvennero notevoli variazioni
climatiche, molte specie di piante scomparvero alle latitudini meridionali e parecchie specie di
animali scomparvero o emigrarono verso il Nord. Infine, nello stesso periodo si verificò un
incremento numerico della popolazione. Si calcola che nel Paleolitico medio (70.000/50.000 anni
A.C) vivessero sul globo circa un milione di persone. All’inizio del Neolitico (10.000 anni A.C.) la
presenza d’umani arrivò a più di nove milioni d’individui (2,3). Sin da questi primi tempi l’uomo
influì direttamente sulla ripartizione delle specie vegetali. Grazie a studi paleontologici, si è potuto
constatare che l'uomo iniziò dapprima con la raccolta di cereali e legumi che nascevano e si
sviluppavano spontaneamente. In seguito l’uomo scoprì che vi erano alcuni tipi di cereali, come il
grano, che rispetto ad altri avevano delle proprietà più vantaggiose. Un forte impulso alla diffusione
di alcune specie vegetali avvenne quando l'uomo cominciò a praticare l'agricoltura e a trasportare le
piante coltivate nelle sue migrazioni. Infine già dal tempo del Neolitico l’uomo aveva scoperto che
le specie potevano essere migliorate con incroci tra specie diverse, avvenuti in primo tempo. Certe
piante sono state introdotte in seguito ad attività umane, già in tempi molto antichi. Esse si sono poi
integrate nella flora locale e sono poi state considerate in seguito come naturalizzate. Esempi
classici sono quelli dell’Olivo, del Cipresso e dell’Acacia importate dal Medio Oriente, in epoche
più recenti e che poi, col tempo hanno prodotto patologie allergiche ( 4,5,6,7).
Figura 1 - Arte Preistorica del Paleolitico (circa
2 milioni di anni or sono).
CAMBIAMENTI CLIMATICI
Il cambiamento climatico globale è oramai sotto gli occhi di tutti. Esistono inoltre numerosi studi
climatologici che lo testimoniano. I ricercatori sono, nella stragrande maggioranza, concordi che il
clima sta cambiando, anche se non è stata provata in maniera definitiva la relazione tra aumento di
CO2 ed aumento di temperatura, anche se molto probabile.
Sta inoltre crescendo, nell’opinione pubblica, una crescente preoccupazione per gravi eventi:
alluvioni, desertificazioni, disastri geologici, buco dell'ozono. Esiste, infine, un acceso dibattito
mondiale su quanto questi eventi rientrino nella normalità dei cicli climatici del nostro pianeta e
quanto invece siano di origine antropica. Questo dibattito, purtroppo, non è sempre alimentato solo
da pure motivazioni scientifiche ma interferiscono in esso motivazioni ideologiche, politiche ed
economiche. Per questi motivi il terreno di confronto ne risulta fatalmente inquinato. E’ accertato
che nella storia della terra la natura ha prodotto spesso cambiamenti ecologici, ma è anche vero che
il fenomeno negli ultimi decenni ha subito una forte accelerazione con cambiamenti notevoli delle
caratteristiche dell'atmosfera. Se è poi vero che nell’effetto serra intendiamo entrano in gioco
minime quantità di gas, se confrontate a quelle naturali, bisogna però considerare che l’omeostasi
del clima terrestre è costituita in maniera per cui piccole cause producono amplificare le
conseguenze. Nei prossimi anni la temperatura aumenterà tanto da influenzare le abitudini e
l'economia dell'Europa. E’ quanto afferma uno studio che ha coinvolto otto paesi europei,
presentato al centro internazionale di studi dei cambiamenti climatici Climatic Research Unit di
Norwich, Gran Bretagna (8). Questo studio è durato tre anni e grazie a modelli matematici statistici
ha permesso di fare delle previsioni climatiche fino al 2070, stimando le conseguenze che queste
avranno su sei specifici settori economici: turismo, acqua, agricoltura, zone boschive, energia e il
settore delle assicurazioni. Le ondate di caldo saranno più intense e persistenti, mentre le stagioni
fredde saranno più brevi. I giorni con temperature sotto lo zero diminuiranno fino a quattro mesi nel
nord dell’Europa entro il 2070. Le zone mediterranee subiranno lunghi periodi di siccità d'estate e
piogge torrenziali con allagamenti d'inverno, i temporali invernali aumenteranno soprattutto
nell'Europa dell'ovest. Per quel che riguarda le conseguenze economiche dei cambiamenti climatici,
risentiranno della nuova situazione i settori del turismo, dell'energia, della sicurezza. I cambiamenti
ambientali, sia quali indotti dall’uomo sia quelli indotti dalla natura hanno sempre inciso, in
maniera significativa sulle presenze polliniche e , in definitiva, sulla insorgenza delle malattie
allergiche respiratorie. In particolare i cambiamenti climatici hanno parallelamente fatto mutare, in
maniera vistosa, anche cambiato drammaticamente le presenze sul territorio della vegetazione e, di
conseguenza, anche la diffusione dei pollini, sia in senso qualitativo che quantitativo.
Figura 2- Incremento delle temperature mondiali.
IPCC Report 2001.
L’incremento della temperatura della Terra può provocare una serie d’effetti ambientali di notevoli
proporzioni. L'allarme è stato ulteriormente confermato anche da uno studio della NASA, secondo
cui le temperature complessive saliranno di 0.5 gradi centigradi nel corso di questo secolo, anche se
i gas ritenuti responsabili dell'effetto serra diminuiranno da subito, di 5 gradi se i gas dannosi
continueranno ad inquinare. Lo studio è stato condotto analizzando i dati ottenuti da satelliti
artificiali e da migliaia di sensori collocati nel fondale degli oceani. Nel rapporto, il climatologo
James Hansen, direttore del Goddard Institute for Space Studies all'Earth Institute della Columbia
University, afferma che la Terra assorbe molto più calore di quanto non emette (9,10)
Questo fenomeno è stato da tempo definito come EFFETTO SERRA. Si tratta dello stesso
meccanismo che è utilizzato in agricoltura per quelle coltivazioni che s’intendono proteggere dalle
temperature fredde, mettendole in serra. Alcuni gas presenti nell'atmosfera generano l' effetto serra,
cioè intrappolano il calore irradiato dalla terra impedendone l' uscita nello spazio esterno, come il
vetro intrappola il calore in una serra. Questo fenomeno, normalmente naturale e benefico (senza
l'effetto serra la terra sarebbe di almeno 15 gradi C più fredda), sta aumentando di importanza a
causa dell' aumento di concentrazione di alcuni gas ( CO2, N2O, O3, metano, fluorocarburi) di
origine antropica. In particolare è aumentata, negli ultimi anni, la concentrazione atmosferica del
biossido di carbonio: da 290 ppm (parti per milione) nel 1880 a circa 370 ppm nel 2001. Questo
incremento proseguirà nel prossimo futuro, poichè il biossido di carbonio, insieme all'acqua, è il
prodotto finale della combustione dei combustibili fossili (carbone, petrolio e derivati, metano),
delle foreste e delle biomasse. I combustibili fossili possono essere considerati depositi di carbonio,
formatosi milioni d’anni fa; la loro combustione fa ritornare il carbonio (come biossido)
nell'atmosfera, aumentando l'effetto serra. Il biossido di carbonio si scioglie facilmente in acqua :
gli oceani ne contengono enormi quantità, ma l'aumento di temperatura (dovuto all' effetto serra)
diminuisce la solubilità del gas in acqua, liberando nuovo gas nell' atmosfera e accelerando il
fenomeno.
Figura 3- Incremento delle temperature degli oceani.
IPCC Report 2001.
L’aumento del calore e quindi dell’evaporazione dai grandi bacini idrici comporta un aumento
corrispondente della quantità d’acqua in atmosfera e quindi un aumento delle precipitazioni. Alcuni
ricercatori ritengono che queste siano cresciute di circa l’uno per cento su tutti i continenti
nell’ultimo secolo. Le aree poste ad altitudini più elevate dimostrano incrementi più consistenti, al
contrario le precipitazioni sono diminuite in molte aree tropicali. In ogni caso si nota una maggiore
intensità delle piogge e dei fenomeni meteorologici più violenti (come le tempeste e gli uragani)
con un conseguente aumento delle inondazioni e delle erosioni a carico del terreno. Secondo Kerry
Emanuel ( 11), un ricercatore del Massachusetts Institute of Technology la violenza degli uragani si
è raddoppiata nel corso degli ultimi trenta anni e in futuro è destinata ad aumentare ancora più
rapidamente. L’autore ha calcolato sia la frequenza di questi episodi che la loro intensità (durata in
termini di giorni e velocità del vento) valutando che, negli ultimi trenta anni, sia la frequenza dei
cicloni, che la loro intensità sono effettivamente raddoppiate e collegando quest’aumento con il
surriscaldamento del clima.
Figura 4- Riduzione della superficie di 20 ghiacciai
principali in tutto il mondo. IPCC Report 2001.
Sintetizzando, i cambiamenti atmosferici, climatici e biofisici accertati sul nostro pianeta, nel corso
del XX secolo, sono i seguenti (dati forniti dal Third Assessment Report del IPCC, 2001) (12) :
1) Aumento delle concentrazioni atmosferiche di CO2, CH4, N2O.
2) Aumento della temperatura media mondiale del 0,6%.
3) Aumento delle giornate calde.
4) Diminuzione delle giornate fredde.
5) Precipitazioni continentali aumentate del 5-10% nell’emisfero settentrionale.
6) Forti precipitazioni aumentate alle medie ed alte latitudini.
7) Frequenza ed intensità della siccità aumentate soprattutto in Asia ed Africa.
8) Livello medio del mare, su scala mondiale, aumentato con incremento annuale da 1 a 2 mm.
9) Durata del gelo su fiumi e laghi diminuita di circa 2 settimane, nell’emisfero settentrionale.
10) Superficie e spessore del ghiaccio marino artico : la superficie è diminuita del 10-15% e lo
spessore del 40%.
11) Ghiacciai non polari: estesa diminuzione.
12) Fenomeni del Niño assai più frequenti e persistenti, soprattutto negli ultimi 30 anni. El
Niño"è un disturbo del sistema atmosferico oceanico del Pacifico tropicale che ha importanti
conseguenze per il clima di tutto il pianeta. Tra queste, citiamo l'incremento della piovosità
sull'America Centrale e sul Perù, con alluvioni.
13) Stagioni di fioritura allungate da una a quattro giorni circa per decennio nel corso degli
ultimi 40 anni nell’emisfero settentrionale, in particolare alle latitudini più alte.
14) Specie vegetali ed animali: spostamento verso i poli ed in altitudine per piante, insetti,
uccelli e pesci.
15) Riproduzione, fioritura e migrazione: fioritura più precoce, ritorno primaverile degli uccelli
migratori più precoce, date delle stagioni di riproduzioni anticipate e comparsa anticipata
degli insetti nell’emisfero settentrionale.
16) Sbiancamento delle scogliere coralline osservata più di frequente, soprattutto durante i
fenomeni del Niño.
Le prospettive pratiche , per il futuro, non sono certo rosee e si possono riassumere come segue:
1) Un incremento della temperatura superficiale globale media da 1,4 a 5,8 °C negli anni dal 1990
al 2100 : anche la velocità di riscaldamento dovrebbe aumentare rispetto al 20° secolo.
2) Estati torride, siccità, suoli più aridi, spostamento a Nord della vegetazione.
3) Eventi meteorologici più violenti: tempeste, tornadi, uragani più violenti e frequenti.
4) Innalzamento del livello dei mari.
5) Più facile trasmissione d’alcune malattie infettive, fra cui malaria e febbre gialla, di cui è stato
stimato che le zone a rischio potrebbero passare dal 45% al 60%.
6) Più precoci e più prolungate esposizioni a pollini ed a spore fungine con possibilità di maggior
numero di sensibilizzazioni.
7) I cambiamenti climatici avranno ripercussioni anche sulle economie; la desertificazione porterà
problemi all'agricoltura, ai metodi d’irrigazione, alla disponibilità d’acqua.
I vari autori discutono molto sulle eventuali cause antropiche delle variazioni climatiche. Il
ricercatore Anders Moberg (13)dall'Università di Stoccolma, in Svezia, in collaborazione con
colleghi russi ha pubblicato uno studio interessante sulla rivista “Nature” che smentirebbe l’ipotesi
dell’effetto serra. Analizzando stalagmiti e strati sul fondo dei mari e dei laghi, la valutazione degli
anelli del tronco degli alberi ed altri elementi raccolti nell’emisfero settentrionale, ha valutato che
l’epoca con temperature più elevate in passato si verificò circa 1.000 anni or sono, nel Medioevo.
Le temperature di allora corrispondono a quelle medie del XX secolo, seguita da un periodo più
freddo intorno al 1600, ma un’impennata come quella verificatasi negli anni ’90 non era mai
comparsa prima. I risultati dello studio dimostrerebbero che il cambiamento di temperatura durante
gli ultimi 500 anni è stato circa da 0.65 a 0.9 gradi Celsius. Questo suggerirebbe l’esistenza di un
ciclo multicentenario di naturale variabilità climatica. Le cause di tali oscillazioni di temperatura
potrebbero essere determinate da piccole fluttuazioni nell'orbita terrestre e da oscillazioni sul
proprio asse che, pur essendo eventi minori, potrebbero mutare drammaticamente l'esposizione del
pianeta alla radiazione solare. Sembra dunque che le evidenze sul cambiamento climatico, e sulle
sue conseguenze più immediate non esitano più ragionevoli dubbi. Tuttavia sulle cause del
cambiamento climatico si è innescato un’accesa polemica a livello mondiale, tra fautori dell’effetto
serra a genesi antropica come causa primaria e sostenitori di un’ipotesi non antropogenetica. Poiché
le motivazioni alla base di queste posizioni possono essere condizionate da scelte politiche ed
economiche, più che di tipo meramente scientifico, non è facile, per chi voglia raggiungere una
opinione sicura, avere informazioni obiettive.
Figura 5- Logo del Protocollo di Kyoto
Sta di fatto che L'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change fondato dalla World
Meteorological Organization e dal United Nations Environment Programme per valutare le
informazioni scientifiche, tecniche e socio-economiche rilevanti per la comprensione del
mutamento climatico, i suoi impatti potenziali e le scelte per fronteggiarlo) nel suo rapporto del
2001 ha dichiarato che “vi sono forti evidenze che il riscaldamento osservato negli ultimi 50 anni è
attribuibile ad attività umane”. Inoltre il dibattito internazionale, dopo una serie di Conferenze
organizzate dalle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (Unfccc) il 16 febbraio 2005 è entrato in
vigore il protocollo di Kyoto, l'accordo firmato nella città giapponese nel 1997, con cui 160 Stati si
impegnavano ad attuare politiche industriali e ambientali tendenti a ridurre il surriscaldamento del
pianeta (14). Tutti i Paesi aderenti, fra cui l'Italia (15) , l'Unione Europea, la Russia e il Giappone,
ma non gli Usa, dovranno controllare e ridurre le emissioni di gas inquinanti nell'atmosfera,
soprattutto quelle di derivazione industriale. Sanzioni economiche sono previste per quegli Stati che
non rispetteranno le regole.
L'accordo di Kyoto si è dato obbiettivi impegnativi: ogni singolo Stato infatti entro il quinquennio
2008-2012 dovrà ridurre, in proporzione, il totale d’emissioni inquinanti prodotte nel suo territorio,
avendo come base di calcolo le emissioni prodotte nel 1990. Con il protocollo di Kyoto prenderà
perciò il via a livello mondiale un gigantesco e costoso processo di riconversione delle tecnologie
industriali che dovrà essere completato nel 2012. Data la complessità delle iniziative e il loro
rilevante costo economico, le nazioni firmatarie decisero di rendere vincolante il protocollo
solamente quando lo stesso avesse ottenuto la ratifica da parte delle nazioni industrializzate che
emettono complessivamente più del 55% dell'anidride carbonica. Quel limite è stato raggiunto e
superato nel novembre 2004 con l'adesione definitiva da parte della Russia, che porta in dote il
17,4% delle emissioni, e così il totale d’emissioni dei Paesi aderenti è arrivato al 61,6%. Tra i paesi
non aderenti figurano gli Stati Uniti (responsabili del 36,1% del totale delle emissioni), Australia
(responsabile del 2,1%), Cina (11%), non vincolata al Protocollo perché non assimilata alle grandi
potenze, India (3,4%), non tenuta ad alcun vincolo perché paese in via di sviluppo. La critica
fondamentale al Protocollo riguarda l'efficacia dell' accordo : perfino una piena attuazione del
Protocollo avrebbe un impatto limitato, nonostante i costi elevati; in ogni caso occorre prepararci ad
un certo livello di cambiamento climatico.
Fig. 6 - Logo della Conferenza di Montreal
L’undicesima conferenza delle parti (COP11) del protocollo di Kyoto, tenutasi a Montreal dal 28
novembre al 10 dicembre 2005 ha rappresentato un ulteriore (anche se piccolo) passo in avanti nella
lotta internazionale al cambiamento climatico. E’ stato deciso che il Protocollo di Kyoto andrà
avanti anche dopo il 2012 con ulteriori obiettivi di riduzione delle emissioni. Il nuovo accordo è
stato sottoscritto a Montreal da oltre 150 Paesi tra i 188 presenti al Summit delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici: tra questi non vi sono gli Stati Uniti, che però hanno accettato di entrare in
un dialogo globale sul futuro della lotta al riscaldamento globale.
In primo luogo si è dato inizio al piano operativo del Protocollo di Kyoto, con un impegno di oltre 7
milioni di euro, di cui 3,6 dall’Unione Europea. Inoltre, per evitare un abbandono repentino degli
impegni sottoscritti alla scadenza dei termini temporali dell’accordo, in altre parole dopo il 2012, si
è deciso la costituzione di gruppi di lavoro, dal maggio 2006 al fine di delineare gli scenari futuri
della lotta ai cambiamenti climatici. A Montreal sono stati approvati alcuni provvedimenti
finalizzati a rendere pienamente operativo il Protocollo di Kyoto. Il primo documento conclusivo
formalizza un un gruppo di lavoro che riceve il mandato di pensare e proporre la strategia per il
secondo periodo di azione del Procollo, dopo il 2012, che porti a ulteriori riduzioni da parte dei
paesi sviluppati. Inoltre, gli Stati che hanno ratificato il procollo di Kyoto hanno approvato le regole
operative del Protocollo (accordo di Marrakesh) e, in chiusura, tutti gli altri punti di trattativa. In
particolare: l’adozione di regole per il rispetto del Protocollo stesso), di progetti nei paesi in via di
Sviluppo che danno la possibilità a chi li fa di ottenere dei crediti per le emissioni di anidride
carbonica, di progetti nei Paesi delle economie in transizione (ex Paesi dell’Est), per finire le azioni
su foreste e agricoltura con la proposta di arrestare il processo di deforestazione al fine di limitare le
emissioni di anidride carbonica.
Tuttavia ancora una volta gli Usa, principali produttori di gas serra, non hanno preso impegni
vincolanti per tagliare le emissioni, anche se formalmente, per la prima volta, si sono detti
disponibili per il futuro ad una maggiore collaborazione, al fine di frenare il riscaldamento del
pianeta. Da parte degli U.S.A. si indica la soluzione su nuove tecnologie tra cui il "carbone pulito",
il nucleare, dal sole e dai venti, lo sviluppo dei motori ad idrogeno, ecc. Le motivazioni portate
sembrano prevalentemente di ordine economico. Resta la considerazione di fondo che le tecnologie
pulite sono importanti, ma che non possono sostituire la riduzione globale di emissioni necessaria
per combattere il cambiamento climatico. Il quadro per il futuro non è certo dei più confortanti.
migliardi di tonnellate di carbone
RIDUZIONE DI CO2 DOPO KYOTO
8
5,8 5,8
1990
6 6
1995
6,4 6,3
2000
7,6
7 6,8
2005
2010
Fig. 7 – Valutazione di riduzione delle emissioni di
CO2 a seguito del Protocollo di Kyoto
(fonte: Whordl Resources Institute).
RIPERCUSSIONI SULLE MALATTIE ALLERGICHE
Negli ultimi 500 anni sono state importate in Europa da ogni angolo del mondo circa 12 000 specie
vegetali, soprattutto piante decorative da giardino. La maggior parte è rimasta nei giardini, 300
specie si è diffuse in altri spazi vitali (le cosiddette neofite). Circa una dozzina (le cosiddette e
piante invasive) sono diventate un serio problema. Queste specie erbacee, poco utili all’agricoltura,
si definiscono infestanti. Indesiderate e sempre contrastate, le "malerbe" sono specie con ben
determinate caratteristiche ecologiche. In primo luogo esse sono annue, con ciclo biologico
sincronizzato con quello delle colture, in modo che abbiano già sparso i semi prima della mietitura;
inoltre hanno una notevole produzione di semi; si adattano a un'ampia gamma di condizioni
ambientali. Esse non hanno trovato nel nuovo territorio competitori né parassiti o predatori ed
hanno avuto vita facile contro le impreparate specie "indigene". Le specie invasive contribuiscono a
ridurre la diversità biologica a livello mondiale. Nella competizione per la luce, l’acqua e le
sostanze nutritive, le neofite invasive sono superiori alle specie indigene. Se sussistono condizioni
favorevoli, possono addirittura formare delle vere e proprie monocolture. Esse difatti sono piante
perenni, sono capaci di adattarsi ad ogni substrato, hanno notevole capacità di riproduzione
vegetativa, possono infine produrre delle tossine che inibiscono lo sviluppo delle concorrenti. Le
cause del comportamento invasivo non sono tutte chiare, ma due fattori sembrano giocare un ruolo
importante: l'assenza di predatori e di malattie specifiche nella regione d'introduzione e la
disponibilità di habitat perturbati. Una delle prime piante invasive è stata robinia (Robinia
pseudacacia), nota anche come acacia o gaggìa (attenzione però a non confonderla con Acacia, un
genere di piante africane o australiane). E' un albero con rami spinosi, foglie composte
imparipennate e infiorescenze bianche, appartenente alla famiglia delle leguminose. Importata in
Europa dall'America del Nord nel 1601 da Jean Robin, curatore dell'orto botanico di Parigi, che le
diede il proprio nome. Quando si insedia prevale su tutte le altre specie arboree autoctone che
scompaiono assieme a molte specie erbacee e arbustive. Trattandosi di una specie delle leguminose
può svolgere un’azione allergenica con fenomeni di sensibilizzazione da “vicinanza”.
Figura 8- Ailanthus altissima
Un’altra pianta infestante importante è l’Ailanthus altissima, genere delle Simaroubaceae, le cui
foglie emanano un odore poco piacevole è capaci di colonizzare terreni nudi o poco fertili
diffusione lungo i binari della ferrovia. Il suo polline può produrre fenomeni allergici(16,17) . La
Buddleja davidii, genere delle Scrophulariaceae, arbusto originario dell'estremo oriente, noto per le
grandi infiorescenze coniche di colore viola.
Figura 9 – Phytolacca americana
La Phytolacca americana, famiglia delle Phytolaccaceae, curiosamente chiamata Uva Turca, è
originaria del continente americano. Invade tutti i luoghi incolti e i cumuli di macerie, insieme con
altre erbacee tipiche di questi ambienti e non a caso anch'esse esotiche. E’ una pianta tossica, non
sono segnalate per ora manifestazioni allergiche.
La Solidago canadensis e S. gigantea, famiglia delle Composite, diffuse a scopo ornamentale per le
folte infiorescenze gialle, anch’esse potenzialmente allergeniche, ed il Topinambur (Helianthus
tuberosus) importato a scopo alimentare per i tuberi commestibili, anch’esso appartiene alla
famiglia delle Composite e può dare sensibilizzazioni allergiche vistose. Il Carpobrotus
acinaciformis o fico degli ottentotti, Genere delle Aizoaceae. pianta succulenta ed infestante che si
accresce sulle sabbie o sulle rocce. Fiorisce da aprile a maggio.
Figura 10- Solidago
L’Ambrosia, una pianta erbacea poco appariscente che fiorisce nei campi e lungo i sentieri, genera
reazioni allergiche o addirittura gravi forme asmatiche. Si ipotizza che la diffusione della Ambrosia
nel centro Europa sia la conseguenza della contaminazione di sementi importate dal Nord America;
per quanto riguarda il Nord Italia il focolaio iniziale si è sviluppato nelle vicinanze dell'Aeroporto
della Malpensa, dove il traffico di derrate inquinate (sementi oppure mangimi per uccelli), associato
a condizioni climatiche e ambientali favorevoli (aree agricole dimesse) può avere dato inizio alla
propagazione di tale infestante. La pollinosi da Ambrosia è divenuta rapidamente, in Europa e nel
Nord Italia una delle patologie allergiche più comuni (18-22). Infatti la sintomatologia comporta la
presenza di asma bronchiale o asma associata a rinite nel 41% dei pazienti, di oculorinite nel 58,5%.
E' caratteristico della allergia ad Ambrosia l'inizio più tardivo rispetto ad altre pollinosi, talora
anche in pazienti ultrasessantenni. I pazienti sono in prevalenza polisensibilizzati, specie a
Graminacee, Artemisia, Acari. I monosensibilizzati sono solo l'8, 4%. La pollinazione è massima
tra la seconda metà del mese di agosto e la prima metà del mese di settembre.
Figura 11- Eichhornia crassipeps
Importanti, tra le infestanti, anche le piante acquatiche. Tra queste la Caulerpa taxifolia, un'alga
verde con tallo lungo fino a qualche metro, strisciante sul fondo sabbioso, dal quale emergono delle
ramificazioni che ricordano la forma delle foglie del tasso (da qui l'epiteto specifico). Produce
tossine perciò è chiamata “alga killer”. In origine era presente nei mari caldi, poi si impiantò nel
Mediterraneo, sfuggita all'acquario di Montecarlo, all'inizio degli anni '80. La sua diffusione è un
problema in quanto essa sostituisce la Posidonia oceanica, tracheofita endemica del mediterraneo.
La Eichhornia crassipes, il giacinto d'acqua, originario del Brasile e divenuto assai presente nei
laghi Nord Americani e africani compromettendone l'equilibrio ecologico. Produce dei fiori grandi
e molto attraenti, per questo è impiegata come pianta ornamentale. Recentemente, nell’estate del
2005, è saltata agli onori della cronaca, l’alga l’Ostreopsis ovata per cui circa 80 bagnanti che
avevano passato la giornata in una spiaggia di Genova hanno dovuto ricorrere alla cure mediche
per preoccupanti sintomi di intossicazione: febbre alta, irritazione alle mucose, leucocitosi. Le
analisi dell’Arpal (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente), identificarono un’elevata
concentrazione di “Ostreopsis ovata”, un’alga tossica che prolifera dove il mare è inquinato, o
comunque mal depurato, e che ha sprigionato in acqua e in aria una neurotossina che ammazza i
pesci e intossica l’uomo. I problemi non erano limitati solo a coloro che erano stati a contatto con
l’acqua marina, ma anche per coloro che erano sulla spiaggia o sul lungomare. Appartenente alla
famiglia delle Dinoficee l’Ostreopsis (di cui esistono diverse specie siamensis, heptagona,
lenticularis, mascarenensis) è una microalga d’origine tropicale che può produrre tossine che
possono causare mira nei pesci e uno stato morboso acuto nell’uomo caratterizzato da vertigini,
febbre alta, midriasi, tosse. Le piante invasive sono numerose e modificano sostanzialmente il
quadro della flora locale. Non è facile porvi rimedio. La soluzione migliore sarebbe quella di
trovare per ogni pianta il naturale predatore o parassita tuttavia gli effetti di una introduzione di un
altro organismo sono spesso imprevedibili e potenzialmente dannosi. L’inserimento delle piante
infestanti è in parte opera dell’uomo, ma in parte dipende anche da variazioni ambientali, come
quelle climatiche. A questo proposito occorre affermare che esistono ancora pochi lavori sul
rapporto clima e produzione di polline (23,24).
Figura 12 - Il fenomeno del Nino. Profilo delle
temperature dell’oceano. (NASA Goddart).
Uno di questi studi, assai documentato, ha riguardato il fenomeno del Niño. Questo è un evento
meteo oceanico del Pacifico tropicale la cui presenza ha importanti conseguenze per il clima di tutto
il pianeta, con alluvioni nel sud dell’America e siccità nei paesi del Pacifico orientale. El Niño era il
nome assegnato dai pescatori dell'America Meridionale al fenomeno di un insolito aumento della
temperatura dell'acqua lungo le coste pacifiche durante il periodo natalizio. El Niño, in spagnolo,
significa infatti "Il Bambino" con riferimento a Gesù. A volte il fenomeno s’inverte chiamandosi
La Niña ("La Bambina") oppure El Viejo (Il Vecchio). Utilizzando i dati di 11 campionatori
correlati con i dati di 10 stazioni meteo del New England e con quelli di 10 servizi di terapia
intensiva, del medesimo territorio, sono stati studiati gli effetti del "El Niño" di 1997-1998 , nello
stato del New England. Durante la stagione pollinica del 1998 si verificò un notevole aumento delle
crisi d’asma, riniti e sinusiti. Inoltre la maggiore presenza di spore fungine nell’aria si verificò con
due o tre mesi in anticipo rispetto all’anno precedente. Anche le conte polliniche erano più elevate
che nell’anno precedente e con un anticipo da due a quattro settimane, a seconda della pianta
considerata (25). E’ stato anche valutato dettagliatamente il rapporto tra la NAO (Oscillazione Nord
Atlantica), che è una variazione ciclica della pressione atmosferica che regola il clima nel nostro
emisfero, e l’inizio della stagione di fioritura in Europa (26). Un altro studio importante è quello di
Wayne e coll. (27) che hanno studiato il comportamento di piante d’Ambrosia in serre in cui veniva
immesso una concentrazione di CO2 raddoppiata. I risultati dimostravano un corrispondente
aumento del numero di granuli di polline di Ambrosia immesso nell’ordine del 61%. Su questa
strada proseguirono, un anno dopo, Ziska e coll. (28,29). Questi ricercatori hanno dimostrato che
due parametri tipo dell’attuale variazione climatica, ovvero la temperatura dell’aria e le
concentrazioni di CO2 sono significativamente più elevati nelle aree urbane rispetto a quelle rurali.
I valori quotidiani medi della concentrazione di CO2 in ambienti urbani erano circa del 30% più alti
di quelli degli ambienti agricoli. Così pure la temperatura, più alta di circa 2 gradi C°. Le piante
d’Ambrosia, presenti in quelle aree, crescevano più in fretta e fiorivano più precocemente nelle aree
urbane rispetto a quelle rurali. Questi dati confermano l’importanza delle variazioni climatiche sulla
produzione di pollini e conseguentemente sulla patologia dei pazienti allergici. E’ verosimile che
identiche variazioni possano avvenire anche con altre piante. Difatti un analogo lavoro è stato
effettuato da Armentia e coll.(30), per le Graminacee, pur senza determinare i valori della CO2, ma
concordando con una maggiore produzione di polline nelle aree urbane. Alcuni autori (31,32)
sostengono che livelli più elevati di CO2 e di temperatura possono aumentare la produzione
pollinica ed anticipare la stagione di fioritura e conseguentemente che l’allergia ai pollini è
aumentata a causa di queste variazioni climatiche. De Marco e coll (33) in Italia hanno dimostrato
che la prevalenza dell’asma aumenta quando la media annuale della temperatura aumenta e
diminuisce l’intervallo. Inoltre, il clima interagisce con l’esposizione all’aperto con NO2,
aumentando il rischio per la rinite allergica in persone esposte a temperature stabili ed alte.
Un altro studio (34) che tendeva a dimostrare l’influenza del clima sui sintomi respiratori,
utilizzando i dati forniti da 146 centri che avevano partecipato allo studio ISAAC che si è svolto dal
1992 al 1996), utilizzando dei questionari, avrebbe dimostrato che, in Europa Occidentale, la
prevalenza dell’asma è aumentata del 2,7 %, assieme ad un incremento della media annuale
d’umidità ambientale del 10%.
CONCLUSIONE
In definitiva si può tranquillamente affermare che esistono evidenze che dimostrano che il
cambiamento climatico a cui stiamo assistendo, sul nostro pianeta facilita la diffusione di particolari
specie di piante in nuove aree geografiche, in cui prima non esistevano. Il riscaldamento
dell’atmosfera inoltre facilita fioriture più precoci e più prolungate. La naturale conseguenza è
consistita nel fatto che, in Europa, in questi ultimi trent’anni, si è incrementata notevolmente la
distribuzione geografica di piante allergeniche (31, 35). Alcune specie assai aggressive, come
l’Ambrosia, hanno fatto la loro comparsa in regioni dove prima erano assenti. Inoltre, sempre in
Europa, la media della durata della stagione di fioritura si è allungata di circa 10 giorni (36, 37). In
queste modificazioni ambientali si può identificare una delle cause più significative che hanno
determinato, nella seconda metà del ventesimo secolo, un incremento delle patologie allergiche.
Analogo ragionamento si può fare per le spore fungine, di cui è documentata una maggiore e più
protratta presenza in atmosfera. Sicuramente le relazioni tra cambiamento climatico, allergeni e
malattie allergiche richiedono un ulteriore approfondimento, ma è anche evidente che, sia
consigliabile un’attività di monitoraggio degli allergeni in atmosfera e un miglioramento
dell’attività previsionale per pollini e spore fungine, al fine di predisporre tempestivamente tutti i
rimedi preventivi necessari, diversificati per allergene.
Abbiamo visto, nel corso di questo capitolo, che lo scenario che abbiamo di fronte è in rapida
evoluzione e che i probabili futuri cambiamenti climatici comporteranno notevoli variazioni anche
delle patologie allergiche, e d’altro tipo, che dovremo affrontare in avvenire in maniera adeguata.
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