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4 COPERTINA
N. 17 / 2010 EXTRA
LE MONTAGNE
NEMICHE
Le eruzioni dell’islandese Eyjafjallajökull, che hanno causato una settimana
di panico e disagi nei cieli di tutta Europa (e non solo), hanno spinto l’opinione
pubblica a focalizzare l’attenzione sui vulcani, la cui attività è troppo spesso
sottovalutata, ma il cui impatto sulla vita del pianeta è fondamentale.
DA SAPERE
@
Se scoppia
la pietra gialla…
È un parco di straordinaria bellezza,
il più antico mai fondato. È pure una
visitatissima meta turistica grazie ai
suoi 300 geyser. Ma perché quel nome? Ovvio: per il caratteristico colore del terreno, ricco di composti solforosi. Infatti Yellowstone è un’area
vulcanica tuttora attiva. Si presta
alle escursioni e perfino ai cartoni
animati (ha dato il nome al parco
Jellystone di Yoghi e Bubu, ricordo
d’infanzia per chi ha una certa età),
ma di fatto è un supervulcano. E il
prefisso «super-» non è un’esagerazione: 2 milioni di anni fa l’eruzione
produsse un cratere da 80 chilometri. Poi si ripeté 1,2 milioni di anni fa
e ancora 650 mila anni or sono. In
quest’ultima occasione il materiale
espulso, partito dal Wyoming, arrivò fino in Texas e in California. Una
nuova eruzione non sembra imminente, ma alcuni movimenti della
falda sembrano indicare un aumento della pressione magmatica profonda. D’altronde le esplosioni dello Yellowstone si ripetono ogni 600
mila anni circa. Considerando l’epoca dell’ultima, lasciamo a voi le conclusioni…
À Gas solforosi emergono dalle fratture nel suolo, penetrano nei polmoni, infiammano i bronchi. Il respiro, già
greve, si frammenta in spasmi. L’abisso tenebroso è rotto da un tenue bagliore rossastro all’orizzonte. La cenere, umida e pesante, si insinua fino in
gola. I conati squassano lo stomaco
ed è vano ficcarsi due dita in gola per
liberarsi. La terra intanto trema. Dapprima una lenta, lunga onda quasi
impercettibile. Poi una vibrazione accompagnata da un rombo sordo. La
poltiglia fangosa sotto i piedi inizia a
scivolare, destabilizzata. Si trasforma
in una valanga impetuosa, un torrente di fango che travolge tutto. Infine il
boato dell’esplosione rossastra nella
montagna sventrata. Il magma. I gas
incandescenti che annientano. Il
buio.
Mordor? No, anche se Sauron ci si sarebbe trovato a proprio agio. D’altronde Tolkien non ha inventato nulla: la tradizione vuole infatti che si sia
ispirato a Stromboli. Perché quello
descritto è lo spettacolo presente agli
occhi dei testimoni di un’eruzione.
Fonti di morte e di terrore per i nostri
antenati, fonti di conoscenza ma pur
sempre di morte per gli scienziati
moderni.
Si chiama VEI: Volcanic Explosivity Index. Ideato dai vulcanologi Chris Newall e Steve Self nel 1982, con una
scala da 1 a 8 serve per catalogare la
violenza di un’eruzione, considerando la magnitudo (stabilita sulla base
della massa espulsa) e l’intensità (basata invece sulla velocità del materiale eiettato). Forse a qualcuno sembrerà arido misurare l’eruzione di un vulcano, ma così funziona la scienza: per
tutto c’è un numero. In questo caso la
scala è logaritmica: un termine in ap-
parenza complicato che in realtà
esprime solo la crescita di 10 in 10
della scala. Sicché un’eruzione con VEI
5 è 10 volte più grande di una con VEI
4. E una con VEI 7 un milione di volte
di una con VEI 1. È tanto, è poco? Per
intenderci, la recente eruzione dell’islandese Eyjafjallajökull (ci rifiutiamo
di impararne il nome e lo copincolliamo qui direttamente dai comunicati
delle agenzie di stampa) si situa intorno a VEI 3. Ma c’è di peggio. Eccome.
La fregatura, coi vulcani, è che non ci
puoi fare niente. Se non sloggiare,
sempre ammesso che l’eruzione sia
stata prevista. E oggi i vulcanologi, in
effetti, hanno scoperto parecchi fenomeni indicatori, dalle scosse sismiche preliminari fino al riscaldamento
delle sorgenti. Ma se andarsene non è
mai né comodo né facile, spesso può
essere anche impossibile. E allora le
vittime possono contarsi a migliaia e
intere civiltà ritrovarsi spazzate via.
Sembra troppo? Prendiamo il caso
del piccolo arcipelago di Santorini,
nell’Egeo: lì in mezzo, al posto dell’arco circolare oggi riempito dal mare,
c’era un’unica isola, Thera. Era un vulcano. E venne sventrata nel XVII o for-
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EXTRA N. 17 / 2010
se nel XVI secolo prima di Cristo. Lo
tsunami scatenato provocò il collasso
della fiorente, contemporanea civiltà
minoica. A posteriori, stima del VEI di
Thera: 7.
Compiamo un balzo temporale di
3.400 anni e piombiamo in Estremo
Oriente. Mentre in Europa Napoleone
sta per affrontare l’ultimo atto della
propria avventura, nell’aprile del 1815
il vulcano Tambora, nell’indonesiana
isola di Sumbawa, esplode. Oggi si
valuta l’evento come VEI 7. Il boato fu
sentito fino a Sumatra, 1.600 chilometri più in là. 34 giorni di eruzione lasciarono 12 mila vittime umane sul
campo, seguite da altre 80 mila nei
mesi seguenti, uccise dalla carestia.
Indirettamente, nei mesi seguenti se
ne accorse anche il resto del mondo:
il 1816 viene ricordato come «l’anno
senza estate». Infatti il Tambora espulse 200 milioni di tonnellate di gas ric-
chi di zolfo, poi sparsi per tutto il pianeta dai venti d’alta quota. Dalla reazione con l’acqua derivarono 150 milioni di tonnellate di aerosol di acido
solforico. Risultato: radiazioni solari
bloccate ovunque, raffreddamento in
media di 0,7 gradi. Qualcuno insinua
che le cupe atmosfere del «Frankenstein» di Mary Shelley e gli straordinari colori dei tramonti dipinti da J.M.W.
Turner siano frutto di quella devastazione.
«Sì, ma adesso e da noi non succede».
Roba da Paesi esotici, insomma. Al
massimo l’Etna crea un po’ di scompiglio. Oppure l’ultimo, l’Eyjafjallajökull
(sempre col copincolla), costringe al
grounding decine di compagnie aeree e centinaia di migliaia di viaggiatori. Una gran seccatura, ma niente di
grave. Niente che non passi con qualche bivacco in aeroporto. Beh, non è
mica vero. Consideriamo proprio l’Is-
landa. Fra il 1783 e il 1784 il vulcano
Laki eruttò per otto mesi e sparpagliò
14 chilometri cubi di materiale. Nel
quale c’erano parecchi gas velenosi.
La metà degli animali domestici dell’isola morì. La carestia successiva uc-
cise un quarto della popolazione islandese. E, prima che qualcuno faccia
spallucce e pensi che comunque anche l’Islanda è lontana dalla tranquilla, placida Svizzera, un dato: si stimano in migliaia i morti per intossicazio-
ISLANDA: FORSE IL PEGGIO DEVE ANCORA COMINCIARE
La ricerca non è recente: ha ben 12 anni. E nella scienza 12 anni sono un’eternità. La sua
attualità sta però negli avvenimenti recenti: l’eruzione dell’Eyjafjallajökull, capace di bloccare i trasporti aerei in Europa.
Un evento occasionale o la prima manifestazione di una lunga serie? La seconda ipotesi
è quella di Gudrun Larsen, Magnus T. Gudmundsson e Helgi Björnsson, dell’Università
d’Islanda. Gli studiosi pubblicarono, appunto nel 1998, una ricerca sulla rivista «Geology»
nella quale rendevano conto dei propri risultati. I tre avevano esplorato 800 anni di misurazioni geologiche e di cronache storiche. E avevano scoperto che l’attività vulcanica islandese è ciclica, con picchi ogni 50-80 anni. Un esempio: nella regione vulcanica del
ghiacciaio Vatnajökull nell’arco di quattro decenni si verificano in media tre eruzioni nelle
epoche di scarsa attività, ma diventano 11 quando il ciclo islandese è al massimo. Buono
a sapersi, ma… dov’è il problema? Eccolo: stiamo andando verso un nuovo massimo.
Non a brevissimo termine, però possiamo aspettarci un’intensificazione dell’attività fra il
2030 e il 2040. Dunque l’Eyjafjallajökull, se hanno ragione i tre ricercatori islandesi, sarebbe solo il prodromo di tempi ben più grami, nei quali il rientro a casa dalle vacanze in
Giappone sarà il più modesto dei problemi.
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ne sul continente europeo. Perfino
l’Egitto subì le conseguenze dell’eruzione del Laki: un sesto della popolazione scomparso per colpa delle piene del Nilo improvvisamente diminuite. Quell’eruzione fu da VEI 6. Quella dell’indonesiano Krakatoa, esattamente un secolo dopo il Laki, ebbe lo
stesso VEI. E uccise 36 mila persone.
Per trovare qualcosa di analogo e recente dobbiamo arrivare al 1991, con
il Pinatubo, nelle Filippine: l’eruzione
più poderosa del XX secolo dopo il
Novarupta nel 1912. Ma, mentre quest’ultimo si trova nella scarsamente
abitata Alaska, il Pinatubo uccise 800
persone e provocò lo sfollamento di
decine di migliaia di altre. Sia il Pinatubo sia il Novarupta hanno prodotto
eruzioni da VEI 5. Ma c’è stato di molto peggio: il Toba.
Il lago Toba si trova nell’isola di Sumatra, in Estremo Oriente, ed è un vulcano. Anzi, è il più esteso lago vulcanico
del mondo: 100 chilometri di lunghezza. L’eruzione più devastante alla
quale l’umanità moderna abbia assistito nella propria storia ha squassato
il Toba 74 mila anni fa. Sulla scala VEI
merita un 8. I detriti espulsi formarono un volume di 3.000 chilometri cubi: se fossero stati tutti sparpagliati sul
terreno, avrebbero coperto tutta l’India con uno strato spesso un metro.
L’esplosione creò 5 miliardi di tonnellate di acido solforico nebulizzato, in
grado di filtrare il 90 per cento della
luce solare. Conseguenze: un inverno
vulcanico di almeno sei anni, con un
calo della temperatura media in tutto
il pianeta di 5, forse 6 gradi, e poi un
millennio di freddo prolungato. E
qualcuno c’era per assistere a tutto
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questo: i nostri antenati. Proprio allora l’Homo sapiens cominciava a muovere i primi passi, a colonizzare il pianeta uscendo dalla natìa Africa. C’è
qualche indizio delle conseguenze di
quella catastrofe per i nostri progenitori?
Sì, c’è: siamo noi. La genetica ci dice
che siamo tutti molto simili, nel nostro DNA. Troppo simili per esserci
evoluti senza ostacoli, ramificandoci
e differenziandoci fin dalla notte dei
tempi. C’è però una possibilità: in
qualche momento della storia ci sono stati dei «colli di bottiglia», ossia
eventi catastrofici che hanno lasciato
in vita solo piccoli gruppi, geneticamente vicini e quindi omogenei, dai
quali poi tutti noi siamo discesi. Ebbe-
ne, l’eruzione del Toba fu uno di questi. Immaginiamo allora quei gruppi
di umani confrontati con il freddo,
con l’oscurità, con la scomparsa delle
piante per colpa del buio che impedisce la fotosintesi e quindi degli animali che delle piante si nutrono. Immaginiamoli ghiacciati nei propri ripari di fortuna, decimati dal gelo, dalla fame, dalle malattie. Le stime valutano in poche migliaia i sopravvissuti,
scampati perché fortuitamente protetti in nicchie ecologiche lontane
dalla catastrofe. Oggi siamo sette miliardi grazie a loro.
E fra questi sette miliardi c’è anche
Piyush Jindal, governatore della Louisiana. Noto per un discorso pubblico
nel quale si chiede: «Ma a chi volete
che importi di monitorare i vulcani?».
Lungimirante davvero.
MARCO CAGNOTTI
([email protected])
Nelle foto alcuni vulcani in attività
nei vari angoli del pianeta.
A pagina 4 una cascata di lava che
fuoriesce dal vulcano filippino Mayon. A pagina 5 l’impronunciabile
islandese Eyjafjallajökull e la nube
di fumo che ha sparso sui cieli d’Europa. Qui sopra l’Etna durante una
periodica fase di eruzione.
In copertina il vulcano indonesiano
Anak Krakatau. (Keystone)
QUALE SARÀ IL PROSSIMO?
Colonne di fumo alte chilometri. Aeroplani inchiodati sulle piste. Centinaia di migliaia di persone intrappolate lontano da casa. Stavolta ci siamo accorti dell’emergenza vulcanica perché ha
colpito direttamente l’Europa. Ma fra un paio di
settimane sarà tutto dimenticato. E la prossima
eruzione ci sembrerà, come al solito, una faccenda esotica. Già, ma quale sarà? La rivista «Foreign
Policy» fa il punto sui vulcani a rischio di eruzione
entro breve. Il più preoccupante è il Merapi (foto)
in Indonesia. Brontola da un po’: nel 2006 ha ucciso 5.000 persone. Se vi sembra riduttivo definire
«brontolio» questa strage, sappiate allora che
ogni 1.000 anni il Merapi è capace di sputare un
chilometro cubo solo di magma, per non parlar
del resto sotto forma di colonna alta da 20 a 50
chilometri. L’ultima volta è successo nell’anno
1006 d.C. Oggi però 30 chilometri più a sud c’è
una città da mezzo milione di abitanti. Che non
dormono tranquilli. Poi c’è il Nyiragongo, in Africa, non lontano dalle 250 mila persone che vivono a Goma. Simile al Merapi, per la conformazione circostante presenta però un flusso lavico particolarmente veloce. Nel 2002 il fiume di magma
è arrivato fino al centro cittadino. In Asia, nella
Penisola di Kamchatka (che non esiste solo nel
Risiko), c’è l’Avachinsky: esplosivo, ha eruttato per
16 volte a partire dal 1737. I 200 mila abitanti della città di Petropavlovsk si aspettano da un momento all’altro un’eruzione esplosiva con un VEI
pari a 4. Non dev’essere un bel vivere. Infine
l’America. 5.000 morti nel 1902: questo il risultato
dell’ultima eruzione del Santa Maria, in Guatemala. È tuttora attivo e suscita molti pensieri negli
abitanti della vicina Quetzaltenango.