Vedere le politiche pubbliche

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Vedere le politiche pubbliche
Vedere le politiche pubbliche
1. Prime definizioni
1.1. La politica che manca all’italiano
Studiare le politiche pubbliche significa innanzi tutto accorgersi
della loro esistenza, considerare la possibilità di collegare tra loro i
diversi eventi che riguardano uno stesso problema di rilevanza collettiva: una legge per ridurre l’inquinamento atmosferico, ma anche l’intervista su questo tema a uno scienziato ambientalista durante un programma televisivo di grande ascolto; la sperimentazione di nuovi carburanti «puliti», ma anche le rivendicazioni dei vigili urbani responsabili dei controlli sulle emissioni degli autoveicoli.
Per il lettore italiano, questo primo passo è tutt’altro che scontato. Nel nostro paese, se si chiede agli studenti di un corso di politiche pubbliche di identificare le notizie di policy contenute in un quotidiano o in un telegiornale, in genere solo una parte delle informazioni pertinenti viene rilevata. Pochi si accorgono che l’incontro tra
un’associazione di produttori di un formaggio tipico e un sottosegretario per rivendicare il riconoscimento del marchio, oppure una sentenza della magistratura sui divieti di fumare, o la caccia al modulo
per il pagamento di qualche tassa possono essere notizie significative
per la ricerca.
Molti elementi congiurano contro la nostra capacità di riconoscere
a problemi quali la costruzione di un nuovo aeroporto, la regolazione
dell’immigrazione, l’indicazione della data di scadenza sui cosmetici,
alcuni tratti comuni talmente significativi da costituire l’oggetto di una
specifica riflessione scientifica.
Capitolo 1
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CAPITOLO 1
1.1.1. La politica assoluta
Il primo fondamentale problema per chi affronta lo studio delle
politiche pubbliche è riuscire a «fare spazio» nella propria idea di sfera pubblica per un’autonoma considerazione dei processi alimentati
dai problemi, dalle crisi, dalle soluzioni che oltrepassano l’ambito individuale, per sollecitare interventi di rilevanza collettiva.
In Italia, nella sfera pubblica campeggia sovrana quella che Pizzorno ha chiamato la politica assoluta: «L’azione politica, essendo intesa
come il solo tipo di azione capace di trasformare la società, è anche il
solo attraverso cui la vita dell’umanità, o di una nazione, può essere
migliorata in vista di un dato ideale» [Pizzorno 1993, 43].
Al centro della politica assoluta sta la convinzione che l’innalzamento della qualità della vita collettiva richieda il ricorso alle leve capaci di spostare i rapporti di potere politico1: la militanza nei partiti,
la mobilitazione, il voto, o l’uscita «antisistema» da una partita che si
considera ormai truccata. Le politiche relative – relative al traffico
nei centri urbani, ai corsi universitari, alle quote europee per i prodotti agroalimentari – possono comparire in questa visione solo
come variabili dipendenti, come ostacoli da superare, o come risorse
da utilizzare per aumentare il consenso. Nel nostro paese è diffusa
l’idea che politica nel senso di politics – le relazioni tra governanti,
leader di partito, elettori, basate sulla ricerca del consenso e/o del
potere – e politica nel senso di policy – le linee d’azione per fare
fronte a un problema collettivo – siano non un unico nome per due
fenomeni diversi, ma due aspetti di uno stesso fenomeno, di cui il
primo termine coglie i tratti decisivi, e il secondo aspetti tutto sommato derivati o secondari. Infatti l’italiano dispone di un unico termine per identificare questi due campi di azione di rilevanza collettiva. Possiamo sentir dire che «in politica sono i voti che contano» e
che «la politica pensionistica pesa troppo sul deficit pubblico», mentre inglesi e americani per analoghe affermazioni utilizzerebbero due
termini diversi, politics nel primo caso, e policy nel secondo [Heidenheimer 1985].
1.1.2. Questioni di vocabolario
Come spesso avviene quando diverse lingue coprono una stessa
gamma di fenomeni con diverse scansioni lessicali – gli esquimesi
1 «Certo, si può anche decidere di non fare politica: ma questo significherebbe
arrendersi, essere ignavi; significherebbe non assumersi le proprie responsabilità, oltre
che deludere le speranze di chi aspetta un’affermazione della cultura della legalità»:
Antonio Di Pietro, presentazione del volume La mia politica, Il fondaco di MicroMega, 1997.
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hanno molti termini per definire la neve, gli irlandesi per il colore
verde... – il grado di sensibilità alle sfumature è spia di universi culturali non sovrapponibili [Hjelmslev 1961, 56-57 trad. it.; Marradi
1984, 10]2.
Nel contesto linguistico anglofono, i due concetti che noi identifichiamo con l’unico termine politica godono di una grande autonomia
non solo lessicale, ma anche sostanziale. Nella prefazione ad un’ampia
opera sulla comparazione delle politiche pubbliche, Heidenheimer,
Heclo e Adams affrontano la questione
di come è operata la distinzione tra politics e policy nelle diverse tradizioni
linguistiche. Per gli scienziati politici di lingua inglese il problema è come
gettare un ponte sul fossato concettuale che separa fenomeni che sono distinti
da due denominazioni. Ma coloro che scrivono in francese, in tedesco e in
molte altre lingue, devono usare la stessa parola (in tedesco, Politik; in francese, politique) per fare riferimento sia alla politics sia alla policy. Quindi il
loro problema è esattamente l’opposto di quello dei loro colleghi anglofoni.
Questo può generare una confusione che può essere evitata da una migliore
comprensione sia delle cause sia delle conseguenze di questo rompicapo terminologico [Heidenheimer, Heclo e Adams 1983, vii].
Nel contesto politico e culturale americano, la distinzione scivola
spesso nell’aperta contrapposizione. Si rilegga ad esempio quanto scrive Lasswell, il fondatore delle policy sciences: «Il termine policy è libero da molte delle indesiderabili connotazioni collegate alla parola political, che spesso è considerata sottintendere ruoli partigiani e corruzione» [Lasswell 1951, 5].
Questa osservazione dimostra come quel che in una lingua è dato
per scontato, nell’altra possa essere giusto un problema di ricerca
[Beyme 1986, 541]: come entra la politica nelle politiche pubbliche?
In che senso possiamo dire che la loro essenza è politica? Che relazione c’è tra la produzione delle politiche e il ruolo dei partiti?
Una spia importante di quanto sia difficile far comunicare due universi semantici così diversi anche per gli studiosi di una stessa disciplina
è fornita da un dato. Chi agli inizi degli anni ’70 avesse letto le traduzioni italiane di due classici della scienza politica americana, quali Potere e
società, di Harold Lasswell e Abraham Kaplan [1950], e Il sistema politico di David Easton [1953], non avrebbe avuto modo di rendersi conto
che laddove nel primo testo si parlava di «linea di condotta»3, e nel se-
2 Questo capitolo riprende alcuni argomenti introduttivi allo studio delle politiche pubbliche svolti in Regonini [1989; 1995; 1996b].
3 «Una linea di condotta è un programma progettato di valori-fini e di pratiche;
il processo della linea di condotta è la formulazione, la promulgazione e l’applicazione
di identificazioni, domande ed aspettative riguardanti le future relazioni interpersonali
dell’io» [Lasswell e Kaplan 1950, 87 trad. it.].
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condo di «linea politica» o di «decisione politica»4, gli autori scrivevano
sempre e solo di politiche pubbliche, cioè di scuola, di sanità, di raccolta dei rifiuti5.
L’idea che questo tipo di problemi possa meritare tanta dignità in
Italia risulta estranea persino a quanti, rispetto ad essi, interpretano
ruoli da protagonisti. Infatti, il rapporto tra politica e politiche è comunque definito in termini di subordinazione anche da chi si trova
irretito quasi suo malgrado – sia pure da ministro – nella gestione del
policy making, ma continua a nutrire una sorta di complesso di inferiorità per i politici «con la P maiuscola», temprati dalle battaglie condotte nei partiti e per i partiti6. Professione politica, carriera politica, imprenditore politico: in italiano, tutte queste espressioni escludono senza ambiguità significati incentrati sul concetto di policy, sulle sue specifiche competenze, le sue logiche, le sue tecniche.
4 Questo brano, tratto dalla traduzione di Il sistema politico di David Easton:
«La società non è particolarmente interessata al potere come fenomeno in sé e per sé
o al governo in quanto tale. Il suo interesse è sempre derivato da una preoccupazione
pregiudiziale per la linea politica» suona nell’originale: «Society is not especially concerned with power as a phenomenon in and of itself or with government as such. Its
interest is always derived from a prior concern with policy» [1953, 147].
5 È interessante notare che all’epoca delle traduzioni esistevano numerosissimi
esempi, sia nel linguaggio colto, sia in quello parlato, in cui il termine «politica» era
utilizzato nel senso di policy. Per citare un solo caso, nella versione italiana del volume
di Walter Heller, Nuove dimensioni dell’economia politica [1966; trad. it. 1968], il termine policy è sempre tradotto linearmente con «politiche».
6 Una piccola antologia, rispettosa della par condicio, peraltro facile su questo
tema, potrebbe comprendere questi esempi.
Il ministro della Sanità, il liberale Francesco De Lorenzo, dopo cinque anni alla
guida del suo dicastero, alla domanda dell’intervistatore: «Se dovesse tirare un bilancio, rifarebbe il ministro della Sanità?» risponde: «Credo proprio di no. Dopo il governo Amato, basta. Tornerò a fare politica con la P maiuscola» («Corriere della
Sera», 13 gennaio 1993).
Silvio Berlusconi commenta la vittoria elettorale di Forza Italia alle elezioni politiche del 1994: «L’80 per cento dei nostri obiettivi l’abbiamo già raggiunto evitando
che l’Italia cadesse nelle mani delle sinistre. Abbiamo salvato il paese da un destino
illiberale e ora ci rimane da fare l’altro 20 per cento, dare all’Italia un buon governo»
(«Corriere della Sera», 23 maggio 1994).
Roberto Maroni, ministro dell’Interno del governo Berlusconi, leghista, annuncia
la sua intenzione di dedicarsi maggiormente alla risoluzione delle tensioni interne alla
coalizione di governo: «Ora che la macchina del Viminale è ben oliata, io posso dare
l’input ed essa funziona da sola» («Corriere della Sera», 24 ottobre 1994).
Il segretario del PDS Massimo D’Alema, nel corso di un seminario sui nuovi impegni del centro-sinistra, secondo una trascrizione non autorizzata, afferma: «Io non
conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica»
(«Corriere della Sera», 12 marzo 1997).
L’ex segretario della Democrazia Cristiana Ciriaco De Mita afferma in
un’intervi- sta: «Chi immagina la politica come semplice risposta a un problema
particolare è fuori strada [...]. Aldo Moro spiegava che “la politica non è un arido
elenco di cose da fare”» («Corriere della Sera», 22 agosto 1997).
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In fondo, anche la rigida distinzione tra politica e amministrazione,
periodicamente riproposta come soluzione nel dibattito pubblico, è
una tenaglia da cui la dimensione del policy making esce stritolata
[Wildavsky 1992; Dente 1995]. Le promesse legate ad una maggiore
separazione di queste funzioni tendono a oscurare il fatto che in molti
casi le soluzioni avanzano proprio grazie alla fluidità dei processi decisionali garantita dalla ridondanza degli obiettivi, dalla sovrapposizione
delle competenze e dalla flessibilità dei confini. Per uno studioso di
politiche pubbliche, i problemi non risiedono in questi debordamenti,
per altro comuni a tutte le scelte di una qualche complessità nelle
democrazie contemporanee, ma piuttosto nella loro distorta rappresentazione, in genere fondata sulla rimozione della differenza che passa
tra occuparsi di una legge e occuparsi di un problema di rilevanza
collettiva.
In effetti, a rendere difficile l’importazione di un discorso di public
policy nel nostro paese non è solo il sostantivo, ma anche l’aggettivo,
pubblico, che noi associamo al concetto o di spettatore o di statale.
Nella letteratura politologica americana di matrice pragmatica, questo
termine rinvia a una tensione e a un impegno che ci coinvolgono in
quanto individui non completamente liberi di disporre delle nostre
vite, perché legati ad altri da quella comune avventura che è la convivenza entro una stessa epoca e una stessa società. Questo legame è
dotato di una tenacia originaria più forte delle formule politico-istituzionali in cui si concretizza. Come scrive David Mathews, «L’ambito
del pubblico è più antico, più inclusivo e più fondamentale del mondo
del governo» [1994, 202]. Su questa tensione, oltre che sulle formule
istituzionali, si regge l’esercizio della democrazia: «Una democrazia è
più che una forma di governo: è essenzialmente un modo di vivere
insieme, di fare esperienze comunicandole l’un l’altro» [Dewey 1916,
225].
Nei capitoli finali del libro prenderemo in considerazione le critiche di quanti, con riferimento alle vistose diseguaglianze della società
americana, ritengono solo apparente l’universalismo evocato da questo
concetto. Ma tali osservazioni, più che negare l’importanza di questa
idea, ne evidenziano un aspetto centrale: la lunghezza del raggio che
una società prende a riferimento per disegnare la sfera del pubblico,
facendola più o meno inclusiva, non è un dato né ovvio né costante,
ma è il risultato di un complicato processo. Come notava ancora John
Dewey, «Il problema più rilevante del Pubblico è la scoperta e l’identificazione di se stesso» [Dewey 1927, 185].
1.2. Le politiche come collegamenti
Il fatto di incontrare tante difficoltà nel vedere le politiche pubbliche ha comunque un vantaggio: rende immediatamente evidenti i
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margini di discrezionalità insiti nella loro identificazione. Infatti una
politica pubblica non è un fenomeno oggettivo dal profilo evidente,
ben definito, compiutamente formalizzato, come una legge, un trattato, un’organizzazione burocratica, i cui contorni sono ben delineati.
In fondo, le politiche pubbliche sono un modo per collegare tra
loro eventi eterogenei, che avvengono in differenti contesti istituzionali, che spesso si dipanano per lunghi periodi di tempo, con molteplici
protagonisti, ma che, nonostante questi sfasamenti, possono essere ricondotti ad un tratto comune: i tentativi messi in atto per fronteggiare
un problema collettivo, mobilitando risorse pubbliche per avviarne la
soluzione, oppure, all’opposto, adoperandosi per negarne la rilevanza
e accantonare ogni provvedimento.
Rintracciare il filo che collega l’un l’altro eventi anche disparati
non è un’operazione semplice, soprattutto nel nostro paese dove,
come abbiamo visto, né i protagonisti dei fatti, né coloro che per professione ne ricostruiscono la dinamica (giornalisti, scienziati sociali,
magistrati) sono abituati a pensare ai processi che analizzano come a
parti di una politica pubblica.
Se accade che i sindacalisti negozino con il governo un provvedimento previdenziale, ci attendiamo commenti sul grado di responsabilità delle organizzazioni dei lavoratori. Se i parlamentari discutono un
disegno di legge sulle pensioni, ci chiediamo se la maggioranza è compatta o logorata. Siamo abituati a fare riferimento al testo di una legge
pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» e a deprecarne l’oscurità. Possiamo immaginarci i dirigenti dell’ufficio pensioni di un provveditorato
agli studi che leggono la circolare applicativa e che danno contorte
disposizioni ai loro subordinati. Sappiamo che molti anziani passano
ore in coda agli sportelli dell’INPS per presentare domande o chiedere
informazioni. Abbiamo spesso sottomano una spiegazione per ciò che
accade in ciascuno di questi «quadri». Ma non siamo abituati a considerarli come la parte più o meno importante di qualcos’altro che si
chiama «politica previdenziale».
In effetti questo passaggio non è né ovvio né automatico, perché
implica il portare allo scoperto le connessioni, gli incastri, le relazioni
tra diversi momenti della vita politica e sociale. Per rimanere al caso
della politica previdenziale, l’analisi comparata potrebbe ad esempio
dimostrare che esiste una qualche relazione tra la lunghezza delle file
agli sportelli e la forma del testo pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale»
(il suo grado di intrusività negli adempimenti amministrativi, il suo
grado di ambiguità sulle finalità della legge...). Inoltre potrebbe esistere una qualche relazione tra l’affiliazione organizzativa delle persone di
qua e di là degli sportelli dell’INPS e le modalità con cui si svolge la
trattativa sindacale. E le dinamiche demografiche, con il conseguente
aumento del peso elettorale della terza età, potrebbero rivelarsi utili
per capire i vincoli entro cui si dispiega la dialettica parlamentare tra
maggioranza e opposizione: dato, quest’ultimo, che a sua volta può
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influenzare l’ambiguità delle norme di legge. Questi cortocircuiti sono
basati sull’idea di una comune sensibilità di alcuni politici, alcuni burocrati, alcuni sindacalisti, e, soprattutto, di gruppi di cittadini per il
problema delle pensioni: come trovare i soldi per pagarle, come regolare l’assegnazione ai destinatari, come «intascare» il voto degli anziani
alle elezioni, come evitare laceranti conflitti tra occupati e pensionati,
come ottenere una somma un po’ più alta dopo la coda all’ufficio postale.
Dunque, ragionare in termini di politiche pubbliche significa porre
al centro dell’attenzione le relazioni aggregate da un’ipotesi di trasformazione di un aspetto della vita collettiva: «La politica pubblica è necessariamente un’astrazione. Più che atti separati e isolati, sono gli schemi di comportamento a costituire una politica pubblica» [Salisbury
1968, 153].
Questo modo di considerare gli eventi che si svolgono nella sfera
pubblica ha ormai conquistato un posto fondamentale non solo nelle
scienze sociali, ma nello stesso discorso politico delle società contemporanee. Il linguaggio delle politiche pubbliche, con l’enfasi sui loro
benefici, i loro costi, i loro fallimenti, è parte centrale del processo di
legittimazione della convivenza civile nella nostra epoca, tanto da far
concludere a March e Olsen che «le teorie contemporanee della politica sono teorie della costruzione di politiche pubbliche» [1995, 17]7.
E tuttavia, più che la crescente popolarità, per il ricercatore conta un
altro test per verificare l’utilità di questo approccio: accertare se veramente ci permette di scoprire importanti aspetti della vita collettiva,
altrimenti destinati a rimanere nascosti.
1.2.1. L’unità analitica fondamentale: il problema
Che cosa distingue una ricerca orientata alle politiche pubbliche
rispetto ad una orientata, ad esempio, per rimanere nel campo della
previdenza, all’andamento della spesa pensionistica o all’evoluzione
della condizione sociale dell’anziano?
Innanzi tutto, l’unità analitica fondamentale è costituita da uno
specifico problema di pubblica rilevanza, la cui soluzione avrà presumibilmente effetti anche su quanti non hanno contribuito alla sua
adozione. Modificare l’età per il godimento della pensione di vecchiaia, stabilire gli orari di chiusura dei locali pubblici, proteggere il
7 Landau e Lindblom esprimono lo stesso concetto con parole quasi identiche:
«Capire il processo di policy equivale a capire la struttura e la funzione del sistema
politico» [Landau 1988, xi]; «Per capire come si fanno le politiche pubbliche, occorre
capire tutto della vita e dell’attività politica» [Lindblom 1980, 5]. Prima di loro, Lasswell e Kaplan (v. oltre, capitolo quinto) e Easton [1953, 131] avevano apertamente sostenuto l’identificazione tra scienza politica e studio delle politiche pubbliche.
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territorio dal rischio di inondazioni sono tutte decisioni che cambiano la vita di un numero di persone ben più alto delle poche centinaia di parlamentari che le votano e delle poche migliaia di funzionari amministrativi che le applicano. In prima approssimazione, possiamo aggiungere che, quando gli studiosi di politiche usano il termine
«problema», non fanno riferimento né a un esercizio di logica, né a
una difficoltà universalmente riconosciuta come meritevole di un atto
di governo, bensì, più semplicemente, a una qualche sfasatura tra ciò
che un gruppo di cittadini desidera, e ciò che invece percepisce
come un dato di fatto: le strade sporche, le morti del sabato sera,
l’immigrazione clandestina...
Anche quando l’obiettivo della ricerca è verificare il peso dei partiti, o delle istituzioni politiche, o delle condizioni economiche, gli studi di questo tipo assumono comunque come unità di analisi uno o più
settori dell’intervento pubblico: attori, regole del gioco, risorse sono
analizzati non per le loro caratteristiche generali, ma per quegli specifici aspetti che si sono rivelati significativi rispetto alla discussione, all’adozione e all’implementazion e di una politica pubblica [Hansen
1983].
Se consideriamo gli attori, altre discipline consentono l’accesso a
molte informazioni su singole categorie di policy makers. La sociologia
ci può dare indicazioni sull’andamento del tasso di femminilizzazione
o sui titoli di studio dei dirigenti pubblici; e le ricerche elettorali ci
possono dire in quali strati sociali raccolgono più consensi i vari partiti. Ma nell’ambito degli studi di policy il problema è ricostruire come
quei burocrati, quei leader politici, quei rappresentanti delle organizzazioni degli interessi hanno interagito per risolvere questioni quali la
riforma dell’esame di maturità, o l’eliminazione dei pannelli contenenti
amianto.
Allo stesso modo, le regole formali (costituzioni, leggi, regolamenti...), cui devono sottostare le decisioni vincolanti per l’intera collettività,
sono primario oggetto di studio delle scienze giuridiche. Ma all’interno
di un approccio orientato alle politiche, questi vincoli sono analizzati
per il modo in cui concretamente sono attivati, talvolta rafforzandosi a
vicenda, più spesso elidendosi l’un l’altro, con effetti, difficili da stabilire a priori, sulle prestazioni fornite ai cittadini: la preparazione scolastica che ricevono nelle scuole, l’assistenza sanitaria garantita negli ospedali, la composizione dell’aria che respirano [Hansen 1983].
1.2.2. Le qualità relazionali dei fattori
Per comprendere la differenza che intercorre tra settori disciplinari
quali l’economia, la sociologia politica, il diritto pubblico da un lato, e
lo studio delle politiche pubbliche dall’altro, si può pensare alla differenza che esiste tra l’approfondire una delle varie competenze necessa-
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rie per la buona riuscita di un film (impostazione della sceneggiatura,
tecniche di recitazione, uso corretto delle luci, abilità negli effetti speciali, inventiva nel montaggio), e il lavoro di un regista o di un critico
cinematografico che professionalmente devono occuparsi della fusione
di tutti questi elementi (attori, scenografia, luci, costumi, effetti speciali) in una cosa che sarà proposta, vista, valutata, goduta o criticata
come un evento unitario, da mettere in rapporto ad altri eventi analoghi, chiamati film.
Così ad esempio, l’accuratezza e la correttezza filologica nella scelta degli arredi costituiscono solo uno dei criteri per giudicare la loro
adeguatezza filmica. A differenza della vetrina di un antiquario, il set
di un film dovrà ricostruire l’atmosfera di un’epoca e di un paese,
dovrà badare a materiali che siano sensibili al gioco delle luci, ai costumi indossati dai protagonisti, alle battute da loro pronunciate.
Adottare una prospettiva orientata alle politiche pubbliche significa cogliere le qualità relazionali dei fattori che intervengono nella gestione di un problema collettivo. In questa impostazione è nettamente
riconoscibile l’impronta pragmatica che ha segnato lo sviluppo dei
policy studies. Torneremo spesso su questo particolare imprinting, che
per ora possiamo riassumere con gli stessi termini utilizzati da Richard
Rorty: «dal nostro punto di vista non esistono proprietà intrinseche,
non relazionali» [1995, 114].
Studiare le proprietà relazionali significa tra l’altro ammettere
l’eventualità che determinati assetti istituzionali, o specifiche tipologie
di attori, possano facilitare l’incisivo intervento in un settore, ma essere contemporaneamente d’impedimento rispetto a un’altra serie di
problemi. Il fatto che tutte le norme del nostro ordinamento siano
scritte soltanto in lingua italiana è un dato in generale ovvio e ragionevole. Ma quando si tratta di norme sulla regolarizzazione degli immigrati non autorizzati, l’assenza di traduzioni può condannare il provvedimento all’insuccesso. In termini più generali, l’omogeneità delle relazioni è un’evenienza possibile, ma non scontata.
Queste ultime osservazioni ci permettono di proporre una prima
riflessione sui limiti, oltre che sui vantaggi, di un approccio sintonizzato sulle politiche pubbliche. Disporre di un filo lungo per sondare e
ricostruire i collegamenti non garantisce automaticamente un vantaggio rispetto ad approcci più tradizionali, basati su sistemi chiusi, costruiti attorno a poche variabili: le istituzioni, i rapporti di potere nell’arena politica, le risorse spendibili in quella economica. E studiare le
qualità relazionali non serve quando risultano convalidate spiegazioni
più eleganti e parsimoniose. In un regime totalitario, lo studio delle
politiche pubbliche può aggiungere ben poco rispetto all’analisi degli
organigrammi del potere. In una società molto corrotta, per spiegare
la resistenza di alcune isole di incontaminata onestà, la psicologia sociale può tornare più utile della public policy. Le decine di studi che in
molti paesi hanno collegato il decollo delle politiche sociali all’esisten-
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za di forti organizzazioni operaie mettono in evidenza un dato storico
che potrà subire solo parziali revisioni.
Adottare come prospettiva di ricerca l’attenzione per le politiche
pubbliche non significa sminuire l’importanza di queste o di altre strategie d’indagine. Piuttosto, significa scommettere sul fatto che nelle
democrazie contemporanee l’elevata complessità dei problemi collettivi
e dei processi che tentano di tenerli sotto controllo possa rivelare
aspetti della convivenza civile altrimenti destinati a rimanere nell’ombra.
1.2.3. Differenze tra fare politiche e fare leggi
Benché tra queste due sfere di attività possano esistere ampi margini di sovrapposizione, specialmente in Italia, dove le leggi hanno un
ruolo fondamentale nell’indirizzare le politiche pubbliche, law making
e policy making non coincidono, né concettualmente, né praticamente.
Come afferma David Easton, «Ovviamente è possibile intendere le
politiche come “ripartizione dei diritti e dei privilegi” da parte della
legge. Ma questo è solo uno dei modi in cui le politiche si manifestano: dal punto di vista della ricerca empirica, non si può ammettere
che la descrizione legale di una politica ne comprenda l’intero significato» [1953, 131]8.
Questa differenza non è facile da cogliere nel nostro paese, dato
che spesso le leggi sembrano il solo strumento di cui le istituzioni italiane possono disporre per incanalare l’impiego di risorse collettive
verso precisi obiettivi9. Persino chi lamenta gli effetti perversi generati
dall’alto numero di norme, non sa rinunciare a formulare le sue domande in termini di ulteriori interventi legislativi, anche se non esistono elementi per addossare ai testi in vigore la responsabilità dei fallimenti10.
8 Queste citazioni dell’opera di Easton fanno riferimento all’edizione inglese, dati
i problemi di traduzione ricorrenti nell’edizione italiana.
9 Due esempi a caso: 10 agosto 1998, «Corriere della Sera»:
p. 1: Doping, calcio sotto inchiesta. Subito una legge, di Giorgio Tosatti: «Comunque finisca la vicenda, essa pone la necessità di varare una legge antidoping più severa, simile a quella dei francesi. Con pene durissime per i medici».
p. 16: Il pm Corasaniti: la legge sulla privacy non basta: «C’è un vuoto legislativo
che deve essere assolutamente colmato».
10 Valga come esempio il grido di dolore di un magistrato del T AR del Lazio:
«Siamo sul serio abbandonati da Dio. Basti dire che l’ultimo provvedimento legislativo, che poi non riguardava neppure le strutture ma i benefici di carriera, è del 1990»
(dall’intervista a Linda Sandulli, segretaria dell’Associazione nazionale magistrati amministrativi al «Corriere della Sera» del 20 marzo 1999). Eppure appare dubbio che
scrivanie, computer, cassettiere, di cui nell’intervista si lamenta la mancanza, possano
comparire in virtù di una legge.
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Talvolta, le leggi sono invocate persino come unico sostegno al
senso di responsabilità. Dopo l’ennesima catastrofica inondazione, alcuni giornali si posero il problema di come mai negli Stati Uniti l’allarme sia dato per tempo, mentre in Italia no. Il responsabile dell’Osservatorio Meteorologico di Milano Duomo spiegò così la cautela:
Credo che in Italia si tenda a evitare la diffusione di allarmi preventivi
per non andare incontro a problemi giudiziari. Faccio un esempio. Se con un
allarme si bloccano o si riducono le attività turistiche di una certa area, nel
caso che poi il temuto evento non si manifesti, gli albergatori potrebbero
presentare una denuncia per danni. Mancano nella nostra legislazione norme
a tutela di chi deve assumersi responsabilità con provvedimenti impopolari11.
Politiche senza leggi, leggi senza politiche. Chi sostiene che abbiamo
le leggi sullo sfruttamento dei minori12 – o sulla tutela delle lavoratrici
madri, o sulla sicurezza nei luoghi di lavoro – più avanzate d’Europa,
difficilmente potrebbe confermare la stessa valutazione se, anziché le
leggi, prendesse come riferimento le politiche, dati l’estensione della
prostituzione minorile, il basso tasso di natalità, la frequenza degli incidenti sul lavoro nel nostro paese.
I criteri per verificare l’esistenza di una legge sono basati sulla legittimità delle procedure che hanno portato alla sua promulgazione.
Una politica pubblica misura la sua consistenza e basa la sua validità
sulla capacità di mitigare un problema percepito come rilevante da un
gruppo significativo di cittadini: e può tornare a merito dei policy
makers la capacità di ottenere risultati senza ricorrere a innovazioni
legislative, ma semplicemente attraverso un miglior coordinamento o
un uso più intelligente delle tecnologie disponibili.
Questo significa che l’estensione e la precisione delle norme non
hanno legami con l’estensione e la precisione delle politiche. Anzi,
spesso finiscono con il contrastarle. Nel 1985, sulla «Gazzetta Ufficiale»13 fu pubblicato il testo del decreto del presidente del Consiglio dei
ministri con le norme per l’«organizzazione e il programma di svolgimento del primo corso di formazione dirigenziale» per funzionari della pubblica amministrazione. Il corso era regolato fin nei minimi
particolari: orari, programmi, metodologie didattiche14. Ma il metico-
11
«Corriere della Sera», 7 novembre 1994.
«La legislazione italiana sullo sfruttamento dei minori è tra le migliori del
mondo. Il problema è applicarla». Dall’intervento del ministro dell’Interno, Rosa
Russo Jervolino, al TG1 delle ore 20, 22 dicembre 1999.
13 N. 174 del 25 luglio 1985.
14 Dall’art. 3: «Per “caso” si intende la ricostruzione fedele e completa di una
“vicenda amministrativa”, dalla formazione della decisione alla sua conclusione. Per
ricostruzione fedele s’intende la raccolta dell’intera documentazione prodotta da organi di amministrazione attiva e da organi consultivi, di controllo e giurisdizionali eventualmente intervenuti nella “vicenda” stessa. Tale documentazione di base deve essere
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loso rispetto del dettaglio normativo non bastò certo a rendere il corso
funzionale all’obiettivo per il quale era stato progettato: la riqualificazione del profilo professionale del dirigente pubblico.
Diversi ventagli di risorse. Le politiche pubbliche comportano l’uso
consapevole di un ventaglio di risorse e di tecnologie ben più largo di
quello dischiuso dall’esercizio della potestà legislativa. Molte politiche
si basano non tanto su quello che la legge prescrive, quanto su quello
che non vieta: pertanto sfruttano risorse quali la negoziazione tra le
parti, le campagne di persuasione, l’attivazione di incentivi, anche simbolici. In molti campi dell’intervento pubblico, il peso di questi fattori
è più significativo del mero dettato legislativo nel determinare il risultato finale. L’operato della polizia per il ritrovamento dei bambini
scomparsi può dipendere, più che dalle risorse normative, dalle risorse
tecnologiche, e in particolare dai criteri di gestione del sito web dedicato a questo problema: facilità dell’accesso alla banca dati, testo multilingue, segnalazione ai motori di ricerca, puntualità nell’aggiornamento...15. Spesso, nel campo delle politiche fiscali, l’annuncio di un inasprimento dei controlli produce molti più effetti della loro reale applicazione, che di norma arriva quando i destinatari hanno già imparato
ad aggirare il rafforzamento della vigilanza.
La distanza tra i concetti di implementazione e di applicazione di
una legge. L’efficacia delle politiche rispetto a un problema è concetto
del tutto diverso dalla conformità dei comportamenti rispetto a un
testo vincolante. Esistono casi di enforcement ineccepibile con implementazione fallimentare, e viceversa.
Alla metà degli anni ’90, le norme del 1989 sull’autonomia universitaria erano state formalmente applicate: tutte le università si erano
infatti dotate di propri statuti. Ma il risultato finale era la totale uniformità dei regolamenti: un risultato opposto a quello che aveva motivato
le innovazioni legislative, tanto da indurre il governo a rilanciare il
decentramento con strumenti diversi, quali le commissioni, le note di
indirizzo, le sollecitazioni attraverso i media.
Possono essere considerate esempi di debole enforcement e di effettiva implementazione le scelte regolarmente fatte dai vari ministri
degli interni o delle finanze, in occasione della mancata approvazione
parlamentare di decreti legge di sanatoria, quando con le loro circolari
di fatto si scostano da quelle che si devono ritenere le consapevoli
accompagnata dalla raccolta di leggi, regolamenti, circolari, ordini di servizio rilevanti,
oltre che da significative informazioni e ricostruzioni socio-ambientali quali, ad esempio, le preoccupazioni anche di carattere finanziario interno e internazionale prevalenti
nel momento politico della decisione e dell’esecuzione ed il contesto economico-sociale nazionale ed internazionale entro cui si è calata l’azione amministrativa».
15 http://www.missingkids.it (aprile 2000).
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
preferenze dei legislatori. Che si tratti della regolarizzazione di stranieri residenti illegalmente16, di condoni fiscali o edilizi, in genere i decreti inducono centinaia di migliaia di irregolari ad autodenunciarsi, esibendo le prove delle loro situazione. Al momento della decadenza
delle norme, ai ministeri competenti si presenta il problema di come
dosare l’impiego delle forze dell’ordine per l’incriminazione di quelli
che sono pur sempre i meno irregolari tra gli irregolari. L’ipotesi di
una rigorosa applicazione delle leggi preesistenti, magari distogliendo
risorse dall’individuazione di crimini socialmente più pericolosi, è generalmente considerata dai responsabili politici come una scelta inopportuna, in un mondo in cui le risorse sono limitate, comprese quelle
per la repressione dei reati.
Gli studenti universitari dei corsi più affollati sanno che la disinvoltura con cui molti professori aggirano le norme sulle commissioni
d’esame si basa sulla reciproca convenienza di docenti e studenti ad
avere procedure di accertamento del profitto più agili e rapide. Davanti a questa convergenza di interessi, ben poco hanno potuto i controlli e i tentativi di ristabilire il rispetto formale di regole considerate
disfunzionali rispetto all’esigenza di contenere gli appelli entro tempi
ragionevoli.
1.2.4. Politiche, servizi, amministrazioni, programmi
Politica pubblica è un termine molto inclusivo, capace di comprendere tutte le iniziative intraprese nella consapevolezza che bisogna
fare – o impedire – qualcosa per risolvere o, almeno, contenere un
problema di rilevanza collettiva. La tipologia degli interventi cui possono fare ricorso i policy makers è molto vasta. Renate Mayntz [1983,
128] propone un elenco che comprende:
• l’emanazione di norme regolative, che fissano criteri di comportamento cui si devono attenere privati cittadini, enti o funzionari pubblici in determinate circostanze: quando guidano un’automobile; quando producono rifiuti tossici; quando arrestano il presunto colpevole di
un reato;
16 Così spiega il suo disagio una dottoressa laureata in giurisprudenza, in servizio
presso l’Ufficio stranieri del Comune di Milano: «Avendo una preparazione giuridica,
mi sono trovata spiazzata in questo ufficio. Quando sono arrivata qui, pensavo di
poter lavorare come in altri luoghi, e di procedere dalla conoscenza dell’ordinamento,
perché la legge deve avere il suo peso. Qui, al contrario, per prima cosa occorre vedere se esiste la circolare che conferma il dettato della legge. Poi occorre verificare la
prassi con gli uffici di altri comuni. Poiché la legge di riforma non entra mai a regime,
ma si è continuamente in una fase di sanatoria, i problemi che nascono dall’intreccio
tra le norme definitive e quelle transitorie aprono larghi margini di discrezionalità»
(intervista effettuata nell’ottobre 1999).
29
30
CAPITOLO 1
• il trasferimento di risorse finanziarie e l’assegnazione di incentivi: per gli anziani con redditi al di sotto del minimo vitale; per le
aziende che investono in determinati settori; per chi sostituisce la vecchia automobile con una nuova;
• la messa a disposizione di beni e servizi, dalla scuola alla sanità,
dal catasto alla vigilanza urbana;
• la determinazione di procedure per risolvere situazioni critiche,
come nei casi di vertenze sindacali in servizi di pubblica utilità o di
catastrofi naturali;
• la persuasione, indotta da campagne di opinione o dall’obbligo
di evidenziare le conseguenze negative di determinati consumi, quali il
fumo o gli alcolici.
Così, ad esempio, l’obiettivo della protezione dagli effetti distruttivi degli incendi può essere perseguito:
• vietando fuochi all’aperto o imponendo materiali autoestinguenti
negli impianti elettrici;
• fornendo un capillare servizio pubblico attraverso il corpo dei
vigili del fuoco;
• obbligando gli enti locali a stipulare contratti con compagnie
private che svolgono quello stesso servizio;
• promuovendo campagne d’opinione che illustrino le situazioni
pericolose e spieghino la gravità dei danni provocati dalla distrazione;
• erogando fondi per la sostituzione delle case di legno con case
in muratura.
Immaginare le diverse forme che può assumere una politica pubblica è importante perché marca la differenza rispetto a termini di uso
più comune nella lingua italiana, quali servizi, amministrazioni, programmi. Se è vero che una politica pubblica ben riuscita richiede il
buon funzionamento di un servizio o di un’amministrazione, tuttavia il
primo concetto rivendica un’ampiezza e una profondità maggiori, che
derivano dal prendere come riferimento non una prestazione che deve
essere fornita, ma un problema che deve trovare una soluzione. In altre parole, ragionare in termini di politiche significa inoltrarsi in una
riflessione più libera e spregiudicata non solo sul modo in cui un servizio è gestito o un programma è realizzato, ma anche sul suo significato più generale, sul suo impatto complessivo, tanto per gli aspetti
più concreti, quanto per i messaggi simbolici indirettamente trasmessi.
Facciamo un esempio. Le truffe dovute al godimento immeritato
di benefici del welfare sono una veneranda tradizione, non solo italiana. Un programma per la loro repressione non può che assumere
come parametri di riferimento il numero dei controlli effettuati e l’ammontare delle erogazioni recuperate. Invece, vedere il problema come
parte della politica previdenziale significa fare molta attenzione a dettagli quali le priorità e l’accuratezza dei controlli, date le conseguenze
drammatiche che possono derivare dal cattivo «impacchettamento» di
queste misure. Tale sensibilità non nasce solo da esigenze di equità,
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
ma anche da una precisa conoscenza del «ciclo» della repressione delle frodi. Questi programmi in genere sono avviati sull’onda dell’indignazione dell’opinione pubblica per la scoperta di invalidi che giocano
a calcio o di ciechi che fanno l’autista. Ma si arenano quando le prime
notizie di errori nelle richieste di rimborsi evidenziano tanto le ardite
difese che possono utilizzare gli indagati più «scafati», allungando all’infinito i tempi del rimborso, quanto la disperazione che può piombare sui più sprovveduti, dati i casi di suicidio che purtroppo regolarmente accompagnano ogni operazione del genere. Davanti a queste
evidenze, è molto probabile che l’opinione pubblica passi dalle richieste di rigore a quelle di benevolenza, rendendo più difficile la repressione degli illeciti.
Ragionare in termini di politiche significa affrontare anche la questione del significato complessivo di un programma del genere, e considerare persino l’eventualità che non abbia senso, ad esempio perché
non economico, dato che potrebbero esistere altri strumenti, quali lo
scambio preventivo di dati tra amministrazioni pubbliche, capaci di
ridurre le occasioni di frode a casi statisticamente insignificanti, ponendo il problema dei controlli al riparo dalle drammatizzazioni dei media.
1.2.5. Studio delle politiche, «management», arte del governo
Queste osservazioni permettono di dare una prima risposta a un
problema che accompagnerà tutto il nostro percorso nel campo dei
policy studies: che cosa distingue questa impostazione dalle management sciences da un lato e, dall’altro, dal perfezionamento dell’illustre
arte del governo, che tanti cultori ha avuto, con intenti più o meno
nobili? La tradizionale risposta a questo interrogativo rinvia alla dimensione di medio raggio propria degli studi di policy.
Da un lato, gli approcci manageriali tradizionali si basano sulla necessità di operare una distinzione tra i fini, la cui individuazione compete alle istituzioni politiche, e i mezzi, la cui valutazione è invece dominio di un’autonoma razionalità tecnica, volta a trovare il modo migliore per tradurre le decisioni politiche in atti amministrativi [Weimer
e Vining 1998, 32].
All’estremo opposto, il concetto di governance ha l’ambizione di
plasmare intenzionalmente la sfera del pubblico anticipandone o, almeno, controllandone le tensioni: «[Governare] implica plasmare la
vita sociale e politica, cioè modellare la storia, capirla, saper imparare
da essa» [March e Olsen 1995, 44]. Sulle qualità associate alla figura
del «governatore» sono per altro incentrati alcuni modelli fondamentali per il pensiero politico dell’occidente, dal re filosofo di Platone al
principe di Machiavelli.
Una volta impostata in questi termini la divisione del territorio, è
luogo comune affermare che le politiche pubbliche occupano una
31
32
CAPITOLO 1
posizione intermedia, perché danno una definizione dei problemi della
convivenza civile di medio raggio: né aumentare il numero di pratiche
evase dai dipendenti degli uffici postali, né disegnare le nuove forme
di cittadinanza nella società globale; piuttosto, valutare i problemi di
pubblica rilevanza connessi al recapito di merci, denaro e dati per i
prossimi dieci anni17.
Nel corso di questo volume riprenderemo spesso il tema della collocazione delle politiche pubbliche tra management e governance. Il
fatto di stare in mezzo può essere infatti interpretato in diversi modi.
La versione corrente ne dà una lettura «geografica», come presidio di
un territorio intermedio. Ma stare nel mezzo può anche voler dire individuare un punto di trade-off tra tensioni contrastanti che vogliono
risucchiare di volta in volta i problemi verso una lettura in termini
manageriali o, all’opposto, in termini di governance. In questo secondo
significato, le politiche pubbliche non sono un dato, ma una prospettiva analitica da costruire e legittimare di volta in volta, per riavvicinare le scelte pubbliche ai problemi e alla capacità di controllo dei cittadini. La natura sperimentale e precaria degli equilibri di volta in volta
raggiunti tra le esigenze di management e governance, anziché costituire un limite, diviene la più importante qualità dell’orientamento alle
politiche pubbliche.
2. L’affermazione del paradigma
Le politiche pubbliche possono ormai vantare una consolidata tradizione di ricerca18. L’interesse per questo tema ha prodotto un’enorme mole di studi, spesso definiti nella letteratura anglofona con termini quali policy studies, policy sciences, policy analysis, policy evaluation
o, semplicemente, public policy. La diffusione non coinvolge soltanto le
istituzioni accademiche, ma anche le strutture amministrative19. Soprattutto negli Stati Uniti, infatti, l’analisi delle politiche pubbliche è da
tempo uscita dai confini dei campus, per divenire una rilevante risorsa,
ma anche un vincolo, per quanti sono direttamente coinvolti nella loro
concreta gestione: «È evidente che oggi gli analisti non possono più
17 Evidentemente non esiste un unico arco temporale adeguato per tutti i settori
dell’intervento pubblico e per tutti i loro aspetti problematici. Le scelte che riguardano le grandi infrastrutture sono di norma proiettate su lunghi periodi, mentre le politiche dell’occupazione o della riconversione industriale scontano l’influenza delle
congiunture economiche.
18 Come spiega Laudan, una tradizione di ricerca è «un insieme di assunzioni
generali che riguardano le entità e i processi in un ambito di studio, nonché i metodi
appropriati per indagarne i problemi e costruire le teorie» [1977, 68].
19 «Praticamente ogni università offre un corso avanzato in analisi delle politiche
pubbliche [...]. E nell’amministrazione è raro che un’agenzia o un dipartimento non
abbiano la loro specifica unità di analisi» [deLeon 1988, 106].
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
essere ignorati, ma vanno inseriti nel governo [...]. I leader politici non
sono creduti senza gli analisti di politiche, anche se con loro fanno
fatica a credere in se stessi» [Wildavsky 1992, 402].
Di per sé, l’istituzionalizzazione di un campo di ricerca è un indicatore molto povero di scientificità: anche l’astrologia ha riviste, convegni, associazioni professionali. Il sospetto che alla crescita quantitativa contribuiscano motivi meno nobili di quelli scientifici è da tempo
ben presente agli studiosi della disciplina: «senza qualche meccanismo
di selezione, la bandiera delle scienze delle politiche può essere utilizzata in modo indiscriminato da persone incompetenti e persino da
ciarlatani, compromettendo così la possibilità del loro sviluppo come
impresa scientifica e professionale» [Dror 1971, 44]20.
E tuttavia, nonostante ombre e ondeggiamenti, l’affermazione dello
studio delle politiche pubbliche è parte importante della vicenda delle
scienze sociali nella seconda metà del secolo scorso. Ed è una vicenda
con due caratteristiche fondamentali: è una storia americana, ed è una
storia maturata prevalentemente all’interno della scienza politica.
2.1. Una storia americana
Le ricerche interessate alla formulazione, adozione e implementazione delle politiche pubbliche si sono diffuse in modo non omogeneo
nei diversi contesti culturali. Gli Stati Uniti vantano un chiaro primato
in questo campo, sia in senso cronologico, data la nazionalità dei «padri fondatori» della disciplina, sia in senso quantitativo, poiché la stragrande maggioranza dei dati, delle riviste, delle pubblicazioni continua
a provenire da quel paese. Questa netta preponderanza ha condizionato sensibilmente i confini delle indagini empiriche dato che, come scrive Hogwood, «gli autori americani spesso scrivono come se gli Stati
Uniti fossero l’unico luogo nell’universo ad avere delle politiche pubbliche» [1984, 27].
Almeno per come si è andato consolidando nell’accezione corrente, questo tipo di ricerca affonda le sue radici in tratti distintivi della
società americana: «Nonostante alcuni sforzi nella direzione opposta
[...], le policy sciences sono ancora per la maggior parte basate sugli
Stati Uniti per quanto riguarda la cultura, i valori impliciti ed espliciti,
le assunzioni e le ortodossie» [Dror 1994, 4]. Secondo Aaron Wildavsky, uno dei più eminenti studiosi di questo settore, il pluralismo delle
idee e l’importanza attribuita alla loro libera circolazione costituiscono
20 Lo stesso rischio è paventato in queste citazioni: «C’è una buona parte di
imbroglio nella nuova moda delle politiche pubbliche; quasi tutto diventa smerciabile
accompagnandolo con il termine policy» [Eulau 1977, 420]. «Tutto sotto il sole può
essere chiamato policy. Ma ciò non spiega che cosa davvero voglia dire policy analysis»
[Beyme 1986, 541].
33
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CAPITOLO 1
per lo sviluppo dei policy studies un requisito tanto essenziale, quanto
difficile da trovare in altre tradizioni politiche: «In Giappone e in
Europa è stata legittimata la competizione tra i partiti (alla stregua di
gerarchie rivali), ma non ancora la competizione tra idee di policy che
provengono dall’esterno dei partiti o della burocrazia» [Wildavsky
1992, xxvii]. Nel corso del volume, torneremo spesso sul particolare
legame tra politiche pubbliche e democrazia americana. Infatti la storia cui ora accenniamo sarà ripercorsa più volte, dal punto di vista dei
diversi paradigmi che animano il dibattito all’interno della disciplina.
2.2. Una storia nella scienza politica
A differenza di quanto è avvenuto in Europa, negli Stati Uniti lo
sviluppo della public policy si intreccia saldamente con quello della
scienza politica. Theodore Lowi, in una riflessione sulla disciplina condotta in qualità di presidente dell’American Political Science Association (d’ora in poi, APSA), considera le politiche pubbliche uno dei suoi
tre campi fondamentali, assieme allo studio dell’opinione pubblica e
della scelta pubblica (public choice) [Lowi 1992, 1].
Due aspetti della scienza politica americana sono strettamente legati al decollo dei policy studies: il pragmatismo e quella passione per
l’osservazione dei comportamenti concreti che ha trovato nel comportamentalismo21 un’espressione importante, capace di costituire un potente antidoto contro astratte generalizzazioni22. Come osserva Torgerson, l’interesse per le politiche pubbliche deve molto «al pragmatismo
e al movimento progressista dell’inizio del ventesimo secolo, e precisamente alle figure di John Dewey e di Charles Merriam: questa storia
continua tra molte sfide, fino a condurre ai tre contributi di Harold
Lasswell, di Herbert Simon e di Charles Lindblom, che mirano a plasmare l’orientamento verso le politiche pubbliche; questa storia culmina, ma non finisce, negli attuali tentativi di creare un orientamento che
sappia evitare e sfidare una impostazione tecnocratica» [Torgerson
1995, 228].
21 Per distinguere questa impostazione della ricerca politologica dalle interpretazioni più riduzioniste del comportamento umano, proprie del behaviorismo psicologico, Easton [1953, 151] adotta il termine behavioralism, anziché behaviorism. Per tradurre in italiano questa differenza, i politologi preferiscono parlare di comportamentalismo anziché di comportamentismo.
22 «La policy analysis basa l’apprendimento sul pragmatismo e sull’empirismo»
[Wildavsky 1992, 393].
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
2.2.1. L’orientamento pragmatico della prima scienza politica americana
Lipset [1969, vii] sottolinea come, a cavallo tra l’ottocento e il
novecento, il termine political science avesse un significato molto vicino
a quello che oggi hanno le policy sciences, data la centralità riservata al
problema della formazione dei dirigenti pubblici e all’analisi dei concreti processi di governo23. Con l’affermarsi della Progressive era, avanzava del resto la fiducia nella possibilità di un approccio scientifico ai
problemi politici e sociali: competenza, addestramento professionale,
ma anche partecipazione e trasparenza, avrebbero dovuto eliminare un
metodo di gestione della cosa pubblica consolidatosi nella seconda
metà dell’ottocento, e basato sulla degenerazione della competizione
partitica e sullo spoil system24. Una delle figure più eminenti di questo
periodo, Woodrow Wilson, traccerà le linee guida di una scienza progressiva della politica. Nella sua impostazione, a un parlamento ormai
preda del compromesso e della corruzione, occorreva contrapporre
una presidenza forte e un’amministrazione professionale25, cui i corsi
universitari di scienza politica avrebbero dovuto dare una solida base,
alla luce di tre criteri guida: competenza, efficienza, efficacia. In questo disegno, l’era progressiva sarebbe dunque coincisa con l’«era dell’amministrazione» [Ball 1995].
Lo stesso programma era del resto all’origine dell’APSA, fondata
nel 1903, di cui Wilson fu presidente, prima di assumere la carica, ben
più impegnativa, di presidente degli Stati Uniti. Nei primi documenti
dell’associazione, è evidente il passaggio da un generico ruolo educativo di promozione delle «virtù repubblicane»26, all’impegno per lo studio del governo e la formazione dei funzionari [Leonard 1995, 85].
Ma è soprattutto grazie alla straordinaria figura di John Dewey che
si salda il rapporto tra la scienza politica e la tradizione americana del
pragmatismo, che aveva in autori quali William James e Charles Peirce
i suoi più importanti esponenti. Per ammissione dello stesso Lasswell,
infatti, le policy sciences «sono un odierno adattamento alle politiche
pubbliche dell’approccio generale raccomandato da John Dewey e
dagli altri sostenitori del pragmatismo americano» [1971, xii].
Per Dewey [1910], al centro della teoria pragmatica dell’indagine
scientifica27 sta la convinzione che il pensiero è un’attività orientata a
23
Cit. in Lynn [1983, 96].
Sistema di assegnazione delle più rilevanti cariche amministrative basato sulla
lealtà verso il partito vincitore, anziché sulla carriera per meriti professionali.
25 Si vedano le opere di Woodrow Wilson, Congressional Government [1885] e
The Study of Administration del 1887 [1955].
26 Le caratteristiche morali che fanno di un uomo un buon cittadino, onesto e
disponibile a collaborare con quanti vivono nella sua comunità.
27 Il termine originale inquiry contiene anche una tensione alla sperimentazione
«a tutto campo»: v. oltre, quarto capitolo.
24
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CAPITOLO 1
trovare soluzioni a situazioni percepite come problemi [Torgerson
1995, 232; Heineman et al. 1990, 11]: la verifica concreta della loro
validità è quindi parte essenziale della riflessione:
Le risposte della mente pragmatica operano senza il sostegno di una teoria generale del bene. Vanno incontro alle esigenze pubbliche considerando
gli specifici elementi di una particolare situazione. Il pragmatismo è particolarista e orientato alla situazione nella sua etica. A differenza dell’utilitarismo
o della deontologia, non muove da una teoria ideale e non cerca di derivare
da essa le proposte di policy [Heineman et al. 1990, 175].
L’accento – tipico del pragmatismo – sul fatto che le buone politiche sono quelle che danno buoni risultati, si accordava con l’idea
che nel settore pubblico il dibattito ideologico dovesse cedere il passo
alla raccolta di dati e alla sperimentazione scientifica. Sull’onda di
questo movimento (la cui influenza, mai del tutto spenta, è tornata
oggi di prepotente attualità), negli anni ’20 e ’30 molte università
decidono di incoraggiare la ricerca per interventi pubblici con obiettivi meglio definiti e con risultati meglio controllati, soprattutto nei
settori della pianificazione territoriale e della lotta contro l’emarginazione urbana.
2.2.2. L’orientamento comportamentalista
La tensione pragmatica verso un più deciso impegno delle scienze
sociali nella soluzione dei grandi problemi che travagliavano la società
americana si saldava con l’enorme sviluppo della ricerca empirica, verificatosi in quegli stessi anni. Benché l’esplicita riflessione sulle implicazioni metodologiche ed epistemologiche di questa svolta raggiunga
la sua espressione più completa negli anni ’50 e ’60 con il comportamentalismo, le ricostruzioni storiche che danno a questo approccio la
valenza più generale di un movimento a favore dell’osservazione disincantata dei comportamenti umani ne retrodatano l’influenza ai decenni
precedenti la seconda guerra mondiale:
In scienza politica, la rivoluzione comportamentalista ha contribuito enormemente alla comprensione delle attività sia dei governanti, sia dei governati.
Oggi nelle politiche pubbliche noi vediamo il riflesso non solo delle istituzioni formali e delle leggi, ma delle motivazioni e delle iniziative di individui che
plasmano le politiche per i loro fini politici [Rose 1989, 3].
Centrale, per capire l’ambiente in cui si formarono i fondatori
delle policy sciences, è l’attività del gruppo di ricerca diretto da Charles
Merriam all’Università di Chicago. Negli anni ’20, questa città rappresentava «la parte più americana dell’America», e aveva «molti problemi sociali da offrire allo studio degli scienziati politici, tra cui l’immigrazione, le relazioni razziali, la pianificazione della città, la politica
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
degli apparati di partito, con tutte le loro aberrazioni» [Berndtson
1991, 91]. Di queste tensioni, del resto, Merriam aveva una conoscen- za
diretta, grazie a una precedente esperienza politica:
Merriam fu sempre affascinato dalla politica a livello cittadino. A Chicago fu assessore comunale dal 1909 al 1911 e dal 1913 al 1917. Nel 1911
mancò la candidatura a sindaco, e nel 1919 non riuscì ad avere la designazione alle primarie per il partito repubblicano. Questa fu di fatto per lui la
fine della politica di partito. Aveva cercato di essere uno studioso e un politico: da quel momento in poi, volle solo essere uno studioso di politica
[ibidem].
Nel 1921, Merriam diventa presidente dell’APSA. Nel 1923 assume la direzione del Dipartimento di Scienza politica dell’Università di
Chicago e dà vita a una vorticosa serie di iniziative che mirano a valorizzare la rilevanza civile della sua disciplina. Nel 1924 fonda il Social Science Research Council che, nelle parole dello stesso Merriam,
si proponeva di «introdurre tecniche più intelligenti e scientifiche
nello studio e nella pratica del governo» [Merriam 1925]. Nella ricostruzione di un testimone d’eccezione, il suo allievo Harold Lasswell
[1951], questo organismo ebbe un ruolo fondamentale nel decollo
della ricerca orientata alla soluzione di problemi di rilevanza collettiva: «Le sue relazioni personali con figure quali John D. Rockefeller e
Franklin D. Roosevelt erano una risorsa importante per lui [...]. E il
Social Science Research Council era lo strumento con cui Merriam
operava a livello politico nazionale. Finalmente per gli scienziati sociali sembrò possibile assumere il ruolo di consulenti politici» [Berndtson 1987, 91-92].
Le iniziative intraprese da Charles Merriam portarono nel 1927
alla costituzione all’interno dell’American Political Science Association
di un comitato sulle politiche pubbliche; anche se l’attività di questo
organismo fu piuttosto modesta, essa è comunque il segno di un interesse destinato a rafforzarsi negli anni seguenti [Dallmayr 1986].
2.2.3. Segni che restano
Le tracce più durature di questa svolta sono quattro. In primo luogo, occorre ricordare il «movimento per gli indicatori sociali», cioè per
l’elaborazione e la sistematica ripetizione di misurazioni sul disagio o
sulla qualità della vita che, come vedremo tra poco, hanno stretti rapporti con le misure di efficacia e di impatto della policy analysis.
Quando Merriam fu chiamato dal presidente Hoover a capo del Research Committeee on Social Trends, diede un fondamentale impulso
alla costituzione di banche dati finalizzate al monitoraggio dei primi
indicatori riguardanti l’istruzione, la povertà, la criminalità.
In secondo luogo, si deve al clima culturale creato da queste ini-
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CAPITOLO 1
ziative il primo organico tentativo attuato negli Stati Uniti per introdurre criteri di programmazione nell’attività del governo. Sia la Grande Depressione prima, sia il New Deal e la seconda guerra mondiale
poi, hanno visto gruppi molto qualificati di ricercatori attivamente
impegnati a formulare modelli per l’analisi di problemi quali la disoccupazione, l’emarginazione nei quartieri periferici urbani, la povertà
nelle aree rurali, sulla base di un approccio nettamente interdisciplinare28:
Merriam fece parte del National Planning Board dal 1933 al 1943. Nel
1934 [questo organismo] prese il nome di National Resources Board e, in seguito alla riforma riorganizzativa del 1939, divenne parte dell’ufficio esecutivo
del presidente. A sua volta, la riforma amministrativa era basata sulle raccomandazioni fatte dalla Commissione presidenziale per la gestione amministrativa, che era costituita da tre persone: Louis Brownlow, Luther H. Gulick e
Charles E. Merriam [Berndtson 1987, 92].
Torneremo tra breve sull’attività di quest’ultima commissione. Ma
ora vogliamo ricordare che anche il Brain Trust voluto dal presidente
Franklin Roosevelt, e composto in larga parte da professori provenienti dalla Columbia University, era una vistosa prova della tenacia dei
legami tra i centri di governo e la comunità scientifica. I successi realizzati dal New Deal nel rilancio dell’economia rafforzavano l’idea che
la formula fosse quella giusta: «La visione che Lasswell ha delle policy
sciences è figlia naturale di questo ottimistico sposalizio tra analisi
scientifica e pianificazione umanistica» [Garson 1986, 9].
Passiamo ora a considerare la terza impronta duratura lasciata
dalla svolta comportamentalista: l’interesse per i problemi delle amministrazioni locali. La stessa fiducia nella possibilità di permeare di
conoscenza l’azione delle istituzioni caratterizzava la ricerca del sociologo Paul Lazarsfeld, che andava conducendo le sue indagini in
stretto contatto con le comunità urbane. A Chicago, Merriam aveva
fondato il Chicago Bureau of Municipal Research, destinato a evolvere per denominazione e competenze; analoghi esperimenti, in larga
parte finanziati dalla Rockefeller Foundation29, furono condotti dagli
enti locali in collegamento con università quali Columbia, Harvard,
Yale.
Il quarto importante segno lasciato da questo straordinario movimento è la diretta assunzione da parte degli scienziati sociali del pro28 Un peso rilevante ebbero anche i rapporti personali: ministro degli Interni
dell’amministrazione Roosevelt era infatti Harold Ickes, che era stato braccio destro di
Merriam nella sua campagna elettorale per il municipio di Chicago.
29 John D. Rockefeller, uno dei finanziatori dell’Università di Chicago e poi del
Rockefeller Foundation’ General Education Fund, è una figura esemplare di una vasta
serie di filantropi alla cui generosità si deve la nascita di molti centri di ricerca americani.
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
blema dell’organizzazione del governo e dell’amministrazione [Garson
1986, 8]. La citazione della pagina precedente fa riferimento a una
commissione costituita da Franklin Roosevelt nel 1937, il President’s
Committee on Administrative Management, composto da tre figure
centrali dell’APSA, Charles Merriam, Luther Gulick e Louis Brownlow,
cui fu affidato il compito di cambiare la faccia dell’amministrazione
americana, a cominciare dal suo vertice, con conseguenze che si sono
protratte per un cinquantennio30.
La riflessione che accompagnò questo coinvolgimento sottopose
alla critica corrosiva della verifica pratica molte delle assunzioni che
costituivano le basi della scienza politica e della scienza dell’amministrazione di matrice wilsoniana. Come nota La Palombara, «Da allora,
la scienza politica americana non è stata più la stessa» [1987, 73].
Anche Easton attribuisce grande importanza a questa vicenda, e la
commenta con un’annotazione che può stupire chi lo ricordi solo
come il teorico dell’approccio sistemico: «Oggi [1953] i legami fra
parlamenti nazionali o statali e i circoli universitari sono solidi e numerosi. Lo storico rapporto del President’s Committee on Administrative
Management fu opera quasi esclusiva di specialisti che possedevano
una formazione precisa nelle scienze politiche, e la recente commissione Hoover sulla “organizzazione del ramo esecutivo del governo”31 ha
fatto largo uso delle loro conoscenze. Il fatto frustrante, per molti
scienziati politici, che il loro consiglio tecnico sia spesso rimasto inascoltato, dà un’idea tanto dell’andamento imprevedibile dei conflitti
decisionali all’interno del processo politico, quanto della validità di
quei suggerimenti» [1953, 64 trad. it.].
2.3. Uno sguardo all’Europa
In Europa, l’interesse per le politiche pubbliche segue un percorso
molto diverso, con risultati che a tutt’oggi non sono paragonabili a
quelli statunitensi, qualunque indicatore si voglia adottate: ampiezza
delle ricerche, diffusione delle scuole di public policy, o rilevanza delle
think tanks, cioè di quei centri di ricerca indipendenti che costituiscono veri e propri «serbatoi di pensiero», e che tanta parte hanno avuto
nell’orientamento dei governi e dell’opinione pubblica americani. In
Germania, Francia, Svezia, Norvegia, Italia, lo studio delle politiche
pubbliche è essenzialmente materiale d’importazione, e i primi studi
30 Il rapporto finale inizia con una frase divenuta l’emblema di ogni tentativo di
riforma amministrativa: «The President needs help».
31 Costituita nel 1949 con il compito di portare a termine la riforma dell’amministrazione federale, la commissione presieduta da Herbert Hoover applicò alla burocrazia pubblica i precetti del scientific management: chiarezza di ruoli e di funzioni,
netta distinzione tra staff e line e un sistema di stretti controlli gerarchici [Light 1995].
39
40
CAPITOLO 1
sono spesso compiuti da ricercatori quali Johan Olsen, Fritz Scharpf,
Renate Mayntz, Michel Crozier, Giorgio Freddi, che tornano dagli
Stati Uniti per applicare ai loro paesi di origine un metodo appreso
dall’altra parte dell’Atlantico. Capire le cause di questa situazione significa inoltrarsi nell’impervio terreno delle spiegazioni controfattuali:
i motivi che giustificano il «perché non» espongono al rischio della sovraspiegazione, perché tendono all’infinito [Lowi 1984].
Tre blocchi di variabili dovrebbero comunque essere considerati
per comprendere il ritardo con cui questa prospettiva analitica si afferma nei diversi stati europei:
• le caratteristiche politiche e istituzionali;
• le teorie che definiscono la sfera pubblica e le sue articolazioni
interne;
• gli anelli che congiungono il primo tipo di variabili al secondo,
cioè le modalità con cui sapere e potere si incastrano tra loro.
Le osservazioni che seguono possono solo fornire una prima, elementare traccia per ricostruire queste fondamentali differenze.
Iniziamo dal primo dei tre fattori. In un contributo all’antico dibattito sul perché non sono esistiti movimenti socialisti in America,
Theodore Lowi [ibidem] richiama l’attenzione su questi elementi:
a) un sistema partitico che dal 1860 è straordinariamente semplice
e stabile;
b) un’architettura costituzionale basata sulla separazione dei poteri, in cui l’esecutivo ha una propria forte e distinta legittimazione, ma
sempre in un contesto di pesi e contrappesi;
c) il federalismo, con la specializzazione delle giurisdizioni per
ambiti funzionali (al livello nazionale le politiche tariffarie e monetarie,
a quello statale i lavori pubblici, l’istruzione), ma soprattutto con quella che Huntington chiama «la promessa della disarmonia» [1981].
Probabilmente, la ricostruzione del perché in Europa il concetto
di politica pubblica è merce d’importazione dovrebbe partire proprio
dal rovescio di questi tratti distintivi. Nel caso americano, infatti, essi
convergono nel comprimere la rilevanza dell’arena political, a favore
delle soluzioni imbastite caso per caso, politica per politica, per evitare
che la complessità si trasformi in paralisi. La distanza che queste caratteristiche fissano rispetto alle modalità di funzionamento delle principali democrazie europee spiega larga parte del ritardo nella diffusione
degli approcci basati sul concetto di policy. Di esse torneremo a parlare nel corso del quinto capitolo.
Per quanto riguarda l’idea di pubblico, ricordiamo che nell’originaria versione americana l’aggettivo che qualifica il concetto di policy
prende come punto di partenza non lo stato, ma l’individuo, per entrare in gioco là dove i suoi isolati tentativi di risolvere un problema
sono destinati all’impotenza, si tratti di prevenire le inondazioni o di
evitare lo spaccio di droga davanti alle scuole.
L’importanza dell’incastro tra sapere e potere è sottolineata da
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
Wildavsky, che attribuisce lo stentato decollo dei policy studies all’esterno degli Stati Uniti all’autoritarismo implicito nella cultura civile
dei tradizionali protagonisti del policy making europeo, i politici e i
burocrati: «È precisamente l’intolleranza per la consulenza indipendente che ha impedito alle scuole di public policy di decollare in Europa» [Wildavsky 1992, xxvii]. Come vedremo tra breve, le ragioni sono
probabilmente più complesse e più diversificate tra paese e paese.
2.3.1. Gran Bretagna
La Gran Bretagna può vantare sulla carta il vantaggio di avere
coniato il termine policy (v. oltre) e di essere agevolata dalla lingua
comune nell’acquisizione della letteratura scientifica americana. Eppure, il percorso che ha portato alla valorizzazione di questo approccio
non costituisce certo un processo di pedissequa imitazione.
Lo spazio pubblico inglese fino a tempi molto recenti era descrivibile con il ricorso a due circuiti. Il primo è fondato sul rapporto tra
elettorato, partiti, parlamento e governo, ed è cementato dal concetto
della responsabilità nella produzione delle leggi. Il «modello Westminster» è infatti divenuto sinonimo di una democrazia parlamentare
animata dal ruolo propositivo e di controllo dei grandi partiti.
Il secondo circuito è basato sulla relazione di cooperazione, più che
di subordinazione, tra i dirigenti amministrativi che lavorano in un dipartimento e il loro responsabile politico, il ministro competente, che
funziona da raccordo con il primo circuito. L’amministrazione inglese
ha infatti goduto di un ampio prestigio e di una notevole autonomia
gestionale, guadagnate grazie alla fama di imparzialità e competenza.
Negli anni ’70, il crescente interesse per le politiche pubbliche è in
larga misura legato all’esigenza di dare conto della fitta e continua rete
di rapporti che i responsabili politici e amministrativi dei vari dipartimenti instaurano con i destinatari dei loro interventi: rappresentanti
dei settori produttivi, sindacati, organizzazioni di interessi locali32. Una
prassi che aveva nei quangos33 l’aspetto più vistoso imponeva che le
scelte di policy fossero precedute da un’ampia consultazione degli interessi in gioco. La stabilità di queste relazioni, la rilevanza del flusso
di decisioni che ne risultavano, il loro orientamento a favore del più
largo consenso mal si adattavano alla rappresentazione tradizionale del
modello inglese; il concetto di policy era quel che serviva per far emergere la discrepanza:
32 La ricostruzione di questo dibattito deve comprendere Finer [1958]; Beer
[1956]; Eckstein [1960].
33 Quasi-non-government organisations, cioè sedi di consultazione e, talvolta, di
decisione, tra responsabili politici, funzionari amministrativi e parti sociali toccate
da un provvedimento.
41
42
CAPITOLO 1
La tenace competizione tra coalizioni di dipartimenti e di interessi rimane
anche se cambia la compagine governativa [...]. Questo capitolo è una reazione all’idea, che ci sembra ancora diffusa, che il policy making inglese sia un
processo giocato tra l’elettorato, il parlamento e il governo (Cabinet) [Richardson e Jordan 1979, 41].
Mentre un leader dell’opposizione può restringere le discussioni sulle
politiche ai gruppi vicini al suo partito, siano questi i sindacati o le associazioni imprenditoriali, un ministro si trova ad affrontare le domande da entrambi
i fronti, tra loro in conflitto. È probabile che lo sperimentare queste pressioni
contrastanti modifichi l’idea del ministro circa quello che un partito può fare
quando ha la responsabilità di governare l’intero paese. Ai gruppi di pressione della parte avversa, e a quelli che tengono un piede in due partiti, deve
essere data seria attenzione, se la loro cooperazione è necessaria per il successo della policy del governo [Rose 1984, 150].
È da questi problemi che si sviluppa la ricerca sulle policy communities e, più in generale, sul tipo di relazioni che avvolgono i vari settori dell’amministrazione, primo importante contributo inglese allo
sviluppo dei policy studies.
Per quanto riguarda l’intreccio tra potere e sapere, negli anni
’70 sono organizzate all’interno dell’esecutivo delle unità – talvolta
chiamate impropriamente think tanks – finalizzate a monitorare i risultati delle politiche pubbliche più complesse34. Nel frattempo, acquistano importanza i centri di ricerca esterni all’amministrazione,
che ricalcano in modo più fedele il modello americano delle «taniche di pensiero»35, e che tendono a sostituire il vetusto istituto delle
Royal Commissions come fonti di dati e di proposte per l’attività
dell’esecutivo. Soprattutto l’Institute of Economic Affairs e il Centre
for Policy Studies svolgeranno un ruolo cruciale nell’elaborar e e
diffondere le idee neoliberiste su cui Margaret Thatcher costruirà il
suo innovativo programma di governo [Hayward e Klein 1994]. Nel
complesso, tuttavia, le declinazioni prescrittive del concetto di policy
in Gran Bretagna rimangono ai margini degli esperimenti di riforma. Come vedremo meglio nel terzo capitolo, i loro criteri ispiratori
sono forniti più dal new public management che dall’analisi delle
politiche pubbliche.
34 Il conservator e Heath (1970-74) organizzò la Central Policy Review Staff
(CPRS) mentre il laburista Wilson, succedutogli nel 1974, si avvalse di una Policy Unit
costituita da consulenti indipendenti.
35 Ancora all’inizio degli anni ’70, Heclo e Wildavsky [1974] rilevano una notevole chiusura dell’amministrazione nei confronti di competenze esterne.
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
2.3.2. Germania
Il caso tedesco fornisce un illuminante esempio del nesso tra parole e sistemi concettuali [Sartori 1989; Heidenheimer 1985, 450]: ci riferiamo alla storia del termine Polizeiwissenschaften, il cui significato
originario era di fatto molto vicino a quello di policy sciences.
È interessante notare che la lingua tedesca nel diciottesimo secolo aveva
un vocabolo per policy, mentre oggi non l’ha più. È andato perduto durante
il diciannovesimo secolo, con la diffusione dell’ideologia liberale, quando lo
«stato di policy» divenne il Rechtsstaat, con funzioni di policy molto limitate.
Oggi non possiamo che adottare un termine inglese e parlare di «Policy Forschung» [Wagner e Fischer 1988, 457]36.
Nonostante la ridefinizione terminologica, la storia delle scienze
sociali tedesche rivela un costante interesse per l’analisi delle loro potenzialità applicative rispetto ai problemi della società, come dimostra
il lungo e contorto dibattito sul rapporto tra teoria e prassi. Oltre alla
tradizione marxista, occorre ricordare che la prima associazione professionale degli scienziati sociali tedeschi richiamava nella stessa denominazione (Verein für Sozialpolitik) l’impegno per le politiche sociali,
tradotto in pratica con numerosi progetti sulle condizioni dei lavoratori agricoli e industriali, cui lo stesso Max Weber diede un importante
contributo.
Dopo la traumatica esperienza della repressione della libertà di
ricerca, e dopo il compiacente rapporto tra università e potere politico
instauratosi durante la dittatura nazista, si deve attendere la seconda
metà degli anni ’60 per assistere a una ripresa dell’interesse per l’applicazione delle scienze sociali alle concrete preoccupazioni che animano
il dibattito pubblico. Ma quando le valenze prescrittive tornano al
centro dell’attenzione degli studiosi, è proprio il concetto di politica
pubblica a sostenere larga parte delle loro analisi.
In primo luogo, gli scambi culturali promossi dalle istituzioni universitarie americane a tutela della giovane democrazia tedesca avevano
permesso a un nutrito gruppo di scienziati politici di avere una diretta
conoscenza delle ricerche sulle politiche pubbliche condotte negli Stati
Uniti. Inoltre, l’allargamento della maggioranza di governo, con l’inclusione del partito socialdemocratico tedesco (1966), consentiva una
più generale identificazione con l’obiettivo del consolidamento della
capacità di governo delle istituzioni [Wollmann 1984]. Infine, l’impianto federale della Germania occidentale portava ad apprezzare i
36 Anche Norberto Bobbio sottolinea che il termine Polizeiwissenschaften «conteneva elementi di politica economica e fiscale, di scienza della legislazione e dell’amministrazione, in quanto disciplina universitaria destinata alla formazione dei funzionari statali» [1987, 45].
43
44
CAPITOLO 1
concetti capaci di traversare le varie giurisdizioni, pur salvaguardando
la convergenza degli intenti.
L’attività del «Gruppo per un progetto di riforma del governo e
dell’amministrazione», formatosi nel 1968, rappresenta il primo originale risultato di questo nuovo orientamento. Il secondo è costituito
dalla ricerca sul policy making interorganizzativo [Hanf e Scharpf
1978], promossa dall’equivalente europeo dell’APSA, lo European Consortium for Political Research (ECPR):
I vari capitoli di questo volume, praticamente senza eccezione, fanno riferimento alle «reti» attraverso le quali una policy è decisa e implementata
[...]. Quello che gli autori sottolineano è il bisogno e l’importanza dello slittamento dell’unità di analisi dalla singola organizzazione o dal singolo attore
all’insieme delle relazioni che costituiscono un network interorganizzativo
[Hanf 1978, 11].
È interessante notare che all’inizio degli anni ’80 l’interesse di
molti scienziati politici tedeschi per i problemi della gestione delle
politiche pubbliche divenne talmente rilevante da provocare una scissione nell’Associazione nazionale di scienza politica, per iniziativa di
un gruppo di studiosi intenzionati a riaffermare invece una visione più
distaccata e tradizionale della ricerca politologica [Wagner e Fischer
1988, 457].
2.3.3. Francia
Molti osservatori del caso francese hanno sottolineato come in
questo paese il concetto di Stato e quello di amministrazione abbiano
una pervasività tale da non lasciare spazio ad altri modi di definire ciò
che promuove l’interesse generale:
La Francia attraversa una crisi specifica a causa del ruolo molto più importante rispetto agli altri paesi dello Stato nazionale alla francese, che si è
costituito come un’entità monolitica detentrice del monopolio dell’«interesse
generale» e che, di conseguenza, ha sempre priorità sugli altri interessi collettivi (locali e regionali) e sugli interessi privati [Crozier 1987, 65 trad. it.].
Questa peculiarità trova conferma in numerose ricerche comparate:
«Tale visione implica il concetto che l’interesse pubblico, anziché costituire l’esito di un processo di aggiustamento reciproco tra interessi di
parte, debba essere una scoperta e una forma speciale di conoscenza
accessibile solo a chi detiene cariche pubbliche» [Hall 1986, 166].
Per tutti gli anni ’60, i più importanti progetti di intervento pubblico, soprattutto nel settore high-tech, sono stati gestiti con quella che
Muller chiama «una logica da arsenale», basata sul ruolo preponderante delle competenze tecnico-ingegneristiche nella definizione del programma:
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
In quanto concentrato della competenza dell’ingegnere, il programma è il
luogo della transazione tra i vincoli tecnici e la volontà delle autorità politiche, e corrisponde a una forma di gestione della frontiera tra il politico e
l’amministrativo, tra il pubblico e il privato, tra il civile e il militare, intorno
a un obiettivo tecnico [Muller 1992, 285; v. anche Cohen 1992].
In questo contesto, l’oggetto dell’intervento pubblico è definito
sulla base delle competenze degli apparati amministrativi o delle filiere
produttive dei vari comparti merceologici, con un’impostazione che
concede poco spazio analitico per la considerazione dei processi di
policy, che raramente hanno quei caratteri di linearità, ordine e univocità evocati dalla precedente impostazione.
A fare da battistrada a un approccio all’innovazione basato sulle
politiche pubbliche è la riflessione sull’amministrazione come contesto
di interazioni sociali complesse, che solo sporadicamente coincidono
con i confini fissati dalle competenze formali. Questa impostazione è
stata sviluppata da un gruppo di studiosi, tra cui Crozier [1963] e
Thoenig [1978] che hanno collegato la nuova lettura dell’azione dei
governi al superamento di una concezione gerarchica e monolitica del
ruolo esercitato dalle élite amministrative. In effetti, negli anni ’70 due
tendenze iniziavano a intaccare l’immagine tradizionale. Innanzi tutto,
la partecipazione alla Comunità europea obbligava i dirigenti pubblici
a confrontarsi con uno stile decisionale caratterizzato da pratiche più
confuse e pluraliste, basate su ampie negoziazioni con le organizzazioni
degli interessi [Machin e Wright 1984]. In secondo luogo, la pressione
degli enti locali, che rivendicavano in modo sempre più deciso il ruolo
di effettivi centri di governo, cominciava a incrinare il mito di uno Stato a struttura piramidale [Gremion 1976; Tarrow 1977; Mény 1983].
In quegli stessi anni, mentre negli organismi internazionali acquistava rilevanza il dibattito sui metodi per la valutazione delle politiche
pubbliche, in Francia è lo stesso Commissariat Général au Plan a promuovere l’importazione di questo approccio e ad avviare la sua concreta sperimentazione [Nioche e Poinsard 1985; Deleau 1986]. Ma le
caratteristiche istituzionali e la cultura gestionale di questo organo tendevano a fare della valutazione un’estensione sofisticata di tecniche
manageriali, più che il primo passo per una reinterpretazione del processo di piano alla luce del concetto di politica pubblica [Duran e
Monnier 1992, 239; Thoenig 1990].
Proprio queste resistenze inducono la scienza politica e la sociologia francesi a concentrarsi su quello che sembra essere il loro peculiare
contributo al dibattito internazionale: l’analisi delle rappresentazioni
sociali su cui le politiche pubbliche si basano, e che a loro volta contribuiscono a rafforzare: «Qualunque azione sociale implica una operazione di definizione sociale della realtà, che a sua volta è costitutiva
dell’attore sociale e predetermina ampiamente la sua linea di condotta.
Questa operazione mobilita certi saperi e certe norme sociali, e mette
in opera determinate ipotesi causali» [Jobert 1992, 220; Muller 1995].
45
46
CAPITOLO 1
Coerentemente con questa impostazione, le più significative indagini
empiriche mirano a evidenziare i rapporti tra i solidi apparati di ricerca
all’interno dell’amministrazione francese, i networks internazionali entro cui circolano le nuove idee di politica economica e sociale, e i centri studi da cui traggono i loro programmi i partiti politici. L’obiettivo
è ricostruire il fitto tessuto di relazioni che ha sostenuto le più importanti svolte nel modo di concepire l’intervento pubblico.
2.4. Il caso italiano
2.4.1. Indicatori del ritardo
L’interesse delle scienze sociali italiane per le politiche pubbliche
come autonomo e originale campo di ricerca acquista una qualche rilevanza intorno alla metà degli anni ’80, quando alcune università inseriscono questa disciplina nei loro piani di studio. Ma occorre attendere il decennio successivo perché questo settore raggiunga una certa
visibilità in termini di ricerche e di pubblicazioni. Ancora nel 1990,
l’indice generale per argomenti della «Rivista italiana di scienza politica», pubblicato nel ventennale della sua fondazione37, non riservava
alcuna specifica attenzione a questa «voce». E le case editrici hanno
investito pochissime risorse nella traduzione di autori ormai classici
quali Lowi, Schön, Allison, Wildavsky, Kingdon38.
Complessivamente, appare quindi pienamente condivisibile il giudizio formulato alcuni anni fa da Maurizio Ferrera: «L’ingresso degli
scienziati politici nel campo è un fenomeno alquanto recente [...] pur
tenendo conto delle modeste dimensioni della comunità politologica
nazionale. In altre parole, la scienza politica italiana è in grande ritardo rispetto agli sviluppi internazionali» [Ferrera 1989, 241].
Questo decennio ha visto una riduzione del gap, grazie a iniziative
nel campo della formazione post lauream 39, alla nascita di numerosi
centri di ricerca, dentro e fuori l’ambito universitario40, e grazie a una
rigogliosa serie di pubblicazioni41.
37
1990, n. 3.
Dalla rassegna dei contributi di scienza politica pubblicati in Italia dal 1945 al
1988 [Morlino 1989, 37], il settore delle politiche pubbliche risulta essere il più chiuso all’importazione e alla pubblicazione della letteratura internazionale.
39 Ricordiamo il Master in Analisi delle politiche pubbliche (M APP), attivato a
Torino dal Consorzio per la ricerca e l’educazione permanente, e il dottorato di ricerca in Sistemi sociali e analisi delle politiche pubbliche dell’Università di Roma.
40 Citiamo tra gli altri il Centro di analisi delle politiche pubbliche dell’Università
di Bologna, il Centro di politiche pubbliche costituito dall’Università degli Studi di
Milano e dall’Università Bocconi; ancora a Milano, le ricerche promosse da Poleis
presso l’Università Bocconi.
41 Merita una speciale menzione la collana Le politiche pubbliche in Italia, curata
da Maurizio Ferrera per la casa editrice il Mulino.
38
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
Sottolineare il ritardo non equivale a negare che in passato siano
state compiute ricerche importanti su singoli settori dell’intervento
pubblico, dall’agricoltura all’industria, dalla scuola alla sanità. E tuttavia, a differenza degli Stati Uniti, le informazioni e i modelli per spiegare le grandi trasformazioni avvenute negli anni ’60 e ’70, con l’avvio
e la crisi della programmazione economica, l’espansione dell’industria
di Stato, il decentramento e la nascita delle regioni a statuto ordinario,
sono state fornite non dai politologi42, ma da studiosi con altre specializzazioni. Al primo posto occorre citare i giuristi43, che hanno interpretato nel senso più ampio la loro competenza disciplinare, con ciò
confermando la preminenza di cui gode il diritto come tecnologia sociale nella sfera pubblica italiana. Le ricerche di Predieri sulla pianificazione territoriale, di Amato sulle politiche economiche, di Cassese e
di Cammelli sull’amministrazione, di Bassanini e di Rotelli sul decentramento, di Rodotà sull’informazione – per citare solo alcuni esempi –
dimostrano che il vero ponte tra riflessione scientifica e attivo coinvolgimento nella soluzione di problemi di rilevanza collettiva in Italia è stato costruito e piantonato dalle discipline giuridiche. In altre parole, il
paradigma all’interno del quale sono codificati i disagi e le soluzioni è
quello del diritto, sia pure definito in senso talmente ampio da incorporare considerazioni economiche, sociologiche, organizzative. Ne risulta una lettura delle difficoltà e dei fallimenti in termini di inadeguatezza delle norme o di loro violazione da parte dei principali attori. In
fondo, anche le soluzioni basate su una più netta separazione tra politica e amministrazione – molto popolari negli anni ’90 – intendono
rimediare a una violazione, se non della norma, almeno dell’etichetta,
che richiede a politici e burocrati di stare ciascuno al proprio posto.
Le altre competenze disciplinari si sono in genere attenute a interpretazioni più scontate del loro ruolo: gli economisti hanno analizzato
le politiche economiche; i pedagogisti quelle dell’istruzione; gli architetti quelle urbanistiche; i sociologi il welfare e le politiche del lavoro.
Esiste tuttavia un settore in cui dall’inizio degli anni ’80 i politologi italiani hanno assunto ruoli vicini a quelli dell’imprenditore di policy: è il campo delle riforme istituzionali, che ha visto autorevoli esponenti della disciplina presenti nel dibattito teorico, nelle discussioni
pubbliche e, soprattutto, nel parlamento44. Occorre comunque precisare che, anche in questo caso, i riferimenti analitici utilizzati per trovare una collocazione rispetto a quanto stava avvenendo sono stati
42 Fanno eccezione alcuni stranieri: Edelman e Fleming [1965], Allum [1973],
Putnam [1973], Hayward e Watson [1975], Tarrow [1977].
43 Occorre ricordare che i giuristi negli anni ’60 hanno opposto resistenza anche
allo sviluppo della scienza della politica come disciplina autonoma: v. Bobbio [1969,
19-25] e La Palombara [1987, 62].
44 Tra i docenti di scienza politica eletti in parlamento negli anni ’90 ricordiamo
Buttiglione, Fisichella, Miglio, Pasquino, Passigli, Urbani.
47
48
CAPITOLO 1
forniti non dalle policy sciences, ma dall’ingegneria istituzionale da un
lato [Pasquino 1989; Sartori 1994], e dalle teorie sul ruolo dei partiti
dall’altro. Infatti, le strade intraprese dai politologi per influire sui
processi decisionali hanno privilegiato due direzioni: il modello del
tecnico do-it-all [Lindblom 1990], impegnato a prescrivere un pacchetto di soluzioni ottimali, e il ricorso alla legittimazione elettorale attraverso l’adesione a un partito.
2.4.2. Le cause dell’assenza
Finora abbiamo parlato di un ritardo: ma questo termine è improprio, perché presuppone un diffuso apprezzamento per ciò di cui si
avverte la mancanza. Nel caso delle politiche pubbliche, come per altri
concetti estranei al lessico di una società, il problema non è coprire un
vuoto, ma aprire uno spazio, sfidando una serie di interpretazioni correnti che costituiscono un sistema autosufficiente, solido e condiviso,
capace di rendere irrilevante il nuovo approccio. Nel caso della Francia, è il binomio Stato-amministrazione a definire la sfera pubblica in
termini che respingono ai margini un discorso incentrato sulle politiche pubbliche. In quello italiano, è il binomio partiti-potere.
Nel nostro paese, è dominante l’idea che le politiche siano talmente condizionate dai giochi politici, dalla questione delle alleanze tra i
partiti e talmente funzionali alle loro strategie, che non avrebbe senso
farne un campo di ricerca autonomo. Del resto, i fenomeni che nei
decenni scorsi hanno attirato l’attenzione degli osservatori stranieri, e
che hanno reso interessante il caso italiano in chiave comparata, facevano riferimento al suo sistema partitico: il più grande partito comunista dell’occidente, l’alta partecipazione elettorale, l’instabilità delle
coalizioni di governo, il consociativismo, i partitini, il clientelismo, le
correnti, la corruzione [Morlino 1989, 61]. Come nota von Beyme,
«La specificità del “caso italiano” viene trattata soprattutto nella teoria
dei partiti» [1987, 95; Morlino 1989, 61].
La nostra tesi è che il ruolo preponderante dei partiti politici italiani e la specializzazione della scienza politica nazionale non siano
collegati soltanto da un mero rapporto unidirezionale di causa/effetto.
Come vedremo, lo studio delle politiche pubbliche addestra a guardare con sospetto a interpretazioni così semplicistiche della politica culturale delle associazioni professionali [Lowi 1992, 1]45. Del resto,
l’idea che i partiti fossero macchine efficienti, aggressive, e persino
brutali, era ben presente anche alla cultura americana degli anni ’20 e
’30: lo stesso Merriam ne aveva fatto esperienza diretta, quando tentò
45 Il sottotitolo della lezione di Lowi sulla scienza politica americana recita: Come
siamo diventati quello che studiamo.
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
invano il successo nell’arena politica. Se in quel contesto le lezioni
tratte in termini di riflessione analitica e di impegno organizzativo furono fondamentali per il decollo dei policy studies, questo significa che
occorre guardare con più attenzione alla configurazione delle lenti con
cui i fenomeni sono osservati, e alla relazione di sostegno reciproco
che si può instaurare tra i processi politici e le loro interpretazioni.
2.4.3. Politiche e potere
Un’utile traccia per portare alla luce le ragioni del mancato incontro
tra il paradigma delle politiche pubbliche – almeno nella sua originale
versione statunitense – e il main stream della scienza politica italiana è
l’affermazione con cui David Easton riassume il senso della sua ricerca
in un’opera, Il sistema politico, che ha segnato la storia della disciplina:
«La mia tendenza, in questa sede, sarà di sostenere che né lo Stato né il
potere costituiscono un concetto che serva a legare insieme la ricerca
politica» [1953, 132-3 trad. it.]. Questa impostazione è in netto contrasto con l’orientamento di larga parte della scienza politica italiana.
Iniziamo col considerare la diversa riflessione sul potere, giustamente considerata da Cotta [1989] come un punto chiave, grazie alla
straordinaria tradizione cinico-realistica italiana che annovera nomi
quali Machiavelli, Mosca, Michels, Pareto.
In effetti, una parte molto importante della scienza politica americana ha esplicitamente negato che il potere costituisca il fulcro della
ricerca politologica:
Il punto di vista del potere non può convincerci in nessun modo di essere uno strumento iniziale adeguato per individuare dei confini della ricerca
politica. La ragione è che il potere è una soltanto delle variabili rilevanti. Esso
tralascia un aspetto ugualmente vitale della vita politica, l’orientamento di
questa verso obiettivi diversi dal potere stesso. La vita politica non è fatta
solo di una lotta per il controllo; questa lotta ha le sue origini e i suoi legami
nel conflitto sulla direzione della vita sociale, negli orientamenti generali della
vita pubblica [Easton 1953, 355 trad. it.].
In questa prospettiva, a definire lo spazio della politica (e della riflessione su di essa) è la pubblicità dei problemi, il fatto che in certe
situazioni di crisi molte persone si trovino ad essere vincolate da un
ineliminabile rapporto di interdipendenza. Per Easton, dunque, «L’interesse della scienza politica per il potere è soltanto un derivato della
sua preoccupazione per come sono adottate ed eseguite le politiche»
[Easton 1953, 144]46. Gli fa eco Karl Deutsch: «Il potere non è né il
46 La versione originale suona: «The interest of political science in power is only
educed from its preoccupation with how policy is made and executed» [Easton 1953,
49
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CAPITOLO 1
centro né l’essenza della politica» [1963, 132 trad. it.]; infatti «la politica è un meccanismo decisivo per produrre, conservare o mutare gli
impegni sociali».
Secondo Charles Lindblom, «Oggi il ruolo della ragione nella politica (politics) è generalmente oscurato dall’attuale popolarità dell’idea
che la scienza politica sia lo studio del potere» [1965, 16]47: ma in
quanto tale costituisce una branca specialistica delle policy sciences,
che hanno un obiettivo più generale: «fornire le informazioni pertinenti per l’integrazione dei valori attuati e incorporati nelle relazioni interpersonali», valori rispetto ai quali il potere costituisce solo una sottocategoria.
A scanso di equivoci, occorre subito precisare che queste affermazioni non introducono ad alcuna visione irenistica, tecnocratica o egualitaria della convivenza civile. Per Lasswell, per Easton, per Dahl,
per Lindblom, la politics interviene nei problemi e nelle tensioni di
una collettività essenzialmente fissando un ordine dal più al meno per
l’accesso ai beni, stabilendo «chi ottiene che cosa», allocando risorse
in modo discriminante. In altri termini, quella che Sartori definisce la
dimensione verticale della politica [1972] è ben presente anche nell’elaborazione di questi autori. A fare la differenza sono due fattori:
l’origine di tale dimensione e le sue modalità d’intersezione con l’altra
dimensione, quella orizzontale, che pure è implicita nel termine «politica» e che, come abbiamo visto, rinvia al comune coinvolgimento nella soluzione dei problemi di rilevanza collettiva48.
Per quella parte della scienza politica americana che pone le politiche pubbliche al centro della ricerca, l’aspetto analiticamente rilevante non è tanto il «potere su», quanto il «potere di» [Barnes 1988, 6],
cioè la capacità di fare i conti con la dura evidenza della limitatezza
delle risorse disponibili, per indirizzarle verso alcuni dei problemi che
non possono essere risolti dalle famiglie, dalle associazioni spontanee,
dai mercati. Pertanto, in situazioni non patologiche, la dimensione verticale della politica non rimarca un valore fine a se stesso, ma coglie la
necessità di fissare delle precedenze in un mondo che non consente a
tutti di avere tutto ciò che vogliono.
Più che costituire un indice cumulativo capace di sintetizzare gli
squilibri esistenti in una società, questo concetto di potere rivela le sue
potenzialità euristiche solo quando acquista specificità, perché ancorato a precisi conflitti allocativi intorno a determinate categorie di risor144]. La traduzione italiana del 1973 è: «L’interesse della scienza politica per il potere
è soltanto il derivato dell’interesse che essa ha per il modo in cui si formulano ed eseguiscono le decisioni politiche» [172].
47 Lindblom include anche Bentley tra i maggiori responsabili della riduzione
della politica a un gioco di forze contrastanti.
48 Molti autori collegano queste due dimensioni alla duplice ascendenza semantica rintracciabile nel termine «politica»: poleis e polemos, città e guerra.
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
se: «L’essenza di una politica (policy) sta nel fatto che grazie ad essa
certe cose sono negate ad alcuni e rese accessibili ad altri» [Easton
1953, 129-130]. Insomma, sono le diverse politiche pubbliche a costituire le arene entro le quali prendono forme variegate e raramente
sovrapponibili le relazioni di potere.
Quando l’attenzione si sposta sulle concrete situazioni che assegnano le posizioni di vantaggio nei processi decisionali che hanno per
posta la localizzazione di un nuovo aeroporto, o i termini di un condono fiscale, il concetto di potere si spoglia di ogni tratto sistemico.
Herbert Kaufman [1981, 4] formula addirittura una «legge delle percezioni del potere» che collega la centralità attribuita a questa categoria a una sua scarsa conoscenza empirica:
Il potere che un osservatore ritiene di attribuire a una persona o a un
gruppo è direttamente proporzionale al quadrato della distanza dell’osservatore dall’osservato. Più l’osservatore si avvicina all’osservato, più il potere
dell’osservato appare limitato. E quando la distanza è zero, cioè quando la
situazione è vista con gli occhi di chi detiene il potere, ciò che spicca sono la
fragilità e i limiti del potere, non la sua grandezza49.
Se questa citazione mette in evidenza i limiti del potere, una volta
incapsulato nelle diverse arene plasmate dalle corrispondenti politiche
pubbliche, quella seguente sottolinea come tale simbiosi non sia statica, ma dinamica: «Vogliamo dimostrare perché il problema, solitamente impostato nei termini di chi ha più potere su una politica, è posto
malamente per tutte le sue dimensioni. Una politica non è una costante, ma una variabile, e il potere non è a somma finita, ma dilatabile su
tutti i lati» [Heclo e Wildavsky 1974, xiv].
Da questa prospettiva, la concezione tradizionale del potere è considerata non come la base della scienza politica, ma come un insidioso
cono d’ombra proiettato dal vecchio istituzionalismo di matrice giuridica:
Nel vedere la ricerca politica come in gran parte un mezzo per scoprire
dove risiede il potere sulla formulazione delle decisioni, esso [il realismo politico d’inizio secolo] non fece altro che sostituire un interesse giuridico per la
sede della competenza nell’ambito della struttura di governo, con un interesse
per la sede del potere effettivo nell’ambito della stessa struttura [Easton 1953,
197 trad. it.].
In questa analisi riaffiora quella diffidenza per qualunque legame,
anche indiretto, tra il concetto di pubblico e il concetto di Stato che
appartiene al codice genetico dei policy studies. Come afferma John
Dewey: «Nel momento in cui pronunciano le parole “lo Stato”, affio-
49 La legge non poteva sfuggire a Wildavsky, che la cita nell’introduzione a un
volume sulla pubblica amministrazione [1990].
51
52
CAPITOLO 1
rano una quantità di fantasmi intellettuali a oscurare la nostra visione»
[1927, 8]50.
Insomma, se confrontiamo le impostazioni prevalenti nella scienza
politica italiana e in quella statunitense, dobbiamo concludere che l’assenza d’interesse per le politiche pubbliche riscontrabile nella prima
non ha comportato soltanto l’accantonamento di un pezzo della disciplina, ma la costruzione di un altro puzzle o, se si preferisce, l’adozione di un altro paradigma, in cui anche i termini comuni, quali politica,
potere, istituzioni, assumono significati non del tutto sovrapponibili
[Regonini 1995].
2.5. Il ruolo delle organizzazioni internazionali
Le organizzazioni internazionali hanno svolto un ruolo molto importante nel diffondere il linguaggio e lo stile di ricerca delle policy
sciences, o almeno di quella parte di esse più esplicitamente orientata
alla proposta di specifiche linee di azione.
Innanzi tutto, molti di questi organismi nascono con una missione
definita istituzionalmente in termini di policy: si pensi all’Organizzazione mondiale della sanità, all’UNESCO (politiche dell’istruzione), alla
FAO (politiche per la sussistenza alimentare), al Programma ambiente
delle Nazioni Unite. Altre si sono indirizzate sempre più decisamente
in questa direzione: così ha fatto, ad esempio, la Banca mondiale, dalla
metà degli anni ’70 impegnata in progetti a sostegno delle economie
più fragili e per la riduzione delle condizioni di povertà.
L’estrema eterogeneità dei sistemi politici, delle credenze religiose,
delle strutture economiche in esse rappresentate hanno indotto molte
organizzazioni a privilegiare un approccio incentrato sulla ricerca di
proposte specifiche per questioni molto concrete:
La soluzione collettiva dei problemi tra oltre 160 Stati, con sensibilità
culturali marcatamente diverse e con memorie storiche divergenti, sembra
dipendere dall’abilità di trascendere le divisioni culturali e storiche, per promuovere significati condivisi pur nella diversità delle culture e delle ideologie
[Haas 1990, 17].
Il linguaggio delle politiche pubbliche, con l’attenzione alla precisa
individuazione degli obiettivi e alla valutazione dell’impatto, ha fornito
un importante canale di comunicazione. E se la leadership politica degli Stati Uniti è stata spesso contestata all’interno di questi organismi,
la loro leadership scientifica ha subito sfide solo marginali, in genere
50 Cit. in V. Ostrom [1980]. V. anche Lasswell e Kaplan, per i quali la scienza
politica «trova il suo oggetto nelle relazioni interpersonali, non in istituzioni od organizzazioni astratte» [1950, 13 trad. it.].
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
neutralizzate con le stesse risorse della policy analysis: studi di fattibilità, analisi costi/benefici, monitoraggio dell’output e dell’impatto.
Un discorso a parte merita l’Unione europea, nella quale un approccio in termini di politiche pubbliche emerge quasi per esclusione,
cioè per l’impossibilità di ricalcare il processo di institution building
seguito dagli Stati nazionali, basato sull’attribuzione di un’alta dignità
alle istituzioni politiche che identificano la sfera statuale. Come è
noto, il criterio elettorale democratico classico – un uomo un voto –
ha avuto un’applicazione parziale e tardiva. Il principio di maggioranza è stato accantonato fin dall’origine come criterio di soluzione dei
conflitti nelle sedi decisionali, a favore dello stile consensuale e della
mediazione continua [Mazey e Richardson 1993; Scharpf 1994]. Inoltre, le scelte sono compiute da organismi che non dispongono di alcun potere diretto per garantirne l’implementazione, ma che devono
affidarsi agli Stati nazionali, ai loro tempi istituzionali e alle loro tradizioni amministrative per la messa in opera. In queste condizioni, la
catena input-output con la quale, da Easton in poi, siamo soliti rappresentare le funzioni del sistema politico51, appare spezzata in più
punti. Come scrive Philippe Schmitter, l’Unione europea «è ancora
un oggetto politico non identificato, e ci vorrà del tempo prima che
possiamo dire con sicurezza quale tipo di polity si sta delineando»
[Schmitter 1996, 37].
Eppure, l’Unione europea è riuscita a modificare le risposte che gli
Stati membri danno ai problemi dell’approvvigionamento energetico,
dell’inquinamento ambientale, della scarsa sicurezza sui luoghi di lavoro, della protezione dei consumatori, delle garanzie di riservatezza
nella gestione dei dati personali. Ma questo risultato non è stato ottenuto proiettando su scala sovranazionale le sequenze che scandiscono
il funzionamento dei sistemi politici nazionali, bensì utilizzando le risorse valorizzate dagli approcci policy oriented: ricorso all’approfondimento assistito da indagini tecniche; prefigurazione di un punto di
equilibrio attraverso la negoziazione tra quanti sono effettivamente
interessati a uno specifico problema; diffusione delle soluzioni attraverso networks informali; monitoraggio dell’attuazione sulla base di
procedure standardizzate.
Ciò che si sa del modus operandi dei comitati consultivi suggerisce l’idea
che i dibattiti si sviluppino più in funzione dei problemi di fondo che delle
linee di confine nazionali. Tra funzionari europei ed esperti nazionali si crea
51 In estrema sintesi, per l’approccio sistemico le domande (input) di un intervento pubblico, articolate dalle organizzazioni degli interessi e aggregate dai partiti,
sono elaborate dalle istituzioni politiche, che rispondono emettendo politiche messe in
opera dalla burocrazia (output). Le reazioni dei destinatari delle politiche innescano
un processo di feedback che porta a una rimodulazione della domanda e della risposta, garantendo l’equilibrio dinamico del sistema (v. oltre, quinto capitolo).
53
54
CAPITOLO 1
un’importante «complicità tecnocratica» volta ad elaborare soluzioni pragmatiche anziché difendere posizioni politiche. Quando una questione arriva a
livello politico, prima alla Commissione dei rappresentanti permanenti, e poi
al Consiglio dei ministri, sono già stati messi a punto tutti i dettagli tecnici, e
le eventuali modifiche apportate in queste sedi normalmente non toccano
l’essenziale [Majone 1994, 258].
Per quanto paradossale possa apparire, data l’assenza di un nitido
disegno istituzionale, di partiti responsabili e di un’opinione pubblica
attenta e attiva, il policy making diviene la più rilevante fonte di visibilità e di legittimità per l’Unione europea [Scharpf 1994, 227].
3. Riferimenti teorici e metodologici
3.1. L’interdisciplinarità
Prima di entrare nel merito dei vari modi attraverso cui può essere
analizzata una politica pubblica, occorre richiamare l’attenzione del
lettore su una caratteristica comune a tutte le indagini compiute in
quest’area, a prescindere dalle finalità e dalle metodologie privilegiate.
Intendiamo parlare dell’interdisciplinarit à nelle sue diverse accezioni
[Lasswell 1951].
Innanzi tutto, a sollecitare lo scavalcamento dei confini disciplinari
è l’oggetto stesso di studio: «Concentrare l’attenzione su un solo aspetto
di un problema di policy è funzionale alla divisione del lavoro tra le discipline accademiche. Ma molti problemi nel campo delle politiche
pubbliche sono indisciplinati, e coinvolgono contemporaneamente questioni politiche, economiche, amministrative e sociali» [Rose 1989, 5].
Benché i diversi approcci di policy si qualifichino per i legami
più marcati con alcune materie rispetto ad altre, essi sono comunque
caratterizzati dalla necessità di utilizzare informazioni provenienti da
settori scientifici diversi, per l’esigenza di comprendere e/o di valutare vincoli che sono contemporaneamente tecnici, politici, finanziari,
giuridici, culturali, organizzativi [McCall e Weber 1983, 204]. Infatti
anche gli interventi pubblici relativamente semplici, quali la costruzione di un acquedotto o il miglioramento dei trasporti urbani, non
cadono nel vuoto, ma in un contesto fisico, sociale e amministrativo
che richiede la considerazione di diversi apporti disciplinari. Le crisi
dovute ai picchi nell’utilizzazione di questi servizi hanno a che vedere con la struttura economica, con le caratteristiche geofisiche del
territorio, con l’organizzazione familiare e, in fondo, con le culture:
rinunciare alla cisterna privata o all’auto implica un atto di fiducia
nelle reti pubbliche che non dipende solo dalla concreta esperienza
dell’efficienza del servizio, ma anche dalle valenze simboliche attribuite alla propria autonomia o dipendenza in quel preciso settore.
Come è noto, la clemenza del clima non influenza affatto la propen-
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
sione all’uso della bicicletta, più elevata nei paesi nordici rispetto a
quelli mediterranei.
Allo studioso di politiche pubbliche ovviamente non si richiede di
possedere tutte le competenze necessarie: si richiede però la capacità di
capire e di integrare gli specifici punti di vista dell’ingegnere che sostiene un certo tracciato, del giurista che prevede ricorsi da parte dei cittadini penalizzati, dell’economista che trova troppo costoso il progetto.
Questa strategia di ricerca espone lo scienziato politico a due pericoli opposti: da un lato, la conoscenza solo parziale dei vincoli e delle
risorse tecnologiche di un determinato settore (fonti energetiche, sanità, trasporti...) rischia di collocarlo in una posizione di perenne subalternità rispetto agli esperti in quelle materie [Grumm 1975, 458].
Dall’altro lato, l’eventuale scelta della specializzazione settoriale rischia
di sbiadire la specificità del suo contributo scientifico [Hogwood
1984]. Come scrive Lowi, «lo studio dell’impatto delle decisioni relative alle politiche del welfare e della sanità è un’area in cui lo scienziato politico può facilmente diventare zimbello di veri economisti, di
veri sociologi del benessere, di veri esperti di sanità. In questi campi,
anche il migliore politologo può essere poco più di un modesto dilettante» [Lowi 1975, 272-273]52.
A salvare lo studioso di politiche pubbliche da questi rischi interviene un modo diverso di considerare l’interdisciplinarità, che sposta
l’accento dalla complessità dell’oggetto di studio (l’acquedotto, o i ticket sanitari, o la riforma dell’esame di maturità) alla pluralità delle
prospettive da cui può essere osservato. Se i confini disciplinari cessano di essere barriere, è perché le policy sciences si propongono di evidenziare i vantaggi che derivano dall’inquadrare un problema da diversi punti di vista, anche quando le ricostruzioni che ne derivano non
sono facilmente componibili [Lasswell 1971; Dror 1971; Schneider et
al. 1982]. In effetti, da tutte le iniziative intraprese per consolidare
questo campo di ricerca, emerge la precisa consapevolezza che al centro dello studio delle politiche pubbliche – comunque definito – si
pone una qualche forma di conversazione tra diversi paradigmi disciplinari, ciascuno legittimo e utile, pur nella sua parzialità [Nagel 1990,
425; Doron 1992]53.
52 Prosegue Lowi: «Gli scienziati politici devono essere interessati all’analisi dell’impatto, ma l’impatto su cui essi possono rivendicare qualche competenza è quello
all’indietro, sul sistema politico, piuttosto che in avanti, sugli elementi del processo
sociale» (la numerazione della pagina si riferisce alla ristampa del 1979).
53 Secondo alcuni autori, questo proposito sarebbe rimasto irrealizzato: «Nonostante la retorica della multidisciplinarità e la natura interdisciplinar e della policy
analysis, tanto l’insegnamento quanto la pratica hanno ampiamente mancato l’obiettivo dell’integrazione, sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti» [Hogwood 1984, 20].
55
56
CAPITOLO 1
3.2. Il pluralismo metodologico
Il secondo tratto unificante i policy studies è la grande diversificazione dei metodi, dei problemi, delle tecniche di ricerca. Se l’interdisciplinarità rimette in discussione le relazioni di confine nella tradizionale divisione del lavoro scientifico, l’estremo pluralismo metodologico
costringe ad interrogarsi sulla quota di assunzioni condivise richiesta ai
contributi di una disciplina perché possano essere accomunati sotto
una stessa etichetta disciplinare. All’interno delle scienze sociali, gli
studi di politiche pubbliche si distinguono indubbiamente per l’adozione di una soglia molto bassa.
In effetti, gli studi di politiche pubbliche non si limitano ad utilizzare tutto il ventaglio dei metodi e delle tecniche reperibili all’interno
delle scienze, sociali e non54. A fare la differenza è il fatto che questo
pluralismo è considerato non come una patologia o un sintomo di
scarsa formalizzazione, ma piuttosto come un segno di una matura
consapevolezza metodologica. «I confini degli studi di policy sono sfumati ed espandibili, sì da lasciare spazio a opinioni diverse e a una
varietà di argomentazioni. Dunque, per un autentico scienziato di policy, niente di quanto riguarda le politiche e i loro processi può suonare strano: un requisito davvero molto esigente» [Dror 1994, 4].
In uno degli studi più citati, Essence of Decision [1971], Grahm
Allison55 prende in esame una decisione di politica estera altamente
drammatica e visibile, quale la sfida lanciata dal governo americano
durante la crisi dei missili cubani nel 1962, per dimostrare come persino in un caso platealmente giocato sotto gli occhi del mondo, più
paradigmi possano essere utilizzati per leggere in modo esauriente
quel che avvenne in quei giorni.
Come abbiamo ricordato nell’introduzione, Lasswell nei primi anni
’50 identificò questo tipo di studi con il termine policy sciences, sottolineando l’importanza del plurale. La compresenza di approcci diversi
è stata via via giustificata con una gamma di posizioni teoriche che
vanno dall’inevitabilità della convivenza, all’esplicita valorizzazione
dell’eclettismo [Beyme 1986]. In genere, infatti, gli studiosi di queste
discipline non condividono lo stigma associato a questo termine tra gli
scienziati sociali. Così, se Cook [1985] preferisce parlare di «multiplismo», Etzioni [1985] fa riferimento a un «approccio medico eclettico»
capace di risintetizzare i risultati analiticamente più rilevanti delle diverse discipline; e Braybrooke, autore con Lindblom di un pionieristico
volume sulla teoria incrementale delle decisioni [1963], come filosofo
54 Come sottolinea Diamant, «[le analisi] sono di tipo narrativo, quantitativo,
comparativo tra nazioni, tra settori, tra singoli settori in diverse nazioni» [1981, 103].
55 In seguito nominato direttore della John F. Kennedy School of Government
dell’Università di Harvard.
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
delle scienze sociali ha assunto una netta posizione a favore del pluralismo epistemologico [1987].
Ma è soprattutto il richiamo alla matrice pragmatista a fornire ai
policy studies lo schema implicito di riferimento entro il quale collocare il problema della convivenza tra più prospettive teoriche e metodologiche. È comunque opportuno sottolineare fin d’ora che, nonostante
le apparenze «onnivore», l’impostazione pragmatica è molto esigente:
l’ampia disponibilità verso concetti, metodologie e tecniche, lungi dal
costituire una comoda copertura per ogni tipo di scelta, richiede al ricercatore di considerare ogni volta con grande attenzione l’adeguatezza dell’impostazione della ricerca rispetto al problema, per riconoscere
e valutare anticipatamente le implicite affinità tra approcci e risultati.
4. Linee di ricerca
4.1. Come definire una politica pubblica
La lingua italiana, come abbiamo visto, non ci consente di dare
per scontata la comprensione intuitiva del termine policy, come invece
fa Lindblom, quando afferma che «quasi tutte le definizioni vanno
bene», dato che «anche i poeti e i ballerini sanno molte cose di questo
o quell’aspetto del policy making» [Lindblom 1980, 4].
Gli stessi inglesi, del resto, sono più cauti dell’americano Lindblom nell’attribuire un chiaro significato a questo loro vocabolo: «In
Shakespeare, ad esempio, si possono trovare quattro diversi significati:
avvedutezza, linea di governo, affari e amministrazione, e “machiavellismo”» [Parsons 1995, 14]. Rose trae spunto dall’ambiguità del termine per proporre una soluzione operativa ai problemi definitori:
Nella sua lunga storia, l’uso del termine policy nell’inglese ha acquisito
molti significati. Può fare riferimento a un tema o a un problema da discutere, come nelle espressioni education policy o industrial policy. Può rinviare a
una dichiarazione di intenzioni o di obiettivi, come nel caso di party policy o
di President’s policy. Un terzo uso rimanda ai mezzi che il governo impiega
per realizzare le sue intenzioni, come quando si parla di una policy per ridurre l’inquinamento o per formare chi è disoccupato da lungo tempo. Dati tutti
questi significati, è meglio usare il termine policy per fare riferimento in generale alle attività del governo [Rose 1989, 13].
4.1.1. Il ruolo delle istituzioni politiche
Una prima approssimativa identificazione delle politiche pubbliche
con le attività dei governi ha il vantaggio dell’immediatezza, ma è a
sua volta considerata da alcuni studiosi come troppo restrittiva. Invece, la celebre definizione di Dye [1987, I ed. 1972, 1]: «tutto ciò che
57
58
CAPITOLO 1
i governi scelgono di fare, o di non fare», ha il merito di richiamare
l’attenzione anche sulle mancate risposte, le non decisioni, la soppressione di iniziative, i problemi che riescono a non far parlare di sé
[Bachrach e Baratz 1962], siano questi l’educazione sessuale nelle
scuole o la diffusa violazione delle norme edilizie.
E tuttavia la definizione di Rose e quella di Dye sono accomunate
dal fatto di identificare nell’autorità costituita il promotore fondamentale, se non esclusivo, di una politica pubblica [Ranney 1968; Salisbury
1968]. Questa condizione è apertamente contestata da quanti ritengono che le istituzioni pubbliche possano anche retrocedere a ruoli secondari nei processi attraverso cui le società pluraliste raggiungono
soluzioni vincolanti per la collettività.
Per chi sostiene questa posizione, è un inutile formalismo etichettare come politica pubblica la decisione di una piccola amministrazione locale sulla raccolta dei rifiuti, e negare questa qualificazione al licenziamento di migliaia di addetti da parte di una grande corporation
[Nadel 1975].
Questo tipo di rilievi ha una storia lunga quanto quella dei policy
studies. Già Merriam notava che «le linee di divisione tra pubblico e
privato non sono degli assoluti [...], dato che vi sono zone di cooperazione e di coesione su cause comuni e su basi comuni in molti campi
dell’agire umano» [1944, 10, cit. in Nadel 1975]. Lasswell ha espresso
in termini più precisi lo stesso concetto: «In una società non dominata
dal governo qual è la nostra, molte prescrizioni sono stabilite e attuate
fuori dalla macchina che in una comunità detiene l’autorità. Ma la loro
importanza per la comunità è un dato sufficiente perché noi osservatori scientifici le consideriamo parte dell’effettivo assetto di potere, come
nel caso, ad esempio, degli accordi per la creazione di cartelli in economia» [Lasswell 1956, 4, cit. in Carlsson 1996].
Dahl e Lindblom [1953] fanno riferimento alle categorie di pubblico e di privato come a due estremi di un continuum, anziché a due
parti di una dicotomia: questa posizione è riassunta nella provocatoria
affermazione di Dahl: «La General Motors è un’impresa pubblica tanto quanto il servizio postale americano» [1970, 120].
Il peso degli ordinamenti formali, ridimensionato dall’approccio
pluralista, sembra riprendere rilevanza nella celebre definizione di
politica pubblica data da Easton: «Una politica pubblica [...] consiste
in una rete di decisioni e di azioni che alloca valori» [1953, 130]. Ma
questa impressione è subito corretta dallo stesso autore:
Affermando che la scienza politica è orientata allo studio delle politiche,
non intendo confondere il suo oggetto di studio con quella sorta di costruzione legale considerata saliente sino a tempi recenti. Intendo invece affermare
che la scienza politica ha a che vedere con tutti i modi in cui i valori sono
allocati per una società, che siano formalmente dichiarati in una legge, o che
alberghino nelle conseguenze di una pratica [ibidem, 131].
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
Insomma, parrebbe che una politica pubblica, più che essere adottata dall’autorità, debba esserne dotata: «Una politica è chiaramente
autorevole quando prevale la sensazione che la si deve o la si dovrebbe obbedire» [ibidem, 133].
Su questa base ha buon gioco Bachrach [1967, 102], quando afferma che anche la General Motors, come il governo, alloca autoritativamente i valori per la società. Nadel riprende questo argomento per
sottolineare la necessità di una prospettiva più ampia: «Le allocazioni
[di valori] esterne ai governi sono sempre più intrecciate con le attività
dei centri di governo formali [...]. La sfida allora è analizzare le politiche pubbliche qualunque sia la loro fonte» [Nadel 1975, 33].
Le repliche a questa impostazione tendono a rimarcare comunque
un’asimmetria nella distribuzione dell’autorità tra le istituzioni pubbliche e le altre organizzazioni, sia pure potenti: «Il governo degli Stati
Uniti può allocare con autorità valori rispetto alla General Motors, ma
non il contrario» [Bealey 1996, 329]. E tuttavia questa osservazione
perde fondamento se pensiamo ai costi che negli anni ’90 la Microsoft
ha potuto imporre alle amministrazioni di molti paesi, semplicemente
condannando all’obsolescenza la versione di un suo programma56.
Benché questa contrapposizione continui a riproporsi, i suoi termini tendono a essere ridefiniti. A fare problema oggi, oltre al ruolo
delle grandi corporations, è l’esistenza di una molteplicità di iniziative
e di sedi che di fatto ridimensionano la rilevanza dei processi interni
alle istituzioni politiche tradizionali. Le organizzazioni del volontariato
spesso arrivano prima e meglio dei funzionari pubblici nelle situazioni
di disagio sociale. Nel timore che i loro prodotti siano sorpassati dagli
eventi, le case editrici scolastiche anticipano e rendono effettivi i contenuti di riforme didattiche mai approvate dal parlamento.
Spesso le soluzioni ai problemi si solidificano in strutture pubbliche:
ma questa condizione non è né necessaria né sufficiente perché si possa
parlare di politiche pubbliche. Se l’oggetto di studio non è un settore
dell’intervento statale, ma la linea d’attacco di uno specifico problema di
pubblico interesse, occorre ammettere che politiche pubbliche e interventi istituzionali siano due concetti non completamente sovrapponibili.
Esistono istituzioni che ormai sono esse stesse un problema pubblico
(ad esempio, il TAR del Lazio). Ed esistono soluzioni che non passano
per l’amministrazione pubblica: il controllo più efficace della pornografia su Internet è messo a disposizione delle famiglie dalle software houses, non dai governi. Rispetto a questi processi, il ruolo ufficiale delle
istituzioni politiche nella soluzione di problemi di rilevanza generale non
è più un fondamentale prerequisito. Piuttosto, diviene una variabile il
56 Altri casi sono rappresentati dalle decisioni delle grandi aziende di spostare le
loro attività da una zona all’altra, lasciando alcuni enti locali alle prese con i costi della
disoccupazione e assegnando benefici ad altri.
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CAPITOLO 1
cui contorno assume forme irrituali e il cui peso può essere definito solo
con la ricerca empirica, perché la stessa natura giuridica pubblica o privata degli attori in gioco si rivela un indicatore molto povero della loro
effettiva influenza: «Il fatto che le gerarchie politiche formali siano rilevanti rispetto al problema studiato non può essere dato per scontato. La
loro funzione come rilevanti unità di analisi deve essere dimostrata, non
assunta a priori» [Carlsson 1996, 542].
4.1.2. Organicità delle scelte ed effetti non previsti
«Che cos’è per il ministro Ronchi una rigorosa politica ambientale? Una sommatoria di vertenze locali, prive di certezze, dominata dal
particolarismo e dalla completa assenza di una visione d’insieme, a cui
il ministero dell’Ambiente sembra prestare il suo appoggio? Oppure
una strategia di governo con obiettivi nazionali ed europei, che rendano coerenti le diverse scelte locali, definendone il quadro d’insieme?»57.
Se il dilemma che compare in questo brano è un artificio retorico
utilizzato a fini polemici (chi vorrebbe una politica ambientale priva di
certezze e dominata dal particolarismo?), negli studi di policy l’alternativa evocata ha una consistenza analitica ben più significativa.
Nella sesta edizione del suo fortunato volume [Dye 1987], completa la sua definizione (v. p. 57-58) chiedendosi: ma i governi sanno quel
che fanno? La risposta è: «Parlando in generale, no» [ibidem, 350]. In
effetti, dagli stessi «padri fondatori» della disciplina provengono indicazioni molto diverse circa il grado di organicità e di consapevolezza
richiesto a una politica pubblica per distinguerla dalla massa degli interventi provvisori, limitati, estemporanei.
Per Lasswell la soglia è piuttosto elevata: «La parola policy è di
solito usata per indicare le scelte più importanti adottate nella vita
organizzata o privata» [1951, 5]. Infatti una policy è «un programma
progettato di valori, fini e pratiche» [Lasswell e Kaplan 1950, 87
trad. it.].
All’estremo opposto, Heclo e Wildavsky propongono una definizione molto meno esigente: «Una politica pubblica è una serie di supposizioni correnti, costruite nel tempo dagli amministratori politici58,
supposizioni lasciate funzionare finché possibile, riparate se necessario,
e capovolte quando irrecuperabili» [1974, 346]. Più che mirare a
obiettivi veri e propri, le politiche pubbliche segnalano un impegno a
farsi carico di un problema: «Le politiche pubbliche non fanno riferi57 Caro Ronchi, ecco perché non siamo «boiardi», di Chicco Testa, presidente
ENEL, su «Corriere della Sera», 24 dicembre 1996.
58 Heclo e Wildavsky utilizzano volutamente un’espressione ambigua per marcare l’impossibilità di una netta separazione tra le due funzioni.
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
mento a obiettivi, ma a impegni» [Colebatch 1995, 155]. L’accento
sull’organico e programmato controllo dell’intervento pubblico, implicito nelle prime definizioni, si attenua fino a scomparire nell’ultima,
che invece rinvia ad aspetti quali l’accomodamento e l’ininterrotto
aggiustamento dei fini ai mezzi.
Contro l’impiego di un filtro a maglie così larghe si schierano
quanti, come Lowi, tengono in grande considerazione il ruolo svolto
dalle istituzioni politiche:
Probabilmente una delle peggiori trasformazioni degli ultimi anni è la
sostituzione della terminologia della legge con quella delle politiche nella
descrizione delle decisioni che i governi prendono per esercitare influenza
sulla società. Una politica pubblica non può essere semplicemente la più recente e isolata decisione adottata da un’élite o da qualunque attore pubblico
o privato. Una politica pubblica deve avere qualcosa a che fare con le intenzioni di lungo respiro del governo e delle sue agenzie, e con impegni pubblici
assunti per essere implementati, sia pure approssimativamente, con incentivi
e con sanzioni che coprono un ampio arco di spazio, di tempo e di popolazione [1975, 270].
Questa divergenza è ben più profonda di una querelle filologica:
ad essere in gioco sono due visioni antitetiche dell’ordine generato
dalle istituzioni politiche, che possiamo far risalire alla contrapposizione tra pluralismo e individualismo metodologico da un lato, e istituzionalismo dall’altro. Le definizioni minimaliste di politica pubblica si
rifanno più o meno esplicitamente a una visione della convivenza civile
in cui, accanto a progetti deliberatamente e intenzionalmente perseguiti, contano processi, quali la circolazione della lingua e della moneta,
che mostrano solo a posteriori di adempiere in modo efficiente allo
scopo del coordinamento generale, dato che nelle nostre società aperte
nessun programmatore pubblico controlla interamente il loro flusso
[Hayek 1952].
Alcune definizioni di politica pubblica tendono a fare della coesistenza tra queste due impostazioni, in genere considerate incompatibili, non un punto di debolezza, ma un punto di forza, ammettendo da
un lato l’intenzionale perseguimento di una serie di obiettivi da parte
dei principali attori e, dall’altro, la possibilità che il processo stesso
generi problemi imprevisti, relazioni nuove, preferenze inedite, inducendo chi ne è coinvolto a modificare anche radicalmente i suoi obiettivi iniziali: «Il mondo reale del policy making mostra un costante influsso reciproco tra propositi e conseguenze inattese, tra obiettivi che
esistono a priori e obiettivi che sono scoperti a posteriori, tra la rispettiva utilità della deduzione e dell’induzione» [Heidenheimer, Heclo e
Adams 1983, 4]59.
59 Si veda anche Heclo [1972; rist. 1979, 85]: «Il termine policy deve poter comprendere sia ciò che è intenzionale, sia ciò che accade per sua conseguenza».
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4.1.3. Un campo di ricerca, non un oggetto precostituito
Come risulta fin qui evidente, e come rimarcheremo in seguito,
sono veramente poche le caratteristiche costitutive di una politica pubblica per le quali non si debba introdurre il riferimento a una tensione
tra opposti: autorità governative, ma anche organizzazioni corporate;
intenzionalità, ma anche importanza delle conseguenze non previste; e
poi, aspetti cognitivi, ma anche conflitti d’interessi... «A parte uno scarno consenso sul fatto che lo studio delle politiche pubbliche è multidisciplinare e orientato al problema, c’è poco accordo su che cosa sia o
debba essere la ricerca di policy» [Schneider et al. 1982, 100].
Eppure, se si supera l’imbarazzo di aprire un testo sulle politiche
pubbliche con definizioni piene di interrogativi e di zone d’ombra,
questa incertezza può trasformarsi in una solida base per acquisire un
concetto fondamentale, così riassunto da Heclo: «Una policy non può
essere considerata come un fenomeno che si autodefinisce, ma come
una categoria analitica, i cui contenuti sono identificati dall’analista,
non dal policy maker o da un atto della legislazione o dell’amministrazione» [Heclo 1972, 85].
L’inestricabile legame tra l’impostazione che il ricercatore adotta,
la definizione di policy che privilegia, l’attenzione selettiva per alcuni
processi a scapito di altri, non sono limiti da superare, problemi rispetto ai quali trovare l’unica soluzione giusta, ma piuttosto segnali
che marcano di volta in volta i lati del campo entro cui giocare la partita della ricerca: «Non solo la diversità metodologica è inevitabile, ma
è probabile che, anche nelle migliori circostanze per la raccolta e
l’analisi dei dati, ci sia una differente comprensione della sostanza dei
fatti e di ciò che essi implicano per le politiche» [Paris 1988, 81].
Il fatto che gli oggetti di studio delle scienze sociali siano «carichi
di teoria» (theory laden) [Reich 1988] è un dato che oggi, dopo la
svolta postcomportamentalista, tende ad essere riconosciuto come tratto comune a tutti i concetti fondanti questo tipo di discipline. Come
dimostra la data della citazione di Heclo appena riportata, lo studio
delle politiche pubbliche può vantare una precoce consapevolezza di
questo cruciale dato.
4.2. L’individuazione dell’unità di analisi
Come dovrebbe apparire normale dopo la conclusione del paragrafo precedente, sia la natura pubblica dei problemi che generano le
politiche, sia i confini di queste ultime non sono dati oggettivi, scontati, evidenti, ma dipendono da una serie di fattori, alcuni relativi alle
circostanze da cui emerge il problema, altri relativi alle convenzioni
che il ricercatore adotta per delimitare il suo campo di analisi.
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
4.2.1. Confini convenzionali
Innanzi tutto, uno stesso problema può assumere una valenza più
o meno pubblica a seconda del contesto in cui cade. Un caso di epatite è una questione privata: cento concentrati in una città, non più.
Ma anche un caso può tracimare dal privato al pubblico se risulta originato da una mensa scolastica o da una trasfusione infetta; e questo
stesso caso può tornare a rifluire nel privato se nelle stesse ore scoppia
un’epidemia di meningite.
I problemi che hanno ormai acquisito un posto nell’agenda delle
istituzioni pubbliche difficilmente marciano isolati, ma presentano invece numerosi agganci e sovrapposizioni. Si pensi ad esempio alla difficoltà di fissare dove comincia e dove finisce la politica sanitaria: ne
fanno parte o no questioni quali la programmazione degli accessi alla
facoltà di medicina o la regolazione degli esperimenti incentrati sulla
clonazione? Come delimitare convenzionalmente l’oggetto d’indagine
è pertanto un passaggio fondamentale della ricerca, della cui importanza il ricercatore deve essere pienamente consapevole. Infatti convenzionale non significa arbitrario, ma basato su criteri che devono
essere chiaramente specificati e motivati.
4.2.2. Confini controversi
In secondo luogo, occorre prestare attenzione ai confini intorno ai
quali esistono conflitti aperti. In molti casi, infatti, al centro delle controversie di policy stanno proprio differenti interpretazioni del significato di un intervento e della sua collocazione rispetto a politiche contigue.
Qual è il confine tra l’esigenza di una programmazione dei flussi
migratori e il riconoscimento del diritto d’asilo per chi fugge da regimi
non democratici? Che cosa sono gli accantonamenti delle imprese per
garantire il pagamento dell’indennità di fine rapporto ai loro dipendenti? Sono un «prestito» di questi ultimi all’azienda, la cui regolazio- ne
è di esclusiva pertinenza dei contraenti? Sono una finzione contabile generata da una tradizione del welfare italiano oggi priva di significato, che una trattativa tra governo e parti sociali potrebbe anche abolire? Sono una effettiva risorsa finanziaria delle imprese, su cui lo Stato
può esercitare a propria discrezione il prelievo fiscale?
4.2.3. Confini mobili
In terzo luogo, è importante identificare i confini in rapido movimento. Infatti la delimitazione di una politica pubblica non è un’operazione che vale una volta per tutte: «Invece di essere una costante che
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graziosamente giace in attesa che i contendenti discutano su come fare
a pezzi il suo corpo, una policy è una variabile che può anche alzarsi e
lasciare la scena prima dell’indagine» [Heclo e Wildavsky 1974, 373].
Quando, alla metà degli anni ’60, fu istituito un assegno mensile
per gli anziani con bassi livelli di reddito e privi di un’adeguata carriera contributiva, sembrò naturale per i policy makers chiamare questo
trattamento «pensione sociale». Oggi che l’agenda è dominata dal problema di separare la previdenza dall’assistenza, nessuno penserebbe di
chiamare pensione un beneficio con tali caratteristiche.
Il fenomeno del telelavoro è stato considerato un mero problema
di organizzazione aziendale fino a quando il vicepresidente degli Stati
Uniti, Al Gore, ha parlato delle autostrade informatiche come di una
risorsa importante per la politica ambientale, dato che muovere i files
anziché le persone può avere enormi effetti positivi sul traffico e la
congestione dei centri urbani. Da quel momento in poi, il telelavoro è
divenuto un elemento notevole delle politiche della mobilità americane.
4.2.4. Confini rivelatori
In un mondo in cui i rinvii incrociati tra settori di policy diventano
sempre più fitti sul piano amministrativo, finanziario, tecnologico, può
essere interessante gettare luce su interdipendenze che, pur non essendo ancora riconosciute dai principali attori, hanno molte probabilità di
diventare tali in un prossimo futuro, essendo già rilevate dagli osservatori più attenti.
Allo stato attuale, considerare la spesa per i teatri lirici come parte
della politica dei trasporti è una congettura che non porta da nessuna
parte. Ma non è privo di senso notare che le politiche previdenziali
«cominciano» con la durata dell’obbligo scolastico: se l’età minima di
accesso al lavoro si mantiene costantemente sotto le medie dei paesi
avanzati, è alta la probabilità di avere pensionati che, a parità di requisiti contributivi, sono più costosi dei loro colleghi di altre nazioni, data
la loro più giovane età.
Considerazioni di questo tipo possono avere un importante valore
euristico, perché consentono di portare alla luce le modalità con cui si
struttura la percezione sociale dei legami tra i problemi, enfatizzando
certe connessioni a scapito di altre.
4.3. La molteplicità dei filtri
Non solo i contorni, ma anche i fatti significativi per dare conto di
una politica pubblica possono essere selezionati sulla base di una
molteplicità di filtri. Oltre al giudizio sui confini, anche quello sull’esistenza stessa dell’oggetto di studio può essere molto discordante a se-
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
conda del tipo di processi su cui il ricercatore concentra l’attenzione.
Così, ad esempio, se l’idea è quella di esaminare i documenti ufficiali
in cui esplicitamente e programmaticamente sono esposte le linee d’intervento in un determinato ambito, si può giungere alla conclusione
che l’Italia non ha una politica delle risorse ambientali. Se invece si
guarda al numero di persone che lavorano in uffici pubblici con competenze in questo campo, al numero di sentenze della magistratura su
questi temi, ai referendum indetti, ai condoni edilizi attuati, ai fondi
spesi, alle indagini finanziate, allora la conclusione è diversa, anche se
non necessariamente più ottimista.
Uno dei risultati più importanti degli ultimi trent’anni di ricerca
sulle politiche pubbliche consiste nell’aver allargato il campo dei fattori analiticamente significativi per l’identificazione di una politica pubblica: non solo la legislazione, ma tutti gli atti capaci di produrre conseguenze di rilevanza collettiva; non solo quelli intrapresi dalle autorità
formalmente competenti, ma anche quelli adottati dai rami bassi dell’amministrazione, dalle organizzazioni degli interessi o dai singoli destinatari; non solo il dibattito politico, ma anche quello condotto sui
media o nelle istituzioni scientifiche. L’inclusione di questa serie di
dati ha una precisa ragione teorica: la linea d’ombra che segna il passaggio dall’assenza all’esistenza di una politica pubblica è una zona
estremamente interessante, capace di fornire indicazioni preziose per
lo sviluppo della ricerca.
Esistono infatti diverse modalità di assenza di una politica: vi sono
situazioni che non sono percepite come problemi pubblici in una determinata società o in una determinata epoca, e che invece irrompono
nell’agenda dei politici in aree o in tempi appena contigui, come è
accaduto per molte issues legate all’ecologia, o come succede attualmente per alcuni temi quali l’eutanasia o la sperimentazione genetica.
Vi sono poi problemi che, benché molto visibili e diffusamente percepiti come tali, sono congelati nella categoria delle non-decisioni [Bachrach e Baratz 1962], in attesa, ad esempio, che le situazioni evolvano,
permettendo di soddisfare le richieste di una parte, senza scontentare
troppo chi ha interessi antagonisti. Per rimanere al caso italiano, molti
interventi, quali la riforma della scuola media superiore o la revisione
dell’equo canone, sono stati all’ordine del giorno dei vari governi per
diverse legislature, senza che intorno ad essi si costituisse una coalizione capace di far prevalere un’alternativa rispetto alle altre.
Infine, vi sono misure che, pur avendo completato l’iter legislativo
o essendo provviste di tutte le necessarie approvazioni, non conoscono
alcuna attuazione concreta, ma esistono solo come fogli di carta. Quest’ultimo tipo di «assenza» si presta ad un’ulteriore articolazione interna, poiché in alcuni casi il fatto che una politica pubblica manchi totalmente i propri obiettivi può essere previsto con largo anticipo, tanto
da far sorgere nell’analista il dubbio che gli stessi decisori abbiano
consapevolmente scelto la strada di un intervento simbolico [Edelman
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1964], nell’incapacit à o nell’impossibilità di reperire risorse per
un’azione più incisiva. Molte disposizioni per la repressione dell’evasione contributiva o per il controllo della qualità dei prodotti alimentari fissano tassativamente adempimenti e verifiche che l’amministrazione stessa è notoriamente incapace di rispettare.
Ma esistono anche interventi che manifestano la loro palese inadeguatezza rispetto ai problemi che intendevano risolvere solo al momento della concreta attuazione, perché le conoscenze tecniche dei
rapporti tra cause ed effetti in un determinato settore si rivelano, alla
prova dei fatti, troppo rozze ed approssimative. Molti investimenti
pubblici finalizzati negli anni ’60 allo sviluppo industriale del Mezzogiorno nascevano ad esempio da una teoria della modernizzazione del
tutto inadeguata rispetto alla complessità della situazione reale.
5. Questioni aperte
5.1. Politica e politiche: differenza o diffidenza?
Per evitare continui malintesi, è bene sottolineare fin d’ora che il
contesto culturale americano, che fa da sfondo ai policy studies, non riserva alla sfera della politica (politics) né la rilevanza né la deferenza
che invece le sono riconosciute nel contesto europeo, e italiano in particolare.
Lasswell, uno dei fondatori delle policy sciences, nei suoi primi studi [1930] attribuiva alla personalità volta alla carriera politica tratti
poco lusinghieri, quali la bassa autostima, e s’interrogava su come
potessero le democrazie sopravvivere alla scarsa qualità dei loro leader
politici [Merelman 1981].
Dror usa il sarcasmo e ricorre alla favola di Hans Andersen Gli
abiti nuovi dell’imperatore per descrivere la relazione tra gli studiosi di
politiche pubbliche e il potere politico: «Non solo ci attendiamo che
le scienze delle politiche gridino ridendo “L’imperatore è nudo!”; ma
ci aspettiamo che lo stesso imperatore le paghi per osservarlo più da
vicino» [1971, 123].
Secondo Hirschman [1991], peraltro critico verso queste posizioni,
le tesi di quanti ritengono regolarmente sovrastimato il peso della politica (politics) nell’innovazione di policy si basano su tre tipi di argomenti:
• la tesi della futilità: la politica non è in grado di introdurre reali
cambiamenti, perché il consenso risente del fluttuare delle opinioni e
delle mode;
• la tesi dell’effetto perverso: l’intervento riformatore dei politici
provoca conseguenze non volute, che spesso vanno nella direzione
opposta a quella desiderata;
• la tesi dell’insidia: i propositi iniziali dei politici possono anche
VEDERE LE POLITICHE PUBBLICHE
essere buoni, ma sono destinati a corrompersi nel passaggio dalle teorie ai fatti60.
Benché queste convinzioni ricorrano con una certa frequenza tra
gli studiosi di politiche pubbliche, ci sembra più interessante collegare
il ridimensionamento delle scelte dei politici non tanto ad una svalutazione delle loro logiche di azione, quanto all’apprezzamento di logiche
diverse da queste, e a una più acuta consapevolezza del fatto che non
tutto ciò che accade ha una logica.
Innanzi tutto, studiare le politiche pubbliche significa prendere
atto dell’importanza di altre forme di produzione di beni di rilevanza
collettiva: il mercato, la ricerca scientifica, i media, la famiglia, le istituzioni religiose. Il ruolo delle donne nella società è stato valorizzato
non solo dalle politiche pubbliche, ma anche dall’innovazione tecnologica, che ha portato in ogni casa lavatrici e frigoriferi, consentendo più
flessibilità nell’organizzazione della vita domestica. E le forbici retributive ancora esistenti tendono a ridursi anche per effetto dell’automazione, che rende irrilevanti le differenze tra la forza fisica dei due sessi.
In molti paesi, le carenze dei servizi postali pubblici sono divenute trascurabili non perché siano state eliminate dalle politiche di riforma, ma perché sono state aggirate con la diffusione di fax e posta
elettronica.
L’estensione della protezione sanitaria pubblica ha certo consentito
di salvare molte vite umane, ma altrettanto hanno fatto le tecniche di
conservazione dei cibi, o la migliore informazione sanitaria fornita dai
media secondo logiche di mercato [Wildavsky 1992].
Se oggi il benessere degli animali è tenuto in maggiore considerazione, non lo si deve solo ai diritti loro riconosciuti nei documenti
dell’UNESCO, ma anche ai cartoni animati, che hanno diffuso tra le ultime generazioni un’idea antropomorfica della loro indole. E altrettanti
esempi potrebbero essere citati in negativo, a proposito del ruolo esercitato dai mercati, dai media, dalle istituzioni culturali nel vanificare i
programmi dei politici.
Da questo punto di vista, se lo studio delle politiche pubbliche rappresenta una sfida all’idea dell’onnipotenza della politica, lo è al pari di
altre scienze sociali quali l’economia, l’antropologia, la sociologia, che
indagano sui vincoli che condizionano lo sviluppo delle società.
Ma i policy studies tendono a operare un altro tipo di ridimensionamento, perché mettono in evidenza la pratica impossibilità, nelle nostre
società aperte, di regolare le dinamiche politiche interne a ogni singolo
settore61 riportandole a una specie di unico, grande tavolo da gioco, in
cui si deciderebbe chi vince e chi perde nella superpartita della politica. In questo senso, ad essere sfidata non è tanto l’idea di onnipotenza,
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Per un commento a queste tesi, v. March e Olsen [1995, 249].
Quella che in inglese è chiamata politics of (social, urban) policy.
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ma quella di onnicomprensività; e non solo della politica, ma di tutte le
arene che si vorrebbero depositarie di un potere sovraordinante, com’è
ad esempio per i rapporti di classe nella teoria marxista.
Infine, lo studio delle politiche pubbliche allena a riconoscere il
peso di eventi non programmati e persino non intenzionali. E non si
tratta solo di tributare, sulle orme di Machiavelli, un riconoscimento al
ruolo della fortuna, peraltro compatibile con una concezione molto
ampia delle risorse della politica. Il dato analiticamente significativo
non è la sorte. A dare spazio all’indeterminatezza «che fa problema» è
la molteplicità, l’incongruenza e l’incompletezza dei codici impiegati
dagli attori – politici inclusi, al pari dei comuni cittadini – per decifrare quel che succede. A evidenziare questi vuoti non è tanto l’evento
catastrofico imprevisto, il terremoto che arriva a ribaltare la scala delle
priorità del governo. Come l’esperienza insegna, i «dopoterremoto»
seguono, anzi, sceneggiature assolutamente precise e prevedibili. Più
insidiosi sono invece i problemi di sempre cui viene a mancare qualche tessera: che cosa diventa la pensione se la gente non fa più figli, o
se quelli che ci sono non se ne vanno da casa, o se di case ne ereditano quattro, a causa dell’imbuto generazionale.
Rispetto a queste congetture, la validità euristica delle chiavi di
lettura enfatizzate dalla politica – ad esempio, l’asse destra/sinistra – è
molto tenue; e il ruolo dei leader politici nella definizione di nuovi
codici appare secondario rispetto a quello svolto da altri attori, quali i
commentatori televisivi o gli studiosi dei fatti di costume.