Un personaggio "problematico" Nel quadro di

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Un personaggio "problematico" Nel quadro di
39 TALENTO:appetito, passione. E si noti che essa definisce, non tanto specificamente la lussuria, quanto ogni peccato di incontinenza; sebbene la formula si applichi poi più spesso e dai più proprio alla natura travolgente e alla furia insana della passione d'amore 72 PIETA’ non è da intendere nel senso di compassione, simpatia (come nelle interpretazioni che di questo canto famoso diedero già, nel quadro di una sensibilità prettamente romantica, il Foscolo e il De Sanctis, seguiti da molti fra i commentatori moderni); bensì nel senso di turbamento, che nasce dalla considerazione delle terribili conseguenze del peccato. E s'intende che, trattandosi qui di una colpa che ha la sua prima origine in un sentimento naturalissimo, ed esaltato per giunta da una lunga tradizione poetica (che risale ad Ovidio e si distende per infiniti rami nella letteratura medievale, fino allo «stil nuovo»), e trovandosi tra questi peccatori molti personaggi celebrati dalla poesia e aureolati dalla leggenda, il turbamento implica anche una sfumatura di sofferenza e di segreta tormentosa inquietudine, che non importa comunque mai da parte di Dante un atteggiamento di adesione e di compartecipazione e non attenua in nessun modo la recisa condanna morale.
102 OFFENDE quasi tutti i commentatori riferiscono l'inciso alla frase immediatamente precedente che mi fu tolta , e vi vedono un'allusione o ad una presunta particolare efferatezza del modo in cui Gianciotto avrebbe ucciso i due amanti, ovvero al carattere repentino di quella morte, che avrebbe tolto ad essi ogni possibilità di pentirsi del loro peccato e li avrebbe quindi dannati per sempre. Ma il parallelismo logico e formale fra questa terzina e la seguente (e, in particolare, tra ancor m'offende e ancor non m'abbandona ) richiede che l'inciso sia riferito, anziché alla relativa che immediatamente precede, alla proposizione principale, intendendo: «Amore, che trova rapido accesso in cuore gentile, prese costui della bella persona, che mi fu tolta colla violenza, e il modo , l'intensità, di questo amore fu tale che ancora mi offende , mi vince». Di siffatta accezione di offendere , nel senso di «menomare, danneggiare», si hanno molti esempi nell'uso di Dante. Natalino Sapegno, un critico formatesi alla scuola crociana ma poi approdato ad un rigoroso storicismo, interpreta la pietà dì Dante come commozione che implica però perplessità morale e intellettuale, senza però indulgere ad assoluzioni, II centro focale si sposta più su Dante che
su Francesca, in quanto lo stesso uomo Dante è costretto a riesaminare le concezioni letterarie e morali che egli stesso aveva ambìguamente accettato. Un personaggio "problematico" Nel quadro di questa pietà (da intendersi, come s'è detto, nel senso della commozione che accompagna uno stato di perplessità morale e intellettuale) occorre interpretare tutto l'episodio di Francesca, che è il primo grande esempio della poesia "maggiore" di Dante: di quella poesia cioè che nasce sempre da una situazione complessa, "problematica", e si riporta dovunque, sebbene mai in maniera immediata e semplicistica, all'unità della concezione fondamentale del poema. Agli interpreti romantici, che insistono esclusivamente sull'umana compassione del poeta per i due amanti infelici, sfugge la reale natura della reazione psicologica del personaggio Dante, il quale dal caso di Francesca e di Paolo è condotto a riesaminare e misurare la validità di tutta una posizione sentimentale e culturale, della quale anch'egli ha lungamente accolto le ambigue soluzioni. Ne deriva una situazione non univoca appunto, ma complessa, non statica, ma drammatica. Proiettato nell'animo del pellegrino l'incontro con i due dannati prende l'aspetto di un'esperienza, che vuoi dire anzitutto un acquisto: la liberazione da un errore, la conferma e il chiarimento di una verità morale già confusamente posseduta. Il senso totale dell'episodio non può esaurirsi nella illustrazione dello stato d'animo di questo o quello degli attori che vi partecipano, non nella passione di Francesca e neppure soltanto nella perplessità del personaggio Dante, ma s'illumina appunto, drammaticamente, in quell'incontro di un'anima vinta dal peccato con un'anima che anela a vincere le condizioni del peccato, e nel giudizio etico, sottinteso ed implicito, ma sempre presente, del Dante poeta che crea i suoi personaggi e sta al di sopra di essi. Da questo giudizio etico astrae chi nella pagina appunta la sua attenzione esclusivamente sulla figura di Francesca e ne Fa una sorta di eroina compatita e redenta dall'umana pietà dello scrittore, Cominciò il Foscolo, scrivendo a proposito di questo episodio: «la colpa è purificata dall'ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti que' versi la compassione pare Tunica musa»; e da queste sue parole trasse in seguito lo spunto la lunga serie delle interpretazioni in senso romantico, da quella del De Sanctis fino alle più recenti (e tutte importanti per abbondanza e acume di notazioni particolari) del Parodi, del Barbi, del Pagliaro. Ma Francesca non è un'eroina, e nel ritrarla Dante insiste se mai sulla sua femminile debolezza e sul suo bisogno costante di giustificazione e dì compatimento. LE "fatalità della passione'1 è nella donna peccatrice un motivo che le si porge naturale come mezzo di discolpa; è nel pellegrino che l'interroga il dato di una teorica acquisita e corrente, di cui è portato a rivedere l'attendibilità alla luce delle sue conseguenze reali e terribili; ma non può essere il criterio del Dante che giudica e punisce e alla stregua del quale sia lecito fondare una coerente interpretazione della sua creazione poetica. E s'intende che Francesca non è neppure, nelle pagine dell'Alighieri, il paradigma di uri concetto, ma una creatura viva: il "problema" è tutto risolto in una sintesi fantastica, È proprio della poesia di Dante, nei suoi momenti più alti, "questa capacità di conservare intatta, pur nella fedeltà sostanziale all'assunto etico e strutturale, l'umanità complessa e appassionata delle sue creature; per cui nell'intelaiatura tutta medievale e cattolica del poema viene a confluire una così ricca e varia materia di passioni umane, di vizi e valori terreni, dominati e contenuti, ma non mai repressi o soppressi. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, a cura di N. Sapegno, Ls Nuova Italia, Firenze 1955 INTERPRETAZIONI A CONFRONTO
Francesca da Rimini
La critica ottocentesca trasformò la Francesca di Dante in un’eroina peccatrice ma
priva di colpe.
Il primo a occuparsene fu Foscolo, secondo il quale l’ardore e la passione purificano la
colpa e nei confronti dei due amanti non si può che provare compassione, sentimento
tanto caro allo stesso Foscolo.
La tesi foscoliana fu ripresa da Francesco De Sanctis, il più grande critico dell’età
romantica, il quale vide in Francesca «la prima donna viva e vera apparsa
sull’orizzonte poetico dei tempi moderni», in quanto «è donna e non altro che donna».
Francesca incarna la fatalità della passione d’amore, è un’eroina-vittima che
preannuncia le figure femminili della letteratura romantica. L’amore continua
a soggiornare anche nell’Inferno.
Francesco De Sanctis
Un’eroina romantica
Beatrice è men che donna, è il puro femminile, è il genere o il tipo, non l’individuo.
Perciò voi potete contemplarla, adorarla,intenderla, spiegarvela, ma non l’amate, non
la possedete con pura dilettazione estetica, anzi ne state a distanza. [...]Francesca è
donna e non altro che donna I suoi lineamenti si trovano già in tutti i concetti della
donna prevalenti nelle poesie di quel tempo: amore, gentilezza, purità, verecondia,
leggiadria.
Ma questi non sono qui epiteti, ma vere qualità di persona messe in azione, e perciò
vive. [...] Quella donna che [Dante] cerca in paradiso, eccola qui, egli l’ha trovata
nell’inferno. Francesca non è il divino, ma l’umano e il terrestre, essere fragile,
appassionato, capace di colpa e colpevole, è perciò in tale situazione che tutte le sue
facoltà sono messe in movimento, con profondi contrasti1 che generano irresistibili
emozioni. E questo è la vita. Non ha Francesca alcuna qualità volgare o malvagia,
come odio, o rancore, o dispetto, e neppure
alcuna speciale qualità buona; sembra che nel suo animo non possa farsi adito altro
sentimento che l’amore. «Amore, Amore, Amore!». Qui è la sua felicità e qui è la sua
miseria. Mi amò, ed io l’amai; – ecco tutto. Nella sua mente ci sta che è impossibile che
la cosa andasse altrimenti, e che amore è una forza a cui non si può resistere. La
poesia della donna è l’esser vinta : «Amore... a nullo amato amar perdona».
Francesca niente dissimula, niente ricopre. Confessa con una perfetta candidezza il
suo amore; né se ne duole, né se ne pente, né cerca circostanze attenuanti e non si
pone ad argomentare contro di Dio. – Paolo mi ha amata, perché io ero bella, ed io l’ho
amato perché mi compiaceva d’essere amata, e sentivo piacere del piacere di lui. –
Sono tali cose che le donne volgari non sogliono confessare neppure all’orecchio:
Chiama «bella persona» quello di che s’invaghì Paolo; chiama «piacere» il sentimento
che ancora non l’abbandona; e quando Paolo le baciò la bocca «tutto tremante », certo
non tremava per paura. Qui si trova propria e vera passione, desiderio intenso e pieno
di voluttà. Ma insieme con questo trovi un sentimento che purifica e un pudore che
rivergina; talché a tanta gentilezza di linguaggio mal sai discernere se hai innanzi la
colpevole Francesca o l’innocente Giulietta. F. De Sanctis,
Francesca da Rimini, in Lezioni e saggi su Dante, Einaudi, Torino 1967
Il primo a occuparsene fu Foscolo, secondo il quale l’ardore e la passione purificano la
colpa e nei confronti dei due amanti non si può che provare compassione, sentimento
tanto caro allo stesso Foscolo.
La tesi foscoliana fu ripresa da Francesco De Sanctis, il più grande critico dell’età
romantica, il quale vide in Francesca «la prima donna viva e vera apparsa
sull’orizzonte poetico dei tempi moderni», in quanto «è donna e non altro che donna».
Francesca incarna la fatalità della passione d’amore, è un’eroina-vittima che
preannuncia le figure femminili della letteratura romantica. L’amore continua
a soggiornare anche nell’Inferno.
Francesca e Paolo: lettura del V canto dell’Inferno
A cura del Prof. Marco Santagata
1 - Un dittico unitario
Il canto dei golosi riprende il racconto al punto esatto in cui l’aveva interrotto quello dei lussuriosi:
Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno ...
(VI 1-5)
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’ io morisse.
E caddi come corpo morto cade
(V 139-42).
Non si tratta di un mero espediente di sutura:
- I versi del canto VI non sono una appendice del V, se non altro perché solamente da loro il lettore viene a sapere
- e si tratta di una informazione indispensabile per l’esatta comprensione dell’episodio - che i due amanti di Rimini
erano "cognati".
- Nuovo, invece, e isolato dentro una sintassi narrativa che nelle sue prime prove è caratterizzata dal succedersi di
quadri e dalla sostanziale corrispondenza quadro-canto, è il tracimare di un episodio nel successivo.
Ma in realtà questo non è che un ulteriore segnale di quanto i canti V e VI mostrano con dovizia di esempi, cioè di
costituire un dittico unitario, costruito su una serie di opposizioni che acquista significato proprio dall’omogeneità delle
parti.
2 - Elementi convergenti:
-
Il rapporto "metonimico" tra le pene (la "bufera infernal"; la "piova etterna"), e dunque tra le atmosfere dei due
canti,
entrambi si aprono con la figura di un demonio (Minosse, Cerbero) e proseguono con la descrizione del
paesaggio e della pena;
nell’uno e nell’altro, dalla massa delle anime dannate emerge una sola voce protagonista (però, mentre
Francesca è "chiamata" da Dante, Ciacco richiama lui stesso l’attenzione del pellegrino
nell’interloquire con loro il personaggio Dante ripete formule di cortesia simili nel tono e nelle parole:
e cominciai: "Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo ...
(V 116-18)
Io li rispuosi: "Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi ...
(VI 58-60).
La ragione di fondo dell’omogeneità risiede nella comune radice, l’incontinenza, dei peccati di gola e di lussuria. Da
questa stessa radice ha origine la contiguità delle pene. A differenza degli altri incontinenti (avari e prodighi; iracondi e
accidiosi), omogenei nel peccato, ma esattamente speculari nella manifestazione della colpa, lussuriosi e golosi
praticano vizi, per così dire, solidali. Tra di loro non può esserci scontro o zuffa: sono fratelli nella pena come lo sono
stati nell’errore
4 - Lussuria e gola: peccati omogenei, ma tipici di ambienti sociali diversi
Per quanto riguarda Francesca e Paolo, la domanda da farsi è se la loro storia voglia unicamente esemplificare lo
scacco del singolo dinanzi alle forze del desiderio, quello della razionalità di contro agli appetititi, insomma, il
conflittuale rapporto tra libero arbitrio e fatalità della passione (secondo le letture più accreditate) o sia anche, se non
soprattutto, una rappresentazione simbolica di comportamenti culturali e sociali determinati.
Lussuria e gola sono vizi dei falsi "leggiadri", dei falsi cavalieri che non operano secondo virtù e non si attengono, nei
comportamenti pubblici, al giusto mezzo. Sono dunque vizi, insieme alla prodigalità, all’avarizia, all’incapacità di
"donneare" (cioè di amare "donna amorosa" [v. 49], non limitandosi "a pigliar villan diletto" [v. 54]) di coloro che
credono di atteggiarsi a "leggiadri" e invece ignorano i fondamenti della vera leggiadria. Vizi sociali, pertanto, o meglio
ancora, vizi di un determinato ceto sociale. Tanto più che nella canzone "lussuria" "non designa soltanto l’eccesso
sessuale, ma [in accordo con l’uso medievale di luxuria quale è documentato dai lessicografi] si estende a significare
classicamente l’inclinazione al lusso e allo sperpero" (Tartaro 1994, 45). Fondamento della leggiadria è la virtù, che a
sua volta è l’elemento costitutivo della nobiltà.
La stessa virtù deriva dalla nobiltà, rigorosamente intesa come nobiltà d’animo.
5 - Il "Lancelot" e la scena del bacio
Francesca parla d’amore e parla di letteratura. Purtroppo ciò che lei chiama amore è lussuria e la letteratura di cui fa
sfoggio non sempre è buona letteratura. In ogni caso, Francesca non distingue la buona dalla cattiva. è certo,
comunque, che Francesca l’adduce a scusante della sua colpa. Anzi, il suo racconto sembra proprio additarla come
causa di peccato.
(vv. 130-38)
I due stavano leggendo un anonimo romanzo in prosa francese, il Lancelot, testo fra i più diffusi della diffusissima
saga bretone: di quel ciclo, come ha scritto Contini (1958, 43), "variante corsiva, non già testo fra i più arcaici ed eletti,
sorta di romanzo-fiume". Oggi parleremmo di letteratura di consumo. In ogni caso, quel libro poteva stare benissimo
fra le mani di "un’intellettuale di provincia" (Contini 1958, 42) qual è Francesca.
L’anonimo romanziere racconta che la regina Ginevra, invaghitasi di uno sconosciuto cavaliere, tramite Galahaut
combina un incontro segreto (ma pur sempre alla presenza della dama di Malehaut e dello stesso Galahaut) in un
boschetto. Durante l’incontro, dopo avere scoperto che il cavaliere è Lancelot, Ginevra riesce a vincerne la riluttanza a
parlare e a fargli infine confessare il suo amore per lei. L’amicizia amorosa, per suggerimento di Galahaut, viene
sancita da un bacio che la regina concede al cavaliere, avendo come testimoni Galahaut e la dama di Malehaut:
[E la regina vede che il cavaliere non ha il coraggio di andare avanti: lo prende per il mento e lo bacia a
lungo; tanto che la signora di Malohaut si accorge che lo bacia].
E’ il bacio di cui parla Francesca.
Ma quanta differenza tra il racconto che stava leggendo e quello che essa fa della sua caduta nel peccato! Il
"romanzo" è tutto nelle sue parole.
- Tanto per cominciare, nel testo francese manca quell’atmosfera di intimità inconsapevole e insieme colpevole ("gli
occhi ci sospinse", "scolorocci il viso") che aleggia sul racconto di Francesca: altro che "soli" e "sanza alcun
sospetto", là tutto è preparato accuratamente e tutto si svolge davanti a testimoni.
- Ma soprattutto, nel bacio rituale che Ginevra dona a Lancillotto mancano le vibrazioni sensuali che
accompagnano quello di Paolo a Francesca: "la bocca mi baciò tutto tremante". Infine, "il disiato riso" baciato "da
cotanto amante" è una invenzione di Francesca, o meglio, una proiezione della sua esperienza sulla vicenda del
libro: qui non è Lancillotto a baciare Ginevra, al contrario, in tutta la scena Lancillotto, in accordo con il suo statuto
di personaggio "frigido", oggetto renitente di desiderio, ripetutamente e vanamente baciato e tentato, ha un ruolo
passivo; sono la regina e Galeotto a guidare il gioco. Insomma, Francesca sembra avere letto un romanzo diverso
da quello di cui parla.
- E che il suo "eroe" si comporti così, a Francesca sembra essere del tutto normale.
6 - "Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende"
Nessun dubbio che qui Francesca esponga alcuni dei capisaldi ideologici dell’amore cortese e che lo faccia ricorrendo
al testo di riferimento di quella concezione amorosa, cioè al De Amore del Cappellano. Francesca è però lettrice
aggiornata, à la page, una lettrice che può permettersi di avvolgere le sentenze del vecchio Gualtieri con le immagini
e i dettami della più recente e autorevole produzione lirica italiana. Il primo dei suoi autori è il Guinizzelli della canzone
che teorizza l’identità di amore e "cor gentile": "Al cor gentil rempaira sempre amore ... Foco d’amore in gentil cor
s’aprende". Ma soprattutto Francesca è affabulatrice creativa: sua è l’idea del "ratto s’aprende" (il coup de foudre),
idea che proietta sulla sua concezione d’amore un che di meccanico, una nota deterministica
10 -Il Cappellano frainteso
Una parafrasi [dei versi del racconto di Francsca] può essere condensata in poche battute: "costui si innamorò della
mia bellezza e io della sua"; più precisamente: "si innamorò del mio bel corpo". Francesca parla soltanto di amore
fisico: invano, in tutto il suo parlare, si cercherebbe qualche traccia di quella complessa disposizione, in bilico fra
desiderio e sublimazione, che è stata la fin’amors.
Opposto è il comportamento del "savio", del "doctus":
Insomma, Francesca è colta e informata, almeno quanto è superficiale e semplificatrice: Bovary, è stato detto, con
una definizione che a me pare calzante.
Che sia superficiale lo dimostra l’affermazione apodittica che Amore "a nullo amato amar perdona" (v. 103), per la
quale, secondo i commentatori, Francesca ricorrerebbe alla Regola XXVI del Cappellano: "Amor nil posset amori
denegare". E tuttavia il Cappellano è ben attento a lasciare "alla persona amata la libertà di non riamare chi lo (o la)
ama" (Avalle 1994, 29):
[Dunque amore ha lasciato facoltà a colei che ama, quando è amata, di amare a sua volta, se vuole, e di
non essere costretta ad amare, se invece non vuole];
28 - Ciacco "uomo di corte"
Con Ciacco è un altro dei vizi dei falsi leggiadri, la gola, a entrare in scena sotto forma di peccato. E anche per questo
secondo peccato di incontinenza vale la domanda fatta per il primo: colpa individuale e difetto del controllo razionale
sull’istinto o peccato sociale, colpa che rivela lo stile di vita di un’intera classe sociale? In altre parole, manifestazione
di "luxus" immoderato.
29 - Valenze politiche di gola e lussuria
…Ad importarci non è tanto che Ciacco sia un goloso, quanto che in Firenze esistessero le "corti" dove quelli
come Ciacco sfogavano, a spese altrui, la propria golosità.
"Corte", sia pure imbandita, rimanda a uno stile di vita nobiliare: rimanda alla cortesia nel senso di munificenza,
generosità, liberalità; rimanda, cioè, al nucleo dell’ideologia cortese basato sul "dare" e sul "regalare". E’ noto, tuttavia,
che la "cortesia", per non tramutarsi in irrazionale prodigalità, richiede la misura.
La Firenze delle corti non è più la Fiorenza che "dentro da la cerchia antica, / ... / si stava in pace, sobria e
pudica" (Par. XV 97-99); è invece già la Firenze in cui "la gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han
generata" (Inf. XVI 73-74): "dismisura" è l’esatto contrario di quella moderazione che definisce la cortesia. Si osservi
che nel prosieguo della sua risposta al Rusticucci Dante attribuisce proprio ai rapidi guadagni dell’attività mercantile e
all’immigrazione che essa ha suscitato la causa delle lacerazioni cittadine: "... han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu
già ten piagni".
Ciacco dunque, più che al mondo di una perduta "cortesia" cittadina, rimanda a quello dei parvenus fiorentini,
degli arricchiti senza passato, alla società governata dal fiorino. Un mondo che imita in forme degradate il tipo di vita
dei nobili, che cerca di autonobilitarsi attraverso un uso sociale della ricchezza, ma confondendo liberalità con
ostentazione. Come nel canto di Francesca la lussuria evocava un mondo nobiliare non più consapevole dei codici
che lo avevano retto, ora, in quello di Ciacco, la gola restituisce una Firenze che ha dimenticato la "virtù" delle sue
origini e scimmiotta stili di vita che le dovrebbero essere estranei.
Credono i ricchi mercanti di essere "leggiadri" tenendo corte imbandita, perché ignorano che è "fallenza /
divorar cibo ed a lussuria intendere". Una città che ha perso il senso dei propri valori è destinata a perdere quello
della giustizia e a dilaniarsi. Una nobiltà che travisa i suoi, non può non perdere il senso del propri compiti storici di
classe dirigente. L’incontinenza dei singoli diventa allora simbolo di una generale degradazione: nobili e arricchiti
sommettono la ragione al talento.