Il concetto di progresso in matematica

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Il concetto di progresso in matematica
Sommario: 1. Impostazione dell’articolo – 2. Catterizzazione del concetto di progresso
in matematica – 3. I progressi dovuti alle Disquisitiones arithmeticae – 4. Conclusioni
- Bibliografia
1. Impostazione dell’articolo
Questo contributo sul concetto di progresso in matematica è diviso in due parti: nella
prima saranno delineati i tratti essenziali di un’idea tanto importante quanto non
semplice da enucleare in modo perspicuo; nella seconda sarà preso in esame il caso
del testo che più di ogni altro singolo lavoro ha segnato un progresso decisivo nella
matematica: le Disquisitiones arithmeticae1 (1801) di Carl Friedrich Gauss (17771855).
2. Catterizzazione del concetto di progresso in matematica
Il progresso scientifico può forse venir misurato nel modo migliore dal numero di fatti,
in precedenza isolati, che diventano comprensibili da un nuovo punto di vista
unitario 2.
Otto Neugebauer (1880-1964) cerca di delineare con queste parole la caratteristica
più importante del progresso scientifico e ciò che egli scrive riguardo alla scienza può
venire applicato anche alla matematica. Per comprendere il valore di quanto sostiene
Neugebauer, occorre anzitutto sottolineare che l’interesse di un matematico è sempre
diretto verso la soluzione di un problema o di una serie di singoli problemi; è difficile,
se non impossibile, che un matematico decida a priori di costruire una teoria. In ogni
momento e stadio della storia della disciplina, vi sono questioni non risolte; si indaga
per venirne a capo, si introducono nuovi co ncetti che permettano di risolvere i nuovi
problemi e che, al contempo, possano ricomprendere anche questioni simili già risolte
per altra via. Spesso capita che l’insieme dei nuovi concetti possa inoltre essere utile
per affrontare ulteriori argomenti per i quali tali nozioni non erano state
specificamente pensate. Nasce così una teoria o una nuova sezione di una teoria già
esistente. Per cui una prima accezione del concetto di progresso in matematica è:
creazione di una nuova teoria o di parti di una teoria già esistente che permetta
appunto di considerare un insieme di questioni prima viste come separate, in effetti
riunite sotto un superiore punto di vista unitario. In realtà un insieme di problemi è
divenuto un unico problema del quale si conosce la soluzione. Ogni proposizione
generale che concerna un concetto – nel nostro caso quello di progresso – e che
pretenda di essere estesa a tutta la storia di una disciplina – nella circostanza, la
matematica – deve essere giustificata da una serie di esempi tratti proprio dalla storia
della disciplina. Per giustificare la validità della concezione del progresso appena
esposta, mi riferirò a tre esempi – senza quindi alcuna pretesa di esaustività –
davvero significativi. Il primo riguarda uno dei temi classici per eccellenza della
matematica: determinare i massimi e i minimi di una curva e tracciare le tangenti ad
essa da un punto arbitrario. La questioni risale alla matematica greca ed erano state
proposte soluzioni sintetiche e talvolta davvero geniali per singole curve o famiglie di
curve, si pensi, tra gli altri, ai risultati di Apollonio (262-190 a. C.) sulle coniche o di
Archimede (278-212 a. C.) sulle spirali, tuttavia non esisteva un metodo standard che
consentisse di risolvere il problema per ogni curva. Questo metodo fu ideato da Pierre
de Fermat (1601 o 16073-1665). L’idea-base di Fermat è molto semplice: se una
curva – che in prima istanza può essere considerata funzione di una variabile - deve
avere un punto di massimo o di minimo, per valori immediatamente precedenti e per
valori immediatamente successivi a quel punto la curva assumerà lo stesso valore. Se,
quindi, si suppone che il punto P, di coordinate (x,y) sia un massimo o un minimo e si
considera un punto P0 = ( x 0 , y 0 ) con x 0 < x , ma “infinitamente” vicino a x, e poi un
punto P1 = ( x 1 , y1 ) , con x < x 1 , ma “infinitamente” vicino ad x, allora dovrà essere
y 0 = y 1 . Potendosi esprimere in generale il valore di y in funzione di x ed essendo il
valore di x in x 1 uguale a quello in x 0 più un incremento infinitesimo, si troverà
un’espressione che, posta uguale a 0, consentirà di risolvere il problema4. Per chiarire
meglio il metodo seguito da Fermat, consideriamo il caso in cui si voglia determinare il
punto di minimo della parabola y = x 2 + 2 . Nel punto P0 “infinitamente vicino” al
valore cercato, si avrà y 0 = x0 + 2 , mentre nel punto P1 = ( x 0 + e, y 0 + e) , si avrà
2
y 0 + e = ( x 0 + e) 2 + 2 , dove e indica un incremento infinitesimo. Poiché, come detto, i
due valori della curva nei punti, considerati “infinitamente vicini”, risultano uguali, si
ottiene x 02 + 2 = ( x 0 + e) 2 + 2 , da cui 2x+e=0. Seguendo Fermat, si pone e=0 e si ha
l’ascissa x=0 per il minimo cercato. Ho qui introdotto una simbologia molto ridotta per
restare il più fedele possibile al linguaggio, in grandissima parte non formalizzato, che
era tipico della matematica del ‘600. Tuttavia si può facilmente riconoscere il concetto
di rapporto incrementale e di derivata come limite infinitesimo di tale rapporto.
Fermat espose inizialmente – secondo il suo costume – il proprio metodo in maniera
eccessivamente sintetica e tale da sembrare valido solo per una classe molto ristretta
di curve. Di questo tenore furono le critiche di Descartes. Fermat allora fornì
un’esposizione più dettagliata della propria procedura che è poi, in sostanza, quella
usata tutt’oggi5. Ancora alcuni significativi passaggi erano da compiere, in particolare
lo studio per quel che riguarda i problemi di massimo e minimo per le curve che non
sono funzioni, che sono funzioni non derivabili, o ancora per le funzioni di più variabili.
Tuttavia le fondamenta per lo studio dei massimi e minimi e del connesso problema
delle tangenti erano state gettate e una molteplicità di argomenti che in precedenza
non venivano trattati con procedura uniforme, ora rientrarono nel potente metodo di
Fermat, sotto l’egida del concetto di rapporto incrementale e di derivata. Il
matematico francese deve perciò essere ritenuto tra gli ideatori della moderna analisi
matematica.
Come secondo esempio di una nuova idea che fornisce un quadro mirabile ed
unitario di una serie di problemi davvero complessi e diversificati esaminerò il calcolo
delle variazioni ideato da Lagrange (1736-1813). Si tratta ancora una volta di trovare
condizioni di massimo o di minimo, ma stavolta non per funzioni di punti, ma per
funzioni di linea. La variabile non è cioè un punto nel piano o nello spazio, ma una
linea. Anche in questo caso la nostra questione ha una storia veneranda che risale
ancora una volta ai greci, i quali si erano posti il problema di trovare, fissato il valore
del perimetro, le figure isoperimetriche di area massima: così nel quinto libro delle
collezioni di Pappo (circa 320 d.C.)leggiamo che il triangolo isoscele ha area maggiore
di ogni altro triangolo di ugual base e perimetro, che il poligono regolare ha area
massima tra tutti i poligoni isoperimetrici e con lo stesso numero di lati, che il
poligono regolare con n+1 lati racchiude area maggiore del poligono isoperimetrico
con n lati e che il cerchio ha era maggiore di ogni poligono ad esso isoperimetrico6.
Con lo sviluppo della fisica moderna nei secoli XVII e XVIII il novero delle questioni
isoperimetriche – da intendere ora in senso esteso, cioè, trovare la linea che, date
certe condizioni, esprime un massimo o un minimo – era aumentato
considerevolmente. Un esempio classico è fornito dal cosiddetto problema della
brachistocrona, cioè della curva che congiunge due punti, che non stiano sulla
perpendicolare di un piano tangente alla superficie terrestre in un punto dato, e che
venga percorsa nel minor tempo possibile da un corpo sottoposto solo alla forza di
gravità della Terra. I fratelli Bernoulli, con due metodi diversi, dimostrarono che
questa curva è la cicloide7. Su questo genere di questioni il contributo più importante,
completo e originale era, all’epoca di Lagrange, senz’altro la Methodus inveniendi
lineas curvas maximi minimive proprietates gaudentes pubblicata da Eulero nel 1744.
Eulero (1707-1783) espose una serie di procedure davvero geniali per risolvere una
molteplicità di problemi di massimi e minimi, ma in gran parte il suo argomentare era
ancora legato a considerazioni geometriche e di ordine sintetico, mancava cioè un
metodo standard che consentisse di affrontare l’argomento in generale. Lagrange,
come Fermat nel caso precedente, ebbe un’idea semplice e feconda: trattare le
funzioni di linea come le funzioni di variabile numerica, per cui, detta F una funzione di
x, si può considerare il differenziale dF = F ( x1 ) − F ( x ) , così si può considerare la curva
in cui F si trasforma – sia F1 - e la “differenza” tra F ed F1 per gli stessi valori di x.
Questa differenza fu chiamata da Lagrange la variazione di F e indicata con
δF = F1 ( x) − F ( x) . In virtù del nuovo modo di affrontare il tema, Lagrange risolse con
metodo analitico e uniforme il problema centrale concernente le funzioni di linea, che
in ultima analisi si riduce a calcolare il massimo o il minimo di integrali della forma
x2
∫ f ( x, y, y' )dx .
Tra l’altro nella sua opera più importante, la Méchanique Analitique8,
x1
Lagrange dimostrò che il problema di trovare le condizioni di equilibrio di un sistema
fisico sottoposto a vincoli è essenzialmente equivalente a quello di determinare i
massimi e i minimi per le funzioni di linea. Qui si ha un notevole esempio di come
argomenti in apparenza del tutto diversi possano, se trattati con metodo opportuno,
rivelare profonde interconnessioni e sancire la fecondità e ricchezza concettuale di una
teoria. Davvero poche scoperte in matematica hanno avuto un impatto e un ambito di
applicazione maggiore del calcolo delle variazioni, il cui ampliamento e
perfezionamento è durato fino alla metà del XX secolo.
Come terzo e ultimo esempio di teoria che risolve in modo definitivo un problema
su cui si indagava da tempo e che introduce a un ordine di idee del tutto nuovo per la
matematica dell’epoca, tanto nuovo da venir compreso solo anni dopo la sua scoperta,
consideriamo la teoria di Evariste Galois (1811-1832) concernente la soluzione delle
equazioni algebriche. Siamo qui in presenza di un caso così notevole che dedicheremo
ad esso uno spazio maggiore che ai due esempi precedenti.
Da un punto di vista concettuale, l’opera di Galois è preceduta di pochi anni da un
fondamentale contributo di Niels Abel (1802-1829), per cui i protagonisti di questa
sezione saranno in realtà due: Abel e Galois. Per introdurre il lettore nella
problematica, solo qualche breve cenno alla storia delle equazioni algebriche: con ogni
probabilità la formula risolutiva per le equazioni di secondo grado era già nota in
epoca ellenistica e comunque i matematici arabi nell’VIII-IX ne dettero esplicita
formulazione. Quanto alle equazioni di terzo e quarto grado, esse furono risolte nel
corso del XVI secolo dai matematici italiani: Scipione dal Ferro, Nicolò Fontana detto il
Tartaglia e Cardano vennero a capo della questione per le equazioni di terzo grado,
Lodovico Ferrari per primo trovò la formula per l’equazione di quarto grado. Risolvere
un’equazione algebrica a coefficienti interi significa esprimere la soluzio ne in funzione
dei coefficienti in modo da avere solo funzioni polinomiale e radicali dei coefficienti.
Nel corso del XVII e soprattutto del XVIII secolo vari matematici tentarono di trovare
una formula che consentisse di risolvere per radicali l’equazione di quinto grado o
addirittura equazioni di grado qualsiasi, il tutto invano9. Fino alla fine del ‘700 lo
studio più interessante su questo genere di problema fu senz’altro la Réflexions sur la
résolution algébrique des équations, pubblicato nel 1770 da Lagrange10. Egli
considerò l’equazione cubica e formò l’espressione “risolvente” R = (1x 1 + αx 2 + α 2 x 3 ) 3 ,
dove α è una radice cubica dell’unità11 diversa da 1 e x i , i = 1,2,3 rappresenta le tre
soluzioni. Permutando i tre valori x i si ottengono 3! = 6 possibili valori diversi per R.
Bene, Lagrange trovò che i diversi valori effettivi di R non erano 6, ma soltanto 2. Una
volta giunti a questa notevole conclusione non è poi difficile mostrare che la soluzione
di un’equazione cubica si riconduce a quella di una equazione di secondo grado.
L’espressione R per le equazioni di quarto grado ha 4! = 24 possibili valori diversi,
Lagrange provò tuttavia che tali valori sono solo 3 e che pertanto l’equazione di
quarto grado è riconducibile a quella di terzo. I risultati di Lagrange mostrarono quindi
la ragione profonda del perché fosse possibile ricavare quelle specifiche formule
risolutive per le equazioni di terzo e quarto grado. Quando Lagrange studiò la
risolvente per l’equazione di quinto grado vide che i suoi valori diversi erano 6 e che
pertanto essa non poteva essere ricondotta, almeno con lo stesso tipo di tecnica usato
per il terzo e quarto grado, a un grado minore di 5. Pertanto se l’equazione di quinto
grado poteva esser risolta per radicali, certo la ricerca della sua soluzione richiedeva
tecniche parecchio diverse da quelle usate per le equazioni di grado inferiore. E qui
veniamo al lavoro di Abel, di cui sarà possibile fornire solo i lineamenti essenziali. Nel
fare ciò seguiremo in sostanza l’impostazione data da Peter Pesic all’argomento nel
suo ottimo lavoro menzionato nella nota 9. Anzitutto Abel considerò un’equazione
generale di grado m, con m primo
a m x m + a m −1 x m−1 + a m −2 x m − 2 + ... + a1 x + a 0 = 0
(1)
e dimostrò che ogni eventuale soluzione x ha la seguente forma
x = p+R
1
m
+ p2 R
2
m
+ ... + p m −1 R
m−1
m
(2)
1
m
R
dove p , p 2 ,... sono somme finite di radicali e funzioni polinomiali dei coefficienti e
è
una funzione irrazionale dei coefficienti dell’equazione di partenza.
Un esempio chiarirà quanto detto: consideriamo l’equazione di secondo grado
x − bx + c = 0 .
2
In questo caso abbiamo
x = p+
1
R2
. Sostituendo il valore di x
1
2
nell’equazione abbiamo ( p 2 + R − bp + c) + (2 p − c) R = 0 . Abel dimostrò che espressioni di
questo tipo riferite a equazioni di grado qualsiasi sono nulle solo se i termini tra
b
b2
b 1
parentesi si annullano. Da ciò si ottiene p = , R = −c +
e infine x = ±
b 2 − 4c ,
2
4
2 2
che è appunto la formula risolutiva generale dell’equazione di secondo grado se b e c
rappresentano numeri razionali e non necessariamente interi.
A questo punto Abel ebbe un’idea fondamentale ottenendo un risultato che, in un
certo senso, è il reciproco del precedente; si è infatti visto che se un’equazione è
1
risolubile, il valore R m è una funzione dei coefficienti contenente radicali. Abel
dimostrò che tutte le funzioni algebriche del tipo (2) si possono esprimere in termini di
funzioni razionali delle radici di un’equazione. Questo significa che, data la forma
1
m
di R
generale (2) della possibile soluzione, il valore
è esprimibile come funzione
razionale delle radici. Nel caso, per esempio, dell’equazione di secondo grado si
1
x − x2
verifica facilmente che, dette x 1 e x 2 le due radici dell’equazione, R 2 = 1
. Prima
2
di procedere, occorre aggiungere che R è funzione non solo razionale, ma anche
simmetrica delle radici; ciò è immediata conseguenza di un risultato ottenuto da
Albert Girard (circa 1590-1623) e generalizzato da Isaac Newton (1642-1727)
secondo cui i coefficienti di un’equazione di grado qualsiasi sono funzioni razionali
simmetriche delle radici. Ciò significa – limitandoci all’equazione di quinto grado - che
1
R e, di conseguenza R 5 , può assumere al più 5 valori distinti – e non 5! = 120 - quando
si permutano le radici dell’equazione. A questo punto Abel sfruttò un risultato di
Augustin Cauchy (1789-1857), secondo cui una funzione razionale di cinque quantità
che assume meno di cinque valori al permutare di tali quantità, assume al più 2 valori
distinti che sono uguali a meno del segno. Pertanto l’espressione
1
R5
può assumere
1
R5
solo o 5 o 2 o 1 valore. Se
assumesse un solo valore, allora si otterrebbe una sola
soluzione dell’equazione data, non avremmo pertanto una formula risolutiva che deve
funzionare anche nel caso generale in cui le soluzioni sono cinque distinte. Abel
1
dimostra poi con due ragionamenti davvero brillanti che
valori perché in tal caso al permutare delle radici,
1
R5
R 5 non può assumere 5
dovrebbe essere uguale a una
1
R5
quantità che assume 120 valori, ma ciò è impossibile. Infine se
avesse due valori
diversi, si arriverebbe a un’equazione in cui un membro avrebbe 120 possibili valori
distinti e l’altro 10, di nuovo impossibile. In conclusione: l’equazione di quinto grado
non è risolubile per radicale. Si dimostra poi in maniera molto semplice che la
soluzione di equazioni di grado superiore vengono a dipendere da quella di quinto
grado. Pertanto neppure esse sono risolubili.
Restava però da comprendere quali classi di equazioni di grado n superiore al
quarto fossero comunque risolubili per radicali, pur non essendolo l’equazione
generale. Gauss, per esempio, nella settima sezione delle Disquisitiones arithmeticae
aveva risolto le equazioni binomie x p − 1 = 0 e lo stesso Abel aveva dimostrato che,
data un’equazione di grado n, se tutte le sue radici sono esprimibili come funzioni
razionali
θ i (1 ≤ i ≤ n − 1)
di
una
di
esse
x1
nella
forma
x 1 , x 2 = θ 1 ( x 1 ), x 3 = θ 2 ( x 2 ),..., x n = θ n−1 ( x 1 ) e se la composizione di due qualsiasi di queste
trasformazioni è commutativa, cioè se θ a (θ b ( x 1 )) = θ b (θ a ( x 1 )) , con θ a ,θ b ∈ θ i , allora
l’equazione è risolubile. In questo contesto Abel introdusse anche il concetto di corpo
e di polinomio irriducibile in un corpo. Tuttavia il primo che fornì una teoria completa
delle equazioni algebriche fu Galois e, come abbiamo accennato nelle pagine
precedenti, siamo in presenza di una teoria così generale e di un punto di vista tanto
avanzato e unitario che tale teoria – anche purtroppo in seguito alla tragica e
prematura morte di Galois e allo stile estremamente brachilogico in cui egli redasse il
proprio lavoro – fu capita del tutto solo nella seconda metà del XIX secolo e forse il
testo grazie al quale l’opera di Galois venne definitivamente compresa negli ambienti
matematici fu il mirabile Traité des Substitutions et des Equations algébriques di
Camille Jordan (1838-1922), scritto nel 1870, quasi quarant’anni dopo la scomparsa
di Galois. La teoria di Galois è oggi oggetto di corsi universitari, è quindi impossibile
darne un resoconto minimamente dettagliato nel corso di questo articolo, tuttavia
cercherò di evidenziarne almeno i momenti salienti per mettere in evidenza quanto sia
elevato il grado di astrazione e novità del lavoro di Galois e come egli, a parte qualche
differenza terminologica, abbia in sostanza introdotto gran parte dei concetti che
ancor oggi costituiscono la base dell’algebra astratta. Il primo e fondamentale
concetto introdotto esplicitamente da Galois è quello di gruppo. Egli non considerò –
come si fa oggi – un gruppo astratto generale, ma solo quei gruppi che derivavano
direttamente dal problema che si era posto relativo alla risolubilità delle equazioni:
egli prese cioè in esame l’insieme di tutte le soluzioni di un’equazione e sottolineò che
permutando gli elementi di tale insieme si ottiene una struttura che gode di certe
proprietà – chiusura moltiplicativa, esistenza dell’elemento neutro, esistenza
dell’inverso di ogni elemento, associatività del prodotto -. A tale struttura Galois dette
il nome di gruppo. Già Lagrange aveva capito che lo studio delle permutazioni tra
radici è un momento importante per analizzare la risolubilità di un’equazione, ma non
era giunto all’idea che la totalità di queste permutazioni potesse costituire una
struttura algebrica le cui proprietà fossero utili per lo studio delle equazioni. Il secondo
concetto fondamentale usato da Galois è quello di estensione di un corpo12 associato
ad un’equazione in connessione col gruppo delle permutazioni delle radici di
un’equazione. Per comprendere questo concetto riportiamo un esempio presente nella
Storia del pensiero matematico di Morris Kline 13 e in La mente algebrica della Toti
Rigatelli14. Consideriamo l’equazione
(1)
x 4 + px 2 + q = 0
con p e q numeri qualsiasi. Il corpo che costituisce il cosiddetto dominio di razionalità
dell’equazione è allora dato dai numeri razionali a cui si devono aggiungere p e q. È
bene spiegare l’idea intuitiva che sta alla base di questo concetto: i numeri razionali
costituiscono, per così dire, il dominio di razionalità assoluto; tuttavia se in
un’equazione ci sono dei coefficienti non razionali, in realtà ai fini della soluzione, tali
numeri non razionali hanno esattamente lo stesso trattamento dei numeri razionali,
ecco perché il dominio di razionalità R di un’equazione comprende anche i suoi
coefficienti. Le radici della (1) sono ottenute dalle formule
x1 =
− p+
p 2 − 4q
2
; x2 = −
− p + p 2 − 4q
2
; x3 =
− p − p 2 − 4q
2
; x4 = −
− p−
p 2 − 4q
2
.
Pertanto si hanno le relazioni
x 1 + x 2 = 0 ; x 3 + x 4 = 0 (A).
Le due relazioni appena scritte, hanno un corrispettivo nel gruppo delle permutazioni
delle soluzioni? La risposta è affermativa poiché si nota che solo le seguenti otto
sostituzioni tra le 24 possibili – non dimentichiamo che l’equazione è di quarto grado
e, quindi il gruppo delle permutazioni delle radici ha 4!=24 elementi – ne conservano
la validità nel dominio di razionalità R :
 x1
E = 
 x1
x
E 4 =  1
 x3
x2
x2
x2
x4
x3
x3
x3
x1
x4 
x
; E1 =  1
x4 
 x2
x4 
x
; E 5 =  1
x2 
 x4
x2
x1
x2
x3
x3
x3
x4 
x
; E 2 =  1
x4 
 x1
x3
x1
x4 
x
; E 6 =  1
x2 
 x3
x2
x2
x2
x4
x3
x4
x3
x2
x4 
x
; E 3 =  1
x3 
 x2
x4 
x
; E 7 =  1
x1 
 x4
x2
x1
x2
x3
x3
x4
x3
x2
x4 

x 3 
x4 

x 1 
Queste otto sostituzioni hanno una caratteristica importante: esse formano un
sottogruppo G del gruppo delle 24 possibili e si può provare che sono le sole a
conservare valide le relazioni (A) tra le radici in R.
Naturalmente possono essere considerate altre relazioni tra le radici, oltre ad (A),
per esempio la relazione
x 12 − x 32 =
p 2 − 4q
(B).
Se al corpo R aggiungiamo il radicale p 2 − 4q , otteniamo un insieme ampliato R' che
si può dimostrare essere ancora un corpo. Ora chiediamoci quali sostituzioni
conservano vera la relazione (B). Si verifica facilmente che solo le sostituzioni
E , E1 , E 2 , E 3 hanno siffatta caratteristica. Queste sostituzione formano un sottogruppo
G 1 delle otto precedenti.
Consideriamo ora la relazione
x3 − x4 = 2
Se aggiungiamo la quantità
− p − p 2 − 4q
2
(C)
− p − p 2 − 4q
a R' otteniamo un nuovo corpo ampliato
2
R' ' . Le relazioni (A), (B), (C) rimangono vere solo per le sostituz ioni E ed E1 le quali
formano un sottogruppo G 2 delle quattro precedenti. Infine, considerando la relazione
x1 − x2 = 2
e aggiungendo il radicale
− p + p 2 − 4q
2
(D)
− p + p 2 − 4q
a R' ' , otteniamo un corpo esteso R' ' ' e la
2
sola sostituzione che conserva vere tutte le relazioni (A)-(D) è la E, cioè la
sostituzione identica, che da sola forma il sottogruppo (e).
L’esempio proposto chiarifica quanto giustamente sotto linea la Toti Rigatelli e cioè
che
All’ampliamento successivo del corpo corrisponde un restringimento del gruppo, che,
quando il corpo è sufficientemente ampio, cioè quando dell’equazione siamo in grado
di distinguere tutte le radici, diventa il gruppo che ha come unico elemento la
sostituzione identica.15
L’esempio fornito dà un’idea di quale sia stata, per così dire, la base euristica del
ragionamento di Galois, ma naturalmente il giovane matematico francese si trovava di
fronte a un difficoltà capitale e cioè il fatto – già noto grazie a Abel – che non esistono
formule risolutive per le equazioni generali di grado maggiore di 5, mentre nel nostro
esempio noi siamo partiti conoscendo le soluzioni. Pertanto le relazioni tra i
sottogruppi di G devono esser dedotte senza conoscere previamente le soluzioni.
Galois fu in grado di superare questa difficoltà tramite l’introduzione di un potente
apparato teorico e per mezzo dei seguenti passi:
1) trovare per ogni equazione il gruppo di permutazioni G nel corpo dei coefficienti
dell’equazione. La caratteristica di questo gruppo è quella di lasciare invariate le
relazioni tra le radici a coefficienti nel corpo.
2) Individuare il sottogruppo G 1 e una funzione f delle radici che non cambia per le
sostituzioni di G 1 . Nel nostro esempio tale funzione è x 12 − x 32 . Vi è una procedura per
costruire in R un’equazione tale che una delle sue radici è f. Il grado di tale equazione
è uguale al cosiddetto indice di G 1 in G, cioè al numero degli elementi di G diviso il
numero degli elementi di G 1 . Nell’esempio considerato il grado dell’equazione è 2
poiché G ha otto elementi e G 1 ne ha quattro. In effetti l’equazione è t 2 − ( p 2 − 4 q ) = 0 .
L’equazione è detta prima risolvente.
3) Si deve essere in grado di risolvere tale equazione in modo da ottenere la radice f
che nell’esempio è
p 2 − 4 q , si aggiunge tale radice a R per ottenere R' . Si può
provare che il gruppo dell’equazione originale rispetto a R' è G 1 .
4) Si procede in questo modo riducendo progressivamente il gruppo delle
permutazioni relativo alle radici di un’equazione fino a ottenere – se possibile – il solo
gruppo unitario, ed ampliando il corpo secondo quanto visto nell’esempio.
Come ricorda Kline
Galois dimostrò che quando il gruppo di un’equazione rispetto a un dato corpo si
riduce alla sostituzione identica E, allora le radici dell’equazione appartengono a quel
corpo. […] Esiste poi un procedimento standard per trovare le radici mediante
operazioni razionali in [quel corpo].16
A questo punto il grande problema che deve affrontare Galois è quello al punto 3),
cioè essere in grado di trovare le soluzioni delle successive risolventi. Egli giunse a
capo della questione mediante un altro tour de force teorico. Anzitutto introdusse uno
dei concetti fondamentali di tutta l’algebra astratta, quello di sottogruppo normale in
un gruppo. Dato un sottogruppo G 0 di G, si dice che G 0 è normale in G se, per ogni h
appartenente a G, si ha che hG 0 h −1 appartiene a G 0 . Galois Dimostrò poi che quando
la risolvente che riduce il gruppo di un’equazione – ad esempio da G a G 0 - è
un’equazione binomia x p = A , con p numero primo, allora G 0 è un sottogruppo
normale di G di indice p in G e viceversa, se G 0 è un sottogruppo normale di G di
indice primo p in G, allora la relativa equazione risolvente è una binomia di grado p.
Grazie al lavoro di Gauss, si sanno risolvere le equazioni binomie. Per cui se tutte le
successive risolventi sono equazioni binomie, allo ra è possibile risolvere l’equazione
originale per radicali. Inoltre, viceversa, se un’equazione è risolubile per radicali, allora
le risolventi sono equazioni binomie. Ma tutto ciò in base a quanto visto si traduce nel
seguente risultato fondamentale: un’equazione è risolubile per radicali se e solo se
nella catena G ⊃ G1 ⊃ G 2 ⊃ ... ⊃ ( e) dei gruppi di permutazione visti in precedenza risulta
che ogni gruppo è un sottogruppo normale massimale17 del precedente e se l’indice di
un gruppo nel precedente è un numero primo.
Questa teoria si può applicare tanto alle equazioni letterali quanto, con poche
aggiunte, a singole equazioni numeriche, anche se i calcoli sono in genere molto
complessi.
Bene, cosa succede in generale se il grado di un’equazione è n>4. Il gruppo di tutte
le permutazioni delle radici è il cosiddetto gruppo simmetrico di grado n che ha n!
elementi. Si può dimostrare abbastanza facilmente che il sottogruppo normale
n!
massimale del gruppo simmetrico è il cosiddetto gruppo alternante che ha
2
elementi. Ma per n>4 si prova che il sottogruppo alternante non ha alcun sottogruppo
n!
normale eccettuato il gruppo costituito dalla sola sostituzione identica. Tuttavia
non
2
è mai un numero primo già per n>3, per cui l’indice del sottogruppo unitario nel
n!
gruppo alternante, che è ovviamente,
è un numero composto. Quindi l’equazione
2
generale di grado maggiore di 4 non è risolubile.
Così Galois fu in grado di trovare un criterio che discernesse in modo chiaro le
equazioni risolubili da quelle non risolubili e quindi, data un’equazione di grado
maggiore di 5, si è teoricamente in grado, seguendo i precetti di Galois, di sapere se
sia o meno risolubile.
È stupefacente il bagaglio teorico che il matematico francese ideò. Riassumiamolo:
concetto di gruppo, di corpo associato a un’equazione e di estensione di tale corpo,
concetto di equazione risolvente, di sottogruppo normale. Queste nozioni,
opportunamente estese e generalizzate da matematici quali Cayley, Jordan,
Kronecker, Dedekind, Hölder, Sylow, Artin, solo per citare i maggiori, vissuti
nell’Ottocento o tra Ottocento e Novecento, sono ancora alla base della moderna
algebra le cui applicazioni sono in numero davvero enorme. Ricordiamo – ma è
davvero solo un esempio che non rende merito alla potenza e generalizzabilità della
teoria ideata da Galois – le applicazioni di Sophus Lie (1842-1899) e Felix Klein
(1849-1925) alle varie geometrie, viste come invarianti rispetto a certi gruppi di
movimenti. Ma soprattutto quello che stupisce di Galois è la capacità che egli ebbe di
interrelare i concetti da lui ideati tanto da farne davvero una delle teorie più avanzate
e complete tra quelle ideate da un singolo autore. Siamo qui in presenza di un
progresso in matematica che rientra, direi per eccellenza, nel prototipo finora
analizzato di teoria come nuovo punto di vista unitario che risolve vecchi problemi e
che crea e risolve una miriade di nuove questioni.
Il progresso in matematica non è però solo connotato dalla nascita di nuove teorie
sull’onda di grandiose idee innovative. Vi sono altre vie che consentono di accrescere
la conoscenza matematica, non solo sul piano quantitativo, ma anche su quello
qualitativo e concettuale; una di queste è: comprendere che un problema o un
insieme di problemi può essere affrontato con metodi già noti ma che non si era
pensato di applicare a tali questioni o la cui applicazione appariva problematica e
lacunosa senza opportune aggiunte e considerazioni. Si enuclea così un secondo modo
in cui si possono realizzare progressi che cambiano il volto della matematica e che ne
caratterizzano svolte epocali. Questa modalità è importante quasi quanto la creazione
di teorie completamente nuove e spesso richiede altrettanta genialità; altre volte
invece impone un attento e complesso lavoro di tipo analitico su un insieme di dati più
che idee che rivoluzionino completamente un certo modo di pensare e fare la
matematica. Fornirò qui un esempio in cui genialità e rigore convergono
nell’estensione di un metodo che, già esistente, ha tuttavia dato risultati mirabili in
mano al più grande matematico dell’antichità. Il metodo è quello di esaustione, il
matematico è Archimede.
Il metodo di esaustione si basa sui seguenti princip i: supponiamo di dover provare
che due grandezze A e B sono uguali. Si ragiona per assurdo e si pone in primo luogo
A>B. Se siamo in grado di costruire una successione G – che, in genere, è monotona
- composta di un numero infinito di grandezze G1 ,G 2, G3 ,... dello stesso tipo di A e B
(per esempio, tutte aree, se A e B sono aree) in modo che tutti i termini di G
approssimino per difetto sia A che B e che inoltre la differenza tra A e i valori della
successione divenga minore di ogni valore preassegnato qualora si consideri un
numero sufficiente di termini di G, allora si rivelerà assurda la supposizione A>B. Si
supponga allora che sia, A<B. Usando lo stesso modo di ragionare visto in precedenza
e mutatis mutandis, si riesce spesso a dimostrare che anche questa supposizione è
assurda. Non resta che concludere A=B. In questo consiste il metodo di esaustione,
usato con ogni probabilità per la prima volta da Eudosso, vissuto all’epoca di Platone,
e comunque impiegato sistematicamente da Euclide nel XII libro degli Elementi. Il
ricorso a questa procedura richiede spesso un celebre assioma che, utilizzato senza
averne dato esplicita formulazione da Euclide, è enunciato da Archimede: date due
grandezze A e B dello stesso tipo, con A>B, esiste comunque un multiplo nB di B, con
n intero positivo, tale che nB>A. Se Euclide usò il metodo di esaustione, tuttavia
Archimede lo estese a livello quantitativo e qualitativo, cioè ne fece la base delle sue
dimostrazioni concernenti figure piane diverse da quelle costruibili con rette e cerchi e
lo pose a fondamento delle sue acquisizioni in geometria solida ben al di là dei risultati
raggiunti da Euclide. E mi sembra che chi vede tutte le potenzialità applicative di un
metodo e riesce a porlo a base di un intero teorico esteso e coerente abbia forse ancor
più meriti di chi ha propriamente inventato tale metodo, ma non lo ha visto, per così
dire, completamente dispiegato. Archimede usò sistematicamente il metodo di
esaustione nei suoi grandi trattati di geometria solida Sulla sfera e il cilindro e Conoidi
e sferoidi. Quanto alla geometria piana, lo ritroviamo nel giovanile Quadratura della
parabola e nelle Spirali. Fornirò un esempio del metodo riprendendolo da un piccolo
trattato, Misura del cerchio18, in cui Archimede dim ostrò la formula per l’area del
cerchio. Si tratta di provare che “Ogni cerchio è uguale ad un triangolo rettangolo se
ha il raggio uguale a un cateto del triangolo e la circonferenza uguale alla base (altro
cateto)”. Se, quindi, un cateto è uguale a r, raggio del cerchio, e l’altro a 2πr 19, l’area
di questo triangolo sarà appunto πr 2 . Supponiamo che la proposizione sia falsa e in
particolare che il cerchio C abbia area maggiore del triangolo T. Si iscriva un quadrato
Q in C. Si dividano i quattro archi di circonferenza così ottenuti per metà e, con vertici
negli otto punti (i quattro vertici del quadrato e i punti di mezzo degli archi) si iscriva
nella circonferenza un ottagono O. Se l’area dell’ottagono è maggiore di quella di T,
bene, altrimenti si costruisca un poligono di sedici lati e così via fino ad ottenere un
poligono di 2 n lati che abbia area ovviamente minore di C (in quanto iscritto), ma area
maggiore di T. Ciò può essere conseguito poiché la differenza tra l’area di un cerchio e
quella della successione di poligoni di 2 n lati in esso iscritti diviene minore di ogni
grandezza prefissata al crescere di n. È quindi rispettata la condizione fondamentale
per applicare il metodo di esaustione. Si può pertanto supporre per semplicità e senza
perdita di generalità che l’area dell’ottagono iscritto superi già quella di T. Si tracci dal
centro del cerchio la perpendicolare a un lato dell’ottagono. Tale perpendicolare
(l’apotema dell’ottagono) è ovviamente minore del raggio. Inoltre il perimetro di O è
minore della circonferenza poiché O è iscritto in essa20. Ma allora l’area di O risulta
minore di quella di T. Si ha quindi una contraddizione che nasce dall’aver supposto
che la superficie di T sia minore di quella di C. Per eliminare la contraddizione occorre
quindi rimuovere questa ipotesi. Con un ragionamento del tutto analogo Archimede
mostra che porta anche a contraddizione supporre T>C. Non resta quindi che
concludere T=C, come si voleva dimostrare.
Alcune precisazioni sono necessarie: il metodo di esaustione è tipicamente non
euristico e molti matematici e storici della disciplina si chiedevano come fossero venuti
in mente quei risultati ad Archimede, spesso per niente intuitivi e che certo non
potevano essere stati suggeriti dal metodo di esaustione. Nel 1905 Heiberg compì una
delle scoperte più rilevanti nel settore della storia della matematica e trovò un
manoscritto in cui Archimede mostrava l’euristica delle sue scoperte, basata sul
cosiddetto metodo meccanico, alla cui base vi è il concetto di baricentro e, in
sostanza, una serie di raffinate applicazioni alla geometria del principio della leva21.
Una volta trovati i risultati per questa via, Archimede li dimostrò in modo
esclusivamente geometrico tramite esaustione. Si potrebbe anche parlare delle
relazioni concettuali tra Archimede e il calcolo infinitesimale sviluppatosi dal 1600 in
poi, ma l’argomento trascenderebbe non solo i limiti, ma anche gli scopi del presente
articolo. Passerò quindi ad analizzare un’altra accezione del concetto di progresso.
La matematica è la disciplina che per eccellenza ha a che fare con il rigore: rigore
nelle dimostrazioni, nelle definizioni e nell’uso dei concetti. Tuttavia nel corso della
storia della matematica si è in genere assistito – e del tutto comprensibilmente – alla
nascita di nuove teorie con un accumulo di molti e importanti risultati, ma senza un
esame delle basi concettuali di una certa branca e dei suoi fondamenti logic i. Questo
si spiega perché un’indagine sui fondamenti è in realtà possibile quando una sezione
della matematica ha già raggiunto un certo grado di sviluppo. Prima, sull’onda
dell’entusiasmo, si ottengono certi risultati e si estende la disciplina, poi comincia un
lavoro di ripensamento sulle basi logiche di tale disciplina. Quindi si può parlare di
progresso in matematica anche in un altro senso, ed è il terzo e ultimo: studio dei
fondamenti di una branca della matematica e rigorizzazione dei concetti in essa
utilizzati.
Questo processo ha caratterizzato molti rami della matematica, non ultima la
geometria. Si pensi alle ricerche sulla natura dei postulati euclidei che, nel XIX secolo
hanno portato alle geometrie non euclidee, ma anche alla distinzione tra proprietà
grafiche e proprietà metriche, grazie alle quali, a partire dal XVI-XVII secolo è nata la
geometria proiettiva, a cui è stata data sistemazione definitiva nel XIX secolo in virtù
del lavoro di molti matematici, tra i quali ricordo il matematico tedesco Karl Georg
Christian von Staudt (1798-1867) perché svolse le proprie argomentazioni riferendosi
non solo a risultati concernenti proprietà grafiche, ma anche a metodi esclusivamente
grafici e sintetici. In Italia, in una prospettiva molto ampia e concernente questioni
geometriche, fondazionali e didattiche la concezione di von Staudt fu ripresa da
Enriques22. L’indagine su quali risultati e tipi di spazio si potessero ottenere
eliminando o trasformando alcuni assiomi euclidei fu portata a un notevo le grado di
generalizzazione e rigore dalle ricerche di Hilbert esposte nei Fondamenti della
geometria23.
Il settore della matematica in cui il lavoro critico sui fondamenti è risultato più
importante, esteso e capillare è stata tuttavia l’analisi matematica ed è seguendo
alcuni momenti della storia del calcolo infinitesimale che avremo modo di apprezzare il
progresso apportato dalla rigorizzazione di certi concetti. In sostanza già esistente
nella prima metà del XVII secolo, grazie allo studio dei problemi di massimo e minimo
e delle tangenti – si veda in proposito quanto scritto riguardo a Fermat -, la nascita
“ufficiale” della disciplina viene fatta risalire al tardo ‘600 con i lavori di Newton e
Leibniz e con la nota polemica sulla priorità dell’invenzione tra i due. L’analisi,
strettamente collegata con la nascente fisica teorica, tanto da costituirne l’apparato
matematico, già in Newton, ma soprattutto dopo Newton (occorre ricordare che la
trattazione nei Principia mathematica è essenzialmente sintetica anche se elementi di
analisi svolgono un ruolo centrale), ebbe nel corso del Settecento uno sviluppo
addirittura spettacolare. Grazie a molti matematici, tra i quali, solo per menzionare i
maggiori, ricordiamo Colin MacLaurin (1698-1746), i fratelli Jakob Bernoulli (16541705) e Johann Bernoulli (1667-1748), Pierre Varignon (1654-1722), Jean Baptiste Le
Rond D’Alembert (1717-1783) e, primo tra tutti Eulero, furono introdotti gran parte
dei concetti tipici della disciplina: oltre alla derivazione e integrazione delle funzioni
elementari, abbiamo infatti, teoria delle differenze finite, molti studi sull’integrazione
di parecchie equazioni differenziali, alcuni risultati sulle serie numeriche e di funzioni,
e infine la codificazione di gran parte di questi risultati nei tre fondamentali volumi di
Eulero Introductio in analysin infinitorum, Institutiones calculi differentialis e
Institutiones calculi integralis24. Nondimeno, lo statuto logico dei concetti-base era
tutt’altro che chiaro: il problema fondamentale era che l’idea di limite non era stata
enucleata con perspicuità e questo portò a considerare talvolta gli infinitesimi come
grandezze potenziali, altre come attuali; il concetto di rapporto incrementale non era
sempre distinto con sufficiente precisio ne da quello di differenziale, neppure la nozione
di convergenza e divergenza di una serie era stata del tutto compresa, tanto che, solo
per dare un esempio, Eulero, manipolando in maniera un po’ troppo “allegra” le serie
divergenti giunse a concludere che 1 − 3 + 5 − 7 + ... = 0 . Anche alcuni concetti
fondamentali, come quello di continuità di una funzione, si basavano sull’idea intuitiva
fisico-geometrica di grandezza continua senza una precisa caratterizzazione analitica.
Sono ben note le polemiche che animarono quella stagione, si pensi solo a George
Berkeley25 (1685-1753) e alle sue critiche del concetto di infinitesimo. È interessante
sottolineare che, ancora negli anni ’40 del XIX secolo, Bernhard Bolzano (1781-1848),
accusava Cauchy – che pure è uno dei principali protagonisti della rigorizzazione
dell’analisi – di non aver ben distinto l’infinito potenziale dall’infinito attuale26.
Sembrano quindi condivisibili le parole di Kline, quando egli scrive:
Quasi tutti i matematici del Settecento fecero qualche sforzo per migliorare la logica
del calcolo infinitesimale, o almeno si pronunciarono su di essa, e anche se uno o due
di loro erano sulla giusta strada, tutti gli sforzi abortirono miseramente. La distinzione
tra un numero molto grande e un numero “infinito” non veniva quasi mai fatta e
sembrava chiaro che un teorema valido per qualsiasi n dovesse valere anche per un n
infinito. Analogamente, un rapporto incrementale veniva sostituito da una derivata e
non si distingueva quasi mai la somma di un numero finito di termini da un
integrale 27.
Se Kline sottolinea giustamente lo scarso rigore dell’analisi nel XVIII secolo, Enriques,
altrettanto giustamente, ne mette in luce la grande inventività e sostanziale
correttezza. Scrive infatti il matematico livornese:
Molti matematici contemporanei […] giungerebbero con le migliori intenzioni del
mondo, a spogliare per esempio i fondatori del calcolo infinitesimale, delle loro
scoperte, a favore dei critici, come Cauchy e Weierstrass o Dini, che due secoli più
tardi vi hanno portato il rigore delle dimostrazioni28.
Vi era comunque, verso la fine del XVIII secolo un senso di insoddisfazione per lo
statuto ambiguo di così tanti concetti fondamentali. Lagrange nella Théorie des
Fonctions analytiques29, la cui prima ediz ione risale al 1797, tentò una soluzione
radicale del problema proponendo una totale algebrizzazione dell’analisi eliminando il
concetto di infinitesimo sia nel senso potenziale che in quello attuale. Il tentativo di
Lagrange, per quanto interessante, fallì poiché era basato sull’idea di sviluppare in
serie di Taylor ogni funzione e, tramite alcuni passaggi, di giungere per mezzo di
questo sviluppo ad eliminare appunto l’infinitesimo. Il problema è anzitutto che non
tutte le funzioni sono sviluppabili in serie di Taylor; inoltre il concetto di infinito e
infinitesimo e di limite sono essenziali per la nozione di convergenza di una serie,
problema che Lagrange non affrontò adeguatamente.
Chi affrontò in maniera sistematica la questione dei fondamenti dell’analisi fu
Cauchy, soprattutto in due opere scritte a distanza di due anni: il Cours d’Analyse del
1821 e il Résumé des leçons sur le calcul infinitésimal30 del 1823. Cauchy concordava
con Lagrange sulla necessità di fondare in modo rigoroso il calcolo infinitesimale, ma
rifiutava il suo approccio algebrico e, più specificamente, era molto critico sul modo in
cui Lagrange usò le serie di Taylor poiché in taluni casi tale serie sembra fornire lo
sviluppo di una funzione in serie, benché la somma della serie differisca poi dalla
funzione proposta31. Il concetto su cui Cauchy fondò - e su cui è fondato a tutt’oggi –
il calcolo fu il concetto di limite definito rigorosamente. Egli scrisse che
Quando i valori attribuiti successivamente a una variabile si avvicinano
indefinitamente a un valore fissato così che finiscono per differire da esso di un valore
piccolo quanto si vuole, quest’ultimo è chiamato limite di tutti gli altri32.
Come sottolinea Segre33, sulla base della nozione di limite Cauchy cominciò a definire
il tanto elusivo concetto di infinitesimo semplicemente come una variabile i cui valori
hanno 0 come limite. L’altro passo fondamentale fu la definizione di continuità di una
funzione tramite la nozione di limite, dando così una precisa caratterizzazione di un
concetto quasi altrettanto problematico di quello di infinitesimo, definendo continua
una funzione tra due estremi se per tutti i punti compresi tra tali estremi a incrementi
infinitamente piccoli della variabile corrispondono incrementi infinitamente piccoli della
funzione stessa34. Dopo aver introdotto e analizzato questi concetti con relative
spiegazioni e teoremi nel Cours, Cauchy nel Résume definì in termini moderni la
derivata come limite del rapporto incrementale quando l’incremento tende a 0. Quanto
alla nozione di integrale, Cauchy si allontana dall’approccio tradizionale per cui
l’integrale era visto immediatamente come l’inverso della derivata: egli pose
l’importante problema dell’esistenza della primitiva di una data funzione e, a questo
scopo, definì in sostanza in termini moderni, limitatamente alle funzioni continue, la
nozione di integrale definito, riconducendola, ancora una volta al concetto di limite35.
Quindi le nozioni-base dell’analisi – anche limitandoci ai lavori di Cauchy sulle funzioni
di una variabile reale – furono definite con rigore e molte delle difficoltà connesse con
un uso “spregiudicato” delle nozioni di infinitesimo, di convergenza e di divergenza
furono eliminate poiché furono date definizioni precise di tali concetti, anche se
espresse in un linguaggio lontano da quello che progressivamente l’analisi assumerà
nel corso del XIX secolo. Si deve tuttavia essere ben lungi dal pensare che tutto fosse
chiarito, vi erano ancora molte oscurità legate alla mancanza, per così dire, di una
“sintonia fine” dei concetti. Tipico è l’esempio del cosiddetto “errore di Cauchy”: il
matematico francese credette di aver dimostrato che, data una serie convergente di
funzioni di una variabile x continue in x 0 , la somma della serie è una funzione di x
continua in x 0 . Ciò è in generale falso e negli anni’20 dell’Ottocento erano note
eccezioni a questa proposizione da almeno tredici anni poiché Fourier aveva mostrato
nel 1807 che la funzione
1
1
cos x − cos 3 x + cos 5 x − ...
3
5
1
π π
1
π in ( − ,+ ) quando il numero dei termini tende all’infinito e a − π in
4
2 2
4
π 3π
π
π
( ,+ ) , assumendo in
e in −
il valore 0. Siamo quindi in presenza di una serie
2
2
2
2
convergente di funzioni continue che tende a una funzione discontinua. Quanto
Cauchy credette di aver dimostrato appare tanto strano che alcuni studiosi, e in
particolare Imre Lakatos36 (1922-1974), non parlano di errore di Cauchy, ma di un
teorema che funziona in un continuo leibniziano a cui era ancora legato Cauchy, ma
che è sbagliato in un continuo moderno privo di infinitesimi in atto. Per quanto
suggestiva, l’interpretazione di Lakatos sembra parecchio forzata, comunque il lettore
può giudicare da solo leggendo l’articolo di Lakatos, disponibile anche in italiano. La
versione corretta della proposizione di Cauchy è quella in cui alla parola convergente
si sostituisce uniformemente convergente, come mostrò Seidel nel 1848. Un ulteriore
raffinamento e rigorizzazione del concetto di convergenza portò quindi al risultato di
Seidel. Quello che si nota nel processo descritto a grandi linee è che il progresso
derivante dalla rigorizzazione dei concetti nasce ancora una volta per esigenze interne
alla matematica e non per un bisogno di perspicuità disancorato dalla pratica dei
matematici. Se le nozioni vaghe di infinitesimo, di infinito, di convergenza e
divergenza non avessero portato a credere di dimostrare proposizioni in realtà
riconosciute poi false, probabilmente non si sarebbe avvertito il bisogno di dare uno
statuto rigoroso a questi concetti e il dibattito non sarebbe sorto o sarebbe rimasto su
un piano meramente filosofico senza modificare in maniera sostanziale il modo di fare
matematica, come invece è accaduto. Ancora a necessità derivanti dalla “pratica
matematica” deriva il momento finale e, in qualche modo culminante, del processo di
tende a
rigorizzazione dell’analisi: la cosiddetta aritmetizzazione dell’analisi che ebbe tre
grandi protagonisti negli anni ’70 del XIX secolo: Karl Weierstrass (1815-1897), Georg
Cantor (1845-1918) e Richard Dedekind (1831-1916). Grazie al lavoro di Bolzano e
Cauchy era stata definita in termini rigorosi la continuità di una funzione; tuttavia il
continuo dei numeri reali e la nozione stessa di numero reale era ancora basata sul
concetto intuitivo di continuo geometrico, non se ne aveva una caratterizzazione
analitica. Nel 1872 Weierstrass aveva mostrato proprio come l’intuizione potesse
portare a errori difficilmente prevedibili, in particolare egli provò l’esistenza di una
funzione continua in ogni punto dell’intervallo di definizione, ma derivabile in nessun
punto. La funzione è
f ( x) =
∞
∑b
n
cos(a n x π )
n= 0
3
dove a è un intero dispari e b una costante positiva minore di 1; inoltre ab > 1 + π . La
2
dimostrazione della non derivabilità di questa funzione non è difficile 37. Visto che
l’intuizione poteva giocare brutti scherzi e indurre a credere vero ciò che è falso, è
comprensibile che i matematici abbiano cercato di definire i numeri reali tramite
l’aritmetizzazione, cioè in sostanza riconducendoli al concetto di numero razionale,
nozione direttamente connessa con i numeri interi, entità le cui proprietà elementari
erano state da sempre ritenute come immediatamente evidenti e non ulteriormente
indagabili38. Tra le definizioni di numero reale quelle date da Cantor e da Dedekind
sono senz’altro più note di quella data da Weierstrass. In particolare, quanto a Cantor
c’è da sottolineare che la sua definizione di numero reale fu presentata39 perché una
più perspicua caratterizzazione di questo concetto in termini di limite di successioni
convergenti di numeri razionali, gli consentì di estendere alcuni teoremi concernenti le
serie trigonometriche. Quindi anche in questo caso la spinta alla rigorizzazione nacque
da un problema della “pratica matematica” anche se poi nella susseguente attività di
Cantor le idee che furono alla base della sua definizione di numero reale ebbero
importanza ben maggiore del singolo risultato sulle serie trigonometriche.
L’autore che sembra aver più a lungo riflettuto sulla natura della continuità e su
un’opportuna definizione di numero reale è Dedekind, il quale nel celebre articolo
Continuità e numeri irrazionali40 del 1872 racconta come già dal 1858 fosse giunto a
delineare l’ordine di idee ivi esposto e come ne avesse fatto oggetto di lezioni al
Politecnico di Zurigo. Dedekind afferma in modo esplicito che l’intuizione geometrica
non è affatto sufficiente per una fondazione perspicua del concetto di numero reale e
scrive:
Come i razionali negativi e frazionari debbono e possono essere introdotti con un
libero atto creativo, e le leggi del calcolo con tali numeri debbono e possono essere
ricondotte alle leggi del calcolo con gli interi positivi – così si deve cercare il modo di
definire completamente i numeri irrazionali mediante i soli numeri razionali41.
I passi fondamentali compiuti da Dedekind sono i seguenti: 1) precisa enucleazione
delle proprietà dei numeri razionali. Di particolare rilievo è la seguente: dato un
razionale a, è possibile ripartire tutti i numeri razionali in due classi A1 e A2 in modi
che A1 contenga tutti i razionali minori di a ed A2 tutti quelli maggiori. Il valore a può
essere assegnato arbitrariamente a una delle due classi. Tutti gli infiniti numeri di A1
sono minori degli infiniti numeri di A2 ; 2) individuazione, in base ad alcuni semplici
principi, di una corrispondenza tra i punti di una retta e i numeri razionali; 3)
menzione del fatto, noto sin dall’epoca dei pitagorici, che, fissata un’unità di misura,
esistono punti della retta non associabili ad alcun numero razionale; 4) individuazione
dell’essenza della continuità della retta nel seguente assioma: “Se tutti i punti di una
retta si ripartiscono in due classi tali che ogni punto di una classe giace a sinistra di
ogni punto dell’altra, allora esiste uno e un solo punto che determina questa partizione
di tutti i punti in due classi, questa scomposizione della retta in due parti” 42; 5)
questo è il punto decisivo: Dedekind si chiede se questa prioprietà della retta può
essere trascritta in termini di classi infinite di numeri razionali. La risposta è
affermativa. Dedekind procedette in questo modo: si è visto che ogni numero
razionale a partisce la totalità dei razionali in due classi A1 e A2 . Il matematico
tedesco definì tale partizione come una sezione e la indicò con ( A1 , A2 ) . È facile vedere
che esistono sezioni di numeri razionali il cui elemento separatore non è un razionale.
L’esempio fornito da Dedekind è il seguente: dato un intero D che non sia un quadrato
esiste un intero λ tale che
λ 2 < D < (λ + 1) 2
Assegniamo alla prima classe A1 tutti i numeri razionali il cui quadrato è minore di D e
alla seconda A2 tutti quelli il cui quadrato è maggiore di D. È semplice dimostrare che
l’elemento separatore di questa sezione non è un numero razionale – in effetti è
. A questo punto Dedekind scrive:
D -
[…] noi creiamo un nuovo numero irrazionale α , che co nsideriamo come
completamente definito da questa sezione; diremo che α corrisponde a questa
sezione o che la determina. Pertanto d’ora in avanti a ogni sezione corrisponde uno e
un solo determinato numero razionale o irrazionale, e co nsideriamo due numeri
diversi o disuguali se e solo se essi corrispondono a sezioni essenzialmente diverse43.
In questo modo i numeri reali sono introdotti come elementi separatori di classi
infinite di razionali. Nessun riferimento all’intuizione geometrica. Anzi, l’idea è che il
continuo intuitivo geometrico possa essere ricondotto a quello definito
aritmeticamente. Dedekind dimostra poi che i numeri reali così definiti godono della
continuità, formulata tramite il seguente teorema: “Se il sistema ℜ di tutti i numeri
reali si suddivide in due classi ∪ 1 e ∪ 2 tali che ogni numero α 1 della classe ∪ 1 è
minore di ogni numero α 2 della classe ∪ 2 , allora esiste uno e un sol numero α dal
quale questa suddivisione è determinata”44.
Dedekind prova poi che per i numeri reali così definiti valgono le usuali operazioni e
che si possono facilmente definire i concetti fondamentali del calcolo infinitesimale. È
possibile provare in modo non complicato che le definizioni di Weierstrass, Cantor e
Dedekind, per quanto diverse, si riferiscono allo stesso insieme di enti, cioè agli
“ordinari” numeri reali. Con ciò l’aritmetizzazione e rigorizzazione dell’analisi fu
completata.
È opportuno sottolineare che, se il processo di aritmetizzazione fu salutato dalla
maggior parte dei matematici come un grande progresso, non mancarono voci
critiche, la più autorevo li delle quali fu senz’altro Leopold Kronecker45 (1813-1891), il
quale, con argomentazioni tutt’altro che banali prese le distanze dall’opera degli
aritmetizzatori.
Delineate in questo modo quelle che mi sembrano le tre accezioni più importanti del
concetto di progresso in matematica, proporrò un quadro molto sintetico delle
Disquisitiones arithmeticae di Gauss per mostrare come in quest’opera si possa
parlare di progresso al più alto livello in tutti e tre i sensi.
3. I progressi dovuti alle Disquisitiones arithmeticae
In questa parte dell’articolo dovranno essere date per scontate nel lettore conoscenze
matematiche leggermente superiori a quelle necessarie per comprendere quanto
scritto finora. In particolare il riferimento è alla nozione di congruenza e a quella di
modulo e di residuo di una congruenza, nonché ai teoremi-base concernenti questi
concetti.
I temi affrontati nelle sette sezioni delle Disquisitiones arithmeticae46 possono
essere idealmente suddivisi in tre parti: 1) teoria generale delle congruenze,
comprendente le prime quattro sezioni; 2) studio delle forme quadratiche binarie e
ternarie con relative applicazioni, quinta e sesta sezione; 3) studio della divisione del
cerchio e teoria della costruibilità dei poligoni regolari, settim a sezione.
Il testo di Gauss si presenta fin dall’inizio come un lavoro fondazionale in cui l’autore
ha due intenzioni: 1) proporre in maniera sistematica e perspicua tutti i risultati
ottenuti fino a quel momento riguardo agli argomenti trattati; 2) aggiungere una serie
di nuove scoperte in modo da formare una teoria solida e ben strutturata.
Specificamente, per quel che concerne i risultati sulla teoria dei residui, Eulero aveva
dimostrato molte proposizioni, ma tali dimostrazioni erano sparse in vari articoli scritti
in più di trent’anni di lavoro, inoltre alcune proposizioni non erano supportate da
argomentazioni sufficientemente precise. Gauss riunì tutti questi risultati, fornì prova
rigorosa delle proposizioni e, infine, dimostrò il fondamentale teorema di reciprocità
quadratica, adombrato da Eulero, affrontato e supposto dimostrato da Legendre, ma
in realtà ancora privo di una dimostrazione precisa. Quanto alle forme quadratiche
binarie, dopo la “riscoperta” di Fermat da parte di Eulero, era stato Lagrange a
scrivere un testo sistematico sul tema, le celebri Recherches d’arithmétique. L’opera di
Gauss, per quanto basata su concetti in parte diversi e benché il giovane matematico
tedesco non conoscesse il lavoro di Lagrange quando cominciò a scrivere le
Disquisitiones (anche se in breve divenne un profondo conoscitore dell’opera di
Lagrange, tanto che nel testo pubblicato i riferimenti alle Recherches sono frequenti e
precisi), può essere interpretata come una estensione e raffinamento di certi concetti
lagrangiani. Questo quanto agli articoli 153-222, perché successivamente comincia
una serie di indagini completamente nuove e originali di Gauss e che segneranno le
future ricerche sulle forme quadratiche binarie. I problemi delle forme quadratiche
ternarie praticamente non erano stati mai affrontati in precedenza, se si fa eccezione
per alcuni risultati, basati quasi esclusivamente su evidenze empiriche ottenuti da
Legendre. Quindi in questo campo Gauss fu un vero pioniere; 3) anche riguardo alla
equazione ciclotomica e alla conseguente divisione del cerchio, il lavoro del
matematico tedesco è assolutamente originale, e consegue risultati definitivi e
stupefacenti.
Parlando delle prime quattro sezioni, occorre subito sottolineare che, fin dallo studio
delle congruenze di primo grado, Gauss procede in modo sistematico analizzando il
comportamento dei moduli quando questi sono numeri primi o composti (art. 26-31),
e risolvendo (art. 34) sistemi di congruenze della forma
 z ≡ a (mod .b )

 z ≡ c(mod .d ) ,
...

ovviamente tutti i numeri indicano interi, nonché sistemi a più incognite con un
modulo, quali (art. 37)
 ax + by + cz + ... ≡ f (mod .m)

 a ' x + b ' y + c ' z + ... ≡ f ' (mod .m)
 a ' ' x + b ' ' y + c ' ' z ≡ f ' ' (mod .m)

Segue lo studio del numero di numeri primi con un numero dato e minori di esso ed
alcuni risultati elementari sulle congruenze di grado qualsiasi. Con ciò si chiude la
seconda sezione. Ripetiamo, gran parte delle acquisizioni ivi esposte erano già note –
e Gauss le indica con dovizia di particolari – ma mancava una trattazione sistematica
ed unitaria. La terza sezione è dedicata allo studio delle proprietà fondamentali dei
residui delle potenze. In questo contesto viene fornita una nuova dimostrazione del
piccolo teorema di Fermat47: se p è un numero primo e a è primo con p, allora
a p−1 ≡ 1(mod . p ) . Segue una delle parti più raffinate del volume: dato un numero primo
p, si consideri p − 1 e lo si decomponga in fattori primi; si consideri poi per ogni
fattore, la funzione ϕ di Eulero che fornisce la quantità di numeri primi con un numero
e minori di esso. Sia d un divisore di p − 1 e lo si ponga come esponente di una
congruenza modulo p; bene, Gauss si chiede quanti sono i numeri minori di p, tali
che, elevati alla d, siano congrui 1 modulo p. La quantità di questi numeri è indicata
con ψ (d ) . La risposta è che, per ogni d le due funzioni coincidono, cioè ϕ (d ) = ψ ( d ) .
Riprendo l’esempio di Gauss (art. 53) per chiarire meglio la questione: sia p=19. I
divisori di p − 1 = 18 sono 1,2,3,6,9,18. Per convenzione ϕ (1) = 1 e ψ (1) = 1 poiché solo
1 ≡ 1(mod .19 ) . ϕ (2) = 1 poiché solo 1 è primo con 2 e ψ (2) = 1 in quanto 18 2 ≡ 1(mod .19 ) ;
ϕ (3) = 2 poiché 1 e 2 so no primi con 3 e ψ (3) = 2 in quanto 7 3 ≡ 1(mod .19 ) e 113 ≡ 1(mod .19 ) ;
ϕ (6) = 2 poiché 1 e 5 sono primi con 6 e ψ (6) = 2 poiché 86 ≡ 1(mod .19) e 12 6 ≡ 1(mod .19 ) ;
ϕ (9) = 6 perché
1,2,4,5,7,8
sono
primi
con
9
e
ψ (9) = 6
in
quanto
4 9 ≡ 59 ≡ 69 ≡ 99 ≡ 16 9 ≡ 17 9 ≡ 1(mod .19 ) . Infine ϕ (18 ) = 6 , visto che 1,5,7,11,13,17 sono
primi con 18 e ψ (18 ) = 6 perché 218 ≡ 318 ≡ 1018 ≡ 1318 ≡ 1418 ≡ 1518 ≡ 1(mod .19) . Gauss fornisce
due diverse dimostrazioni di questo asserto affermando che la prima è più prolissa,
ma più diretta, mentre la seconda, più agile, è tuttavia più indiretta. Il teorema ha
un’importante applicazione in una proprietà già trovata da Eulero e cioè che ogni
numero prim o p ammette radici primitive, vale a dire numeri (come 2,3,10,13,14,15
per il modulo 19) tali che nessuna potenza minore della ( p − 1 )-esima è congrua 1
modulo p. Ho insistito su questo teorema perché il commento che Gauss fa ad esso
(art. 56) è quanto mai sintomatico. Leggiamo infatti:
Questo notevole teorema fornisce un esempio di quanta circospezione sia spesse volte
necessaria nella teoria dei numeri per evitare di assumere come certo ciò che invece
non lo è. Il celebre Lambert […] menziona questa proposizione, ma non prende in
esame la necessità di una dimostrazione. Nessuno invero a parte il sommo Eulero
tentò una dimostrazione […]. Ma la prova di quell’uomo sagacissimo ha due difetti. Il
primo è che egli suppone tacitamente il contenuto dell’art. 31 e seguenti, e cioè che la
congruenza x n ≡ 1 […] abbia n radici diverse, sebbene in precedenza fosse stato solo
dimostrato che non può avere più [di n radici]; l’altro è che Eulero ha dedotto la
formula dell’art. 34 solo tramite induzione48.
Queste parole di Gauss e soprattutto la sua procedura operativa chiarificano in modo
evidente come egli giudicasse fondamentale per il progresso della matematica
l’assoluto rigore dei risultati raggiunti, coerentemente con quanto si è asserito nel
paragrafo precedente.
Si dimostra poi facilmente che tutte le potenze tra 1 e p − 1 di una radice primitiva
percorrono un sistema completo di resti mod. p. Se a è una radice primitiva ed e un
numero minore di p assunto come esponente, nella congruenza a e ≡ b (mod . p ) , Gauss
definì e come l’indice di b. Per gli indici vale un algoritmo del tutto analogo a quello
tipico dei logaritmi. Segue una serie di interessanti applicazioni e teoremi, tra i quali
segnaliamo la soluzione delle congruenze binomie x n ≡ A(mod .m) . Negli art. 75-78,
Gauss in base ai suoi risultati sulle radici primitive giunge a dimostrare il teorema di
Wilson, il cui enunciato è: sia p un numero primo, allora risulta ( p − 1)!≡ −1(mod . p ) .
Come Gauss stesso sottolinea, questo teorema era già stato provato da Lagrange con
una metodologia diversa e da Eulero con una procedura simile a quella usata dal
matematico tedesco. Ma allora perché dimostrarlo di nuovo? La risposta è che
dimostrazioni diverse si inseriscono in contesti teorici diversi e, ad opinione di Gauss,
una teoria è tanto più compatta e affidabile, quanto in base a un nucleo relativamente
ridotto di principi riesce a dimostrare con metodo uniforme un insieme di risultati
prima provati per vie diverse. Questa necessità di compattezza teorica, così
fortemente avvertita da Gauss, è il motivo che lo spingeva a dimostrare in modo
diverso molti teoremi. Si rientra qui pienamente entro la prima accezione del concetto
di progresso in matematica che abbiamo enucleato.
La quarta sezione è dedicata allo studio dei residui quadratici, cioè delle congruenze
della forma x 2 ≡ A(mod .B) . Negli articoli iniziali della sezione (94-106) sono presentati
in forma unitaria e rigorosa una serie di risultati che, in gran parte, erano già noti.
Dall’art. 107 comincia la parte più importante della sezione: in un congruenza, dato
un modulo si cerca di individuare una classe di residui congrui con un residuo dato,
Gauss si pone ora, in certo modo, il problema reciproco, cioè fissato un residuo e il
grado di una congruenza (la questione è analizzata per il grado 2), quali classi di
numeri assunti come moduli ammettono quel residuo? Questo è uno dei problemi
centrali della teoria dei numeri perché consente di risolvere una molteplicità di
problemi concernenti le forme quadratiche. Gauss, fino all’art. 124 studia i seguenti
residui quadratici: − 1,±2,±3,±4,±5,±6,±7 , riottenendo i classici risultati di Eulero ed
aggiungendone di nuovi. Per esempio, quanto al residuo –1, viene provato che tutti i
numeri primi della forma 4n+1 hanno –1 come residuo quadratico e nessun numero
della forma 4n+3 ce l’ha. Ma la parte fondamentale della quarta sezione è quella che
va dall’art. 125 all’art. 144, ove, dopo una serie di disquisizioni preparatorie, Gauss
fornì per la prima volta la dimostrazione del fondamentale teorema di reciprocità
quadratica che suona: siano p e q numeri primi, positivi, dispari e almeno uno dei due
abbia la forma 4n+1, allora q è residuo quadratico o non residuo di p a seconda che p
sia residuo o non residuo di q. Se ambedue i numeri sono della forma 4n+3, allora q è
residuo o non residuo di p a seconda che p sia non residuo o residuo di q49. La
conoscenza del carattere quadratico (cioè di quali numeri un dato numero è residuo o
meno) di –1, di +2 e il teorema di reciprocità consentono di conoscere il carattere
quadratico di qualsiasi numero. Gauss fornì sei dimostrazioni diverse di questo
teorema, due delle quali nelle Disquisitiones. Quello del teorema di reciprocità
quadratica è forse il caso più emblematico di come Gauss tenesse a rilevare
l’unitarietà delle teorie da lui create e a mostrare come spesso parti di teoria danno
luogo a dimostrazioni diverse di uno stesso teorema che sono maggiormente coerenti
con i principi stabiliti e che aprono determinati scorci prospettici non ottenibili se si
prova l’asserto altrimenti. Questo ha di nuovo strette connessioni con il primo
concetto di progresso da noi enucleato. D’altronde, anche in questo caso Gauss, non
mancò di sottolineare l’importanza del rigore assoluto quando si asserisce di aver
dimostrato un teorema. Nell’art. 296, riferisce sinteticamente la “dimostrazione” della
legge di reciprocità data da Legendre e basata sulla soluzione dell’equazione
indeterminata ax 2 + by 2 + cz 2 = 0 , nonché su alcune supposizioni, a proposito delle quali
leggiamo:
Queste supposizioni, per quanto così ingegnose, da sembrare non necessitanti di una
dimostrazione, benché portino il teorema da dimostrare al massimo grado di
probabilità, non possono tuttavia essere ammesse senza una prova50.
Poche parole potrebbero essere più chiare sul fatto che senza rigore non vi può essere
autentico progresso in matematica e che errori sono sempre possibili anche in
supposizioni che sembrano del tutto giustificate.
Nelle prime quattro sezioni della propria opera Gauss ha esposto una teoria
completa e rigorosa dei residui quadratici, a questo punto applica alcuni risultati di
tale teoria alle forme quadratiche binarie; ciò nella quinta sezione, che, oltre ad essere
la più lunga è anche la più importante dell’intera opera.
Per cogliere pienamente quanto sia stato importante il progresso compiuto da
Gauss nello studio delle forme quadratiche binarie, occorrerebbe leggere le
Disquisitiones in parallelo con le Recherches di Lagrange; questo non è possibile per
ovvie ragioni nello spazio di un articolo 51. Fornirò quindi solo alcune indicazioni di
massima. Lo studio delle forme quadratiche binarie nacque essenzialmente con
Fermat, il quale studiò la forma x 2 + Ay 2 , con A=1,2,352. Egli lasciò solo poche
indicazioni sulla possibile dimostrazione dei suoi enunciati. Eulero venne a capo dei
teoremi di Fermat e provò ad affrontare, in sostanza senza successo, la
forma Bx 2 + Ay 2 . L’idea tramite cui Eulero risolse il problema per x 2 + Ay 2 , con A=1,2,3
consisteva nell’analizzare la forma che i divisori di x 2 + Ay 2 possono assumere quando
x e y sono primi tra loro. Il matematico svizzero si rese conto che il metodo applicato
quando A=1,2,3 non è estendibile ad altri casi. Lagrange mantenne l’idea di studiare
una forma f tramite la forma assunta dai divisori di f e si pose il problema generale
della rappresentabilità dei numeri interi per mezzo della forma . A questo scopo egli
introdusse il concetto di determinante (anche se la parola è dovuta a Gauss) di una
forma e di forma ridotta, mostrando che le forme quadratiche binarie possono essere
ripartite in classi di equivalenza a rappresentare ognuna delle quali viene assunta una
forma ridotta. Operando con questi concetti Lagrange risolse il problema per i numeri
della forma 4n+3, cioè dato uno di questi numeri, egli era in grado di dire da quali
forme f = Ax 2 + Bxy + Cy 2 fosse rappresentato, in pratica riuscì a stabilire i valori A,B,C.
Per quel che concerne invece i numeri della forma 4n+1, la teoria di Lagrange non è
dirimente, anche se egli, con una serie di brillanti accorgimenti, indipendenti però
dalla teoria generale, riuscì a risolvere molti casi anche per questa classe numerica. La
prospettiva di Gauss è in buona parte diversa: egli non partì dall’analisi dei divisori di
f, ma affrontò il problema della rappresentabilità direttamente. Ciò fu possibile grazie
a un raffinamento di concetti già usati da Lagrange e all’introduzione di una
molteplicità di nuove nozioni. Gauss indica una forma binaria f tramite l’espressione
ax 2 + 2bxy + cy 2 , abbreviata anche in ( a, b, c ) . Il valore D = b 2 − ac viene definito come il
determinante della forma. Il nome è dovuto al fatto che molte proprietà di f sono
studiabili grazie al valore assunto da D. Il primo, semplice, ma fondamentale teorema
dimostrato da Gauss (art. 154) è che se M è un numero rappresentato da f con
(x,y)=1, allora D è residuo quadratico di M. Il successivo passo riguarda la
trasformazione tra forme (art. 157): data una forma F di indeterminate x e y e una
forma F ' di indeterminate x ' , y ' e considerata la sostituzione
x = αx '+ βy ' , y = γx '+δy '
allora la forma F contiene F ' . Si dimostra che le forme sono equivalenti (cioè
rappresentano gli stessi numeri) se hanno lo stesso determinante e se αδ − βγ = ±1 . Se
α β 
si considera la trasformazione tra forme come una matrice 
 , in linguaggio
γ δ 
moderno – non usato in questo caso da Gauss -, l’ultima condizione equivale a dire
che il determinante della matrice deve essere +1 o –1 affinché le forme siano
equivalenti. Nel primo caso Gauss le definì propriamente equivalenti, nel secondo
impropriamente equivalenti. Un articolo lungo e interessante è il 162 dove Gauss
studia i nessi che legano le diverse trasformazioni tra forme. Quest’indagine è del
tutto originale. Nell’art. 163 viene introdotto il fondamentale concetto di forma
ambigua. Data f = (a , b, c ) , f è ambigua se 2b è divisibile per a. In base alle indagini
condotte fino a questo punto Gauss dimostra che una forma F ne contiene un’altra
F ' sia propriamente che impropriamente se può esser trovata una forma ambigua
contenuta in F e contenente F ' . Riguardo alla rappresentazione di un numero M
tramite una forma f = (a , b, c ) è fondamentale il teorema dell’art. 168, ottenuto da
Gauss dopo una serie di ulteriori indagini sulle trasformazioni tra forme. La
proposizione recita: “se M è rappresentato da f = ax 2 + 2bxy + cy 2 con (x,y)=1, e se N è
soluzione della congruenza z 2 ≡ D(mod .M ) , ove D è il determinante di f, allora le due

forme ( a, b, c) e  M , N ,

N2 −D
 sono propriamente equivalenti”. A partire dall’art. 171
M 
la trattazione di Gauss si diversifica per le forme di determinante negativo, positivo
non quadrato, positivo quadrato e nullo . Gli ultimi due casi non sono particolarmente
significativi. Inizialmente viene affrontato lo studio delle forme di determinante
negativo. La prima importantissima definizione è quella di forma ridotta. Una forma
( a, b, c) di determinante negativo − D è definita ridotta se a ≤
4
D e c ≥ 2b . Nell’art.
3
171 viene dimostrato che data una qualunque forma (sempre qui da sottintendere di
determinante negativo), ne esiste una ridotta propriamente equivalente alla data.
Nell’art. 172 Gauss prova che due forme ridotte ( a, b, c) e ( a' , b' , c' ) di uno stesso
determinante – se non identiche - sono propriamente equivalenti solo se sono
opposte, cioè a = a ' , b = −b' , c = c' e ambigue oppure se sono opposte e a = c = a ' = c ' .
Vengono poi forniti anche criteri per l’uguaglianza impropria. A questo punto seguono
una serie di considerazioni (artt. 177-181) sulle trasformazioni tra forme equivalenti e
sulla rappresentabilità dei numeri tramite tali forme. Quali sono le conclusioni di
questo impressionante tour de force teorico? Sono davvero di primo piano: già
dall’art. 176 Gauss è in grado di indicare, per ogni determinante negativo il numero e
il tipo di forme ridotte che lo caratterizzano. Così, per esempio, se − D = −1 , l’unica
forma ridotta è (1,0,1) 53, se − D = −2 è (1,0, 2) , se − D = −3 sono (1,0,3) e ( 2,1, 2) , e così
via. Ricordiamo il teorema fondamentale secondo cui un numero può essere
rappresentato da una forma con indeterminate mutuamente prime solo se il
determinante è residuo quadratico di quel numero. Questa condizione che è
necessaria, diviene anche sufficiente se il determinante in esame ammette una sola
forma ridotta (cioè se vi è una sola classe di equivalenza), ciò poiché ogni forma
equivale a una ridotta. Gauss aveva dimostrato che ogni numero primo della forma
4n+1 ha − 1 come residuo quadratico, ma allora ogni numero di questo tipo è somma
di due quadrati poiché è esprimibile tramite la forma (1,0,1) = x 2 + y 2 . Aggiungendo
alcune considerazioni si arriva a determinare tutti i numeri che sono somma di due
quadrati; inoltre, con l’ausilio del teorema all’art. 168 e la complessa teoria della
sostituzione esposta agli artt. 177-181 si determina anche in quanti modi un numero
può esser decomposto nella somma di due quadrati e quali sono i quadrati
componenti. Analogamente per tutti i determinanti negativi. Ad esempio, se − D = −3 ,
saranno rappresentati numeri della forma x 3 + 3y 2 e 2 x 2 + 2 xy + 2 y 2 , inoltre − 3 deve
essere residuo quadratico di questi numeri. Se ci limitiamo ai numeri primi, essi non
possono essere rappresentati dalla seconda forma, per cui tutti i numeri primi della
forma 3n+1, i quali hanno − 3 come residuo quadratico sono rappresentati dalla forma
x 3 + 3y 2 . Con ragionamenti sim ili a quelli esposti, sebbene più complessi man mano
che, aumentando il valore assoluto del determinante, cresce anche il numero delle
classi di forme che ad esso appartengono, vengono risolte le questioni concernenti la
rappresentazione di numeri tramite forme quadratiche binarie a determinante
negativo. Nel prosieguo Gauss affronta lo stesso tipo di problemi per le forme
quadratiche binarie a determinante positivo. La trattazione si basa su principi simili a
quelli che – purtroppo in maniera molto sintetica – ho menzionato, anche se i
problemi sono in questo caso più difficili da affrontare. Comunque entro l’art. 222
Gauss fornisce una teoria completa anche per le forme a determinante positivo
culminante con la soluzione di tutte le equazioni indeterminate di secondo grado a due
incognite. Abbiamo quindi: Gauss propone un quadro teorico compatto in cui i risultati
sui residui quadratici si correlano profondamente a quelli sulle forme quadratiche
binarie. I vecchi problemi sono affrontati da un superiore punto di vista sintetico e
vengono risolte questioni prima senza soluzione (es. teorema di reciprocità
quadratica, soluzione completa della decomponibilità di un intero in forme quadratiche
binarie). Inoltre la teoria di Gauss genera altri problemi che il matematico tedesco
affronterà a partire dall’art. 223: in particolare, dato un determinante D quanto
esposto fino all’art. 222 consente a Gauss di trovare tramite una serie di calcoli
quante forme ridotte non equivalenti appartengono al determinante, ma c’è un modo
di sapere a priori, in base alla scomposizione in fattori primi di D e al suo carattere
quadratico, senza dovere ogni volta fare calcoli, quante siano le forme ridotte?
Abbiamo quindi tutte le caratteristiche che connotano il concetto di progresso in
matematica e tutte al più alto livello, data la difficoltà dell’argomento e l’ampiezza
della teoria esposta. Cercherò ora di fornire un quadro sintetico di alcune delle
successive ricerche proposte subito dopo quanto visto perché si inseriscono molto
bene nel nostro discorso sul progresso. Data la grande complessità dei concetti in
gioco sarà possibile fornire solo un visione di massima della materia trattata. La
sottosezione delle Disquisitiones compresa tra l’art. 223 e 265 si intitola Disquisitiones
ulteriores de formis e conclude il discorso sulle forme binarie, anche se alcune
tematiche, connesse con le forme quadratiche ternarie saranno riprese nell’ultima
parte della quinta sezione intitolata Digressio continens tractatum de formis ternariis.
Mi concentrerò solo sugli artt. 223-235 poiché essi sono sufficienti per dare una
prospettiva dell’ordine di idee in cui si muoveva Gauss e perché un’indagine sulle altri
parti dell’opera sarebbe priva di senso senza entrare in dettagli assolutamente non
affrontabili in un articolo come il presente.
Nelle Disquisitiones ulteriores de formis Gauss presenta una teoria della
classificazione delle forme e procede secondo una partizione per genere prossimo e
differenza specifica: come concetto la cui estensione è massima, viene assunto quello
di determinante, tra le forme aventi lo stesso determinante, una prima partizione è
offerta dalle forme che appartengono allo stesso ordine, tra queste Gauss separa poi
le forme che appartengono allo stesso genere e, infine, quelle che appartengono alla
stessa classe. Occorre rilevare che le definizioni fornite dal matematico tedesco –
eccetto quella di determinante - sono date per astrazione; non viene cioè definito il
concetto direttamente, ma si definisce quando è che due “o ggetti” sono equivalenti
quanto a certe caratteristiche – astrazion fatta da altre differenze specifiche -, si
considera poi la classe di equivalenza data da tutti gli oggetti siffatti. Se si pensa
all’importanza che è stata attribuita alle definzioni per astrazione per esempio nel
dibattito tardo -ottocentesco sui fondamenti della matematica e se si pone mente al
fatto che il logico tedesco Gottlob Frege (1848-1925) ha dedicato quasi tutto un libro
alla questione54, si comprenderà l’importanza del procedimento di Gauss, il quale
introduce il suo sistema definitorio senza sottolinearne la novità o l’importanza, ma
mostrando direttamente come si applica.
Coerentemente con questa linea di pensiero, il primo concetto introdotto è quello di
ordine; in proposito (art. 226), una forma viene detta primitiva se (a,b,c) non hanno
a b c
alcun divisore in comune; se invece questo divisore è m, la forma  , ,  è detta
 m m m
forma derivata dalla primitiva (a,b,c). Inoltre, se a,b,c non hanno divisori comuni, ma
a,2b,c hanno 2 come divisore (sarà anche il M.C.D.), allora la forma (a,b,c) è detta
impropriamente primitiva, se invece anche a,2b,c non hanno divisori comuni, la forma
è propriamente primitiva. Si dimostra in maniera molto semplice che classi di forme
impropriamente primitive sussistono solo se il determinante è della forma 4n+1 o –
(4n+3). Due forme appartengono allo stesso ordine se i loro coefficienti hanno lo
stesso M.C.D, oltre a ciò occorre distinguere l’ordine propriamente primitivo (p.p.) da
quello impropriamente primitivo (i.p.), nel primo sono contenute tutte le forme p.p. di
un determinante, nell’altro tutte quelle i.p.
È poi facile provare che due forme f e f’ appartenenti a ordini diversi non possono
essere equivalenti. All’interno di un determinante si ha così una partizione in ordini,
all’interno di ogni ordine si ha poi un determinato numero di classi.
Gauss insegna anche come calcolare il numero di ordini per ogni determinante.
Dopo il concetto di ordine viene introdotta un’altra nozione fondamentale che è quella
di genere legato al carattere di una forma. A questo stadio delle proprie ricerche,
Gauss intende stabilire con precisione quali tipi di numeri possano essere
rappresentati da una forma. Si nota qui un parallelismo che deve essere sottolineato
tra la teoria delle congruenze esposta nelle prime quattro sezioni dell’opera e la teoria
delle forme: nel primo caso infatti, Gauss insegna prima come si risolvono le
congruenze di secondo grado (limitiamoci ai residui quadratici), fissato cioè un modulo
M e un valore k si tratta di determinare gli x per cui vale (quanto alle congruenze
binomie) x 2 ≡ k (mod .M ) . Come visto, una volta risolto questo problema, viene
affrontato quello opposto, ben più complesso, in cui la variabile diviene il modulo, per
cui, fissato k, si cercano i moduli che ammettono k come residuo quadratico.
Analogamente, nella prima parte della quinta sezione Gauss, data un’equazione
diofantea di secondo grado a due incognite, la risolve associandola a una generica
forma quadratica binaria, si tratta poi di determinare la natura di tale forma. In altri
termini: dato un numero vedere da quali forme è rappresentabile. Mentre nelle
Disquisitiones ulteriores de formis il problema è rovesciato: non si tratta più di
risolvere un’equazione, ma, assegnata una forma, di vedere quali numeri essa è in
grado di rappresentare. C’è quindi una perfetta specularità tra queste parti dell’opera
di Gauss. L’interesse non è più concentrato, per esempio, sullo studio del tipo di forma
quadratica binaria che rappresenta certi numeri (per esempio i numeri primi 4n+1).
Ma, al contrario, data una forma binaria f l’indagine concerne la totalità dei numeri
rappresentabili tramite f. Questo problema, connesso con quello della determinazione
del numero di classi di forme per ogni determinante è il nucleo concettuale delle
Disquisitiones ulteriores de formis.
La prima delle due questioni appena menzionate viene risolta (a livello di condizioni
necessarie) appunto tramite il concetto di carattere e genere. Così, dimostrato il
semplice teorema (art.228) secondo cui una forma primitiva può rappresentare infiniti
numeri primi con un numero dato (il numero deve essere dispari se la forma è
impropriamente primitiva), Gauss, all’art. 229 prova uno di que i teoremi di facile
dimostrazione, ma fondamentali per le sue conseguenze applicative. Esso così suona:
Se F è una forma primitiva di det. D e p un numero primo che divide D, allora tutti i
numeri non divisibili per p che possono essere rappresentati da F hanno in comune
che sono tutti residui di p o tutti non residui di p.
Per ogni forma è così enucleato il carattere rispetto ai divisori primi di D. Ciò
indipendentemente dalla natura di D. L’analisi può però essere spinta più in profondità
ed è possibile identificare altri caratteri specifici che invece dipendono dalla forma del
determinante. In particolare: 1) se D è divisibile per 4, allora i numeri dispari
rappresentati dalla forma F sono tutti della forma 4 n+1 o tutti della forma 4n+3; 2) se
D è divisibile per 8, i numeri dispari rappresentati da F sono tutti della forma 8n+1 o
tutti della forma 8n+3 o tutti della forma 8n+5 o tutti della forma 8n+7; 3) se D è
della forma 4n+3, tutti i numeri dispari rappresentati da F sono della forma 4n+1 o
tutti della forma 4n+3; 4) se D è della forma 8n+2, tutti i numeri dispari rappresentati
da F si dividono in coppie di forme possibili, cioè o sono in parte della forma 8n+1 e
8n+7 oppure in parte della forma 8n+3 e in parte della forma 8n+5; 5) infine se D è
della forma 8n+6 i numeri dispari sono in parte della forma 8n+1 e 8n+3 oppure in
parte della forma 8n+5 e in parte della forma 8n+7. A questo punto per ogni
determinante è possibile stabilire il carattere completo delle sue forme primitive. Il
numero dei caratteri possibili sarà, ovviamente, sempre una potenza di 2, e
precisamente:
La teoria della classificazione, a partire dall’art. 234 viene arricchita da un nuovo
importante elemento: la composizione tra forme. In proposito Gauss scrive:
Dopo aver premesso questi teoremi sulla distribuzione delle forme in classi, generi e
ordini, e dopo aver spiegato le proprietà generali che derivano da tali distinzioni,
passiamo a un altro argomento assai ponderoso (argumentum gravissimum ) e che
non è mai stato affro ntato da alcuno: la composizione delle forme.
La struttura di questa parte dell’opera è molto elaborata: gli articoli 235-244, alcuni
tra i più lunghi e difficili delle Disquisitiones, sono dedicati specificamente alla
composizione delle forme; l’art. 245 alla composizione degli ordini, gli artt. 246-248
alla composizione dei generi e, infine, gli artt. 252-256 alla composizione delle classi.
Negli artt. 252-256 sono applicati i risultati della teoria esposta agli artt. 235-251 al
problema del numero di classi per un dato determinante e viene risolto il problema del
numero delle classi di forme per i determinanti negativi (art.256).
Uno degli articoli fondamentali dell’opera è senz’altro il 235; la sua importanza è
dovuta al fatto che è ivi introdotto il concetto di forma composta e sono enucleate sei
proprietà inerenti alla composizione. Vengono cioè esposti i primi passi di quella che
sarà un’autentica algebra delle forme, ove sussistono operazioni funzionalmente
analoghe ad alcune delle ordinarie operazioni tra interi, anche se sottoposte a
determinate limitazioni.
Dunque, scrive Gauss, che se una forma F = AX 2 + 2 BXY + CY 2 passa nel prodotto55
di due forme
f = ax 2 + 2bxy + cy 2 e f ' = a ' x ' 2 +2b ' x' y '+c ' y '2
con la sostituzione
X = pxx'+ p ' xy'+ p ' ' yx'+ p ' ' ' yy '; Y = qxx'+ q ' xy'+ q' ' yx '+ q ' ' ' yy' ,
allora F si definisce come trasformabile in ff’, se, inoltre i sei valori:
pq'−qp '; pq' '−qp ' '; pq' ' '− qp' ' ' ; p ' q' '− q' p' ' ; p ' q ' ' '−q ' p ' ' ' ; p ' ' q ' ' '−q ' ' p ' ' '
hanno 1 come MCD, allora si dirà che la forma F è composta da f e da f’.
Il problema, analizzato dal punto di vista delle forma componenti può essere così
espresso: quando è che il prodotto di due forme binarie è riducibile, a sua volta, a una
forma binaria? Gauss allora, ipotizzando già eseguito tale prodotto, trova una serie di
condizioni necessarie e mostra che poi esse sono anche sufficienti fornendo un
algoritmo che, date due forme per le quali valgono le condizioni necessarie, consente
di costruire la forma-prodotto. In questo contesto sono introdotte molte delle nozioni
che caratterizzano il concetto di gruppo, anche se il merito di aver compreso in pieno
l’importanza di tale concetto spetta comunque a Galois. Come si è detto, seguono gli
studi sulle composizioni degli ordini e dei generi con relative conseguenze sul
problema del numero di forme per un determinante.
Gli studi di Gauss sulla composizione delle forme quadratiche binarie aprono un
campo di ricerca completamente nuovo; la domanda che viene da porsi è se vi siano
connessioni tra questa parte delle Disquisitiones e l’analisi diofantea classica. Certo la
risposta non è semplice perché Gauss lavora in un modo assai atipico per la
matematica dell’epoca: egli costruisce un edificio le cui strutture portanti sembrano
nate indipendentemente dai problemi classici di analisi indeterminata; tali problemi (e
questo accade già nella prim a parte della V sezione con i teoremi fermatiani relativi
alla decomposizione di particolari classi di numeri primi in forme quadratiche binarie)
vengono poi proposti come conseguenze di un discorso che, in certo qual modo, Gauss
sembra costruire senza tener presenti tali questioni. Quindi, quando egli non mostra
applicazioni dirette all’analisi indeterminata classica, si può aver l’impressione che
venga costruita una struttura molto bella, ma forse troppo chiusa in sé e, magari,
connessa strettamente con gli sviluppi successivi della teoria dei numeri e dell’algebra,
ma poco collegata con i problemi che, all’epoca, erano “all’ordine del giorno”. In parte
tale impressione può esser anche motivata dal fatto che l’opera di Gauss è
completamente priva di ogni riferimento euristico e metodologico che aiuti a capire il
modo in cui egli giungeva ai suoi risultati.
D’altronde Gauss aveva dichiarato più volte pubblicamente di non essere interessato
a singoli risultati non inquadrati in un contesto teorico e metodologico. Tuttavia si può
ipotizzare che la sezione relativa alla composizione delle forme non sia stata scritta
solo per la propria bellezza e per l’impiego che Gauss stesso ne fece in seguito, ma
anche per cercare di rispondere a alcuni problemi classici di teoria dei numeri, rispetto
ai quali si è invece rilevata inadatta: Eulero nella sua Algebra del 1770 dimostra
l’ultimo teorema di Fermat per il caso dei cubi, ricorrendo a quello che oggi si chiama
l’anello Z − 3 . L’idea del matematico svizzero, data l’equazione di Fermat x 3 ± y 3 = z 3 ,
con x e y dispari e primi tra loro, è quella di porre x=p+q, y=p-q, così che, nel caso
della somma, si ha x 3 + y 3 = 2 p ( p 2 + 3q 2 ) (per la differenza c’è un’espressione
[ ]
simmetrica a quella scritta), con ( p 2 + 3q 2 ) = x 2 − xy + y 2 (è però facile dimostrare che
ogni forma del tipo x 2 − xy + y 2 può essere scritta come x12 + x1 y 1 + y 12 ). Poiché x e y
sono primi tra loro, sia x+y che x 2 − xy + y 2 devono essere cubi. È nel decomporre
( p 2 + 3q 2 ) che Eulero introduce
− 3 . Dieci anni prima egli aveva asserito di possedere
una dimostrazione del teorema fermatiano nel caso cubico in cui la forma ( p 2 + 3q 2 ) o,
il che è equivalente, ( m2 + mn + n 2 ) era fondamentale e, tuttavia la prova doveva
dipanarsi in base a un’argomentazione un po’ diversa rispetto a quella usata
nell’Algebra: si trattava di dimostrare che i possibili divisori della forma ( p 2 + 3q 2 ) (con
p e q primi tra loro) sono numeri della stessa forma oppure 2. Eulero prova questo
teorema nello scritto del 176056 e asserisce che, il fatto che m 2 + mn + n 2 sia divisibile
solo per numeri della stessa forma è determinante per dimostrare che tale somma
non può essere un cubo. Quindi, in effetti, trascritto in termini gaussiani, è un
problema di composizione tra forme, anzi più precisamente è un problema di
decomposizione così enunciabile: se x e y sono primi tra loro, la forma x 2 + xy + y 2 può
essere decomposta solo come prodotto di forme dello stesso tipo. Eulero sostiene però
che lo studio specifico di questa forma non serve, almeno direttamente, nell’affrontare
il problema di Fermat per potenze maggiori di 3. Sussiste infatti una forma simmetrica
diversa per ogni potenza perché, data l’espressione x n + y n , con n dispari, si ha un
decomposizione del tipo x n + y n =(x+y)A. Nel caso delle quinte potenze, ad esempio,
A= ( x 4 − x 3 y + x 2 y 2 − xy 3 + y 4 ) . È allora possibile che le ricerche di Gauss avessero poi
come scopo anche la manipolazione di particolari forme simmetriche di grado
superiore al secondo al fine di ricondurle al prodotto di forme di secondo grado per
stabilire criteri molto generali di divisibilità in modo da sviluppare un metodo per
affrontare sistematicamente problemi di analisi indeterminata di grado superiore al
secondo. In seguito, con Gauss stesso, poi con Kummer, Dedekind e Kronecker, lo
studio di queste ardue questioni si concentrò soprattutto sul tipo di espo nente relativo
a una forma, ma forse, all’epoca delle Disquisitiones Gauss, seguendo gli impliciti
suggerimenti di Eulero, stava concentrando l’attenzione più sulle “basi” che sugli
esponenti.
Alla sezione sulla composizione delle forme segue la parte dedicata alle forme
quadratiche ternarie, dove Gauss, tramite l’introduzione di altri raffinati concetti,
enuclea alcune delle proprietà delle forme ternarie. La sezione non è così completa
come quella sulle forme binarie, tuttavia viene risolto uno dei problemi centrali e più
complessi dell’intera teoria dei numeri: l’identificazione di tutti e soli gli interi che sono
somma di tre quadrati. A seguito di queste ricerche, Gauss (art. 293) fu in grado di
dimostrare per la prima volta il celeberrimo teorema fermatiano secondo cui ogni
n( n ± 1)
intero è somma di tre triangolari (un triangolare è un numero della forma
). Il
2
matematico tedesco salutò questa sua scoperta scrivendo sul proprio taccuino Eureka.
Ma le scoperte straordinarie esposte nelle Disquisitiones non sono ancora finite: nella
settima sezione, mostrando una mirabile connessione tra geometria e teoria dei
numeri, Gauss risolve un problema che esisteva dall’epoca della matematica greca e
che ormai si riteneva impossibile risolvere in generale: determinare quali poligoni
regolari sono iscrivibili (si intende usando solo riga e compasso) nel cerchio.
Ho fornito l’esempio delle Disquisitines arithmeticae (limitando per motivi di spazio un
esame un po’ più dettagliato alla prima metà dell’opera) perché nel testo gaussiano si
può parlare di progresso matematico al livello più alto: creazione di un impianto
teorico che consente di risolvere una moltitudine di vecchi e difficili problemi risolti
altrimenti con metodologie non unitarie o non ancora risolti, nascita di nuove
questioni, alcune delle quali risolte, altre (es. numero di classi di forme binarie per
determinanti positivi) lasciate in “eredità” per futuri studi, connessione tra diverse
parti della matematica, ideazione di concetti nuovi e fruttuosi, assoluto rigore
argomentativo. Nessun testo ha fatto progredire la matematica come le Disquisitiones
arithmeticae.
4. Conclusioni
Le tre accezioni del concetto di progresso individuate nel corso dell’articolo danno
luogo a quelle che potrebbero essere definite le “rivoluzioni” in matematica. La
normale attività dei matematici non è però caratterizzata da mutamenti così
significativi; in generale all’interno di teorie e metodi consolidati vengono dimostrati
teoremi o risolti problemi che accrescono ed approfondiscono la conoscenza, ma che
non originano necessariamente un nuovo ordine di idee. Il concetto di paradigma,
introdotto da Kuhn nel suo celebre libro sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche57
ha un senso anche in matematica. Come esiste una “scienza normale” così esiste una
“matematica normale”. Tuttavia tra matematica e scienza – già riferendosi alla fisica,
la scienza che fa ricorso sistematico alla matematica – vi è una differenza
fondamentale: le proposizioni della fisica debbono descrivere e prevedere una serie di
fatti del mondo esterno. Può ben accadere che una teoria renda conto di una
moltitudine di fatti, che solo pochi sfuggano alle sue maglie e che la teoria venga
comunque accettata proprio perché per la maggior parte dei fatti funziona. In questi
casi o si tende a pensare che un piccolo raffinamento possa far rientrare nella teoria
anche i “fatti ribelli” oppure si ignorano, almeno per un certo periodo, questi fatti, e si
continua perché, quanto al resto, la teoria dà buona prova di sé. Tuttavia il confronto
col mondo esterno è ineliminabile per la fisica e se i fatti inspiegati divengono in
numero eccessivo, si ammette che la teoria è incompleta o da abbandonare, qualora
capiti che molte delle sue previsioni siano sbagliate. Inoltre il concetto di paradigma in
fisica mi sembra che debba essere associato al fatto che questa scienza non è solo
predittiva, ma ha la tendenza anche a fornire un’immagine del mondo. Ciò è del tutto
evidente per la meccanica classica e per le parti della fisica che si è cercato di
ricondurre alla meccanica. Il discorso è un po’ diverso per la teoria di Maxwell e per
l’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica. Quindi, sebbene Kuhn
accentui eccessivamente l’unicità di un paradigma dominante – si pensi proprio alle
due interpretazioni della meccanica quantistica sul senso da dare alla dualità ondacorpuscolo -, tuttavia può in generale essere plausibile che nella fasi normali della
scienza vi sia un paradigma dominante. In matematica questo non vale, proprio
perché la matematica in quanto tale non ha a che fare col mondo esterno. Per cui si
può dire che, almeno per un certo ambito di problemi, la meccanica di Newton, basata
su uno spazio euclideo, sia stata superata dalla meccanica relativistica basata su uno
spazio tempo a curvatura variabile e che il modello di universo che aveva in mente
Newton è ben diverso da quello proposto da Einstein. Sarebbe invece assurdo dire che
la geometria euclidea è stata superata. Questa geometria non ha niente a che fare col
fatto che il mondo esterno sia euclideo o meno, anche se da un punto di vista storico,
la geometria euclidea nasce come geometria di un insieme di fatti del mondo esterno.
Oggi, mi sembra giustamente, una concezione eccessivamente fisicista della
geometria è stata abbandonata: le diverse geometrie presentano spazi astratti con
proprietà diverse; sta poi al fisico decidere quale meglio si applica al mondo esterno.
L’esempio della geometria vuol mettere in luce che in matematica il concetto di
paradigma ha una valenza diversa – meno assoluta - che in fisica e inoltre paradigmi
diversi convivono spesso in periodi di scienza normale. Quindi, almeno da un punto di
vista teorico, in matematica non esistono propriamente “rami secchi” poiché ogni
teoria – se in essa non si celano errori – apre comunque un universo matematico ed è
ben accaduto che in diversi momenti della propria storia, la matematica abbia
riscoperto vecchie metodologie e modi di pensare. Ho detto “da un punto di vista
teorico” perché poi storicamente è spesso successo che importanti scoperte siano
state ignorate per un certo periodo e valorizzate solo quando se ne era vista
l’applicabilità ad altri settori della matematica o alla scienza. Si pensi, ad esempio, al
calcolo tensoriale, ideato da Gregorio Ricci Curbastro (1853-1925), ma in pratica
ignorato finché Einstein non lo applicò nella teoria della relatività. Quindi è indubbio
che anche in matematica il progresso sia influenzato da fattori antropologici e sociali,
tuttavia, mentre in fisica difficilmente un vecchio modello viene recuperato poiché in
genere il vecchio modello è meno esplicativo di quello nuovo, in matematica, ciò è
spesso accaduto proprio perché l’abbandono di una metodologia o di un modo di
pensare non è necessariamente legato al fatto che la vecchia metodologia sia
sbagliata o definitivamente superata, ma al fatto che il nuovo ordine di idee consente
spesso – come si è visto – una visione più ampia e più perspicua di una serie di
problemi. Un esempio classico in questo senso è fornito dall’analisi non-standard. Si è
visto come il movimento di rigorizzazione dell’analisi abbia finito per escludere gli
infinitesimi in atto dal continuo dei numeri reali. Matematici che pensarono alla
possibilità di ammettere l’infinitesimo anche in atto ve ne furono e alla fine
dell’Ottocento, Giuseppe Veronese (1854-1917) dedicò la lunghissima introduzione dei
suoi Fondamenti di geometria58 al tentativo di presentare un continuo con
infinitesimi. Nonostante il grande interesse dell’opera, indubbiamente il lavoro di
Veronese era molto impreciso e, così come era, non poteva funzionare. Tuttavia
quando Abraham Robinson (1918-1974) fu in grado, nel 1966, di proporre una
coerente e utile teoria di un continuo con infinitesimi, il paradigma dell’analisi non
standard si aggiunse a quello dell’analisi standard ed essi convivono ancora oggi.
Questo non deve dare un’idea eccessivamente idealizzata di come proceda la
matematica: vi sono anche qui delle “mode” e spesso il valore di scoperte importanti
viene riconosciuto in ritardo, magari dopo la morte dello scopritore, e non possiamo
escludere che in certi casi non venga mai riconosciuto. L’esempio di Galois è
emblematico, ma è davvero solo un esempio. Non è semplice spiegare il perché ciò
accada, alcune ipotesi possono tuttavia essere proposte: anzitutto, come si è detto,
anche in matematica esiste un linguaggio, ma soprattutto un insieme di concetti e
modi di pensare – attenzione a fissare troppo l’accento sull’aspetto linguistico che,
sebbene abbia connessioni con quello concettuale, non può acriticamente essere
identificato con esso -, per cui se qualcuno propone un nuovo modo di pensare è
indubbio che avrà difficoltà ad essere compreso. Inoltre, almeno a partire dall’inizio
del XIX secolo, le università – e non solo in matematica – sono i centri di ricerca più
importanti e spesso i professori universitari, che hanno imparato con fatica certe
tecniche e che grazie a ciò hanno conseguito una posizione, sono in genere poco
disposti ad accettare nuovi ordini di idee, anche considerando che hanno allievi istruiti
nel “vecchio” ordine di idee. Quindi è ovvio che vi sia una tendenza normalmente
conservatrice, altrettanto ovvio che il mio discorso non deve essere assolutizzato.
D’altra parte, torniamo proprio al caso di Galois: egli propose una teoria innovativa e
che avrebbe fatto compiere mirabili progressi alla matematica e che fu ignorata per
incompetenza e per la sospetta malafede (è il caso di Cauchy) delle persone preposte
a dare un giudizio, ma è anche vero che lo stile di Galois era eccessivamente sintetico
e che il suo lavoro – considerandone anche la novità per l’epoca – sarebbe stato
comunque incomprensibile senza mesi e mesi di “decodifica”. Indubbiamente
un’esposizione più lunga e articolata sarebbe stata necessaria. Questo per dire come a
determinare un certo tipo di vicende concorrano spesso l’inerzia e la chiusura di un
mondo riconosciuto come autorità ufficiale in materia e l’oggettiva inadeguatezza
espressiva, per i tempi, di persone che a quel mondo non appartengono. Un esempio
che riguarda un’intera disciplina, riconosciuta da Gauss come la “regina della
matematica”, è relativo alla teoria dei numeri. Sintetizzo perché qui non ha
importanza il dettaglio storico: Fermat inventa la moderna teoria dei numeri, propone
una serie di enunciati del tutto nuovi per i tempi, parla di un metodo dimostrativo, la
discesa infinita o indefinita, che lo aiutò a dimostrare molti di tali proposizioni. In
effetti egli lasciò però una sola dimostrazione per discesa e vaghe indicazioni riguardo
ad altre prove59. Nonostante che Fermat fosse uno degli scienziati e matematici più
noti d’Europa, le sue speculazioni sui numeri vennero praticamente ignorate, se si fa
eccezione per il carteggio con Frenicle, Wallis e Brouncker sull’equazione di Pell e se si
prescinde dagli apprezzamenti “esterni” di Pascal, il quale mai si cimentò con i
problemi di teoria dei numeri proposti di Fermat, che spesso si lamentò di questo
isolamento. Che dire: indubbiamente stupisce in modo negativo il fatto che i massimi
matematici d’Europa abbiano quasi ignorato il lavoro di Fermat, che cercò di
coinvolgerli scrivendo molte lettere sul tema. Tuttavia proposte teoriche così
rivoluzionarie ed innovative furono presentate senza il supporto di vere dimostrazioni,
a parte appunto un caso. Fermat fu “riscoperto” da Eulero, e, sintetizzando fenomeni
molto complessi, il periodo che va da Eulero alle Disquisitiones arithmeticae può
essere considerato come l’epoca dei metodi elementari in teoria dei numeri, metodi
che indubbiamente sono i più affascinanti e i più adatti a comprendere il reale
comportamento dei numeri interi. Questi metodi furono progressivamente sostituiti
nella “matematica ufficiale” dalla teoria algebrica e dalla teoria analitica dei numeri
perché queste teorie offrono un insieme di procedure standard per affrontare certe
questioni, mentre nella teoria elementare, ve ne sono molte meno. Anche in
considerazione del fatto che i risultati ottenuti usando l’approccio algebrico e analitico,
per quanto significativi, non sono stati così decisivi, come forse all’inizio si pensava,
l’interesse per la teoria elementare dei numeri non è mai svanito. Ma cosa è successo?
Oggi nelle università, almeno in Italia, in nessun corso di teoria dei numeri sono
presentati i metodi di Eulero, di Lagrange, ma neppure quelli di Gauss, almeno nella
forma in cui egli li aveva posti, e l’interesse per le procedure elementari è vissuto, per
così dire ai margini, dell’ambiente “ufficiale”, nonostante che famosi matematici,
anche nel XX secolo, quali Paul Erdös (1913-1996) abbiano prediletto i metodi
elementari. La responsabilità di una situazione che, a mio modo di vedere, ha recato
gravissimi ritardi al progresso di questo settore della matematica, è co me sempre da
dividere tra ambienti “ufficiali” e “non ufficiali”. Quanto ai primi, la solita chiusura
rispetto al “diverso” e la sfiducia in metodi non uniformati e in persone che non sono
“professionisti”. D’altra parte è anche vero – e Internet è uno strumento eccellente
per verificalo direttamente – che, per esempio, sono state proposte da “dilettanti”,
migliaia di dimostrazioni elementari e tutte sbagliate dell’ultimo teorema di Fermat e
che spesso si ripropone il vecchio problema che anche acquisizioni giuste e
potenzialmente importanti sono scritte in un linguaggio non sempre sufficientemente
piano60. Questo per dire che anche in matematica, ha poco senso parlare di un
progresso che procede uniformemente e sempre nella migliore direzione possibile. Le
vicende storiche e sociali, in poche parole, umane, che determinano certe mode hanno
anche in questo caso la loro importanza.
Paolo Bussotti*
Dottore di ricerca in storia della scienza
Ricercatore fondazione Humboldt 2003-2005
[email protected]
* Ringraziamenti: ringrazio mia madre che ha letto l’articolo e che, da persona colta,
ma non competente della materia, mi ha dato utili suggerimenti sul modo di porre
certe questioni generali. Ringrazio il Professor Aldo Scimone per una notevole messe
di consigli e miglioramenti che mi ha suggerito riguardo a molti punti dell’articolo.
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*
1 Gauss, 1801.
2 Neugebauer, 1957, 1974, p. 23.
3 Quanto ai problemi concernenti la data di nascita di Fermat, il miglior contributo è
sicuramente Barner, 2001.
4 Possono ovviamente sorgere problemi legati alla soluzione dell’equazione che così si
ottiene, ma ciò non inficia la validità teorica del metodo di Fermat.
5 I lavori di Fermat sulla geometria e l’analisi possono essere consultati in Oeuvres, 1.
L’epistolario fermatiano, in cui molte lettere sono dedicate, in toto o in parte, al
problema dei massimi, dei minimi e delle tangenti è in Oeuvres, 2. Un testo divenuto
classico su Fermat è Maho ney, 1973, 1994, lavoro che, poco soddisfacente per quanto
concerne la teoria dei numeri, è invece ottimo per i problemi di cui ho parlato nel
corso dell’articolo. In particolare ai massimi, minimi e tangenti è dedicato l’ampio
capitolo quarto. In italiano un buon testo - pur con i limiti già evidenziati in Mahoney
quanto alla teoria dei numeri – accessibile a un lettore con conoscenze matematiche
di medio livello è Giorello -Sinigaglia, 2001. In entrambi i lavori citati vi sono ampie
bibliografie sugli argomenti trattati.
6 Un testo davvero ottimo sull’argomento è Chisini, Sulla teoria elementare degli
isoperimetri, in Enriques (a cura di ), 1924-1927, 1983, parte terza, pp. 201-310.
7 Sulle soluzioni proposte dai Bernoulli un testo un po’ datato, ma chiaro e profondo
sul piano interpretativo è Mach, 1883, 2001, pp. 427-435.
8 Il più importante contributo di Lagrange al calcolo delle variazioni è Lagrange, 1770’71, in Oeuvres, 1, pp. 335-362. Quanto alla Méchanique analytique, si veda Oeuvres,
11-12.
9 Sulla storia dell’algebra e, in particolare su quella relativa alla soluzione delle
equazioni, la bibliografia è ampia. Ricordo qui, senza alcuna pretesa non solo di essere
esaustivi, ma neppure esaurienti: Notari, Le equazioni di quarto grado ed i sistemi di
due equazioni di secondo grado in due incognite, in Enriques, 1924-27, 1983, parte
seconda, pp. 417-484; Notari, L’equazione di quinto grado: teorema di Ruffini-Abel, in
Enriques, 1924-27, 1983, parte seconda, pp. 485-508; Franci-Toti Rigatelli, 1979;
Maracchia, 1979; Bottazzini, 1990, pp. 103-120; Maracchia, 2006. I più recenti di
questi volumi hanno anche bibliografie molto aggiornate ed esaurienti. Un testo
davvero interessante e molto curato anche sul piano filologico, riguardante le
polemiche sulla priorità per la soluzione dell’equazione di terzo grado è Acampora,
2000. Menziono a parte Pesic, 2003, 2005 perché nella parte dedicata ad Abel seguirò
l’impostazione di questo autore; Kline, 1972, 1991, 2, pp. 878-899 e Toti Rigatelli,
1989 poiché per la teoria di Galois mi riferirò ai lavori di questi due studiosi. Abel
dedicò due contributi fondamentali alla non risolubilità delle equazioni di quinto grado,
uno del 1824 e uno, più completo, del 1826. Il primo lavoro può esser letto in italiano
con commento di Pesic in Pesic, 2003, 2005, pp. 135-146. Quanto al secondo articolo,
pubblicato originariamente sul “Journal für die reine un angewandte Mathematik”, 1,
1826, può essere consultato in Oeuvres, pp. 66-87. Alle pagine 87-94, segue anche
un’appendice in cui viene commentato il risultato di Abel. Riguardo a Galois, le sue
memorie sulla risolubilità delle equazioni insieme ad altri scritti sono consultabili in
traduzione italiana in Galois, 2000. Sottolineiamo infine che Paolo Ruffini (1765-1822)
nel 1799, aveva in sostanza raggiunto il risultato di Abel. Tuttavia la trattazione di
Ruffini era molto lunga, complessa, oscura, in alcuni punti non precisa e scritta in un
linguaggio poco praticabile. Ciò nonostante le sue idee e procedure erano
fondamentalmente corrette, tanto che è più giusto parlare di teorema di Ruffini-Abel,
piuttosto che ricordare il solo matematico norvegese, che comunque sviluppò il suo
ordine di idee indipendentemente da Ruffini.
10 Lagrange, 1770-71, in Oeuvres, 3, pp. 205-451.
11 In generale si chiamano radici n-esime dell’unità positiva i numeri che, elevati alla
potenza n-esima, riproducono 1. Tali numeri sono i numeri reali o complessi che
risolvono l’equazione x n = 1 .
12 Un corpo è una struttura algebrica su cui sono definite due operazioni, indicabili
con “+” (addizione) e “·” (moltiplicazione) anziché una, come per i gruppi. Un corpo è
un anello in cui gli elementi diversi dallo zero formano un gruppo rispetto alla
moltiplicazione. Un anello R ha le seguenti caratteristiche: 1) è un gruppo
commutativo rispetto all’addizione; 2) è chiuso rispetto alla moltiplicazione
associativa; c) se a, b, c appartengono a R, valgono le leggi distributive
a ⋅ (b + c ) = a ⋅ b + a ⋅ c e (b + c) ⋅ a = b ⋅ a + c ⋅ a. Tra i manuali di algebra astratta disponibili in
italiano, un testo consigliabile è Herstein, 1975-1995.
13 Kline, 1972, 1991, pp. 882-890.
14 Toti Rigatelli, 1989, pp. 18-25.
15 Toti Rigatelli, 1989, p. 22.
16 Kline, 1972, 1991, p. 887.
17 Dato un gruppo, un suo sottogruppo normale è detto massimale se non è
contenuto in alcun altro sottogruppo normale.
18 Le opere di Archimede sono consultabili in italiano in Archimede, 1974. La Misura
del cerchio è alle pp. 213-237. Sottolineo che purtroppo a tutt’oggi – febbraio 2007 –
le opere del grande Siracusano non sono state più ristampate e quindi non si trovano
più in libreria. È davvero auspicabile che tale grave situazione venga sanata al più
presto.
19 Ovviamente c’è poi il problema, che però per i nostri scopi può esser dato per
risolto, di provare che la circonferenza misura 2πr . Si ha quindi una connessione tra
rettificazione della circonferenza e quadratura del cerchio. Su questi problemi, la
letteratura è vastissima. Per un punto di vista didattico sull’argomento il lettore può
consultare: Bussotti, 2001. In particolare si veda la seconda parte del mio articolo.
20 Questo risultato è immediata conseguenza degli assiomi posti da Archimede
all’inizio di Sulla sfera e il cilindro. Si veda Archimede, 1974, pp. 76-79 e in particolare
p. 79.
21 Si veda Archimede, 1974, pp. 555-610. Una traduzione di questo scritto
archimedeo con un ampio ed esauriente commento è presente in Rufini, 1926, 1961.
22 Molta della produzione matematica, storico-matematica e filosofica di Enriques è
più o meno direttamente basata sulla geometria proiettiva. Ricordo qui solo il
fondamentale Enriques, 1898-1904, 1996. Il lettore interessato a questa problematica
può consultare Bussotti, 20061 .
23 Hilbert, 1899, 1970.
24 Premetto che non fornirò indicazioni bibliografiche sulla storia del calcolo
infinitesimale se non quelle relative ai testi citati nell’articolo poiché tale bibliografia è
semplicemente sterminata ed è arduo fare una selezione significativa. Il lettore
troverà buone indicazioni bibliografiche nei testi che menzionerò. Quanto ai lavori di
Eulero ricordati, i riferimenti sono; 1) Euler, 1748, in Opera omnia, serie 1, volumi
XIII-IX; 2) Euler, 1755, in Opera omnia, serie 1, volumeX; 3) Euler, 1768-1770, in
Opera omnia, serie 1, volumi XI-XIII.
25 In proposito il lettore può consultare Segre, 1994, pp. 214-218.
26 Bolzano, 1850, 1979, p. 51. Il volume fu pubblicato postumo e fu probabilmente
scritto nel periodo 1845-1848.
27 Kline, 1972, 1991, I, p. 506.
28 Enriques, L’evoluzione delle idee geometriche nel pensiero greco, in Enriques (a
cura di), 1924-27, 1983, parte prima, p. 22.
29 Lagrange, 1797-1813, in Oeuvres, 9.
30 Cauchy, 1821, in Oeuvres, serie 2, volume III e Cauchy, 1823, in Oeuvres, serie 2,
volume IV, pp. 5-261 rispettivamente.
31 La questione è ricordata, tra gli altri, da Bottazzini, 1990, p. 89.
32 Ho tradotto questa citazione da Segre, 1994, p. 227.
33 Segre, pp. 226-233, in particolare p. 227.
34 In realtà Bolzano aveva già definito nel 1810 il concetto di funzione continua in
termini praticamente analoghi a quelli usati da Cauchy, ma il suo lavoro fu poco noto
e non ebbe quasi nessuna influenza sui matematici. Per i riferimenti alla questione il
lettore può controllare, Bottazzini, 1990, p. 85.
35 In proposito, si veda Bottazzini, 1990, p. 90.
36 Lakatos, 1978, 1985, pp. 64-86. Sulla questione dell’errore di Cauchy il lettore può
anche consultare Segre, 1994, pp. 228-233.
37 Tale prova è riportata in Segre, 1994, pp. 237-238. Segre, p. 236, riferisce anche
che Bolzano nel 1834 aveva dato esempio di una funzione continua in un intervallo,
ma derivabile in nessun punto di tale intervallo. Una descrizione esauriente di questa
funzione si ha in Kowalewski, 1923.
38 Non entro qui nel problema della logicizzazione dell’aritmetica – sviluppatasi
comunque dopo l’aritmetizzazione dell’analisi - il cui padre fu Gottlob Frege, il quale
nel periodo 1879-1894 cercò di ricondurre il concetto di numero naturale e il
procedimento che per eccellenza caratterizza l’aritmetica, l’induzione completa, entro i
limiti di nozioni ritenute da lui logicamente anteriori a quella stessa di numero
naturale.
39 Il lavoro di Cantor, pubblicato nel 1872 è consultabile in italiano in Cantor, 1992,
pp. 3-16.
40 Dedekind, 1872, 1982.
41 Dedekind, 1872, 1982, pp. 68-69.
42 Dedekind, 1872, 1982, p. 69.
43 Dedekind, 1872, 1982, p. 72.
44 Dedekind, 1872, 1982, p. 74.
45 In proposito il lettore può consultare Bussotti, 2000. Segre, 1994, sostiene che,
nonostante il fatto che il movimento di rigorizzazione cominciato con Cauchy, abbia
presentato il calcolo in modo più chiaro, tuttavia un problema dei fondamenti
dell’analisi esiste ancora oggi.
46 In Italia uno dei maggiori esperti delle Disquisitione arithmeticae è Aldo Scimone,
di cui segnalo in bibliografia due lavori entrambi del 2001.
47 Eulero aveva dato due dimostrazioni di questa proposizione e una ne aveva fornita
Lambert. Gauss (art. 50) cita le prove dei suoi “predecessori”. Tuttavia spiega i motivi
del perché, nonostante la correttezza delle argomentazini di Eulero e Lambert egli
abbia avvertito il bisogno di dare una nuova dimostrazione. Questo introduce a una
delle più significative caratteristiche del lavoro di Gauss che ne caratterizza
fortemente la mentalità: fornire più prove di uno stesso asserto. Nel prosieguo
dell’articolo cercheremo di capire il perché di questo modo di procedere.
48 Gauss, 1801, art. 56, p. 46. La formula dell’art. 34 a cui Gauss si riferisce è quella
che ho riportato nel testo. Ricordo che “induzione” ai tempi di Gauss non significava
induzione completa, ma solo verifica senza eccezioni per un gran numero di casi.
Quindi una proposizione verificata “per induzione” non era certo dimostrata.
49 Per chi desiderasse un testo in italiano e un po’ semplificato rispetto alla
trattazione gaussiana, ma che nell’essenziale non ne tradisce affatto lo spirito, ricordo
le eccellenti lezioni sulla teoria dei numeri di Dirichlet pubblicate da Dedekind e
tradotte in italiano nel 1881, di cui riporto gli estremi in bibliografia. La sezione sui
residui quadratici è la terza.
50 Gauss, 1801, art. 297, p. 356.
51 Ho affrontato specificamente il modo in cui Eulero studiò le forme binarie
2
2 2
2 2
2
x + y ; x + 2 y ; x + 3 y in Bussotti, 20062 , pp. 215-260.
52 Per un esame dettagliato sulla teoria delle forme quadratiche binarie in Lagrange il
lettore può consultare Bussotti, 2006 2 , pp. 362-396.
53 In queste considerazioni si prescinde da tutte quelle forme che si ottengono
invertendo i segni di ciascun coefficiente di una data forma f poiché esse
rappresentano ovviamente tutti i numeri rappresentati da f, ma con segno invertito.
54 Frege, 1884.
55 Qui Gauss intende per prodotto l’ordinaria moltiplicazione tra i polinomi
2
2
2
2
ax + 2bxy + cy e a' x' +2b' x' y '+ c' y ' .
56 Euler, 1760-61
57 Kuhn, 1962, 1969.
58 Veronese, 1891. L’Introduzione in cui Veronese affronta il problema del continuo
con infinitesimi consta di ben 200 pagine ed è davvero un testo del massimo
interesse. Alcuni temi sono ripresi, con notevoli spunti, anche nell’Appendice. Al
concetto di continuo in Veronese, con tutte le questioni connesse ho dedicato Bussotti,
1997.
59 Tra gli altri testi il lettore può consultare, Bussotti, 20062 , pp. 39-46.
60 A una ricostruzione corretta dei metodi e dei risultati di Fermat – escluso il caso
generale dell’ultimo teorema -, fatta proprio da un matematico italiano che non
appartiene all’ambiente universitario, ho dedicato gran parte di Bussotti, 20062 . Ho
riassunto quei risultati, in due modi in parte diversi, in Bussotti, 2006 3 e 2006 4 .