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i quaderni del cineforum
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RITRATTI DI FAMIGLIA
VANESSA GIANCOLA E DANIELE BENFENATI
VANESSA GIANCOLA E DANIELE BENFENATI
RITRATTI DI FAMIGLIA
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
CINEFORUM DEL CIRCOLO
GENNAIO - FEBBRAIO 2017
INTRODUZIONE
La rassegna Ritratti di famiglia è un viaggio visuale attraverso lo sguardo di cinque autori intorno ai cambiamenti del
profilo storico e sociale della famiglia e alle mutazioni al suo interno, sia dei ruoli e che delle relazioni.
In apertura del ciclo abbiamo scelto i Pugni in tasca, capolavoro giovanile di Marco Bellocchio, vera e propria pietra
scagliata a metà anni sessanta nelle acque stagnanti della cinematografia italiana dell’epoca. Nel film l’esordiente
Bellocchio, anche sceneggiatore, racconta le vicende di quattro fratelli che vivono nella villa familiare sulle colline
piacentine con la madre non vedente. Augusto, il maggiore, è l’unico ad avere un lavoro ed aspira a andarsene dal
borgo natio. Giulia ne è morbosamente attratta. Gli altri fratelli sono Leone, affetto da ritardo mentale e Sandro
dal carattere solitario che farà saltare i già precari equilibri familiari.
Proseguiamo con I Tenenbaum di Wes Anderson, vero e proprio cult della cinematografia americana degli ultimi
quindici anni, film manifesto del regista Anderson nel quale, grazie suo inconfondibile stile narra come in un romanzo le vicende dei Tenenbaum, famiglia disfunzionale newyorkese raccolta intorno alla figura paterna Royal
per un’inattesa riunione di famiglia.
La rassegna continua con Father and Son del regista giapponese Hirokazu Kore-Eda, film incentrato sul rapporto
padre –figlio nel quale il regista cerca di dare risposte alla domanda: a partire da quale momento un padre diventa
davvero tale? Nella pellicola Ryota, un uomo in carriera, e la moglie Midori, ricevono una telefonata inaspettata
dalla clinica in cui sei anni prima nacque il figlio Keita. Con stupore apprendono che ai tempi vi fu uno scambio
di neonati e che Keita non è il loro figlio naturale.
Il quarto film è Un matrimonio di Robert Altman, che dipinge sullo schermo un feroce mosaico sociale degli States,
attraverso il quale condanna il malessere interiore e l’amoralità diffusa all’interno delle famiglie americane.
La rassegna termina con La famiglia del compianto Ettore Scola, affresco lungo 80 anni di storia italiana, in cui il
protagonista Carlo, professore in pensione interpretato magistralmente da Vittorio Gassman, rievoca la saga della
sua famiglia grazie ai ricordi che si sviluppano da una vecchia foto primi del Novecento, fino ad approdare ai nostri
giorni.
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I FILM
I PUGNI IN TASCA
Trama
In una decadente villa a Bobbio, sulle montagne piacentine, vive una famiglia borghese la
cui direzione è affidata, più che alla madre cieca, al maggiore dei quattro figli, Augusto,
fidanzato da tempo con una ragazza di città, attende con ansia il momento di abbandonare
la magione per formare una propria famiglia nel capoluogo. Nella casa, assieme a lui vivono: Leone, il più giovane dei fratelli, epilettico ed incapace di ragionare; Giulia, la quale,
anche se apparentemente più normale, è a sua volta malata e psicologicamente ferma ad
una preadolescenza che la lega morbosamente a Sandro; quest’ultimo pazzo ed epilettico,
ha una mente lucida nel concepire diabolici.
Recensione
Fonte: www.storiadelfilm.com
L’esordio di Bellocchio dietro la macchina da presa ha tutto il gusto delle
nuove ondate europee ed americane del periodo. L’efficacia della pellicola
risiede ancora nelle novità dell’impianto stilistico in grado di lacerare il passato con una messa in scena svincolata da dogmi cinematografici e nell’irruenza con cui il regista affronta temi “delicati” come rapporti familiari,
malattia fisica e mentale.
Parte del merito della riuscita del film va attribuita alle interpretazioni degli
attori principali tra le quali brilla quella di Lou Castel: l’allora giovane attore
donò al suo personaggio, Sandro, una malinconica follia ornata da una fredda
crudeltà di uno splendore senza pari.
L’intera vicenda ruota attorno ad una famiglia di provincia, un tema che in
qualche modo può esser considerato attiguo alla realtà italiana.
In tal modo Bellocchio si avvicina ai grandi
esordi dell’epoca: trattare nello
specifico un
ar-
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Produzione Italia, 1965 Genere Drammatico
Durata 105’
Regia Marco Bellocchio
Interpreti Lou Castel, Paola Pitagora, Marino Masè, Liliana
Gerace,Pierluigi Troglio, Jenny MacNeil, Irene Agnelli, Gianni Schicchi
Sceneggiatura Marco Bellocchio
Fotografia Alberto Maramma
Montaggio Silvano Agosti
Scenografia Rosa Sala
Costumi Gisella Longo
Colonna sonora Ennio Morricone
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gomento per quanto possibile prossimo all’ambiente conosciuto
così da prendere le distanze dalle grandi storie “da cinema” per
poi mescolarvi uno stile innovativo e personale; in questo caso il
regista saggia melodramma e crudo realismo, simbolismo ed echi
di rivoluzione. È la dissacrazione della famiglia borghese e del
modo cattolico d’intenderla. Il cinismo del film è un mezzo necessario a rappresentare la palingenesi della generazione che da lì a pochi anni sarà protagonista
dei movimenti del ’68.
In una villa della provincia piacentina vivono insieme alla madre cieca quattro fratelli. Questa casa
isolata diventerà una gabbia dalla quale sarà impossibile evadere, un microcosmo autodistruttivo
che si nutre della follia dei suoi abitanti. L’unico
che sembra riuscire ad allontanarsi è Augusto, il
fratello maggiore, il solo che conduce una vita ordinaria: incaricato in qualche modo di rimpiazzare
il padre -che come figura è totalmente assente-,
amato dalla sorella Giulia e invidiato dal fratello
minore Sandro. Quest’ultimo attratto dalla vita di
Augusto, dalla sua -se così vogliamo definirlanormalità, decide che per svincolarsi da questa
trappola familiare è necessario tagliare tutti i rami
malati dell’albero a cominciare dalla madre. Gli
omicidi che si susseguono, quello della madre e
poi quello di Leone, sono costruiti in un climax
che fa immedesimare lo spettatore nei sentimenti
vissuti in quell’istante da Sandro. Alla morte non
segue sofferenza, non a caso con non poco distacco sentiremo dire: “Questa casa non è mai
stata cosi viva come per un funerale”; letta in
senso allegorico la morte, che è un taglio netto
con il vecchio, diventa una rigenerazione: la carta
della morte può essere anche quella della rivoluzione. Anche la cecità della madre può esser intesa
come una cecità in senso metaforico sia della vecchia generazione come della nuova società bor7
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ghese. La totale mancanza di una figura paterna simbolo sia dell’inutilità che di un vuoto di riferimenti. Nella pellicola la malattia fisica può diventare il presupposto per leggere la realtà che ci circonda così come quella
mentale diviene un modo nuovo d’intendere la vita. Colui che nel film rappresenta “la normalità” cioè Augusto,
non raffigura la serenità che vorrebbe raggiungere Sandro ma l’omologazione che invece rifugge. La città con i
suoi schemi diventa più claustrofobica della villa isolata, forse unico luogo dove è permessa l’espressione del proprio
essere, dove la libertà esasperata fino alla follia sarà vissuta pienamente.
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I TENENBAUM
Trama
Royal Tenenbaum e sua moglie Etheline sono separati da anni e hanno tre figli: Chas,
Richie e Margot. Chas lavora nel settore immobiliare, Margot fa la commediografa e
Richie è un campione di tennis. I successi dei giovani Tenenbaum sono stati cancellati
da vent’anni di tradimenti e fallimenti sempre imputati alle colpe del padre. Un inatteso consiglio di famiglia metterà in luce le ombre di ognuno di loro.
Un ritratto di famiglia dolceamaro, nostalgico e surreale con un
cast di prim’ordine
Fonte: www.mymovies.it
Royal e Etheline Tenenbaum, newyorkesi dell’upper class, hanno avuto tre
figli. Tre bambini prodigio: Chas, piccolo genio della finanza inventore di
topi dalmata; Richie, giovane campione di tennis; e Margot, figlia adottiva
drammaturga perennemente depressa.
Dopo anni di separazione i tre fratelli adulti si ritrovano a fare un tuffo nel
passato della grande e colorata casa d’infanzia di Archer Avenue (che tanto
ricorda quella degli Amberson wellesiani) tra vecchi giochi in scatola e vinili
impolverati.
Tutto in questo bizzarro universo isolato dal mondo reale sembra rimasto
com’era. Le camerette ospitano ancora giradischi, disegni infantili e tende
da campeggio. I tre vestono ancora come una volta: tuta rossa e folto cespuglio di capelli Chas, pelliccia e occhi truccatissimi Margot, tenuta da tennista e occhiali scuri il timido Richie. Ma le loro vite sono cambiate: Chas,
in seguito alla perdita della moglie, è diventato un maniaco della sicurezza
sua e dei due figli; Margot, con un matrimonio infelice in corso, è altrettanto
triste con il suo amante clandestino Eli Cash, vicino dei Tenenbaum con
l’unico desiderio di “essere un Tenenbaum”. Richie, da sempre segretamente
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Produzione Usa, 2001
Genere Commedia
Durata 109’
Regia Wes Anderson
Interpreti Gene Hackman, Anjelica
Huston, Ben Stiller, Gwyneth Paltrow, Luke Wilson, Owen Wilson,
Danny Glover, Bill Murray, Seymour Cassel, Kumar Pallana
Sceneggiatura Wes Anderson,
Owen Wilson
Fotografia Robert Yeoman
Montaggio Dylan Tichenor
Scenografia David Wasco
Costumi Karen Patch
Colonna sonora Mark Mothersbaugh
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innamorato della sorella adottiva, si è imbarcato dopo aver perso un
match decisivo proprio il giorno successivo al matrimonio di Margot.
L’occasione della loro riunione è il ritorno a casa del padre Royal, forse
gravemente malato, proprio nel momento in cui la sua ex moglie sta per
risposarsi.
Strutturato in capitoli dall’andamento descrittivo (più che narrativo) legati
tra loro dall’intervento di un’eloquente voce narrante, la terza dolceamara
e matura opera di Wes Anderson esalta le atmosfere eleganti, nostalgiche
e surreali dei film precedenti, creando un mosaico di personaggi demodè,
eccentrici e realistici allo stesso tempo. La sua grandezza è quella di riuscire, attraverso l’ironia delle sue figure stralunate, a parlarci in maniera
lieve, originale e personalissima di sentimenti universali.
Supportato da un appropriato universo musicale retrò (brani dei Velvet
Underground, dei Beatles, di Nico e Paul Simon) e da una curatissima
scenografia dai colori pop, il film, che potrebbe essere stato scritto dal
Salinger di Franny & Zooey o dall’Ashby di Harold e Maude ,vibra d’intensità grazie alla sentita interpretazione degli attori, qui in ruoli per loro
inconsueti: dalla depressa Paltrow in versione dark, all’introverso sensibile
Luke Wilson, passando per lo svanito Owen Wilson (autore insieme all’amico regista della sceneggiatura), fino ad arrivare all’immaturo e infantile padre di famiglia dandy Royal, interpretato da un intenso e stravagante Gene Hackman.
A completare il quadro, una galleria di personaggi “minori” che, come di consueto nel cinema “attento allo sfondo”
di Wes Anderson, non sono mai marginali: dal fedele domestico Pagoda al finto medico interpretato da Seymour
Cassel, volto invecchiato di quell’universo anni Settanta tanto amato dal regista.
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L’orgoglio degli Amberson secondo Wes Anderson
Fonte: www.glispietati.it
L’Orgoglio degli Amberson secondo Wes Anderson: stesso inizio con voce fuori campo che introduce i personaggi,
sebbene qui il regista li distingua con uno strumento musicale come la favola “Pierino e il lupo” musicata da Prokofiev. Quel che incanta da subito, nell’universo genialmente fantasioso del regista, è la cura maniacale ed espressiva
del dettaglio, ad esempio: i Tenenbaum vestono solo anni settanta, per dire che “sono rimasti indietro”; la presenza
di un beagle e di una canzone da un lungometraggio televisivo di Charlie Brown dichiara che lo stile, il “mood”
della pellicola è preso a prestito dal mondo di Schultz (ma anche da La Famiglia Addams, famiglie che vivono in
mondi paralleli); nonostante le tematiche forti, gli interni hanno colori squillanti-pop iperrealisti, mentre didascalie,
divisione in capitoli, musiche anomale e flashback contribuiscono a comporre figure da ilare cartone animato. Centrale, nella poetica di Anderson, è il rapporto padri/mentori-figli: per quanto la divertita ferocia renoiriana da La
Regola del Gioco non manchi, il regista è più interessato ai legami affettivi ed ai sentimenti coinvolti, uguali per tutte
le classi. In questo quadretto parentale dove, paradossalmente, tutti sono “pecore nere”, le situazioni sono grottesche
ma le riflessioni sottese sono
molto più ponderate e argute
che in apparenza: e non è facile
restare così in equilibrio fra tenerezza, bizzarria e buffoneria.
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FATHER AND SON
Trama
Un giorno Ryota, un uomo che si è guadagnato tutto ciò che ha con il duro lavoro, e la
moglie Midori ricevono una telefonata inaspettata dall’ospedale in cui sei anni prima è
nato il figlio Keita. Con stupore apprendono che ai tempi vi fu uno scambio di neonati e
che Keita non è il loro figlio naturale.
Recensione
Fonte: www.ondacinema .com
Nell’era della comunicazione globale accade sempre più di rado che si assista
a un film senza un bagaglio di conoscenze più o meno approfondito sull’autore di turno. La purezza dello sguardo è merce rara, e per questo la presenza
di un’opera che permette allo spettatore contemporaneo di recuperare parte
di una genuinità compromessa dal surplus informativo meriterebbe di essere
salutata con il massimo dei favori. A questa casistica appartiene suo malgrado
“Like Father, Like Son” di Hirokazu Koreeda, regista giapponese e uomo di
cinema a tutto campo, se è vero che in una carriera più che ventennale, divisa
tra lungometraggi, serie tv e documentari di vario genere e argomento, niente
o quasi è giunto dalle nostre parti.
A interrompere il digiuno e a convincere gli esercenti a una distribuzione
anche italiana, ci volevano la visibilità offerta dalla vetrina cannense e il premio alla miglior regia assegnato a Koreeda dal collega Steven Spielberg nell’edizione del festival appena conclusa. D’altronde non poteva essere
altrimenti, considerato che “Like Father, Like Son” attraverso la struttura di
un racconto incentrato su uno scambio di bambini, sottratti ai rispettivi genitori al momento della nascita, e sulle conseguenze che la scoperta del misfatto comporterà nella vita di due famiglie, mette in scena uno dei temi più
cari al regista americano, quello dell’infanzia, qui trasposta nel rapporto tra
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Produzione Giappone, 2013
Genere Drammatico
Durata 119’
Regia Hirokazu Koreeda
Interpreti Lily Franky, Yoko Maki,
Machiko Ono, Masaharu Fukuyama
Sceneggiatura Hirokazu Koreeda
Fotografia Mikiya Takimoto
Montaggio Hirokazu Takeeda
Scenografia Keiko Mitsumatsu
Colonna sonora Shin Yasui
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un padre, Ryota, artefice di una vita dedicata al lavoro e al prestigio sociale, e Keita, figlio gentile e sensibile. Dopo aver appreso la notizia dello scambio e aver conosciuto il figlio
biologico e la famiglia che lo ha cresciuto, Ryota dovrà scegliere
se ripristinare le condizioni di partenza, privilegiando la tradizione e i legami di sangue con il ritorno a casa del figlio naturale,
oppure dare corso ai sentimenti e all’affetto per Keita, lasciando
tutto come prima.
Curiosamente anticipato da altri due film analogamente imperniati sullo stesso argomento (“Il figlio dell’altra” e “I figli della
mezzanotte”) “Like Father, Like Son” se ne distacca sia dal
punto di vista dei significati che di quello della messinscena. Koreeda infatti non sente la necessità di contestualizzare la vicenda
all’interno di un processo storico e politico ben preciso, come
era accaduto nei due film precedenti, né eventualmente di utilizzare la dialettica interna per vagheggiare il ritorno a un’esistenza più a misura d’uomo, attraverso il contrasto tra le due
famiglie: quella agiata e benestante di Ryota, integrata nella modernità produttiva del paese ma compressa dalle conseguenze
di quei ritmi, contrapposta all’altra, quella dei Saiki, felicemente
umile e spudoratamente naif. Certamente è impossibile non vedere negli sviluppi della narrazione, e nel confronto tra il carattere chiuso e rigoroso di Ryota con quello sgangherato ma pieno
di slanci del suo “contraltare”, una propensione nei confronti di
uno stile di vita meno formale e più rispettoso delle regole del
cuore. Ma ciò che importa veramente a Koreeda, per una società
abituata a far convivere il vecchio e il nuovo, non è quello di rimarcare una linea di separazione tra gli uomini e il mondo, comune a tante storie del nostro cinema, rafforzando le differenze
e l’incomprensione reciproca, bensì esattamente il contrario. A
dircelo è il modo in cui ci restituisce le sequenze dedicate agli
spostamenti che permetteranno alle due famiglie di conoscersi,
con il tragitto coperto dalla macchina di Ryota per raggiungere
il sobborgo dove vivono i Saiki, realizzata in campo lungo e con
un tempo espanso a enfatizzare l’importanza del momento, e la
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consapevolezza di un isolamento, quello di Ryota e della sua famiglia, chiusa nella torre d’avorio di un appartamento
bello ma freddo (“sembra un hotel”, afferma a un certo punto Ryota riferendosi al lusso del proprio appartamento)
che sta per giungere al termine. E anche l’amena semplicità da acquarello che riprende la scampagnata al fiume, in
cui il ritrovato contatto con l’ambiente naturale va di pari passo con l’apertura verso “l’altro”, sancita dai volti dei
protagonisti sorpresi ma felici di ritrovarsi a quel punto, immortalati nella foto di gruppo, che, non a caso, fa bella
mostra di sé nella locandina del film.
Ma “Like Father, Like Son” è anche la bravura di un regista capace di far convivere la vicenda collettiva, quella che
coinvolge ogni membro della famiglia, con un’altra, più intima e personale che appartiene a Ryota, chiamato a fare
i conti con i traumi di un’infanzia solitaria e sofferta, rivissuta nelle vicissitudini dei due bambini, smarriti in una
vicenda che rischia, come successe a lui, di allontanarli per sempre da coloro che amano. Koreeda filma in punta
di piedi, riuscendo a mantenersi in bilico tra lirismo emotivo e gusto della rappresentazione. Del suo film stupisce
la presenza di uno sguardo intimo sulle vite dei personaggi e allo stesso tempo il pudore con cui il regista le ha restituite sullo schermo.
Tenero e commovente, “Like Father, Like Son” è una pellicola di intensa umanità. È un gesto di pace e di poesia.
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UN MATRIMONIO
Trama
Dino Corelli e Meringa Brenner si stanno per sposare. Il ricevimento è organizzato senza
badare a spese, ma viene disertato dagli esponenti della società bene; la giornata si consuma
in una girandola di ipocrisie, meschinità e segreti, terminando con una tragedia venata di
ridicolo. La cattiveria proverbiale di Robert Altman colpisce qui l’upper class americana
del MidWest.
Recensione
Fonte: www.orizzonticinefili.it
Due ricche famiglie del midwest si ritrovano in una sfarzosa villa sulle sponde
del lago Michigan per i festeggiamenti nuziali di Dino Corelli e “Meringa”
Brenner. Entrambe le famiglie appartengono a quella orda di americani arrichiti, volgari, tipicamente tronfi ed infine un po’ patetici. L’improvvisa
morte della nonna Nettie, da tenere nascosta agli invitati fino alla fine della
festa nuziale, darà origine a un grottesco circo di ipocrisie, meschinità e figuracce in cui ciascuno dei presenti saprà mostrare i suoi tanti vizi e i suoi
pochi pregi. Cinica black-comedy di Altman sotto forma di spietata satira
sociale, affonda con beffarda impudenza, il malcostume, l’arroganza e la
sconcezza di alcuni ceti della collettività statunitense. L’autore usa tutta la
sua proverbiale perfidia per tratteggiare questo caleidoscopio antropologico,
affresco al vetriolo di un’America becera e triviale, arricchitasi oltre misura
(e oltre i propri meriti) grazie alla rapace furbizia. Il grande cast corale è compost da oltre 40 personaggi ,esasperando il modello dei suoi capolavori Nashville e Mash, mettendo in scena la strepitosa maestria
del regista nel sapersi muovere con
leggerezza in
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Produzione Usa, 1978
Genere Commedia
Durata 120’
Regia Robert Altman
Interpreti Vittorio Gassman, Geraldine Chaplin, Mia Farrow, Carol
Burnett, Denis Arnaz Jr.,
Sceneggiatura Robert Altman,
John Considine, Patricia Resnick,
Allan Nichols
Fotografia Charles Rosher Jr.
Montaggio Tony Lombardo
Scenografia Dennis J. Parrish
Colonna sonora John Hotchkins
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un turbinio di storie e di situazioni, dando vita a geniali momenti
tragicomici. Altman non fa sconti e maltratta tutti i personaggi, scavando all’interno del loro malessere interiore, il disagio esistenziale,
la profonda amoralità ed il conformismo ipocrita. Il racconto filmico ha una struttura circolare, immersiva e non lineare, filmando
i rapporti multipli e simultanei tra gli invitati alla festa, e ponendo
il pubblico al loro stesso livello come se fosse uno di loro. Questo
tipo di tecnica cinematografica è ispirata a quelle avanguardie teatrali
a cui Altman si è spesso rivolto nelle sue feroci commedie corali.
La veridicità sociologica dell’affresco, per alcuni troppo caotico, è,
sacrificata sull’altare dell’evidente distorsione caricaturale attuata
dall’autore, che amplifica i bersagli della sua critica per elevarli a
simboli archetipi. La demolizione canzonatoria dei modelli istituzionali sui quali disegna la società (famiglia, matrimonio, religione)
e l’enfatizzazione dell’eterno dualismo snobistico tra vecchi e nuovi
ricchi, fanno parte dell’irriverente stile altmaniano, che pone sempre
l’America contemporanea( dai settanta in poi) al centro dei sua caustica trattazione. La coesistenza di toni differenti in questo variopinto mélange di meschina umanità è palesata dal sottile senso di
morte che aleggia costantemente, fin dalle prime sequenze, su un
film molto divertente. Il finale derisorio e tragi-comico, è l’ultima
beffa di Robert Altman, il più cinico e intelligente tra i registi americani della sua generazione.
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LA FAMIGLIA
Trama
Nel film è raccontata la vita di Carlo e della sua famiglia , appartenente alla media borghesia romana, un affresco famigliare che inizia nel1906 e termina ottant’anni dopo, nel
1986, partendo da una foto di gruppo con nipotini all’altra. Il cambio delle delle generazioni, battesimi, nozze, lutti, litigi, conflitti, pranzi, compromessi. Nell’itinerario di
Scola, che l’ha scritto con Fulvio Scarpelli e Ruggero Maccari, appare come un punto
d’arrivo, un compendio: è un film sul tempo che passa e cambia le persone, levigando conflitti, sentimenti, passioni come i sassi di mare. Un film di attori, una bella prova di professionismo e maestria narrativa, di sintesi all’insegna dell’armonia, fondato su uno
sguardo disincantato e saggio di chi, raggiunta la maturità, ha saputo migliorare e chiarificare il vino della giovinezza.
Recensione
Fonte: Filmtv.it
Il professor Carlo è l’ultimo patriarca di una famiglia appartenente alla media
borghesia romana.
Gli ottant’anni della sua esistenza sono attraversati dalle altre figure familiari
che popolano l’appartamento: il padre Aristide, funzionario pubblico e mancato pittore; la madre, la padrona di casa amante della lirica; Giulio il fratello
più sensibile, che sposerà anni avanti la fedele domestica Adelina
e metterà in fila fallimenti su fallimenti; le
tre zie zitelle, Margherita, Luisa e Millina, litigiose
ma
profondamente legate; lo zio Nicola, ex
segretario comunale
di Macerata durante
il Ventennio; il cugino Enrico, esule in
Spagna che sposa
una donna francese;
il figlio Paolino, insicuro e “che non
dà
preoccupazioni”; la figlia
Maddalena, “che
fa carriera in camera da letto”,
che lascia il primo
compagno Armando, sindacalista, con
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Produzione Italia, Francia, 1987
Genere Drammatico
Durata 137’
Regia Ettore Scola
Interpreti Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli, Fanny Ardant, Massimo Dapporto, Carlo Dapporto,
Philip Noiret, Athina Cenci,Andrea
Occhipinti, Cecilia Dazzi, Sergio Castellitto, Ottavia Piccolo,
Sceneggiatura Ettore Scola, Ruggero Maccari, Furio Scarpelli, Graziano Diana
Fotografia Riccardo Aronovich
Montaggio Francesco Malvestito,
Ettore Scola
Scenografia Cinzia Lo Fazio, Luciano Ricceri
Colonna sonora Armando Trovajoli
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cui ha concepito Carletto, che soffre per la
separazione dei genitori. E le due donne, incidentalmente sorelle, che segnano la vita del
protagonista: la rassicurante moglie Beatrice
e il volitivo primo amore Adriana, che ama
da sempre.
Scandito in nove atti compresi fra il 1906 e il
1986, introdotti dal carrello lungo il corridoio, che resterà immutato negli anni fino
alle sequenze finali, è un film fiume che narra
il secolo breve italiano grazie alle vicende di
una famiglia. La macchina da presa si muove
fra gli eleganti vani dell’appartamento e non
ne esce mai per l’intera durata del lungometraggio, si lascia solo suggestionare per qualche secondo dal libraio ambulante lungo la
strada, dal balcone del palazzo di fronte in
cui s’è trasferito un abitante della casa due o
tre volte dalle scale del pianerottolo per immolare l’amore perduto all’infelicità (i temporali che accompagnano gli addii di Carlo e
Adriana). Gli spazi non sono grandi, talvolta
la macchina da presa pare quasi un personaggio fuori posto in una stanza troppo piccola (i pranzi con gli ospiti, la festa da ballo)
o un’intrusa nell’intimità del silenzio (la parte finale), ma l’ambizioso obiettivo è proprio quello della storia ambientata in un’unità di spazio, che non si abbandona alla facilità del mettere in scena fuori ciò che si racconta dietro.
Questo è un film di parola, probabilmente il più cechoviano del percorso di Ettore Scola. I suoi personaggi sono,
ognuno a suo modo, più insoddisfatti che mediocri, riflettono sulla propria contemporaneità in una dimensione a
tratti a-temporale pur imponendosi come espressioni del proprio tempo. Sono delle funzioni, veicolate da attori
che spesso si avvicendano nei passaggi generazionali attraverso espediente artigianali e poetici al contempo, come
a voler sottolineare lo scatto di maturità o la stabilità immatura (Beatrice nello specchietto, Adriana nei racconti
parigini, Carlo nella correzione dei compiti, Giulio che ha
sempre la stessa voce anche da anziano).
Rispetto alle precedenti esperienze di Scola, come C’eravamo tanto amati , Una giornata particolare (unità di spazio e tempo) e La terrazza (struttura episodica, unità di
luogo ma apertura alle esperienze esterni all’unità dei protagonisti), La famiglia è un punto d’approdo e una sintesi
di forma e contenuto. Si fonda su una sceneggiatura elegante e perfetta di Scola, Furio Scarpelli e Ruggero Maccari, che non scandaglia le banalità della vita familiare, ma
calibra con sapienza i tanti personaggi che abitano la storia
come in una sorta di ritratto in movimento in cui ognuno
è alla continua ricerca del proprio posto nel mondo. Il loro
mondo è la casa: solo nella stagione crepuscolare i personaggi si scelgono un punto domestico che li rappresenta
appieno, dal tavolo coi colori di Aristide alle camere da
letto in cui Susanna e le zie leggono i libretti d’opera ed
ascoltano la radio, fino a Giulio che, pur essendo il grande
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fallito, riesce ad uscire dalla casa. Solo Carlo, nella
vecchiaia, si scoprirà indefesso: pittura, rilega
libri, cucina, stira, legge, mentre nell’arco del film
è sempre stato pigramente statico.
La fotografia interna e privata di Riccardo Aronovich colora il film d’una intimistica malinconia.
I soavi e struggenti valzer di Armando Trovajoli
regalano grazia ed eleganza. Gabriella Pescucci
veste i personaggi con un’attenzione mai leziosa.
La scenografia di Luciano Ricceri riesce a cogliere il segno dei tempi mediante cimeli e suppellettili. Il montaggio di Francesco Malvestito
conferisce il giusto ritmo a un film da camera ì.
Come tutto il cinema di Scola, anche questo film
è un’opera d’attori collettiva, nella quale gli interpreti hanno, naturalmente, un ruolo fondamentale. Vittorio Gassman, ultimo patriarca della
famiglia senza nome, è memorabile per sobrietà,
potenza e fragilità. Stefania Sandrelli si emancipa
dall’erotismo degli anni ottanta e trasmette candore e serenità. Fanny Ardant, il terzo membro
del triangolo, si porta dietro suggestioni truffautiane di quel periodo.
Recensione
Fonte: Sentieri selvaggi
Se c’è una cosa che colpisce nel film di Scola è l’abilità del regista nel raccontare la Storia pur lasciandola fuori la
porta di casa; ed è la casa l’autentica protagonista, una casa che vede l’avvicendarsi delle generazioni nell’arco di 80
anni (1906-1986) raccontate in nove flashback di un decennio ciascuno. La struttura circolare (il film si apre e si
chiude con una foto ricordo della famiglia al completo) serve a far da collante ai ricordi di Carlo (Gassman) -ultimo
patriarca della famiglia- intellettuale antifascista e docente universitario che sposa la tranquilla Beatrice (Sandrelli)
ma rimane innamorato per tutta la vita della sorella
di lei, la pianista Adriana (Ardant).
Le contraddizioni e le tensioni morali che si trovava ad attraversare il
nostro paese sono quindi filtrate attraverso le vicende quotidiane di individui attanagliati da sensi di colpa
e debolezze, e il rapporto fra Carlo
e Adriana è emblematico in questo
senso, rappresentando tutto
quello che avrebbe potuto essere
e non è stato; l’incomunicabilità e
il pregiudizio sono alla base
anche del rapporto fra Carlo e il
fratello Giulio, come testimonia
l’episodio del manoscritto ritrovato, dove il primo confessa al secondo di non averlo
letto quando gli era stato presentato trenta anni prima, dando per scontate una
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serie di cose dedotte esclusivamente dalla conoscenza dell’autore, che aveva evidentemente sottovalutato per tutto
quel tempo.
Un’analisi impietosa dell’istituzione familiare, pur levigata da un manierismo che qualcuno ha trovato antitetico rispetto al tema trattato, e viziata da uno sguardo vetero-conservatore che sembra rimpiangere la logica patriarcale
che fu il perno sociale sul quale molte generazioni hanno costruito la propria identità familiare. Anche la morte sembra essere lasciata fuori la porta e in questo album di ricordi gli eventi luttuosi vengono evocati
solo tramite i discorsi di chi resta o simbolismi vari (come il quadro dipinto a nascondere il volto del nonno deceduto, o il ritratto incompiuto della madre di Carlo che testimonia la scomparsa del padre).
Lunghe carrellate e piani sequenza scandiscono lo scorrere del tempo, un tempo che però, aldilà di corsi e ricorsi
storici, sembra ripetersi perennemente uguale a se stesso all’interno delle mura domestiche; se Ballando Ballando
analizzava i mutamenti soprattutto nell’ambito del macrocosmo sociale nel corso di 50 anni di storia francese, qui
il ripiegamento nel privato costringe Scola a fare i conti con qualcosa di più intimo e personale e che proprio per
questo paradossalmente (o forse no) rende il film più universale e coinvolgente rispetto al precedente.
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INDICE
Introduzione..................................................................................................3
I film................................................................................................................5
I pugni in tasca.................................................................................6
I Tenenbaum.....................................................................................9
Father and Son...............................................................................12
Un matrimonio...............................................................................15
La famiglia.......................................................................................17
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