Pier Giorgio Frassati

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Pier Giorgio Frassati
Pier Giorgio Frassati
biografia a cura di Elisabetta Abelardi*
“Parlare di lui m’è impossibile”, scrive Montini sette anni dopo la morte del Beato Pier Giorgio
Frassati.
Teniamo viva la sua memoria grazie alle testimonianze di chi lo ha conosciuto e ce lo ha
raccontato, grazie alla lettura dei suoi innumerevoli (in proporzione alla breve vita vissuta)
scritti, ed ai tanti libri a lui dedicati, soprattutto dall’amata sorella Luciana Frassati.
La sua santità è diversa da quella di tutti gli altri: più semplice, laica, più “straordinariamente
ordinaria” e per questo eccezionale. È una santità attiva, non chiusa nei corridoi curiali, ma
capace di espandere il suo raggio di luce nella società, nella scuola, nell’università, nel lavoro,
nella politica, fino alle “periferie del mondo”: quelle dei più poveri, dei sofferenti, dei disagiati.
Pier Giorgio Frassati nasce a Torino il 6 aprile del 1901 da una ricca famiglia borghese.
Suo padre, Alfredo Frassati, agnostico, era il fondatore, proprietario e direttore del quotidiano
“La Stampa”, amico di Giolitti, senatore del Regno ed ambasciatore d’Italia in Germania. La
madre, Adelaide Ametis, era un’appassionata pittrice.
I Frassati erano allora una delle tre o quattro famiglie che contavano in quella Torino che si
andava trasformando in metropoli ricca di industrie e soggetta a massicce immigrazioni operaie.
Terminati gli studi elementari in casa, Pier Giorgio frequentò assieme alla sorella Luciana, la
scuola pubblica “Massimo D’Azeglio”. Passò poi all’Istituto Sociale retto dai padri Gesuiti; si
iscrisse alla Congregazione Mariana, all’Apostolato della Preghiera e iniziò fin da bambino la
pratica della Comunione quotidiana che mantenne per tutta la vita.
L’Eucarestia e la Vergine Maria divennero i due poli della sua devozione.
Spesso arrivava a piedi al Santuario mariano di Oropa; dopo un'ora di marcia e completamente
digiuno, era solito assistere alla Santa Messa, poi faceva la Comunione, quindi si raccoglieva in
preghiera nel transetto di destra, davanti all'immagine della Vergine Bruna. Nel ritorno verso
casa recitava il Rosario lungo la via, ad alta voce, cantando le Litanie. Pier Giorgio amava anche
comporre dei rosari con i semi scuri di una pianta di Pollone, che poi regalava agli amici. Era
questo un modo per ricordare loro l'impegno della preghiera e la devozione verso la Vergine,
che per lui era irrinunciabile.
"Sei un bigotto?" - gli chiese un giorno qualcuno – “No, rispose Pier Giorgio restituendo il
colpo con bontà, ma con altrettanta fermezza, no, io sono ‘rimasto’ cristiano!"
A diciassette anni si iscrisse alla Confraternita del Rosario di Pollone ed a Torino diventò socio
delle Conferenze di San Vincenzo, dedicando la maggior parte del suo tempo libero ai poveri,
agli ammalati, agli orfani, ai reduci.
Pier Giorgio, che non voleva i soldi di suo padre, aveva dichiarato pubblicamente che la sua
eredità l'avrebbe divisa tutta con i poveri.
Nel 1918 si iscrisse a Ingegneria industriale mineraria al Politecnico di Torino. “Sarò ingegnere
minerario – diceva ad un amico – per poter ancor più servire Cristo tra i minatori”.
Avrebbe potuto allietare la sua giovinezza con ricevimenti e feste da ballo, divenire “campione
di mondanità”, ma - scrive Giuseppe Lazzati - “preferiva trascinare per le vie di Torino carretti
pieni di masserizie dei poveri in cerca di casa, e passare sudato sotto il carico di grossi pacchi
anche male confezionati, ed entrare nelle case più squallide dove spesso miseria e vizio si danno
la mano, sotto gli occhi ipocritamente scandalizzati di un mondo che nulla fa per aiutarli ad
uscirne; e farsi, con sorprendente umiltà, lui, il figlio dell’ambasciatore d’Italia a Berlino, il figlio
del senatore, questuante per i suoi poveri, e per essi ridursi al verde così da rincasare fuori
orario per non avere neppure i pochi centesimi per il tram..”.
Si recava dai meno abbienti generalmente al mattino, prima delle lezioni all'Università, oppure
nelle uscite serali, sempre carico di pacchi.
La Carità fu dunque al centro di tutta la vita di Pier Giorgio. Essa non consisteva nel dare
qualcosa agli altri, ai soli, ai bisognosi, agli ammalati, agli amici, ma nel dare tutto se stesso.
La sua meta preferita era il Cottolengo. Passava tra le corsie, con carità vigile e sicura; al dì là di
ogni repulsione umana e paura di contagio, baciava tutti come fossero i suoi più cari amici.
“Gesù mi fa visita ogni mattina nella Comunione, io la restituisco nel misero modo che posso,
visitando i poveri”, scriveva.
Scrive ancora Lazzati: “i poveri ed i sofferenti di ogni miseria naturale e morale erano i suoi
prediletti, anzi erano addirittura i suoi padroni ed egli faceva per loro letteralmente il servo, col
fare di chi è persuaso di godere di un privilegio; i poveri li considerava i suoi superiori, nelle
loro sofferenze onorava la passione di Cristo: perciò gli volevano bene, lo aspettavano, lo
desideravano”.
In molti raccontano di averlo visto più volte tornare a casa senza scarpe per averle date ai
poveri, era famoso e preso in giro in famiglia per essere sempre al verde, e tutti sapevano che
l’essere sempre senza soldi era una conseguenza della sua ardente carità.
Questa carità era nutrita dalla Comunione quotidiana, dal rosario che portava sempre in tasca,
dalle adorazioni notturne e dalle epistole di San Paolo.
Il suo primo dovere era lo studio, ne era ben consapevole, ma ciò non gli impediva di svolgere,
unitamente alla Carità, attività politica e sociale. Pier Giorgio aveva ben compreso la necessità
che la fede si confrontasse con tutto l’arco dell’esperienza umana e "operasse caritatevolmente"
in ogni ambito: negli ambienti dell’università, del lavoro, della stampa (Pier Giorgio raccoglieva
abbonamenti non per il quotidiano di suo padre, ma per quello cattolico), dell’impegno politico
e partitico, e dovunque era necessario difendere le libertà sociali, cercando sempre di concepire
e fomentare l’associazionismo, come "amicizia cristiana" destinata alla nascita di un
cattolicesimo sociale.
Si iscrisse, perciò, al circolo “Cesare Balbo” di Torino della FUCI e militò anche nella Gioventù
Cattolica, il cui distintivo portava sempre all’occhiello.
Decise, con alcuni amici, di prendere in mano il circolo fucino torinese, all’epoca un po’ spento;
in un volantino di auto-propaganda, si proposero come responsabili. “Studenti! Volete
svecchiare e rinsanguare il circolo? Volete che esso viva di vita sua e cristianamente audace al di
sopra di ogni rancidume quarantottesco e codino? Affidatene le sorti ai seguenti colleghi:
Borghesio, Oliviero, (...) Frassati”.
Scese anche sul terreno politico: in contrasto con le idee liberali del padre, nel 1920 si iscrisse al
Partito Popolare Italiano, appena fondato da Don Sturzo. “La Carità non basta, ci vogliono le
riforme sociali”, diceva impegnandosi in tutte e due.
Nello stesso anno seguì il padre a Berlino. Qui frequentò circoli di cui facevano parte operai e
studenti. Questa esperienza lo entusiasmò così tanto da volerla portare avanti e riproporre di
ritorno in Italia. Nel 1921 a Ravenna, al I Congresso della Pax Romana e X Congresso della
FUCI, propose e difese la tesi dello scioglimento della FUCI per farla confluire in una più
ampia realtà di “gioventù cattolica” che mettesse assieme intellettuali, lavoratori, studenti e
gente semplice. Trovò opposizione nell’assistente ecclesiastico della FUCI, ma non si diede per
inteso.
Fin dagli inizi del 1920 quando cominciarono le agitazioni operaie, accompagnava come guardia
del corpo, nei sobborghi rossi di Torino, un frate domenicano che andava a parlare ai giovani
operai, "tra bolscevichi urlanti e minacciosi", e non di rado, per difenderlo, si finiva per venire
alle mani.
Come suo padre, dal suo nascere riconobbe il vero volto del fascismo e gli si oppose, come
prima si era opposto alle sopraffazioni dei rossi. Fu fortemente deluso dall’ingresso dei popolari
nel governo fascista e la sua opposizione fu così determinata che la sua stessa casa fu presa di
mira dalle squadre fasciste.
Una domenica, mentre pranzava solo con la madre, una squadra fece irruzione in casa, munita
di sfollagente a palle di piombo rivestite di cuoio, e cominciò a fracassare le specchiere e i
mobili che capitavano a tiro. Pier Giorgio riuscì a strappare ad uno lo sfollagente e a metterli in
fuga. La notizia dell’episodio venne riportata perfino dalla stampa estera.
In un’altra occasione a chi lo aggrediva gridò: “La vostra violenza non può superare la forza
della nostra fede, perché Cristo non muore”.
Nel 1921, nei noti fatti di Roma, durante una manifestazione della Gioventù Cattolica, difese
con coraggio la bandiera del suo circolo fucino dall’assalto delle Guardie Regie: piegata e
spezzata l’asta del vessillo, Pier Giorgio tenne alta con le due mani e sventolò inflessibile la
bandiera del suo circolo “Cesare Balbo”. All’improvviso sbucarono dal portone di Palazzo
Altieri circa duecento guardie regie: mentre Pier Giorgio era alle prese con due guardie che
tentavano di strappargli la bandiera, un sacerdote veniva scaraventato a terra con l’abito talare
strappato ed una guancia insanguinata: alle grida di protesta, seguì un devoto inginocchiamento
a terra nel cortile quando il prete lacero alzò il rosario e disse: “ragazzi, per noi e per quelli che
ci hanno percosso, preghiamo!”. È un episodio dove emerse senz’altro la profondità e la
fortezza d’animo di Pier Giorgio, ben diversa dalla spavalderia e dalla “facile esuberanza
d’incomposte passioni”; si tratta dell’espressione di sentimenti nobili e generosi, derivati dalla
ragione, fedeli e coerenti all’idea, militanti per cose buone e giuste.
La rivista Civiltà Cattolica, in quel tempo in cui si usava chiamare le cose col loro nome,
raccontando i fatti, li spiegò così: "La setta, inviperita da così inattesa dimostrazione di fede, ne
volle un primo ricatto". E ancora: "Il fatto, dovuto a mene torbide di setta e di partito...". E
definisce le cronache distorte che allora ne diedero il Giornale d’Italia e il Resto del Carlino
come opera di "certi giornalisti più abbietti e più settari".
Il giorno seguente al fatto i giovani cattolici dovevano recarsi a San Pietro e Pier Giorgio, con i
suoi, riattraversò la città portando con fare trionfale i mozziconi di bandiera spezzata e
strappata a cui aveva appeso un grande cartello con la scritta: "tricolore sfregiato per ordine del
Governo".
Di questo fatto se ne parlò in tutta Italia; alle lodi Pier Giorgio reagiva con diffidenza perché
non riusciva a concepire, per un giovane cattolico, un comportamento diverso da quello che egli
stesso aveva tenuto.
L’anno seguente venne varata la legge che proibiva l’insegnamento religioso nelle scuole,
proprio mentre a livello associativo cattolico ci si lamentava della "deplorevole
disorganizzazione" degli studenti. A Torino Pier Giorgio scrisse una lettera ai soci del circolo
"Milites Mariae", cui egli apparteneva come delegato degli studenti. Scrisse:“I nostri giovani
hanno bisogno di una speciale istruzione adatta alle loro forze e di una solida base apologetica
per far fronte ai continui pericoli, ai quali sono esposti frequentando le scuole pubbliche
purtroppo molto corrotte (...). Noi che per grazia di Dio siamo cattolici non dobbiamo sciupare
le nostre vite (...). Noi dobbiamo temprarci per essere pronti a sostenere le lotte che dovremo
certamente combattere per il compimento del nostro programma”.
Sul finire di quello stesso anno la FUCI espose nella sua bacheca al Politecnico l’avviso per una
adorazione Eucaristica notturna per gli studenti universitari. Evidentemente l’invito non si
intonava ai mille inviti multicolori che, nelle altre bacheche, parlavano di feste, veglioni e danze,
e così gli anticlericali decisero democraticamente di andare a strapparlo, e la voce si sparse.
Racconta un amico: “Ricordo Pier Giorgio, ritto davanti alla bacheca con un bastone in mano, e
attorno una canea urlante ai cento studenti. Insulti, minacce, percosse non valsero a smuoverlo.
Il numero ebbe però il sopravvento. La bacheca andò in pezzi e l’avviso fu bruciato”.
La distruzione delle bacheche e degli avvisi era divenuta un vizio, se ne incaricavano
puntualmente gli anticlericali del circolo Giordano Bruno. Più di un fucino, già allora, parlava
della necessità di mantenere buoni rapporti e di intavolare trattative. Frassati, invece, non
ammetteva mezzi termini: "Io farei a pugni. Abbiamo o no il diritto di difendere la nostra
bacheca, o soltanto loro hanno il diritto di romperla? Gli altri sostenevano che non era
comunque possibile star lì a far continuamente la guardia, ma Pier Giorgio era sbrigativo: "Io
dico che bisogna dare una lezione".
In un’altra occasione, per le feste pasquali, aveva fatto affiggere nel cortile dell’università un
avviso sacro. Allo stesso modo, lo strapparono. Pier Giorgio lo copiò a mano e lo rimise "con
progressione geometrica", fino a raggiungere il numero di 64 copie.
Fervente ammiratore degli accesi discorsi di Savonarola ed appassionato degli scritti di Santa
Caterina da Siena, il 28 maggio 1922, nella chiesa torinese di San Domenico, ricevette l'abito di
terziario domenicano col nome di Fra’ Girolamo.
Dinamico, volitivo, pieno di entusiasmo e di energia positiva, Pier Giorgio, come un ragazzo
d’oggi, amava i fiori, la pittura, la poesia e la musica; andava a teatro, all’opera, visitava musei,
conosceva a memoria interi brani di Dante. “Stonato come una campana, sbagliava tutte le
note, tranne una: la sua vita”[1]. Non si potrebbe parlare di Pier Giorgio, però, senza raccontare
della sua sconfinata passione per la montagna e l’alpinismo: “montagne, montagne, montagne,
io vi amo!”, è la sua semplice ‘dichiarazione d’amore’.
“Ogni giorno mi innamoro sempre più delle montagne - scriveva ad un amico - e vorrei, se i
miei studi me lo permettessero, passare intere giornate sui monti a contemplare in quell’aria
pura la Grandezza del Creatore”. Una contemplazione sempre arricchita dalla gioia per la
compagnia degli amici e intensificata dal desiderio di “scalare i monti, guadagnare le punte più
ardite; provare quella gioia che solo in montagna si ha”.
Era iscritto al CAI ed alla “Giovane Montagna”. Il 18 maggio1924, durante una gita al Pian
della Mussa, insieme con i suoi più cari amici fondò, con tanto di “Proclama”, la Compagnia o
Società dei Tipi Loschi; un’associazione caratterizzata da un sano spirito di amicizia e allegria.
Ma dietro le apparenze scherzose e goliardiche, la Compagnia dei Tipi Loschi nascondeva
l’aspirazione ad un’amicizia profonda, fondata sul vincolo della preghiera e della fede.
«Io vorrei che noi giurassimo un patto che non conosce confini terreni, né limiti temporali:
l’unione nella preghiera», scrisse Pier Giorgio ad uno dei suoi amici il 15 gennaio 1925.
Ed era proprio il vincolo della preghiera a legare i “lestofanti” e le “lestofantesse”, come
scherzosamente si denominavano tra di loro i membri di questa singolare Compagnia.
Oltre ad essere un’intuizione quasi profetica, ossia un progetto di amicizia cristiana vissuto a
trecentosessanta gradi, la fondazione della compagnia fu senza dubbio occasione di memorabili
gite in montagna, buffi proclami in stile rivoluzionario e fonte di simpatici soprannomi. Il tutto
in pieno stile fucino – si oserebbe dire.
Le escursioni in montagna che organizzava con “I tipi loschi” erano anche vere occasioni di
apostolato.
Proprio grazie alle sua passione per la montagna, ebbe modo di conoscere Laura Hidalgo, una
ragazza orfana e di modeste origini sociali: Pier Giorgio se ne innamorò, anche se non le
confessò mai il proprio sentimento (“per non turbarla”) a causa della netta opposizione
familiare e comprese, anzi, che una sua eventuale insistenza avrebbe provocato la definitiva
rottura del legame, già critico, tra i suoi genitori.
Pier Giorgio non volle cercare la sua felicità a prezzo della “salvezza” dei genitori: “Non posso
distruggere una famiglia” – diceva –“Per formarne un’altra. Mi sacrificherò io”.
Questa scelta fu per Pier Giorgio causa di sofferenza, ma lui seppe trovare il modo di
affrontarla, come scrisse all’amico Isidoro Bonini: “Nelle mie lotte interne mi sono spesse volte
domandato perché dovrei io essere triste? Dovrei soffrire, sopportare a malincuore questo
sacrificio? Ho forse io perso la Fede? No, grazie a Dio, la mia Fede è ancora abbastanza salda ed
allora rinforziamo, rinsaldiamo questa che è l’unica Gioia, di cui uno possa essere pago in
questo mondo. Ogni sacrificio vale solo per essa”.
Senza saperlo, nella sua breve vita, era già ad un passo dalla morte.
Il 30 giugno 1925, tornando dal suo solito giro di carità, Pier Giorgio cominciò ad accusare
emicrania e inappetenza. Non gli badò quasi nessuno: sembrava quasi impossibile che quel
fisico bello, sano, robusto e vigoroso, quale era quello di Pier Giorgio, si potesse indebolire e
precipitosamente spegnere così, da un momento all’altro.
A due mesi dalla laurea, la sua esuberante e giovane vita venne stroncata – in cinque giorni di
vero calvario – da una poliomelite fulminante contratta, molto probabilmente, nell’assistere i
malati.
Morì il 4 Luglio 1925 all’età di soli 24 anni.
Sulla sua scrivania, accanto ai testi universitari, erano aperti l’Ufficio della Madonna e la vita di
Santa Caterina da Siena.
I poveri sono stati la sua ultima preoccupazione: alla vigilia della sua morte si fece prendere da
sua sorella Luciana un pacchetto dalla tasca della sua giacca: con la mano già tormentata dalla
paralisi, scrisse ad un amico in un groviglio di lettere: “ecco le iniezioni di Converso. La polizza
è di Sappa. L’ho dimenticata, rinnovala a mio conto”. Le ultime energie per l’ultima Carità.
“Il mio testamento” – diceva mostrando la corona del Rosario –“lo porto sempre in tasca”.
I funerali che videro presente una folla di gente sconosciuta alla famiglia, rivelarono chi
veramente era Pier Giorgio.
Il processo di Beatificazione ebbe inizio nel 1932. Nel 1981, come ultima tappa del processo
apostolico, è stata aperta la sua tomba.
I testimoni dell’avvenimento sono rimasti colpiti dal sorriso ancora fissato sul volto, e
dall’aspetto non cambiato.
Nel 1981 Giovanni Paolo II, si è recato a Pollone per pregare sulla sua tomba “volevo rendere
omaggio ad un giovane che ha saputo testimoniare Cristo con singolare efficacia … anche io
nella mia giovinezza, ho sentito il benefico influsso del suo esempio e, da studente, sono
rimasto impressionato dalla forza della sua testimonianza cristiana.”
Il 20 maggio 1990 in piazza San Pietro, Papa Giovanni Paolo II, beatificò il giovane delle otto
beatitudini, il suo “alpinista tremendo”.
Ancora oggi, alla domanda: “ dobbiamo essere moderni o essere cristiani?” – scrive Papa Paolo
VI –, Pier Giorgio risponde con la sua vita: “è la sua, una prima, intuitiva risposta che risalta agli
occhi di chiunque osservi quella vita, sia egli fratello di fede o no. Egli è un forte”[2].
Di lui resta questa splendida confessione:
“Ogni giorno di più comprendo quale grazia sia l’essere cattolici. Vivere senza fede,
senza un patrimonio da difendere, senza sostenere in una lotta continua la Verità non è
vivere, ma vivacchiare... noi non dobbiamo mai vivacchiare, ma vivere, perché anche
attraverso ogni disillusione dobbiamo ricordarci che abbiamo una Fede da difendere,
una Speranza da raggiungere, la nostra Patria.”
*fucina del gruppo FUCI LUISS “Pier Giorgio Frassati”
[1]Omelia di mons. Edoardo Cerrato O.C., vescovo di Ivrea, 4 Luglio, Duomo di Torino.
[2] “Un forte”, Mons. Giovanni Battista Montini (futuro Papa Paolo VI).
Omelia alla Crocetta di Torino nel settimo anniversario della dipartita di Pier Giorgio.