Oriana, scendi dal piedistallo

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Oriana, scendi dal piedistallo
Oriana, scendi dal piedistallo - Massimo Fini
Sabato mattina, alle 11, a Fucecchio (Firenze), il paese del grande giornalista toscano, gli
daranno il «Premio Montanelli» alla carriera. E di carriera Massimo Fini, nato per sbaglio a
Cremeno (Lecco) da padre pisano e madre russa, ma milanese e giornalista da sempre, di
carriera, dicevamo, Fini ne ha fatta tanta.
E ne farà ancora, anche se una degenerazione oculare gli ha fatto dire più di una volta, anche
recentemente, «smetto». «Riesco a scrivere ma non a leggere e quindi a rileggere i miei pezzi:
una segretaria mi aiuta a farlo. Ma temo che lo stile ne risenta», ci dice nel salotto di casa sua,
da dove si vede il Bosco verticale e gli altri grattacieli che fanno più bella Milano. Intorno librerie
piene di volumi che rivelano, dalle costole, d'esser stati maneggiati tante volte, giornali, appunti,
alle pareti i manifesti di Cyrano, lo spettacolo teatrale che scrisse con il regista Eduardo Fiorillo,
in cui andava in scena tutto il suo appassionato bastiancontrarismo. «Doveva essere un
programma tv, ma Antonio Marano, allora direttore di RaiDue, lo dovette stoppare su input di
Silvio Berlusconi». Dell'unica puntata tv, registrata ma mai andata in onda, circola su YouTube,
uno spezzone di pochi minuti, con Loredana Bertè e Alda Merini.
Domanda. In questi giorni si è scritto molto sulla morte di Pier Paolo Pasolini, essendo passati
40 anni. Lei non ha mai creduto al complotto e l'ha scritto anche su
Il Fatto.
Risposta.
La tesi fu innescata da Oriana Fallaci, stando dal parrucchiere, sfogliando alcune riviste.
D. Prego?
R. Sì, andò così. Fu un'invenzione. Ora, tutti i grandi giornalisti si inventano un po' le cose.
Prenda Indro Montanelli, o quello che è stato il più grande di tutti, vale a dire Curzio Malaparte,
del quale Ettore Della Giovanna disse: «Sì, l'ha scritto Malaparte ed è diventato vero».
Forzavano, inventavano, perché sapevano che a volte il verosimile è più vero del vero. Ma
inventavano in funzione della verità.
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D. Perché la Fallaci, invece?
R. L'Oriana era abituata all'invenzione a puro titolo narcisistico e questa del complotto di
Pasolini nasce perché lei non poteva stare fuori da questa vicenda. Non poteva rimanerne
estranea.
D. Gli era amica, forse?
R. Sono andato un po' a rileggere, dalle cose postume, e sembra che fosse una grande amica
di Pasolini, quasi amante, se non fosse stato omosessuale. Ora, io che l'ho conosciuta nel suo
momento migliore, ossia quando la Fallaci stava con Alexandros Panagulis, non l'ho mai sentita
parlare di Pasolini né ho sentito Pasolini, che ho conosciuto, parlare di lei. Se vuole anche in
Messico, quando fu ferita, era stato un po' così.
D. La strage prima dei giochi olimpici del 1968, in cui rimase colpita? Ricostruisce quei fatti
nella prima parte di Niente e così sia, mi pare.
R. Sì, lei scrive, più o meno, «tre pallottole mi entrarono nel costato». Ora Gianfranco Moroldo,
che era il suo fotografo, mi disse che lei stava alla finestra a guardar giù, quando una bomba
carta fece andare in frantumi i vetri e probabilmente lei si prese delle schegge di vetro, non
proiettili.
D. In quel libro, parla soprattutto di Vietnam, racconta di scene di battaglia, con molto pathos.
R. A creare pathos è bravissima, l'Oriana perché ha questa scrittura bellissima...
D. Ne parla ancora al presente. C'è stata una certa familiarità?
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R. Sì, perché quando eravamo all'Europeo, dove ero il più giovane, lei mi chiese di darle una
mano a scrivere una sua autobiografia. Se non fossi stato appunto l'ultimo arrivato,
probabilmente avrei rifiutato.
D. Un libro che non uscì mai, però...
R. Infatti, era stato commissionato da una piccola casa editrice che si chiamava La Sorgente.
Lei non aveva tempo e chiese a me.
D. Quindi vi frequentaste?
R. Sì, era il suo periodo migliore, quando stava con Alekos. Ci vedemmo spesso a Milano, a
Firenze, a Greve in Chianti, nella casa di famiglia. Scrissi una settantina di cartelle, usando
sovente il suo splendido parlato. E lei se ne complimentò per lettera, più volte. Poi...
D. Poi?
R. Poi però si rese conto che quel lavoro parlava della sua vita e che me ne appropriassi io non
le piacque più. Me l'avesse detto, l'avrei capito senz'altro. Ma Oriana non era fatta così...
D. E cioè?
R. E cioè dovette inventarsi che ero una spia della Cia. Beh, non era l'ultima Oriana che
abbiamo conosciuto...
D. Allora era una donna di sinistra.
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R. Bah, nessuno l’aveva mai presa sul serio come donna di sinistra. Sta di fatto che la cosa si
interruppe. Ho ancora i nastri di quelle lunghe chiacchierate. La mia moglie d'allora, che ne
aveva trascritti molti, per la rabbia strappò tutti i fogli.
D. Che donna era la Fallaci, almeno nel periodo di frequentazione che ci fu?
R. Anche divertente. Quando passeggiavamo per Firenze, capitava che mi imponesse di
nasconderci in un androne o dietro una colonna.
D. E perché?
R. Perché riteneva d'essere seguita dalla Cia, convintissima.
D. E che cosa doveva temere?
R. Cercare razionalità in Oriana era molto difficile, c'era la vicenda di Panagulis, che era un
esule, ma lei era convinta di essere personalmente perseguitata. Io sorridevo di questa
megalomania, tra me e me, ritendendola innocente. Poi, nel tempo, ho pensato che tanto
innocente non fosse.
D. Una posa?
R. Sì, una delle sue tante pose. Devo anche dire che era un'istintiva ma non era da trame: se
avesse voluto farmi fuori, avrebbe potuto farlo benissimo. Era così, un'impulsiva e spesso ci
rimetteva. Ricordo una volta che rientrò dall'Iran portandosi dietro dei tappeti che finirono
bloccati in dogana.
D. E quindi?
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R. Quindi disse a una delle nostre segretarie di andare a sbloccarli. Non che fosse suo compito
ma lei era «la Fallaci». Sennonché la poverina tornò in redazione a mani vuote e l'Oriana la
prese a calci, tanto che dovettero intervenire un paio di colleghi.
D. Per una serie di dettagli così sul suo terribile carattere, che lei scrisse sul Giorno, la Fallaci
l'avrebbe querelata in seguito.
R. Sì, mi chiese tre miliardi di lire, che non erano pochi, e questo episodio dei tappeti non c'era
neppure. E comunque in tribunale vinsi io, portando tali e tanti testimoni, che il giudice dovette
darmi ragione.
D. Che cosa aveva scritto sul Giorno?
R. Di quella volta che, ad Atene, arrivò in albergo con una rosa regalatele da Golda Meir,
appena intervistata. Affidò questa rosa a una domestica ma purtroppo, il giorno dopo, il fiore era
appassito.
D. E quindi?
R. Quindi si precipitò dal direttore dell'albergo chiedendo il licenziamento immediato della
fantesca ma questi, per tutta risposta, le fece sistemare i bagagli in strada. Era un'istintiva ma
spesso ci rimetteva. A New York ne successe un'altra.
D. Ossia?
R. Il corrispondente dell'Europeo, Duilio Pallottelli, un gran signore. Ebbene, quando la Fallaci
sbarcava là, lui si metteva al suo servizio, ma lo faceva per plaisenterie, non perché fosse
obbligato. Solo che lei lo prese, evidentemente per servilismo, tanto che, un bel giorno, quando
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lui era stato a prenderla in aeroporto, all'ennesima richiesta di lei, Pallottelli inchioda la
macchina sulla Quinta strada, va dall'altra parte, apre la portiera, le intima di scendere, quindi
apre il bagagliaio, le scarica in due secondi le valige sul marciapiede e riparte. Non si sarebbero
mai più rivisti.
D. Un carattere difficile.
R. Una prepotente antropologica che, se avesse dedicato agli altri un milionesimo di attenzione
che pretendeva per se stessa... Però in quell'articolo che lei citava prima, per cui mi querelò, io
ne feci un ritratto a luci e ombre.
D. Quali erano le luci?
R. La giornalista senza dubbio. Anche se la Fallaci più grande, fu la prima, quando fece questi
ritratti di artisti e letterati. Bellissimo quello «In morte di Curzio Malaparte».
D. Non le grandi interviste?
R. No, quelle interviste sono solo lei che interpreta se stessa: c'era tutto dell'Oriana e un cazzo,
mi permetta, di Khomeini o di Gheddafi.
D. Con l'ayatollah ci fu qualche problema per l'abbigliamento, si ricorda?
R. Fossi stato la guida spirituale degli sciiti l'avrei fatta arrestare: il giornalista deve stare un
passo indietro non ergersi a protagonista.
D. Poi sono venuti i libri.
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R. Fu messa sulla cattiva strada da un consiglio di Malaparte, che le disse: «Orianina, il
giornalista deve scrivere libri». Ma intendeva reportage come i suoi: Kaputt, La Pelle, Tecnica
di un colpo di Stato
. Lei invece si mise a scrivere romanzi, col suo stile molto barocco: ora la Fallaci va bene in 10
cartelle, in 800 diventa impossibile.
D. Beh, Lettera a un bambino mai nato, ebbe un certo successo.
R. Per quel libro assistetti a una furiosa lite con la sorella Paola, a Greve, che le diceva che lei
di bambini non capiva un cazzo, non avendone avuti.
D. La Fallaci scrittrice non la convinceva.
R. No, non era fatta per i romanzi. Un uomo lo trovai deplorevole, Inshallah lasciò 300 mila
copie invendute: uno dei più grandi “bagni dell'editoria nazionale”.
D. Giudizi duri. Non mi pare però che lei ne parli con risentimento.
R. Infatti, non ne ho mai avuto verso di lei, malgrado quella lite finita in tribunale. Anzi, tre anni
fa, quando avevo una fidanzata fiorentina, volli andare al cimitero dove è sepolta Oriana a
deporre una rosa bianca sulla sua tomba. Perché con la Fallaci stiamo comunque parlando
della Champions League del giornalismo, se non proprio del Barcellona almeno del Borussia
Munchengladbach.
D. Ci siamo dilungati sulla Fallaci ma eravamo partiti da Pasolini. Quando lo conobbe?
R. Lo incontrai per la prima volta quando gli feci un'intervista sul fascismo dell'antifascismo per
l' Europeo.
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D. Che impressione le fece?
R. Andai a casa sua all'Eur, una dimora borghese, piena di centrini, di comodini, queste cose
qua. Lui, con questo volto scavato che pareva il Cristo di Grunewald, non aveva per nulla l'aria
«da checca», tutt'altro.
D. Per cosa la colpì?
R. Per un fatto: in genere l'intervistato stende le sue bellurie davanti a chi gli sta davanti.
D. E lui, invece?
R. Lui si interessava a chi gli stesse davanti. Poi accadde una cosa strana.
D. Vale a dire?
R. In questa grande terrazza, dove stavamo parlando, entrò la madre e lui cambiò
completamente, si infantilizzò di colpo, diventò tutto «pucci, pucci». E lì capivi la sua
omosessualità. Ricordo che arrivò anche Ninetto Davoli. Dopo l’intervista continuò, per un po', il
rapporto con Pasolini.
D. Vi frequentaste?
R. Certo. E una volta mi portò anche al Pigneto, quartiere romano che, allora era periferia
estrema e malfamata, e che oggi temo sia pure un po' trendy.
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D. Infatti.
R. E capii: uno che andava lì, con la sua Alfa Romeo, cercava il pericolo e, secondo me, anche
la morte. Era la sua zona d'ombra, che hanno avuto molti artisti, persino Marcel Proust. Pasolini
cercava la morte e anche l'Oriana, anni dopo, da quell'idea dissennata del complotto.
D. Eppure la comunità intellettuale italiana aderì all'istante a quella tesi.
R. Sì, un po' perché attribuire le nefandezze ai fascisti era lo sport nazionale, un po' perché non
accettava, in realtà, questo lato oscuro di Pasolini.
D. Dunque fu una scelta pruriginosa, non si ammetteva che Pasolini, nottetempo, andasse
all'Idroscalo.
R. Eppure tutti lo sapevano che con quei «ragazzi di vita», in cui vedeva un'Italia che resisteva
all'omologazione, come la chiamava lui, diventava sadico. E una notte successe per l'appunto
che un ragazzo di vita dicesse no e si ribellasse a una certa richiesta.
D. La tesi del complotto poi, all'epoca, era un'attitudine: basta ricordare la morte, pochi anni
prima, di Giangiacomo Feltrinelli ai piedi del traliccio di Segrate.
R. Un altro complotto.
D. A lei fu chiaro che il complotto su Pasolini non stesse in piedi?
R. Immediatamente. Trovai ipocrita l'atteggiamento della comunità intellettuale, da Umberto
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Eco ad Alberto Moravia. In quella comunità, Pasolini s'era intruppato per poter scrivere: era un
reazionario, non era affatto comunista.
D. Beh, certo aveva avuto il fratello Guido, partigiano, ammazzato dai garibaldini comunisti
nella malga di Porzus.
R. Esatto. Ma allora se non ti intruppavi non potevi esistere. L'unico che non lo fece fu
Giuseppe Berto.
D. Già ma l'autore de Il male oscuro fu anche combattente a Salò e finì nel carcere alleato di
Coltano (PI)...
R. Berto non si intruppò mai e fu messo al bando. E lui, per scandalizzarli ancora di più, comprò
persino un night club a Capo Vaticano a Vibo Valentia. Per inverare così tutto il suo disprezzo
per quella congrega.
D. Ma che giudizio dà di Pasolini?
R. Un grandissimo intellettuale, un grandissimo uomo di cultura ma, come direbbe il grande
cronista tennistico Rino Tommasi, «nel mio personale cartellino» i suoi libri e i suo film non ci
sono.
D. Nemmeno Il Vangelo secondo Matteo?
R. No, sulla sua capacità di provocare, in modo intelligente, aprendo squarci, non ho dubbi.
D. L'invettiva dalle colonne del Corriere.
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R. Assolutamente. Lì era all'altezza delle sue provocazioni.
D. Quelle invettive contro il potere, come quella sulla Dc, «io lo so, ma non ho le prove», sono
state l'architrave delle teorie complottiste...
R. Il potere se ne strafregava. E se ne strafrega bellamente ancora, a meno che tu non faccia
una denuncia precisa. Il Pasolini veramente scandaloso fu semmai quello che scrisse «darei la
Montedison per una lucciolata».
D. Il famoso articolo sulle lucciole che erano sparite.
R. Splendidamente reazionario in questo: rimpiangeva un mondo che stava sparendo. Così
come l'interesse per il sottoproletariato che, ai suoi occhi, aveva conservato una qualche
verginità ma, nello stesso tempo e contraddittoriamente, aveva il bisogno notturno di umiliare
quei ragazzi che rappresentava nelle sue opere.
D. La zona d'ombra.
R. L'artista è fatto spesso di queste cose. E sono collegate. Sono le stesse zone d'ombra a
partorire la parte creativa.
D. Ma sul fatto che tutto il Pasolini, dalla critica ai libri al cinema, dovesse essere considerato
eccelso, lei trae una lezione, Fini? C'è sempre il desiderio del mainstream culturale, che
allora non si chiamava così, di ammantare un intellettuale di cose che non ci sono, e non
riconoscerlo per quello che è?
R. È così. Penso a un altro personaggio, che ho conosciuto molto più di striscio, come Federico
Fellini.
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D. Che successe, con lui?
R. Che, a un certo punto, la critica, invece di fare il suo mestiere, cominciò a scrivere che
qualsiasi cosa facesse era straordinaria. E invece c'erano cose che facevano pena. In questo
non si aiutava l'artista che si credeva autorizzato a tutto.
D. Per esempio?
R. Quando perde la collaborazione con Ennio Flaiano, straordinario genio che lo àncora alla
realtà, e dalla quale nacque quel capolavoro che fu La dolce vita, Fellini si attorcigliò al
proprio ombelico e vennero fuori film modesti. Non c'era bisogno di mettere un rinoceronte ne
La nave va
quando aveva già fatto vedere un dugongo ne
La dolce vita
.
D. Una citazione continua di sé...
R. Una masturbazione. Mentre con Flaiano ci sono sei-sette film, straordinari, ma perché il
genio fantasmagorico di Fellini era ancorato alla realtà. Per stare sull'ombelico bisogna averlo
straordinario, come quello di Proust, ma anche un Ingmar Bergman che, peraltro, fece
tantissima gavetta. Oggi, invece...
D. Oggi, invece?
R. Come diceva Mino Maccari, parlando di letteratura, «basta che uno metta un punto e virgola
ben fatto che gli fanno scrivere sei libri».
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D. Dunque Fellini lo salviamo sino alla Anita Ekberg nella fontana di Trevi?
R. Sì, dopo, niente. Già non mi convinceva più in Otto e mezzo, di cui salvo la scena finale,
perché è vero che uno, alla fine della vita, vorrebbe avere intorno a sé le donne che ha amato.
Ma siamo alla fase decadente, non parliamo di
Amarcord
, con quel pavone diamantato o il Rex. Ma la critica non osava.
D. Il vizio italiano dell'adulazione. Oggi secondo lei accade con altri? Non so, Roberto Saviano?
R. Non posso parlarle seriamente di Saviano perché non ho letto nulla di suo, né visto il film
tratto da Gomorra. Istintivamente mi suscita questo sospetto che lei avanza.
D. E allora oggi in chi vede scattare quel meccanismo?
R. Come mi ha detto Daniele Luttazzi...
D. Luttazzi! Lo sente?
R. Certo l'unico che considero abbastanza vicino a me. È un chevalier seul. Diceva, parlando
della Rai, che non ci sono solo i partiti, ma anche conventicole e sotto-conventicole: o ne fai
parte o sei fuori. Per questo è l'unico che ha pagato per l'editto bulgaro di Berlusconi. Eppure,
l'ultima volta che l’ho visto, ad Assago, 13mila posti, ha fatto il tutto esaurito. Tredicimila
persone a teatro!
D. Oggi forse capita con chi?
R. Oggi i veri maître à penser sono i conduttori di talk.
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D. Che non la chiamano più.
R. Vabbé, ho detto che non potevo più scrivere, ma oggi gli intellettuali, usiamo questa orrenda
parola, non contano più. Contano loro o i cantanti. Oggi, non vai a sentire i Salvatore Veca, gli
Emanuele Severino, ma Jovanotti. Oggi non c'è più un'élite intellettuale, in questo Paese.
D. Senta, le danno il Premio Montanelli. Ma lei Indro lo conobbe? Gli ha un po' assomigliato?
R. Lui era la Champions League, io il Sassuolo. Poi lui un conservatore, io un reazionario, lui un
liberale io un antidemocratico. Ciò che ci unisce è un certo anarchismo e il fatto che entrambi
abbiamo pagato, ognuno al proprio livello, una certa indipendenza di giudizio. Se pensa alla
cacciata ignominiosa di Montanelli dal Corriere, ignominiosa per chi l'ha fatta, intendo...
D. Ossia il potente comitato di redazione di Raffaele Fiengo.
R. Col direttore Piero Ottone, certo. E poi ci fu anche l'agguato delle Brigate Rosse.
D. Per cui in qualche salotto milanese si brindò.
R. Per capire cosa fossero quei tempi, basta ricordare il titolo con cui il Corriere stesso dette la
notizia.
D. Già, non scrissero neppure il nome, ma che «un giornalista» era stato gambizzato.
R. Bisogna essere Ottone per fare queste cose. Era il clima dell'epoca: Eugenio Scalfari fece
scrivere su Repubblica un pezzo contro Maurizio Costanzo che aveva osato ospitare
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«Montanelli ‘il fascista’». Erano tutti fascisti, come quelli che avrebbero appunto ammazzato
Pasolini.
D. Fascisti ovunque.
R. Lavoravo al Giorno e ricordo che c'era un inviato, un certo Paolo Bonaiuti, che era più a
sinistra di Satanasso mentre io, per lui, ero un fascista. Poi un giorno, nel 1996,
Annabella
mi chiese di intervistare Berlusconi e me lo ritrovai all'ufficio stampa di Forza Italia. Così va il
mondo.
D. Ma quell'intervista si fece?
R. No. L'accordo era che io inviassi le domande e poi ci saremmo visti ad Arcore per una
quarantina di minuti, per un vis-à-vis.
D. Lei le mandò?
R. Certo. E Bonaiuti mi chiamò, perché le domande non piacevano. Gli obiettai che il Cavaliere
aveva tutto il tempo per preparare le risposte o farle preparare. Ma capii che non se ne sarebbe
fatto niente. E allora pensai di mandargli un biglietto.
D. Scrivendo cosa?
R. Che diceva testualmente così: « Egregio Cavaliere, io non le ho mai risparmiato critiche ma
le ho sempre riconosciuto il coraggio. Vederla scappare come una lepre impaurita davanti a tre
domandine scritte non mi sembra degno di lei».
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D. Rispose?
R. Dopo tre ore, suonò alla porta di questa casa un gigantesco valet gallonato che mi consegnò
un biglietto pieno di insulti. Però come dice Nietzsche, anche la lettera più villana è meglio del
silenzio. Che cosa gliene fregava di me a Berlusconi? Per il suo narcisismo, per voler piacere a
tutti, lui è attentissimo a chiunque. Mentre la cosiddetta sinistra ha la puzza sotto il naso e
ignora l'interlocutore. E questo è stato uno dei suoi grandi vantaggi, del Cavaliere, sui suoi
avversari.
D. Quando Berlusconi rastrellava giornalisti per Mediaset, non ebbe offerte anche lei?
R. Guglielmo Zucconi che era stato mio direttore al Giorno, che era andato a lavorare lì, me ne
parlò. «È come se tu facessi un'inchiesta», mi disse. Non era così. Sia lui sia Giorgio Bocca non
andarono affatto bene. Sono linguaggi differenti. Viceversa chi, come Costanzo dalla tv ha
provato a fare la carta stampata non ha funzionato.
D. Certo, il suo Occhio fu un fallimento.
R. E anche la Domenica del Corriere.
D. Fini della sua breve vita in Rai, abbiamo parlato prima...
R. Era la Rai di Flavio Cattaneo, allora direttore generale, che mi mise alla porta. La cosa
curiosa è che, un anno fa, Sabrina Ferilli, mi aveva scritto una mail affettuosa dicendomi: «Sono
quasi sempre d'accordo con le cose che lei scrive. Devo preoccuparmi?».
D. Le rispose?
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R. Sì, le risposi che doveva preoccuparsi e ne nacque uno scambio simpatico di mail.
D. Che cosa l'ha fatta arrabbiare poi, nella sua carriera?
R. Ciò che bruciano sono le emarginazioni, le obliterazioni continue. Le faccio un esempio?
D. Certo.
R. Qualche tempo fa, Beppe Grillo fece uno spettacolo al Teatro Smeraldo di Milano,
invitandomi, perché mi era grato perché lo avevo aiutato nel suo passaggio da attore a leader
politico.
D. E che accadde?
R. Che Grillo mi presentò, io mi alzai, ci fu una standing ovation. Poi toccò ad Adriano
Celentano.
D. Standing ovation anche per lui...
R. Sì, ma un po' meno, ma non è questo il punto.
D. E cioè?
R. Che il giorno dopo il Corriere, scrisse di tutti meno che di me.
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D. Spiacevole.
R. Abituale. Scrissi due righe a Ferruccio De Bortoli, con su scritto: «Gutta cavat lapidem».
D. La goccia scava la pietra. E De Bortoli?
R. Ferruccio è un uomo molto corretto, mi rispose dandomi ragione. Sono queste piccole cose
che, piano piano, ti emarginano. Meglio il fascismo che ti manda a Ventotene ma almeno ti
lascia l'orgoglio dell'antagonista.
D. Lo sente ancora De Bortoli?
R. Mah, io non frequento troppo i giornalisti.
D. Conduce una vita da misantropo?
R. Oggi direi di sì. È forse il prezzo che si paga: prima ti scansano i politici, poi nell'ambiente,
alla fine l'esclusione diventa esistenziale. Ma me la sono cercata: mi sono messo in una
posizione per cui giornali come il Corriere o La Stampa non avrebbero potuto assumermi. E
poi i bastian contrari come me non servivano più.
D. Erano serviti?
R. Massì, ne Il Giorno di Zucconi, giornale dell'Eni e quindi di Dc e Psi, quel gran marpione del
direttore teneva fermi due punti, Craxi e De Mita, ma poi lasciava a Pierluigi Magnaschi tutto il
resto. In questo modo ho potuto scrivere cose tremende contro la partitocrazia. E quando
qualcuno, dai due partiti, obiettava, Zucconi rispondeva «che ero un pazzo e che dovevano
guardare il resto». Marpionata che permise a Magnaschi, a me e ad altri di scrivere
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liberamente.
D. Voleva lasciare il giornalismo per la malattia, poi Marco Travaglio ha insistito.
R. Sì, è stato molto affettuoso. D'altra parte, ci conosciamo da tempo. Il suo primo libro
importante, Manuale del perfetto impunito, porta la mia prefazione. Lui, nonostante il
successo che ha, è il più importante giornalista italiano, ha un atteggiamento molto rispettoso.
Se gli propongo un pezzo, me lo pubblica immediatamente. Ho avuto più problemi quando
Il Fatto
era diretto da quel simpatico «democristianone» di Antonio Padellaro, ma non tanto per «Pad»,
quanto per i lettori, che sono un po' una chiesa, una conventicola, e ai quali ogni tanto mi
rivolgevo con tono di sfida: «Meditate, suorine di sinistra, meditate». E Padellaro mi pregò di
smettere.
Il Fatto
e
Il Gazzettino
, sono stati, negli ultimi tempi, una cosa importante per me.
D. Continua solo con Il Fatto.
R. Perché non ce la faccio davvero: sul Gazzettino mi occupavo di politica estera ma devi
seguire e farsi leggere le cose dalla segretaria è dura.
D. Anche Jorge Luis Borges era cieco...
R. (Ride) Ma lui era un grandissimo poeta, che traeva da se stesso la sua poesia. Io sono un
giornalista, un saggista, un pensatore se vogliamo.
D. Il Fini-pensiero antimodernista...
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R. Sì, ho scritto qualche libro che rimarrà ancora per un po'.
D. Il suo bellissimo Una vita, l'autobiografia uscita lo scorso anno per Marsilio, ha avuto grandi
recensioni.
R. In una, dissero che le vite erano state almeno tre: quella personale, quella giornalistica e una
terza, per così dire, bukowskoviana.
D. Nel senso di Charles Bukowski? Sarà per le molte donne che ha avuto, immagino.
R. Una leggenda metropolitana, semmai per l'alcol, il fumo e la depressione.
(Fini ride mentre gli pende dalle labbra una sigaretta senza filtro mai accesa).
Goffredo Pistelli
ItaliaOggi, 3 novembre 2015
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