generazioni - Dott. Fabio Rossi

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generazioni - Dott. Fabio Rossi
GENERAZIONI
Pubblicazione no profit e non sponsorizzata - Vietata la vendita
Ottobre 2014
INDICE
Premessa (M. Marianella)
Introduzione e analisi del contesto socio-territoriale (M. Paglino)
Parte I - Radici e Ali
1. La trama dell’intersoggettività alla base dell’attaccamento (M. Sulpizio)
2. I nuovi genitori (A. Calderone, D. Tomassi)
3. Genealogia del padre (A. Di Cesare)
4. Precursori della genitorialità (F. Rossi)
5. Un percorso per la comunicazione intrafamiliare (A. Calderone, D. Tomassi)
6. Laboratori ludico-espressivi in età prescolare (L. Signorelli)
7. Spazio familiare e fedeltà nascosta (M. Marianella)
Parte II - GenerAzioni
8. Incontri di educazione all’affettività in età scolare (L. Signorelli, V. Pesce)
9. Le ali di carta: sulle tracce di adolescenze possibili (A. Calderone, A.
Ciocca, M. Sacchetti)
10. Il pensiero del corpo e l’azione scenica (A. Calderone, E. Fazio)
11. Le emozioni bloccate (G. Della Cagna)
12. L’adolescente: con sé, con l’altro, con l’autorità (M. Cocciolone, F. D’Alessio, D. Tomassi)
13. Dalla terra al cielo: cronaca di sperimentazione del limite (L. Pasquinelli)
14. GenerAzione adolescente e pedagogia del rispetto (M. Marianella)
Appendici
a) Introduzione all’analisi dei dati (M. Paglino)
b) Correlazioni statistiche delle competenze genitoriali (F. Rossi)
c) Capacità relazionali e strategie di coping in un campione di studenti di
scuole medie nell’aquilano (F. Rossi)
Breve nota biografica degli autori
PREMESSA
M. Marianella
Gli studi che riscontrano la trasmissione del trauma a livello trigenerazionale, l’intensa ricerca epigenetica che aumenta la comprensione dell’importante meccanismo di
regolazione genica, con notevoli ricadute nel campo della salute, nonché i risultati degli
ultimi decenni di ricerche sul cervello, affiancate dalle ben consolidate teorie di psicologia
dello sviluppo, favoriscono nuove intuizioni sul processo di formazione della personalità,
permettendoci di costruire una mappa di valutazione delle risorse e debolezze psicobiologiche nello sviluppo dell’individuo, e parallelamente ci consentono di strutturare
strategie e metodi per raggiungere e sostenere la organizzazione delle matrici positive.
Il presupposto da cui nascono i progetti “GenerAzioni” e “Radici e Ali” è che il sistema familiare costituisce un co-fattore psicologico ineludibile della dipendenza patologica,
pur mantenendo come riferimento l’ormai necessario e indiscutibile modello eziologico
multifattoriale.
Dall’osservazione delle dinamiche generazionali di molte famiglie emerge la fragilità
del ruolo genitoriale alla base dell’instaurarsi e del cronicizzarsi di percorsi di dipendenza
patologica (dalla tossicodipendenza al gioco d’azzardo, dai DCA alle dipendenze affettive, dalla dipendenza verso internet allo shopping compulsivo). L’attuale panorama della
diffusione del fenomeno delle dipendenze patologiche e degli interventi di prevenzione richiede di rendere maggiormente incisiva l’azione educativa della famiglia a partire
dall’infanzia. Dal punto di vista educativo e preventivo, la questione della dipendenza
patologica presuppone lo sviluppo di fallimenti educativi della famiglia, in quanto culla e
matrice del processo di “separazione-individuazione” dell’individuo.
La fragilità del ruolo genitoriale non offre i giusti confini e riferimenti al bambino
che si trova spesso solo, nella condizione di dover decidere arbitrariamente cosa è giusto
e cosa è sbagliato. In merito a questo spazio di “solitudine” del bambino possiamo considerare alcune aree problema le cui dinamiche sembrano corrispondere a: un’educazione
alimentare confusa e solo apparentemente organizzata sui bisogni del bambino, spazi
gioco non strutturati o privi di accompagnamento, quindi rischiosi per le insufficienti
garanzie di accessibilità ai programmi (uso TV o uso indiscriminato di internet), carenza
nell’accesso ai sentimenti, come nell’elaborazione delle emozioni. In sintesi, una carenza
di funzione genitoriale, fin troppo evidente, che spesso apre le porte a comportamenti di
dipendenza patologica.
La dipendenza è una tematica che entra nel mondo familiare con i bisogni fisiologici
dell’accudimento, poi subisce trasformazioni durante il ciclo vitale dell’individuo, fino
alla sua naturale evoluzione verso l’autonomia, al compimento del processo adolescenziale.
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Purtroppo da svariato tempo abbiamo sotto gli occhi adolescenze interminabili o a
“porte girevoli” (Andreoli, 1995) che mancano di compiere il passo definitivo verso l’autonomia. Troppo spesso il permanere all’interno del nucleo familiare d’origine rischia di
rappresentare una trappola permanente e invalidante.
L’approccio trigenerazionale ha ridefinito come le modalità relazionali di un individuo adulto nella nuova famiglia nucleare possono essere comprese solo alla luce delle dinamiche affettive sperimentate nella propria famiglia d’origine (Bowen, 1978) e alla luce
di quella che è la “funzione generativa della famiglia” (Erikson, 1959), nelle sue esigenze
di appartenenza e separazione. L’esistenza di meccanismi legati alla trasmissione intergenerazionale lasciano irrisolte situazioni conflittuali o traumatiche tra una generazione e
l’altra, con conseguenze gravose sui rapporti attuali. Al di là delle differenti vicende storiche personali, sia nella linea paterna che in quella materna, del futuro tossicodipendente,
si sono evidenziati alcuni fattori nodali comuni, riassumibili nella presenza di esperienze oggettivamente traumatiche, non adeguatamente rielaborate, che hanno comportato
un’innaturale organizzazione della propria crescita e una minimizzazione degli aspetti
carenti nella propria famiglia d’origine.
Da queste e altre osservazioni, si evince il rischio di assolvere ad un ruolo genitoriale
sano nel momento in cui sono presenti o non sono stati elaborati i “conti aperti” con la
generazione precedente (Boszormenyi-Nagy, Spark, 1973). Il mancato riconoscimento di
tali “conti” incastrano i singoli in processi di dipendenza patologica, espressa in tutte le
sue forme, e sprofondano la famiglia nel fallimento educativo.
Una seconda causa su cui agire è relativa alla qualità dell’attaccamento e attitudine
disfunzionale. Binomio ampiamente confermato dal report dell’International Narcotics
Control Board che per il 2009, a proposito di prevenzione primaria, sottolinea in maniera esplicita e costante la necessità di realizzare interventi specifici per l’infanzia e le
famiglie, alla luce della forte correlazione tra la qualità del legame di attaccamento di cui
il bambino ha fatto esperienza e condotte problematiche.
In tal senso l’indicazione fornita è quella di estendere gli interventi di prevenzione,
al fine di ricomprendere i bambini in età prescolare ed i futuri genitori (interventi per
coppie in attesa), poiché le problematiche con origini precoci richiedono interventi della
stessa natura. Alcuni bambini possiedono tratti innati e abilità che fungono da fattori
protettivi, ma tutti i bambini possono trarre benefici dagli effetti positivi di un ambiente
familiare, sociale e scolastico sano. Favorire il riconoscimento e l’elaborazione dei pattern
relazionali familiari attivi nel rapporto educativo e affettivo, aiuta il bambino nella costruzione della capacità di svincolo e di autonomia.
La qualità delle relazioni familiari, a partire dal risanamento dei “conti intergenerazionali” e dall’armonizzazione dei ruoli all’interno di un contesto familiare, in cui ognuno
sa prendere il proprio posto, darà come risultato il riconoscimento della posizione genitoriale e una più autentica percezione della identità del bambino, aprendo la strada a
percorsi di crescita sani. Fare i genitori significa riuscire a gestire ed accettare le difficoltà
e le responsabilità insite nel rapporto di accudimento e dipendenza. Pertanto non si può
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essere genitori senza aver elaborato e digerito le dinamiche di dipendenza ontogenetiche,
scritte nella propria storia e nel proprio operato.
Il presupposto fondamentale dei presenti progetti è Riconoscere, Recuperare e Restituire i valori più profondi e più sani della relazione genitori-figli, attivando il ruolo
“protettivo” della famiglia. Occorre mettere i genitori in posizione di ascolto dei propri
figli per renderli consapevoli della qualità di relazione instaurata con il bambino sin dai
primi mesi di vita. Coinvolgerli nella responsabilità di guardare oltre i propri schemi e
renderli disponibili a superare il proprio punto di vista per garantire una dotazione affettiva - educativa ben organizzata, soprattutto in funzione della consapevolezza che questo
corredo accompagnerà il minore per l’intero percorso di crescita.
Principale finalità educativa dovrebbe essere quella di mettere in atto azioni a favore
delle risorse insite nel nucleo familiare, riconoscendo la famiglia come uno dei fattori
protettivi più efficaci per rinforzare nei bambini comportamenti e abitudini funzionali
allo sviluppo di un’identità sana. Il supporto ai genitori nel loro ruolo educativo, infatti, rappresenta una vera e propria strategia di prevenzione nei confronti di relazioni
disfunzionali, comportamenti a rischio di dipendenza patologica nei futuri adolescenti.
Pertanto il lavoro con la famiglia, culla della crescita del bambino, diventa indispensabile
per specificare l’incidenza di fattori di rischio sui successivi comportamenti di dipendenza
patologica.
Intervenire nel sistema familiare potrebbe generare un’autentica trasformazione degli
equilibri sistemici di condivisione in seno alla famiglia, perché quest’ultima possa finalmente compiere un salto di consapevolezza da “famiglia che ammala a famiglia che guarisce”. Molti autori e terapeuti sistemici, concordano sul concetto di famiglia autoterapeutica, in quanto attribuiscono al sistema familiare delle capacità autocorrettive. Pertanto
ribadiscono che è un grave danno osservare un bambino al di fuori dalle connessioni
affettive e relazionali stabilite con la sua famiglia.
Bisognerebbe abituarsi a inquadrare il problema in una cornice ecologica positiva,
esattamente come fanno i bambini che mostrano un senso di giustizia sistemica fantastico, perché anche di fronte al peggior genitore sanno trovare delle dimensioni costruttive.
Il bambino adotta il principio di non esclusione ed è per questo, dice Maurizio Andolfi,
che può essere paragonato ad un pensatore sistemico autodidatta, capace di movimenti
esperti all’interno del triangolo genitori-figlio. Invece noi adulti siamo abituati a parlare
del bambino e non “con” il bambino. Sembra quasi che ascoltare i bambini sia considerata una forma di marginalità culturale, quasi fossero minoranze etniche. Spesso, con la
scusa di proteggere il bambino gli si chiude la bocca perché quando il bambino parla è
scomodo. Oggi ad esempio i figli non vengono più picchiati, ma subiscono una serie di
soprusi affettivi, secondo una precisa logica di ipocrisia sociale.
L’abuso affettivo si genera tutte le volte che il bambino viene coinvolto in situazioni
che lo sollecitano verso identificazioni con ruoli adulti, di pertinenza del genitore, ma
che questi non svolge perché immaturo. Ancora il bambino viene abusato affettivamente
quando perde il suo equilibrio nella relazione con i genitori che innescano una guerra
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attraverso il contendersi i figli, come accade di sovente nelle separazioni, o peggio ancora
nell’affidare il bambino al tecnico, psicoterapeuta infantile, che lo salverà dai suoi genitori.
Contro le logiche che ingabbiano e non danno voce ai bambini, agli adolescenti, in
una parola ai figli, ma soprattutto in contrapposizione ai fautori della critica indiscriminata verso le imperfezioni dei genitori o le prescrizioni della formula educativa “sicura”,
che limita la ricerca creativa delle competenze non strutturate dei genitori, abbiamo organizzato due programmi di lavoro, nel progetto “Radici e Ali” per la prima fascia d’età
(0-8) e nel progetto “GenerAzioni” per la seconda (8-12) e terza fascia d’età (13-18), al
fine di stimolare la manifestazione di nuove Emozion-Abilità.
Grazie all’ampio riscontro che abbiamo ricevuto nell’ambito delle attività proposte, si
è pensato di dar vita a questa raccolta di esperienze che vuole esclusivamente testimoniare
l’entusiasmo e la passione per il lavoro svolto, ma anche formulare un ringraziamento per
tutti coloro che hanno partecipato.
Riferimenti bibliografici
Andolfi M., la coppia in crisi, ITF Roma, 1988.
Andreoli V., Giovani. Sfida, rivolta, speranze, futuro, RCS, Milano 1995.
Boszormenyi-Nagy J., Spark G., Lealtà invisibili, Astrolabio, Roma 1988.
Bowen M., Dalla famiglia all’individuo, Astrolabio Roma 1979.
Erikson E.H., Identity and life cicle, Psicological Issues 1, 1959.
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Introduzione e analisi
del contesto socio-territorialE
Margherita Paglino
Premessa
Le attività laboratoriali dei progetti denominati Radici e Ali e Generazioni non nascono per far fronte all’emergenza e alle conseguenze del sisma che ha investito l’Aquilano
nel 2009, bensì per prevenire gli atteggiamenti di dipendenza, agendo anticipatamente
sulle fasce d’età 0-18 anni, e nel contempo per sostenere la genitorialità.
Ma non possiamo evitare di considerare che questi progetti sono stati realizzati in un
contesto socio-territoriale, come la Città Dell’Aquila e in alcuni dei cosiddetti Comuni del
Cratere, negli anni tra il 2011 e il 2013, quindi cronologicamente successivi al terremoto,
e che questo, causando danni materiali, fisici e psichici, ha provocato un sostanziale mutamento sociale e urbanistico del territorio.
Dunque, prima di comprendere il contesto ove sono state svolte le attività progettuali, non possiamo esimerci dall’approfondire i concetti di: Disastro Sociale, Resilienza di
Comunità, Vulnerabilità sociale e Valutazione d’Impatto.
1. Il disastro sociale
Le attività laboratoriali dei progetti Radici e Ali e Generazioni, si sono svolte in un
contesto socio-territoriale in balìa delle conseguenze di un disastro sociale (che si verifica
a seguito di una catastrofe naturale).
Queste conseguenze, spesso ed erroneamente, vengono considerate solo nel breve
termine, tralasciando, in questo modo, gli effetti prodotti nel lungo periodo e la delicata
quanto fondamentale ricostruzione sociale (Che potremmo chiamare del post-sopravvivenza), senza la quale la strada della società colpita, verso una devianza generalizzata, è
breve. Prince (1920) definì il disastro “Come un evento che produce la sovversione dell’ordine
o del sistema delle cose”, in altre parole per lo studioso il disastro rappresentava un’ interferenza con l’equilibrio ordinario della società, ossia un cambiamento sociale.
Un cambiamento sociale che colpisce diversamente la collettività di uno stesso contesto socio-territoriale, in quanto una società ha diversi livelli di vulnerabilità, determinabili da diversi indicatori come, ad esempio: il genere, l’età, la salute, i lutti subiti e lo
status sociale. E, utilizzando le parole di Barton (1970), il Disastro Sociale rappresenta
una “situazione di stress” non solo a livello individuale ma anche sociale, Infatti l’ambiente
colpito dagli eventi disastrosi non è solo costituito dalla natura, ma anche dalla società
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all’interno della quale si individuano diversi livelli di mutamento sociale (Quarantelli,
1970):
- il livello della struttura comunitaria,
- il livello delle strutture formali, cioè le organizzazioni,
- il livello delle strutture informali, cioè i gruppi,
- il livello individuale.
Quando si verifica l’evento disastroso, a differenza di quanto si potrebbe pensare,
gli individui colpiti non mettono in atto comportamenti devianti, quali ad esempio lo
sciacallaggio, ma sono i primi a dare soccorso alle vittime. Questo avviene perché gli individui di una comunità sono legati tra loro da un senso di appartenenza che, in caso di
emergenza, sfocia nell’altruismo e nella solidarietà (Pelanda, Srassoldo, 1991).
Per quanto riguarda le comunità, esse raramente vengono coinvolte nel processo di
pianificazione delle emergenze. Il disastro causa delle conseguenze che per le comunità
possono essere:
- funzionali, perché accelerano il processo di cambiamento innescatosi in precedenza,
- disfunzionali, perché determinate da conflitti relativi a problemi sorti in seguito
all’impatto dell’evento disastroso.
2. La resilienza
Nelle scienze sociali il concetto di resilienza ha una storia abbastanza recente per via
del paradigma dominante del modello patocentrico, che assumeva l’equazione rischiodisadattamento. Tuttavia a partire dagli anni ’70 alcuni studi trasversali pionieristici effettuati da psichiatri e psicologi dello sviluppo come Norman Garmezy, E. James Anthony,
Lois Murphy, Michael Rutter, ed Emmy Werner diedero avvio allo studio della resilienza
(Luthar, Cicchetti, Becker 2000) In quegli anni, dominati dal modello medico centrato
sui sintomi e sulle patologie, Garmezy (1974) cominciò a studiare le competenze mostrate da bambini svantaggiati, Rutter (1979) e Werner e Smith (1977) documentarono lo
sviluppo normale di bambini esposti a fattori di rischio come la povertà.
Da questi primi studi negli anni ’80 si è sistematizzato e rafforzato il concetto di
resilienza che ha modificato gli assunti dominanti fino ad allora, i quali, in un’ottica determinista, reputavano inevitabili gli effetti dei fattori di rischio. Al contrario, si constatò
che una proporzione sostanziale di bambini diventavano adulti ben adattati nonostante
le situazioni critiche affrontate ed a dispetto di quanto si poteva ipotizzare basandosi sulla
mera valutazione del rischio.
Attualmente il termine resilienza, in scienze sociali e psicologiche, fa riferimento in
generale ad un buon adattamento nonostante l’esposizione a fattori di rischio, a stressor
o a traumi. La resilienza è stata definita come mantenimento di una stabile omeostasi nel
funzionamento fisico e psicologico di fronte alle avversità (Bonanno, 2004). Olivierio
Ferraris (2003) per designare la resilienza fa riferimento all’espressione “sistema immu10
nitario della psiche”.
La resilienza (sia di esito che di processo) presuppone due elementi: i fattori di rischio
che sono variabili presenti ad ogni livello sistemico (persona, famiglia, comunità, società)
in grado di predire successivi problemi psicosociali (per es. alcolismo, comportamento
delinquenziale, insuccesso scolastico, ecc.) e l’adattamento (Malaguti, 2005).
Nelle definizioni focalizzate sull’esito la resilienza è stata intesa in diversi modi: come
assenza di indicatori di disturbi, come presenza di indicatori di salute in senso positivo,
come successo scolastico e/o lavorativo, come comportamento pro-sociale o assenza di
delinquenza, ecc.. In tutti i casi, la resilienza è un elemento dinamico, soggetto ai cambiamenti delle circostanze in cui la persona gioca un ruolo attivo, e non dato una volta per tutte
(Rutter, 1985).
La resilienza indica la capacità di mantenere un certo equilibrio nel funzionamento
psicologico al di là di possibili cadute momentanee. Naturalmente il ritorno al funzionamento psicologico precedente a fattore di rischio non deve essere preso alla lettera.
Adottando una prospettiva sistemica, infatti, persone, famiglie e comunità sono sistemi in
continuo cambiamento e, pertanto, non è possibile un ritorno ad uno stato precedente in senso
stretto (Bonanno, 2004).
Adottando una visione ancor più macro, alcuni ricercatori, come Kimhi, Shamai
(2004) e Sonn, Fisher (1998), hanno studiato il concetto di comunità resilienti opponendosi alla rappresentazione delle comunità minoritarie o espose a tragedie come carenti di
risorse adeguate per affrontare le avversità e, quindi, destinate a soccombere.
2.1 Resilienza di Comunità
Quando le comunità sono sottoposte a situazioni critiche spesso le conseguenze di
cui si tiene conto sono quasi unicamente negative. L’assunzione prevalente che ne deriva
è che le comunità siano incapaci di riprendersi da sole (Sonn, Fisher, 1998), Tobim e
Whiteford (2002), al contrario, riportano che correnti di ricerca di stampo sociologico
enfatizzano il ruolo terapeutico della crisi a livello di comunità come catalizzatrice di
solidarietà fra i residenti. È anche vero, però, che studi recenti hanno criticato questa prospettiva rilevando che l’effetto “terapeutico” sarebbe di breve durata (Tobim e Whiteford,
ibid.) e confinabile in una fase precisa della reazione di una comunità ad eventi critici, la
cosiddetta fase della “luna di miele” (Zuliani, 2006). Qui si vuole inserire il concetto di
resilienza di comunità proprio per far luce su alcune delle possibili reazioni positive della
comunità ad eventi critici, come le cause di un terremoto devastante.
In base all’ottica ecologica lo studio della resilienza si è sviluppato dall’individuo alla
famiglia ed alla comunità sottoposte ad eventi avversi: secondo questa visione le comunità vengono percepite come competenti e capaci di attrarre le risorse necessarie nell’affrontare le sfide. Uno studio famoso all’interno di questa prospettiva ha formulato l’ipotesi
della “comunità resistente” (community strengths hypothesis). Al centro di questo studio
i ricercatori hanno preso in considerazione i residenti della comunità di Puerto Rico
colpita da un’alluvione, questi, per pura combinazione, avevano compilato un’indagine
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sulla salute mentale l’anno prima. In questo modo si è avuto l’opportunità di effettuare
un disegno di ricerca prospettico con misure prima e dopo il disastro, controllando il grado di esposizione. Dai dati emerge che i residenti esposti ai disastri riportavano sintomi
psicopatologici che non differivano significativamente dai residenti non esposti (Bravo,
Rubio-Stipec, Canino, Woodbury, Ribera, 1990). Altri studi hanno riportato risultati
confrontabili che, nel loro insieme, dimostrano la plausibilità di questa prospettiva (si
veda Van den Eyde e Veno, 1999).
Da qui la considerazione che la resilienza di comunità è la capacità di una collettività
di resistere ad eventi critici che sfidano il proprio ambiente fisico e tessuto sociale (Dawes,
Cresswell, Cahan, 2004). Volendo approfondire, secondo Kimhi e Shamai (2004) in
letteratura le definizioni di comunità resilienti prendono tre direzioni principali:
1) tendenza alla resistenza, che si riferisce alla capacità della comunità di assorbire l’impatto;
2) tendenza al recupero, che si riferisce alla velocità ed alle abilità di recuperare dallo
stressor;
3) tendenza alla creatività, che fa riferimento alle potenzialità creative dei sistemi sociali
di migliorare il proprio funzionamento psicologico come conseguenza delle avversità.
Quindi la resilienza di comunità include non solo la gestione delle emergenze ma
anche le normali funzioni di una comunità in preparazione delle circostanze critiche.
In letteratura vi sono diversi concetti che si avvicinano o si sovrappongono con quello di resilienza di comunità, Hernandez (2002) parla di resilienza collettiva per indicare
quei processi di coping che si verificano all’interno di un contesto sociale colpito da un
evento traumatico e che sono volti a sostenere e ricostruire i legami sociali ed un senso
di appartenenza.
Intanto viene introdotto il concetto di resilienza di comunità relativa al sisma (community seismic resilience), definendolo come la capacità di sistemi fisici e sociali di diminuire i
rischi, di contenere gli effetti dei disastri una volta occorsi e di portare a termine attività di
recupero tramite modalità che minimizzino le problematiche sociali e riducano l’impatto di
successivi terremoti (Bruneau, Chang, Eguchi, O’Rourke, Reinhorn, 2003). In altre parole
il concetto di comunità competente. Questo concetto si focalizza sulle caratteristiche di
una determinata comunità, in maniera simile alle prime concezioni di resilienza come
tratto di personalità. Resilienza di comunità, invece, denota un processo di adattamento
in un’ottica ecologica, che non tiene conto solamente dei fattori interni alla comunità
ma anche quelli esterni alla comunità stessa come aiuti internazionali o rapporti con le
vicine entità sociali e politiche. Per esempio una politica di aiuti attuata in maniera non
rispettosa del contesto e dei destinatari può essere un ulteriore fattore di rischio che neutralizza potenziali elementi di resilienza insiti in una comunità. Quindi nello studio della
resilienza si devono considerare fattori interni ed esterni la comunità.
In vari studi si riscontrano diverse concezioni relative agli elementi che compongono
la resilienza di comunità. Ad esempio Adger (2000) parla di possedimento di risorse
(resource dependency), ovvero della quantità e della qualità delle risorse cui la comunità
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può fare affidamento. In maniera simile Breton (2001) fa riferimento al capitale sociale ed
umano, ossia alle persone, ai gruppi, alle reti, alle associazioni di volontariato ed ai servizi
presenti nella comunità. Sonn e Fisher (1998) nel loro lavoro sulla resilienza di comunità di gruppi minoritari ed oppressi sottolineano l’importanza di setting come chiese,
reti di famiglie allargate, associazioni sportive e gruppi. Le caratteristiche soggettive di
questi setting come valori, norme, sistemi di significato costituiscono fattori di resilienza
in grado di favorire la consapevolezza della situazione, la partecipazione ed il senso di
comunità.
3. La vulnerabilità sociale
Abbiamo avuto modo di considerare come, gli stessi fattori che determinano la Resilienza di una Comunità, sono gli stessi che possono indicarci la sua Vulnerabilità.
Infatti fattori economici, sociali e culturali sono Indicatori di Vulnerabilità di una
Società, e non solo, in caso di una catastrofe provocata da un terremoto, la stessa società
presenta al suo interno vulnerabilità individuali e non, differenti. Individuare preventivamente le diverse vulnerabilità all’interno di una Comunità/Società, è sicuramente la
strada da percorrere per diminuire i fattori di rischio e incrementare Resilienza. Su un
territorio a rischio come L’Aquila, attuare interventi preventivi per diminuire le vulnerabilità è pressoché obbligatorio, per favorire quel processo di Resilienza di Comunità, che
dovrebbe svilupparsi a seguito di una catastrofe.
Provando a spiegare il concetto di vulnerabilità sociale attraverso un’equazione, ne
uscirà che:
VS = (A+F +L)+S+RF+RS+Re
dove:
(A) è la condizione abitativa
(F) è la condizione finanziaria
(L) è il lavoro
(S) è la salute
(RF) sono le relazioni familiari
(RS) sono le relazioni sociali
(Re) è la resilienza
Volendo descrivere cos’è la vulnerabilità, diremo che è un termine usato per descrivere l’esposizione ai rischi. Le persone sono più vulnerabili se è più probabile che siano
duramente colpite da eventi esterni fuori dal loro controllo, e ancora che la “Vulnerabilità
definisce le caratteristiche di una persona o di un gruppo e la loro situazione che può
influenzare la loro capacità di anticipare, affrontare, resistere e recuperare dall’impatto
di un pericolo” (Wisner, Blaikie, Cannon and Davis, 2003) e ancora, la scarsità di mezzi
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per difendersi da una situazione di difficoltà improvvisa, sia sul versante economico sia
su quello esistenziale.
4. La valutazione d’impatto
Le cause di un impatto ambientale, come quelle che può provocare un terremoto,
esercitano un mutamento del tessuto sociale, questo mutamento avviene in strutture
sociali preesistenti.
Se queste strutture sociali sono differenti, l’impatto e il suo mutamento sociale creano
impatti differenziali, questo fenomeno viene studiato attraverso la SIA (Social Impact
Assesment).
La SIA ha come obiettivo, quello di prevedere questi mutamenti, con le sue differenziazioni, per valutarli, gestirli ed evitarli là dove possano essere fonte di disagio.
4.1 Prevedere le conseguenze d’impatto e mutamento
È importante far si che i danni di un impatto e del suo mutamento sociale vengano
analizzati in tempo, per arginare i possibili disagi sociali che ne derivano. Riuscire a determinare quale differenza un’azione produrrà costituisce lo scopo fondamentale di ogni
programma di valutazione. Viene da sé che nel fare progettazione sociale preventiva, non
si può e non si deve prescindere dallo studio della SIA, essa costituisce una conoscenza
revisionale in grado di stabilire i possibili effetti di un’ impatto, e di conseguenza è in
grado di indicarci dove, su chi, come e perché intervenire.
Con riferimento ai sistemi socio-culturali, il mutamento sociale che vogliamo indagare attraverso gli studi di impatto, ha una natura particolare, poiché si tratta di un
mutamento concentrato nel tempo e determinato da un chiaramente identificabile agente di mutamento (l’Impactor) il quale è dotato di grande forza di incidenza e quindi è
produttivo di effetti o conseguenze di grande portata.
Altra specifica di questo tipo di mutamento è che esso è un fenomeno pre-visto,
anticipato, proposto nel progetto sociale che assume la figura di Piano poiché l’impatto
è un fenomeno sociale non ancora accaduto (e questa è la radice fattuale che caratterizza
la conoscenza elaborata nella SIA come conoscenza sociale revisionale). In sintesi: il mutamento sociale negli studi di impatto è un mutamento sociale pianificato.
Da qui la definizione di Impatto sociale come “Una differenza fra lo stato futuro
del sistema sociale modificato dall’azione di mutamento operata dall’Impactor e lo stato
futuro quale risulterebbe dall’evoluzione spontanea del sistema stesso, vale a dire lo stato
del sistema senza presenza degli effetti dell’azione di impatto” (Beato, 1998).
4.2 Differenziazione dell’impatto
Il discorso delle differenti vulnerabilità sociali non si allontana da quello riguardante
la differenziazione dell’impatto, infatti alla base degli studi la domanda che ci si pone è
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quali gruppi (anziani, poveri, giovani, ecc.) sono impattati in modo positivo e quali in
modo negativo, e in quale misura.
Una risposta importante proviene dal lavoro di Elkind-Savatsky e Kaufman per aver
richiamato l’attenzione sui fattori socio-culturali. Essi spesso sono lateralizzati dagli approcci Political Ecoomy, i quali tendono a privilegiare lo studio della distribuzione degli
impatti negativi come sbilanciati verso i gruppi socio-economici a basso reddito.
Ma l’assunzione-accentuazione di una sola linea di differenziazione della struttura sociale, di un solo parametro, ad esempio lo strato sociale o l’istruzione-formazione, appare
limitativa e non coglie il carattere specifico delle società contemporanee occidentali che
per definizione si costituiscono come sistemi sociali complessi e che quindi si caratterizzano per una pluralità interconnessa di linee di differenziazione e per ciò stesso per una
pluralità di gruppi sociali e di strati che non possono ridursi soltanto ai gruppi culturali
o agli strati socio-economici.
L’azione di impatto quindi, è sempre un’azione di differenziazione, poiché differenziata è la struttura sociale (Beato, 1998).
5. RADICI E ALI – GENERAZIONI: casi di progettazione sociale nella provincia
dell’Aquila
Introduzione
Oramai tutti conoscono i forti danni sociali e materiali causati nella Provincia Aquilana a seguito del terremoto del 6 Aprile 2009. Dai dati emerge quella che è stata e continua ad essere la portata di questo disastro socio-territoriale, dove si inserisce a gran forza,
la problematica dello spopolamento, prevalentemente giovanile.
Citando Seneca “nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove andare”, il
sociologo Domenico De Masi, professore di Sociologia presso l’Università “La Sapienza”
di Roma, a 5 anni dal terremoto afferma “All’Aquila non si può partire con la ricostruzione senza avere un piano. Serve un modello di città del futuro, altrimenti i giovani fanno
bene ad andare via, la cosa che pesa di più sul futuro del capoluogo abruzzese devastato
dal sisma infatti è la mancanza di progetti” e aggiungiamo di prospettive per le categorie
maggiormente vulnerabili.
Gli enormi danni provocati nell’Aquilano, sia dal punto di vista urbanistico, che al
livello sociale e psicologico, potrebbero creare un territorio a forte disagio antropico (ma
anche stimolare la resilienza individuale e di Comunità).
5.1 La realizzazione dei progetti: il contesto socio-urbanistico
Nella Provincia Dell’Aquila difficilmente si può scindere la problematica urbanistiche
da quella sociale (e viceversa), essendo correlate all’interno di un feedback continuo, dove
l’una influenza l’altra (Immagine 1), imponendo una risoluzione del disastro a lungo
termine, di tipo multidisciplinare.
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Nella Provincia Dell’Aquila difficilmente si può scindere la
problematica urbanistiche da quella sociale (e viceversa), essendo correlate
all’interno di un feedback continuo, dove l’una influenza l’altra (Immagine
1), imponendo una risoluzione del disastro a lungo termine, di tipo
multidisciplinare.
Immagine 1
QUESTIONE URBANISTICA QUESTIONE SOCIALE QUESTIONE PSICOLOGICA Il sisma ha praticamente reso inagibile la quasi totalità del centro storico,la maggior
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parte dei quartieri adiacenti, e i ComuniImmagine
limitrofi denominati
“Del Cratere”, inducendo
l’allora Governo a provare un tentativo di ri-collocazione funzionale della cittadinanza,
per evitare lo spopolamento della Città, attraverso la progettazione e la realizzazione delle
New Town in Città (con il progetto C.A.S.E.) e i Villaggi M.A.P. nelle Campagne e nei
piccolo Borghi (Moduli Abitativi Provvisori).
A L’Aquila la realizzazione delle New Town ha sicuramente risolto il problema dell’
emergenza abitativa, trattenendo la popolazione in loco fornendogli un posto confortevole, ma allo stesso tempo queste aree sono rimaste prive di servizi e spesso isolate,
divenendo dei veri e propri quartieri dormitorio. Oltretutto, durante l’assegnazione degli
appartamenti alla popolazione, non è stata presa in considerazione l’idea di ri-accorpare
il vicinato precedente al terremoto, smembrando così le piccole comunità di vicinato
pre-esistenti (già mortificate nella fase emergenziale, disgregando la comunità di vicinato
nella collocazione all’interno delle tende o degli alberghi sulla costa) pregiudicandone la
socialità e il senso d’appartenenza. Quindi, non più luoghi familiari, punti di riferimento
e servizi, ma neanche più i vicini di una volta e gli equilibri di vicinato realizzati in anni
di convivenza di quartiere.
Intorno alle New Town sono stati edificate, o rafforzate, aree adibite a centri commerciali o Non Luoghi (Augé, 2009) ovvero tutti quegli spazi che hanno la prerogativa
di non essere identitari, relazionali e storici, dove la popolazione si incontra, passeggia,
esercita insomma quel poco di vita sociale, trasformandoli così in Luoghi e riempiendoli
di significato. Marc Augé scrive «qualche forma di legame sociale può emergere ovunque: i
giovani che si incontrano regolarmente in un ipermercato, per esempio, possono fare di esso un
punto di incontro e inventarsi così un luogo».
Sulla questione urbanistica dell’Aquilano non può non essere citata la frase di James
Hillman: “la brutta situazione in cui mi trovo forse non riguarda soltanto un umore depresso
o uno stato mentale ansioso; forse ha a che fare con il grattacielo per uffici, chiusi ermeticamente, nel quale lavoro, con il quartiere dormitorio nel quale abito, o con la superstrada sempre
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intasata sulla quale vado e torno fra i due luoghi”.
L’urbanizzazione da una parte ha influito sulla questione sociale, creando situazioni
di isolamento e perdita di punti di riferimento (strutturali e sociali), andando a ledere il
senso d’appartenenza alla Comunità, in parte ha innescato un processo di cambiamento
che può essere letto in chiave positiva. Infatti il cambiamento, anche se coatto, può stimolare l’attitudine alla resilienza e all’atto creativo.
A seguito del terremoto si è, e si sta assistendo, ad un vero e proprio cambiamento
della morfologia sociale, questo perché come accaduto anche in passato in altre Città, la
catastrofe ambientale ha portato sul territorio gente proveniente da altre Regioni, se non
da altre Nazioni.
Basti pensare ai tanti volontari approdati e rimasti a vivere, o ai dipendenti delle ditte
edili designate alla ricostruzione, trasferitisi a vivere sul territorio, provenienti principalmente dalla Romania.
Insomma, gli equilibri socio-urbanistici del passato sono stati spezzati, e prende piede
una nuova forma sociale, ancora in via di assestamento e riconoscimento, non per forza
negativa, ma certamente bisognosa di sostegno e contenimento, attraverso, ad esempio,
la progettazione sociale atta a lenire il trauma e prevenire l’insorgere di negatività legate
al drastico mutamento, quindi una progettazione preventiva capace di fornire sostegno nel
processo di resilienza di una comunità colpita e alle fasce più vulnerabili e contenimento
dell’insorgere del disagio sociale (causa di suicidi, dipendenze e devianza) attraverso la
prevenzione e la riabilitazione, ancor più una progettazione sociale preventiva rivolta
specialmente ai giovani, affinché abbiano i presupposti per restare sul territorio puntando
al miglior-essere.
5.2 RADICI E ALI – GENERAZIONI e la resilienza di comunità
Le attività laboratoriali di Radici e Ali sono state effettuate all’interno di strutture
donate a seguito del terremoto, nel Comune dell’Aquila all’interno della Casa del Volontariato e nel Comune di Barisciano, inizialmente nella scuola materna, successivamente
all’interno del Centro Polifunzionale, contribuendo alla trasformazione, già avviata, di
queste strutture in luoghi aggregativi/identitari e punti di riferimento per la Comunità.
Le attività del progetto Generazioni hanno ampliato il coinvolgimento delle strutture
sorte nella parte Est della Città Dell’Aquila, ovvero nel Comune di Villa Sant’Angelo e
di San Demetrio Ne’ Vestini, e in parte è stato possibile svolgerle nelle Scuole cittadine
preesistenti al Sisma.
In Entrambi i casi di progettazione sociale, volti alla prevenzione delle dipendenze,
la popolazione ha reagito favorevolmente ed è stato possibile stimolare (anche indirettamente) la resilienza e l’empowerment, creando senso d’appartenenza e un senso di controllo sulle situazioni. Questo grazie anche al loro impegno e al loro sentirsi parte integrante in attività svolte all’interno di edifici e luoghi legati a “un nuovo sistema”, ovvero
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al nuovo piano urbanistico. Inoltre è stata avviata e/o rinforzata la visione ottimistica,
riformulando gli eventi negativi (vecchie strutture di riferimento inagibili) in opportunità (valorizzazione dei nuovi spazi di aggregazione).
È emerso come, più che in altri contesti territoriali, il sostegno sociale, le reti sociali e
le organizzazioni di mutuo aiuto e di solidarietà sociale che possono, anzi devono, scaturire dalla progettazione sociale, sono di grande importanza per la resilienza di comunità
(Sarig, 2001).
Nei piccoli Comuni, in special modo, è affiorata la distinzione tra fattori di resilienza
distali, relativi ad elementi storici e strutturali, e prossimali, relativi alle risorse necessarie per
affrontare uno specifico evento critico (Paton, Smith e Millar 2001).
Per esempio fattori distali come dimensioni piccole della comunità, tradizioni condivise risultano essere fattori di resilienza molto importanti connessi ad un aumentato senso
di comunità (AHPRU, 1999).
D’altra parte fattori prossimali come il coping a livello di comunità (communal coping), ossia il tentativo da parte dei residenti di trovare soluzioni condivise a problemi
comuni o la qualità dei servizi di soccorso (in questo caso forniti dalle attività progettuali)
sono anch’essi di grande importanza nelle emergenze (AHPRU, 1999; Paton, Smith e
Millar, 2001).
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20
Parte I
“Radici e Ali”
1. La trama dell’intersoggettività
alla base dell’attaccamento
Mariachiara Sulpizio
Lo sviluppo infantile è il risultato di specifici processi di mentalizzazione, che sono espressione del sistema di relazioni in cui l’individuo è inserito sin dalla nascita; in altre parole, la
mentalizzazione risulta profondamente interrelata con la funzione riflessiva della famiglia.
Ai fini della pianificazione di interventi orientati alla prevenzione precoce dei comportamenti d’abuso, è fondamentale partire da un’ottica che intenda l’intersoggettività
innata come matrice dello sviluppo e cornice di riferimento primaria per qualsiasi approccio alla prevenzione e alla cura.
In questo senso, il ruolo dei genitori e del care-giver in particolare è quello di funzionare da “biofeed-back sociali”, come descritto da Gergely & Watson (1996), nel senso
che il bambino “aggiusta” il proprio mondo emozionale monitorando le reazioni del
genitore attraverso il rispecchiamento di quest’ultimo.
Risalendo a Freud (1921), questi parlava di “identificazione” come forma più primitiva di attaccamento affettivo a un’altra persona, che può rappresentare il supporto di
una trasmissione intersoggettiva e si attua quando, per una comunanza affettiva, un Io si
appropria di un tratto inconscio di un altro Io, per mezzo di un’introiezione dell’oggetto.
Facendo un balzo teorico in avanti, la capacità innata e preprogrammata dell’individuo di internalizzare, incorporare e assimilare gli stati mentali di un’altra persona (persino
dalle prime ore di vita) ha bisogno di avere il supporto indispensabile del rispecchiamento
del care-giver, attraverso un’interazione coerente e prevedibile (V. Gallese, P. Migone,
Morris N. Eagle, 2006); i contributi delle neuroscienze evidenziano come alla base di
questi processi ci sia l’ormai noto sistema dei neuroni specchio (MNS).
Queste facoltà si acquisiscono nell’ambito delle prime relazioni di attaccamento e
sono fondamentali per l’organizzazione del Sé e la regolazione affettiva, comportando
una componente sia autoriflessiva che interpersonale.
Da un punto di vista teorico, si arriva alle ipotesi contemporanee inerenti i processi
di sviluppo soggettivi e intersoggettivi seguendo lo sviluppo dei concetti di attaccamento
e di Internal Working Model (IWM), composti dalle rappresentazioni mentali emergenti
da processi interattivi e innati, formulati da Bowlby sin dal 1969. Da un punto di vista
sia strumentale che concettuale, la relazione tra attaccamento e MNS rappresenta un
contributo fondamentale nella comprensione della trasmissione trans generazionale.
In questa direzione, M. Botbol (2010), proponendo un approccio integrato tra neuroscienze e psicodinamica, avanza l’ipotesi secondo cui fra i meccanismi biologici coinvolti nella trasmissione dei pattern d’attaccamento ci sarebbe una trasformazione a doppio livello (dalla mente al corpo della madre e dal corpo alla mente del neonato) relativa
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al sistema dei neuroni specchio e alla funzione della simulazione incarnata (V. Gallese, P.
Migone, Morris N. Eagle, 2006). Di qui l’importanza di focalizzare l’attenzione sul ruolo
cardine che detengono i comportamenti nelle interazioni madre-bambino (Stern, 1987),
o più precisamente i micro-comportamenti, in sequenze di azioni come ad esempio durante l’alimentazione, il gioco e le cure fisiche. La rilevanza di queste micro-interazioni
è ormai oggetto di studi approfonditi attraverso tecniche innovative quali quelle basate
sulla video micro analisi e tutti quegli interventi clinici, evidenced-based, come quelli
centrati sulla Video Intevention Therapy (VIT), elaborato da G. Downing.
I pattern di attaccamento si consolidano sulla ripetizione di sequenze interattive di
accudimento in cui il caregiver risponde con responsività sensibile e sintonizzata al bisogno del bambino. Le sequenze interattive ricorrenti e ritmate connesse all’alimentazione
sono legate anche all’interazione piacevole con la figura materna, dunque le sequenze
alimentari costituiscono un’attività vitale per la relazionalità emergente del neonato e
sono basilari nella costruzione del sistema operativo interno (E. Spalletta, M. Chimenti,
2008). Il concetto winnicottiano di “madre sufficientemente buona” acquisisce sempre
più corpo in questa prospettiva microanalitica e fenomenologica, riempiendosi di aspetti
concreti relativi alle interazioni precoci tra neonato e care-giver.
Nel volto della madre empatica il bambino si rispecchia e scopre di esistere: sentendosi riconosciuto, sperimenta il senso della propria unicità e della connessione emotiva
con l’altro. Queste esperienze affettive primarie vengono impresse nella sua memoria,
andando a plasmare tutte le strutture e le funzioni cerebrali coinvolte nei processi emotivi
(Trentini, 2008).
In un’ottica preventiva e di sviluppo di linee guida di intervento, tali riflessioni spingono a centrare l’attenzione sulla qualità delle relazioni infantili, che, come mostrato
anche da Fonagy & Target (1993-2000) nell’ambito dei loro studi sulla funzione riflessiva
in linea con alcune intuizioni bioniane, rimangono fondamentali per fondare processi di
crescita e di adattamento sani.
E ancora, è interessante riflettere in questa sede sul monitoraggio meta cognitivo
(in termini di sviluppo di una teoria della mente) e sullo sviluppo del Sé, in termini di
ciclo intergenerazionale. Seguendo Gallese, ipotizziamo che il substrato neurobiologico
alla base della Teoria della Mente e della “Intentional Stance” (Dennet, 1987; Georgieff,
2008) sia appunto il sistema MNS.
Il monitoraggio meta cognitivo, che nello sviluppo sano è biologicamente preparato
ed emergerà spontaneamente, può essere inibito a causa dell’assenza di una relazione
sicura e dall’esperienza di maltrattamenti nella relazione intima.
Come dimostrato dagli studi sulla vulnerabilità alla patologia, anche una singola relazione di attaccamento sicuro può essere sufficiente allo sviluppo di processi riflessivi e,
dunque, a “proteggere” lo sviluppo del bambino. Al contrario, un rispecchiamento inadeguato può essere la causa di vari deficit di mentalizzazione con serie conseguenze nella vita
adulta, come ad esempio una sintomatologia dello spettro borderline, strettamente legata
ai quadri d’abuso e di consumo di sostanze, così come di altre condotte problematiche.
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Si comprende pertanto l’importanza, nelle situazioni di carenza di cure e di disagio,
della possibilità di offrire al bambino o all’adolescente un’esperienza riparativa, in grado
di potenziare i fattori protettivi dello sviluppo e contenere quelli di rischio: se la psiche si
struttura attraverso i rapporti, saranno questi ultimi a guarirla.
Uno sguardo particolare lo merita in tal senso la fase adolescenziale, come ulteriore
dimensione sensibile, dopo quella infantile, ad esperienze relazionali di riparazione fondamentali per il successivo sviluppo sano. Seguendo l’intuizione di Armando Ferrari,
l’adolescenza può essere intesa come una seconda sfida, dopo quella della nascita; al marasma del neonato corrisponde nell’adolescente una nebbia stordente di stimoli e di dolore
mentale che lo urge dall’interno e non gli dà tregua dall’esterno, in cui i sintomi vanno
letti nel loro valore esperienziale e di difesa, nella loro funzione intesa come ragione inconscia o conscia che spinge al dire o al fare (Ferrari, 1994). Se in questa fase il conoscere
passa sempre attraverso il fare, addirittura il sintomo diventa l’unico mezzo per far fronte al cambiamento, con funzione di rassicurazione rispetto alla propria identità. Come
terreno precipuo di queste battaglie si configura sempre la relazione mente-corpo: come
“[…] un polo fisico, il corpo, che si modifica e che è il teatro del conflitto, e quello psichico che
tenta di condurre il gioco in tanti casi in modo perverso” (Ferrari, 1994).
Anche puntando l’attenzione su questa fase di crescita, ribadiamo il concetto di coscienza intersoggettiva come forma potenziale di riflessività protettiva che si attiva quando
diveniamo coscienti dei nostri contenuti mentali nel momento in cui ci vengono restituiti dalla mente di un altro individuo (Stern, 2005). Si tratta evidentemente di un processo
di co-costruzione fondamentale anche durante l’adolescenza.
Modalità relazionali trans-generazionali e strascichi di dipendenza
Dal punto di vista dell’approccio trigenerazionale si può affermare che le modalità
relazionali di un individuo adulto nella nuova famiglia nucleare possano essere comprese
solo alla luce delle dinamiche affettive sperimentate nella propria famiglia d’origine (Bowen, 1978) e alla luce di quella che è la “funzione generativa della famiglia” (Erikson,
1959), nelle sue esigenze di appartenenza e di separazione.
La storia della famiglia così come viene riletta dal soggetto, il tipo di relazioni e la
funzionalità che la connotano, mette in evidenza come la trasmissione psichica influisca
in modo determinante nella definizione del Sé molto più del patrimonio genetico, anzi le
attuali frontiere dell’epigenetica ribalterebbero addirittura la prospettiva. Tutto ciò che il
figlio sperimenta nella vita in comune con i genitori, attraverso le cose dette e non dette, i
gesti, le modalità di comportamento, entra a far parte della sua memoria e va ad incidere
profondamente nella strutturazione della sua personalità. Nella vita quotidiana fatta di
piccoli rituali sta la memoria della famiglia, memoria indispensabile a creare il senso di
continuità del gruppo (Montagano, Pazzagli, 1989).
I quadri delle dipendenze patologiche, in generale, risultano proprio come un falli25
mento del ciclo di sviluppo sano, il cui esito dovrebbe essere una condizione di autonomia, ovvero l’individuazione del singolo.
L’esistenza di meccanismi legati alla trasmissione intergenerazionale lasciano spesso
irrisolte situazioni conflittuali o traumatiche tra una generazione e l’altra, con conseguenze gravose sui rapporti attuali. Al di là delle differenti vicende storiche personali, sia
nella famiglia del padre che in quella della madre del futuro tossicodipendente si sono
evidenziati alcuni fattori nodali comuni, riassumibili nella presenza di esperienze oggettivamente traumatiche, non adeguatamente rielaborate, che hanno comportato un’innaturale organizzazione della propria crescita e una minimizzazione degli aspetti carenti della
propria famiglia d’origine.
Da un punto di vista psicodinamico, il Sé familiare che non riesce ad accogliere
modifiche nella struttura dei legami (trasformazioni che offrirebbero respiro alla psiche
stessa) vedrà i miti difensivi subentrare ai legami stessi (Scabini, 1993). Così pure il mito
può nascere da vissuti familiari che, perduti nel tempo e non elaborati, trovano modalità
arcaiche di contenimento in immagini rigide e irrelate. In questi casi la catena trans generazionale di trasmissione psichica di contenuti nasce da mancanze elaborative nella psiche
parentale (Ferri, Quaranta, 2003). I contenuti tematici non potranno dunque divenire
oggetto di introiezione ma si costituiranno come “fantasmi psichici”, che prendono vita
dal non-detto familiare e alloggiano in cripte psichiche nelle generazioni successive. L’evento traumatico, essendo oggetto di scissione, rimane avvolto da un silenzioso segreto, rimanendo indicibile. Il trauma rimane pertanto impronunciabile nella coscienza e
quindi irrappresentabile. Tali caratteristiche impediranno la sua elaborazione nella psiche
gruppale e la sua trasmissione psichica tra le generazioni seguirà percorsi incorporativi e
non introiettivi. Seguendo Abraham e Torok (1993), in questo sta lo stallo fondamentale: l’introiezione di oggetti perduti, legata all’elaborazione del lutto, appartiene ad un
registro psichico maggiormente evoluto, in cui l’oggetto risulta trasformato e assimilabile
psichicamente; nell’incorporazione l’oggetto non si trasforma, ma si replica rimanendo
inalterato nei contenuti. Così, nuclei psichici grezzi possono viaggiare tra le generazioni,
incistandosi, se non trovano elaborazione, nel mondo psichico della discendenza e della
dipendenza. Il sintomo espresso dal paziente designato o il porta-voce, come lo definisce
Pichon-Rivière (1978), è colui la cui posizione nel gruppo familiare rimanda a qualcosa
rimasto inelaborato, latente o implicito. Il soggetto che si ammala, dunque, è il portavoce della sofferenza familiare ed il comportamento sintomatico ha in sé cripticamente
contenuti e rappresentati i significati mitologici familiari più profondi, ed è il tentativo
di tenere insieme esigenze profondamente contraddittorie di sviluppo individuale e svelamento familiare insieme (Ferri, Quaranta, 2003).
Da queste e da altre osservazioni, si evince il rischio di non riuscire ad assolvere al ruolo genitoriale in modo sano nel momento in cui sono presenti o non sono stati elaborati
i “conti aperti” con la generazione precedente (Boszormenyi-Nagy, Spark, 1973). Il mancato riconoscimento di tali conti incastrano i singoli in processi di dipendenza patologica,
espressa in tutte le sue forme, e la famiglia nel fallimento educativo.
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27
2. I nuovi genitori
Andrea Calderone, Donatella Tomassi
Premessa
Negli ultimi decenni stiamo assistendo ad una progressiva crescita di interesse nei
confronti del tema della genitorialità. Osserviamo, in relazione a tale argomento, due
tendenze contrapposte, ma spesso coesistenti nella mente dei genitori: da un lato, la convinzione che l’essere genitori sia un’esperienza naturale e, in quanto tale, debba esplicarsi
all’interno di una relazione caratterizzata dalla spontaneità; d’altro canto, i cambiamenti
che negli ultimi decenni hanno caratterizzato la società e la famiglia hanno portato ad
assumere una posizione critica rispetto a quello che il senso comune definisce “naturale”,
aprendo ai nuovi genitori la necessità di porsi delle domande sull’adeguatezza del proprio
ruolo educativo.
Le trasformazioni sociali influenzano certamente la percezione della genitorialità. Sia
la maternità che la paternità hanno subito una forte trasformazione. La maternità costituisce un evento non più visto in maniera totalizzante, considerato che vi sono per le donne
anche altri contesti per la propria realizzazione.
I padri, a loro volta, vivono la contraddizione tra i modelli del passato, improntati
sulla razionalità e sulla direttività, e il desiderio di ricercare un nuovo modello per il
proprio ruolo, con un’attenzione maggiore per i sentimenti. Incentivare questa ricerca
diventa essenziale per una nuova forma di paternità che, peraltro, non conduce in alcun
modo a comportamenti improntati al lassismo educativo.
Questa nuova dimensione della genitorialità, che non poggia sulle esperienze delle
generazioni precedenti e che non può più contare sul supporto di una solida rete sociale, porta spesso i nuovi genitori a sperimentare vissuti di inadeguatezza, scarsa efficacia,
senso di colpa; allo stesso tempo, tuttavia, l’assunzione di una prospettiva che vede il
bambino come un soggetto attivo all’interno del sistema familiare e la consapevolezza del
ruolo centrale che le esperienze infantili rivestono per lo sviluppo nell’intero arco di vita,
hanno portato ad assumere un atteggiamento più responsabile e ponderato di fronte alla
scelta di mettere al mondo un figlio e a guardare in modo critico le proprie modalità di
accudimento.
L’attesa e la nascita di un figlio
Non si diventa genitori al momento della nascita del bambino; il proprio modo di
essere genitori è frutto di un processo evolutivo, che parte dall’infanzia e dalle prime
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relazioni con le figure primarie di accudimento e che man mano si definisce attraverso le
esperienze significative della vita. È sulla base della propria storia personale, delle relazioni
che hanno segnato il percorso di vita, del proprio sistema di valori e dei propri desideri,
che i futuri genitori costruiscono la rappresentazione del “bambino immaginario” che, al
momento della nascita, dovrà essere sostituito dal bambino reale.
Il periodo di attesa viene vissuto sia dalla donna che dall’uomo come un periodo di
profonda ristrutturazione psicologica, nel quale ci si confronta con la propria storia personale, con l’immagine di sé, con il proprio ruolo che cambia.
La nascita di un figlio costituisce un evento che ristruttura profondamente la vita
della coppia e i legami con le rispettive famiglie di origine. Così come la coppia, con
l’arrivo del figlio, si pone di fronte ai nuovi compiti legati alla genitorialità, anche nelle
famiglie di origine nascono i nuovi ruoli di nonni, zii ecc., con la definizione di nuovi
atteggiamenti che influenzano anche le interazioni genitori-bambino. È nella famiglia
che si strutturano relazioni e forme di comunicazione che la rendono il fulcro primario
delle esperienze sociali.
Uno dei cambiamenti più radicali per una madre è l’attivarsi della “preoccupazione
materna primaria”, che le consente di identificarsi con il bambino in modo da rispondere
adeguatamente alle sue richieste. Spesso accade che la giovane madre trovi difficoltà nel
recuperare la propria identità e autonomia, disorientata com’è nella totale identificazione
con i bisogni del bambino; questo contribuisce a creare le condizioni per quella serie di
problematiche e ansie da separazione che così spesso si riscontrano nelle nuove dinamiche
familiari. Alla luce di ciò, è possibile comprendere come il sostegno reciproco all’interno
della coppia e la presenza di una rete di supporto familiare e sociale sia indispensabile
per consentire ai genitori di affrontare il più serenamente possibile i propri compiti di
accudimento.
Diventare genitori
L’identità del genitore si costruisce attraverso la partecipazione alle attività della vita
quotidiana: questo può essere sufficiente per fare il genitore (in questo senso è un processo naturale). Ma il sapere primario di un genitore dipende dalle pratiche familiari a cui
ha partecipato da bambino. Queste forme di apprendimento si traducono in “prospettive
culturali determinate”, inconsce e difficilmente prive di “distorsioni”: in questo senso la
genitorialità è un fenomeno culturale. In entrambe i casi, sia quindi che si tratti di un fenomeno naturale sia che si tratti di un fenomeno culturale, i genitori sono immersi nella
propria esperienza, ma non sempre hanno gli strumenti per elaborarla. La genitorialità,
infatti, può essere anche frutto di un apprendimento consapevole.
La famiglia può essere letta anche come contesto il cui sviluppo è legato alla possibilità di apprendimento di tutti i membri (Fabbri, 2008). Un luogo di co-costruzione di
nuovi saperi, negoziati e quindi condivisi. Sappiamo, infatti, che attraverso il paradigma
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dello Still face, una procedura volta a studiare la regolazione emotiva nell’interazione
madre-bambino, Tronick ha osservato come il bambino abbia bisogno di condividere ed
espandere i suoi stati di coscienza con quelli della madre, espandendo la propria organizzazione mentale attraverso un continuo processo di costruzione condivisa dei significati che genera stati diadici di coscienza. L’importanza di questa attività di significazione
condivisa emerge nel fenomeno del “riferimento sociale”, per cui il bambino utilizza le
reazioni affettive dell’adulto per dare senso alle sue stesse reazioni rispetto all’ambiente
e a situazioni sconosciute. In questo senso, le modalità di interazioni genitori-bambini
hanno una notevole influenza sulla qualità dello sviluppo del bambino.
L’archivio non verbale dei primi e più importanti vissuti relativi alle figure genitoriali
è il corpo (Bastianoni, Taurino, 2007). Le informazioni relative alle prime interazioni
presimboliche sono immagazzinate dal bambino attraverso una tipologia di memoria che
si configura come inconscia, implicita e procedurale. In contrapposizione con il sistema
di memoria autobiografica (caratterizzata da razionalità, controllo, intenzionalità, ecc.)
che si svilupperà in seguito, la memoria procedurale è involontaria, non dichiarata e non
riflessiva, dominata da un’informazione emotiva, impressionistica, motoria e percettiva (Bastianoni, 2009). Le rappresentazioni si costruiscono inizialmente come memorie
procedurali e vanno a formare i modelli operativi interni della relazione che il bambino
sviluppa nell’interazione con i genitori nel primo anno di vita (Bowlby, 1969), dalla
quale deriva la percezione dell’accettazione del Sé agli occhi della figura di attaccamento,
il sostegno e l’accessibilità che questa riesce a trasmettere al bambino (Bastianoni, 2009).
La formazione dei genitori
La famiglia è il primo luogo di apprendimento, un contesto relazionale capace di
favorire scambi, confronti, narrazioni. Si tratta di processi naturali, che possono essere
affiancati da forme di accompagnamento; esistono, infatti, delle pratiche informali di
formazione in grado di sostenere e accompagnare lo sviluppo dei saperi genitoriali.
In genere, le rispettive famiglie di origine si offrono come prima rete di supporto e
di accompagnamento. Successivamente, l’inserimento al nido, la scuola, le pratiche artistiche o sportive sono occasioni per la formazione di gruppi informali di genitori: questi
diventano uno spazio comune per sentirsi connessi e rendersi conto dell’importanza dello
scambio e della condivisione di opinioni, storie e tecniche, rispetto alla difficile arte di
essere genitori.
Questi gruppi di genitori condividono informazioni, intuizioni e consigli; in uno
scambio di repertorio si aiutano reciprocamente a risolvere i problemi, riflettono su temi
d’interesse comuni, diventando sempre più legati informalmente dal valore che trovano
dall’apprendere insieme.
Il coinvolgimento di genitori in un rapporto “alla pari” aiuta a non sentirsi giudicati,
a superare la sensazione di isolamento, a non rimanere intrappolati in una situazione di
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mancanza di informazioni, di collegamenti, di rapporti.
Un processo vivo che dipende dal carattere di informalità e di autonomia. “Formarsi”
significa potersi confrontare l’uno con l’altro, mettere in campo la propria esperienza e
condividerla con altri, sostenersi reciprocamente. Si tratta in fondo di una formazione
informale che già è largamente praticata e forse chiede di essere aiutata a coltivarsi.
Oltre ai primi rudimenti di genitorialità derivati dalla pratica quotidiana con il proprio bambino, ai saperi ricevuti dalla “tradizione familiare” e allo scambio di informazioni
nei gruppi informali, il processo di sviluppo delle pratiche educative chiama in causa la
disponibilità da parte dei genitori a riconoscere la formazione come esperienza costitutiva
del diventare genitori. Una formazione diretta a sviluppare un pensiero critico piuttosto
che a dare conoscenze specifiche. I genitori sono chiamati a confrontarsi con una complessità crescente, con realtà di cui non possiedono idonee categorie di analisi, per le quali
spesso non hanno strumenti e modelli adeguati. Il sapere parentale esige un impegno ad
affinare lo sguardo, a sviluppare competenze e sensibilità in grado di leggere il codice,
spesso ambiguo, della vita familiare.
Per accompagnare i padri nella ricerca di questo nuovo modello o le madri a sentirsi
meno in colpa per aver dedicato del tempo a se stesse e alla coppia anziché totalmente al
bambino, risulta utile la prospettiva dell’educazione familiare fondata sulla condivisione
educativa del piccolo gruppo, che si confronta e discute i propri stili genitoriali.
I genitori più giovani esprimono bisogni formativi legati al ruolo genitoriale, a cominciare da quello di informarsi sullo sviluppo dei figli. Il desiderio di diventare genitore
è legato anche al timore di non essere capace di assolvere adeguatamente tale impegno e
proprio per questo può essere “supportato” con interventi diversi.
Educazione familiare e pedagogia della famiglia
Le modalità interattive di un individuo adulto nascono all’interno delle relazioni
familiari: quando sono “disturbate” rischiano di continuare i loro effetti nel tempo. È
quindi fondamentale guardare alle realtà familiari e considerarle come “risorse”, ma anche
come destinatarie di specifici interventi di sostegno. L’educazione familiare, ad esempio,
ha l’obiettivo di affinare le competenze genitoriali.
Dobbiamo distinguere tra educazione familiare e pedagogia della famiglia: per educazione familiare intendiamo quella serie di interventi formativi tesi al sostegno della
genitorialità, mentre con pedagogia della famiglia ci riferiamo alla riflessione teorica e di
ricerca sulle problematiche concernenti gli interventi formativi nei confronti dei genitori
e sulle modalità con cui queste esperienze di formazione vengono realizzate.
La pedagogia della famiglia rientra nel vasto ambito della pedagogia postmoderna che
considera il cammino formativo come un procedere libero da ogni condizionamento, ma
allo stesso tempo tragico e incerto, perché senza modelli etero-imposti il soggetto deve
essere creatore di se stesso: nella postmodernità la formazione si fa ricerca, sforzo e impe32
gno quotidiano. In questo senso, la pedagogia riflette oggi sulla possibilità di parlare di
una formazione “senza forma”, per un soggetto che cambia e negozia quotidianamente la
propria identità, un soggetto che, persa la sua unità, si trova a coltivare un sé molteplice
e diviso (Pourtois, Desmet, Lahaye, 2006).
È in questo contesto che si inserisce anche l’identità del genitore, un ruolo sempre
meno definito e sempre più problematico e verso il quale diventano necessari interventi e
strutture di supporto e di formazione.
La pedagogia della famiglia deve contemplare tra i suoi obiettivi la liberazione e l’arricchimento delle competenze educative: “Arricchire ciascuno dei propri doni” (P. Valéry). La famiglia è troppo spesso un luogo cui sono sottese forme di routine, attività
automatiche e inconsce. Ma da implicita l’educazione deve diventare consapevole.
Gli interventi devono sostenere il genitore nell’attuazione del suo potenziale e favorire una ricaduta riflessiva sull’azione. La prospettiva è quella di stimolare un’esperienza
pedagogica più diversificata e critica per genitori più competenti.
Prevenzione
Questa concezione di educazione alla genitorialità va intesa anche come una rinnovata occasione di prevenzione. Superando l’ottica preventiva mutuata dal mondo medico e
tesa all’individuazione precoce dei fattori di rischio all’interno della famiglia, l’attivazione
di interventi nell’ottica della “prevenzione formativa” considera le potenzialità della famiglia e le risorse che questa dimostra di possedere, coinvolgendo i suoi membri nella ricerca
delle modalità di superamento delle difficoltà.
Questi interventi di educazione familiare agiscono sulle diverse dimensioni delle personalità dei genitori: tendono a coinvolgerli sul piano emotivo (vivere nuove esperienze),
cognitivo, (trasmissione delle conoscenze), comportamentale (trasformazione dei comportamenti).
Risulta, inoltre, sempre più evidente come il lavoro con i genitori migliori anche i
risultati del bambino, sviluppando la sua autonomia e stimolando la sua crescita complessiva.
In questa prospettiva, appare evidente come la predisposizione di percorsi volti all’implementazione delle capacità genitoriali sarebbe funzionale a fornire ai “nuovi genitori”
gli strumenti per sviluppare una genitorialità consapevole e autonoma, in grado di gestire
la complessità delle richieste della società contemporanea e di inserirsi all’interno di una
rete di rapporti che sia un sostegno e uno stimolo per la crescita.
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3. Genealogia del padre
Arianna Di Cesare
Il mito della paternità: da Ettore al padre contemporaneo
Le immagini di miti, fiabe e sogni ci aiutano a comprendere l’importanza della figura
paterna in tutte le epoche e in tutte le società.
Nietzsche addirittura sosteneva che “chi non ha un padre, se lo deve dare”. Ma per
capire il padre oggi è necessario guardare alla Grecia antica, perché proprio in quel periodo storico, la figura paterna attraversò una crisi analoga a quella odierna (Zoja, 2003).
Dagli antichi greci abbiamo ereditato le immagini mitiche, tra cui il mito del padre.
Con l’arrivo degli Elleni, i ruoli maschili e femminili si squilibrarono a favore dell’uomo, fino quasi ad una sorta di esaltazione della figura paterna. Esiodo e Omero, i primi
poeti dell’antichità, diffidavano radicalmente delle donne, e soprattutto nella “Teogonia”,
opera in cui Esiodo narra la genesi delle divinità, si riscontra una linea prevalentemente
maschilista, soprattutto nel momento in cui Zeus, unitosi a Metis (intelligenza saggia e
prudente), fu costretto ad inghiottirla per evitare che potesse generare prole in grado di
mettere in pericolo la propria forza e autorità. Metis, nel momento in cui venne inghiottita era incinta di Atena, che trovandosi all’interno del corpo del padre, venne partorita
dalla testa dello stesso Zeus.
La dea Atena, colei che amministra la saggezza, l’intelligenza e la forza guerriera, appena nata era già vestita delle armi e conserverà tutti gli aspetti della figlia del solo padre,
proteggendo solo i maschi vincenti, tra cui Achille, a fianco del quale scenderà in battaglia
contro Ettore (Zoja, 2003).
La mitologia greca ci restituisce due immagini molto diverse del maschile. Da un lato
Ettore, figlio del re di Troia Priamo, patriota e padre allo stesso tempo e dall’altro Achille
che domina l’Iliade con le sue gesta, ma anche con la sua furia violenta, irrispettosa,
arrogante.
Ettore incarna la figura del padre, anche nella contemporaneità. “Il gesto di Ettore”,
di elevazione del figlio Astianatte al cielo prima della battaglia, trova riscontro nella figura
del padre nella nostra epoca, in cui gli aspetti affettivi non sono meno rilevanti di quelli
normativi.
Sembra infatti che oggi i padri sorreggano i bambini piccoli in modo diverso dalle
madri.
Secondo un’indagine psicologica americana, condotta negli anni ’90, da due studiosi,
Popenoe e Shapiro, le modalità paterne si manifestano principalmente gettando il bambino in aria e abbracciandolo in modo che guardi l’esterno (Popenoe, 1996; Shapiro, 1994).
In questo senso Omero appare molto moderno ed attuale. Ettore rappresenta una
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figura unica nei poemi omerici, dove vengono cantante gesta eroiche e dove l’eroe è colui
che deve combattere, uccidere gli avversari, prevalere, competere. Ettore, Andromaca
ed Astianatte, incarnano l’immagine di una famiglia nucleare, rintracciabile nella nostra
società.
L’eroe troiano sa che probabilmente non tornerà da sua moglie e da suo figlio dopo
aver affrontato Achille, il suo senso del dovere, la sua lealtà nei confronti della patria lo
spingeranno ugualmente a combattere.
L’immagine di Ettore che saluta Andromaca e soprattutto Astianatte è l’immagine di
un eroe, anzi di un padre-patriota, che con estrema tenerezza e generosità si toglie l’elmo,
gioca con il figlio e stringendolo tra le braccia lo eleva al cielo augurandogli di essere più
forte e valoroso di lui.
Forse oggi non è facile immaginare un padre generoso come lui, anzi alcune interpretazioni, tra cui quella Freudiana, pongono padre e figlio in una condizione di rivalità.
Achille, a differenza di Ettore, mostrerà arroganza anche nel momento della vittoria,
non si farà scrupoli a gettare il corpo di Ettore in pasto ai cani e agli avvoltoi.
Anche Achille era padre, aveva un figlio, Neottolemo, feroce quanto proprio quanto
lui, che non esiterà ad uccidere Astianatte, ma nonostante ciò, l’eroe si posiziona comunque completamente al di fuori della dimensione paterna. Ad uno sguardo attento, l’armatura indossata da questi eroi epici, sembra quasi rappresentare una metafora dell’autorità
paterna, una forma di difesa nei confronti dell’esterno, ma anche nei confronti dell’interno, quasi paradossalmente difesa dalla propria famiglia.
La figura del padre tutto d’un pezzo, corrisponde all’immagine di una corazza nei
confronti di altri padri, nei confronti dei figli e soprattutto nei confronti di se stessi
(Zoja, 2003). Ettore, pur essendo caduto in battaglia, rimarrà sempre vivo, in quello che
rappresenta, nel suo significato intrinseco.
Un’altra figura interessante emersa nell’Odissea, è quella di Ulisse. Personaggio contraddittorio, ambivalente, campione di furbizia, prototipo dell’inganno che contraddistingue il genere umano, ma che nonostante ciò rimane affidabile e coraggioso. Nelle sue
avventure si nasconde il calcolo da cui può trarre un vantaggio.
Il viaggio di Ulisse nell’Odissea rappresenta la nascita di una responsabilità familiare e
di una capacità di scelta. Egli desidera ogni giorno il ritorno a casa, il ritorno da Penelope,
nonostante la sua fragilità nei confronti del mondo femminile. Così, di fronte al fascino
della dea Calipso si lascia scappare ciò che pensa realmente: “Se non torno a casa, cosa me
ne faccio della tua pelle sempre fresca?, voglio mia moglie” (Omero, Odissea, XI, 29-36) .
Ulisse sembra rifiutare le altre donne, non tanto per la moglie, ma per lo struggimento del ritorno. Penelope è comunque parte della patria cui Ulisse vuole tornare e
dell’ordine paterno che invoca costantemente.
Per un naufrago la vista della terra è come per un figlio la vista del padre guarito dopo
una grave malattia (Omero, Odissea, V, 394).
Che ruolo ha il figlio Telemaco in quest’ordine paterno? Telemaco attende da sempre
il ritorno del padre partito oramai da circa vent’anni per la guerra di Troia, mentre la sua
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casa è invasa dai Proci. Quella di Telemaco non è un’attesa impotente, egli prende varie
iniziative per salvare la sua terra dai Proci ed intraprende anche un viaggio alla ricerca del
padre (Recalcati, 2014).
Lo sguardo di Telemaco scruta l’orizzonte, è aperto sull’avvenire e diversamente da
Edipo, non vive il padre come un ostacolo, non sperimenta il conflitto con il padre.
Attende il padre, attende la legge del padre che riporterà ordine nella patria usurpata dai
Proci (Recalcati, 2014).
Diversamente da Edipo, Telemaco si rivolge all’assenza del padre con la speranza
di poterlo trovare. In questo caso l’assenza non rappresenta il trauma dell’abbandono,
Telemaco desidera non solo che il padre torni, ma che vi sia un “padre” a porre fine alla
devastazione arrecata dai proci.
Lo psicoanalista Massimo Recalcati, parla di complesso di Telemaco, come ribaltamento del complesso edipico di Freudiana memoria. Edipo viveva il padre come un rivale, Telemaco aspetta il padre che non ha mai conosciuto per riportare ordine ad Itaca, la
propria terra. Nella nostra società siamo contornati da tanti “Telemaco”, che trovandosi
di fronte al tramonto della figura paterna, hanno lo sguardo rivolto verso l’orizzonte del
mare nell’attesa che qualcosa di questo padre faccia ritorno. Proprio come Telemaco, i
figli dei nostri tempi attendono, non più un “padre padrone”, ma un “padre Testimone”.
Dai padri contemporanei i figli non si aspettano dogmi, repressione o disciplina, ma
insegnamenti su come si possa stare al mondo attraverso la testimonianza della propria
vita e delle proprie esperienze. Telemaco indica il modo giusto di ereditare, egli è l’icona
del figlio che non solo cerca suo padre, ma rappresenta il bisogno di padre.
La ricerca del padre è un tema antico e archetipico: “L’assenza del padre è nota da sempre, e in questo senso anche la nostra epoca non fa eccezione. Nuova, e forse ancora più grave
sarebbe l’assenza di ricerca del padre” (Zoja, 2003).
Identità di genere e ruolo paterno: uno sguardo antropologico
“La paternità è un’invenzione sociale. Gli uomini devono imparare a desiderare di provvedere ad altri e questo comportamento, essendo acquisito, non ha basi solide e può sparire
facilmente se le condizioni sociali non continuano ad insegnarlo” (Margaret Mead, 1949).
L’antropologa Statunitense Margaret Mead, negli anni ’50, affronta il tema
dell’identità di genere, nelle sue celebri ricerche condotte in Nuova Guinea, focalizzando
la propria attenzione sul rapporto tra le differenze biologiche degli individui e le differenze di ruolo e di comportamenti attribuiti ai due sessi dalla cultura (Mead, 1949).
Da tali indagini è emerso che “il genere” è una costruzione sociale e che le differenze
negli atteggiamenti e nei comportamenti degli uomini e delle donne variano in base alla
cultura di riferimento. Le ricerche di M. Mead, orientate allo studio di culture e società
molto lontane da quelle occidentali, come quelle di tribù quali gli Arapesch, i Mundugumor e i Tschambuli, si sono comunque rivelate di fondamentale importanza per la
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comprensione delle differenze di genere e soprattutto nella comprensione e spiegazione
di comportamenti innati o culturalmente acquisiti (Mead, 1949).
Gli Arapesch erano una popolazione molto pacifica. L’aggressività, la competitività
e la possessività erano considerate negativamente. Nella cura e nell’educazione dei figli
c’era una stretta collaborazione tra uomini e donne e l’espressione “partorire un figlio” si
riferiva sia alle madri che ai padri. I figli erano educati con affetto e tolleranza e crescevano
sicuri di sé e guardavano gli adulti con fiducia (Mead, 1949). Molto differenti erano i
Mundugumor, tribù di cannibali e cacciatori di teste. I valori dominanti e positivi erano
violenza ed aggressività. Uomini e donne erano contraddistinti per un temperamento
irascibile. L’istinto materno era pressoché inesistente, la gravidanza e l’allattamento erano
vissuti con ostilità e paura.
Le donne inoltre provavano gelosia e rivalità nei confronti delle figlie femmine e i
figli maschi venivano allevati con durezza, lontani dal corpo della mamma per infondere
ostilità nei confronti dell’ambiente (Mead, 1949). Tra gli Tschambuli vi erano invece delle grandi differenze tra il ruolo femminile e quello maschile, ma tali ruoli erano opposti
a quelli tradizionali.
Le donne erano dispotiche, pratiche ed efficienti, gli uomini passivi, sensibili e delicati. Le prime si dedicavano ad attività produttive e commerciali, i secondi ad attività
artistiche e si occupavano con particolare sensibilità della cura dei bambini.
L’antropologa statunitense, sostiene, alla luce di quanto osservato tra le tribù della
Nuova Guinea che la funzione materna, è ereditata naturalmente e biologicamente, mentre l’identità paterna non possiede questa stabilità ed è molto variabile dal punto di vista
storico e culturale (Mead, 1949). Tranne alcune eccezioni, il materno esiste, mentre il
paterno si impara culturalmente.
Da qui emerge una sorta di bipolarità dell’identità maschile, un’identità che va insegnata di nuovo ad ogni generazione. Tale caratteristica dell’identità maschile trova riscontro nella società contemporanea e nel cambiamento della figura e del ruolo paterno
in relazione ai nuovi modelli familiari, alla ridefinizione del concetto di autorità nelle
diverse epoche storiche e rispetto alla figura femminile nella società attuale, dove i ruoli
genitoriali sembrano spesso confondersi, come spesso accade anche per i ruoli sociali.
La vera rivoluzione odierna risiede nel fatto che oggi il padre è coinvolto direttamente
nelle pratiche di accudimento dei figli, a volte rinunciando alla propria autorità a favore
dell’affetto. Da una configurazione verticale legata dell’archetipo del padre che rappresenta un’immagine di guida, di trasmissione del sapere da generazione in generazione, tipica
del Cristianesimo dove tale relazione è particolarmente forte ed alimentata dall’idea di
un Dio che è essenzialmente “Padre”, si è passati ad una configurazione orizzontale per
arrivare ad una sorta di interscambiabilità con la figura materna. Fino a qualche tempo fa
la figura del padre era assente nell’educazione quotidiana dei figli che, almeno nei primi
anni di vita era demandata quasi esclusivamente alla madre, mentre il padre rappresentava l’autorità, la figura preposta a porre limiti.
Oggi le cose sono radicalmente cambiate, il padre ha assunto gli stessi diritti/doveri
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della madre e molto spesso ricopre un ruolo centrale nei momenti di accudimento e nei
momenti ludici del bambino, un tempo prerogativa della figura materna, tanto che si è
arrivati a creare il neologismo di “mammo”.
Si può parlare quindi di crisi dell’autorità paterna? Da un punto di vista storico e
sociologico si potrebbe a mio parere sostenere che oggi sia in crisi l’autorità in senso
generalizzato.
Per quanto riguarda l’autorità paterna mi sembra che questo ammorbidimento nella
relazione padre-figlio, che questa tenerezza, non porti in sé nulla di negativo se compensata da un altro aspetto del ruolo paterno, quello di preparare il figlio ad affrontare il
mondo esterno, ad entrare in società e a porre dei limiti, così come avveniva nelle società
tradizionali o rurali, anche se nella società post-industriale, quella dei consumi, la famiglia sembra non avere più una gerarchia.
Per dirla con le parole di Fernando Savater “forse la moderna sfida illuminata è quella
di proporre ed accettare un tipo di padre che abbia sufficiente autorità per gestire la paura iniziatica su cui si fonda il principio di realtà, ma non sia privo, però, della tenera sollecitudine
domestica, vicina e pregna di abnegazione, che per secoli ha caratterizzato il ruolo familiare
della madre. Un padre che non rinunci ad essere tale ma che al contempo, sappia maternizzarsi per evitare gli eccessi patriarcali e castranti del sistema tradizionale.” (Savater, 1994).
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39
4. Precursori della genitorialità
Fabio Rossi
L’esperienza psicologica della nascita
Il ruolo del genitore non si acquisisce come per incanto nel momento esatto della nascita del bambino ma è frutto di un processo evolutivo che parte da lontano, dall’infanzia
e dalle prime relazioni con le figure primarie di accudimento, ed il parto rappresenta solo
la reificazione di questo processo.
Nella prospettiva di questo processo evolutivo, già l’esperienza della gravidanza costituisce un importantissimo banco di prova in cui le esperienze del passato si intrecciano
con quelle presenti e con la progettualità futura. Questa esperienza impone, infatti, tutta
una serie di richieste di cambiamento alla futura madre, al proprio partner e a tutto il
suo sistema e non è un caso che Bibring (1959; 1961) consideri la gravidanza un evento
che impone una crisi maturativa evolutiva che, allo stesso modo della pubertà e della menopausa, conduce all’acquisizione di un livello di integrazione più maturo ed alla strutturazione completa della personalità. Pines (1972; 1982), a questo proposito descrive la
gravidanza come un terzo processo di separazione-individuazione nell’ottica descritta dalla
Mahler (1975). La donna, infatti, raggiunge una maggiore e articolata individuazione di
se stessa come donna e come madre, attraverso una differenziazione dei propri confini
personali e del proprio spazio interno nei confronti della propria madre, del partner e
delle altre figure significative.
Con la gravidanza, la donna si viene a trovare in una singolare posizione, essendo
nello stesso tempo figlia di sua madre e madre di suo figlio, una duplice esperienza che la
porta a delle oscillazioni identificatorie tra un Sé Infantile e un Sé Adulto, in cui la futura
madre è spinta, da una parte a ritirarsi in una sorta di fusione mentale col feto e dall’altra
a identificarsi con una madre sollecita che saprà prendersi cura del piccolo (Ammaniti,
1992). A questo proposito la maggior parte degli autori hanno sottolineato l’importanza,
per la donna, di poter contare su una buona immagine materna a cui la giovane mamma
può riferirsi nella sua attuale esperienza, senza essere sopraffatta da elementi conflittuali.
Le esperienze infantili e adolescenziali della donna, inoltre, hanno un ruolo fondamentale nella costruzione di tutte quelle fantasie che accompagnano la gravidanza, sogni
ad occhi aperti condivisi con il partner, in cui la donna cerca di dare una precisa configurazione al bambino nella propria mente. Le future mamme, prima e dopo la nascita
del figlio, formuleranno delle ipotesi su come questo bambino sarà, sulla base sia delle
speranze, dei timori e della storia personale, ma anche della scala di priorità e di valori in
cui credono. Queste fantasie si concretizzano in molti aspetti che vanno dalla scelta del
nome, alla preparazione dello spazio vitale del bambino, alle aspettative sul sesso e sui ca41
ratteri fisici e di personalità del piccolo. Lebovici (1983), a questo proposito, distingueva
tra il Bambino Immaginario, ossia il bambino delle fantasie coscienti e condivise, e il Bambino Fantasmatico, portatore di tutta una serie di fantasie inconsce che possono far vivere
il bambino, ad esempio, come un salvatore o, all’opposto, come un parassita. Tali fantasie
riguardano, ovviamente, anche il modo in cui la donna si rappresenta sia la sua identità
femminile, sia la sua identità di madre e sono inestricabilmente legate, com’è ovvio, alle
rappresentazioni di sé che la futura mamma si è costruita a partire dall’infanzia e a tutte
quelle rappresentazioni relative alle sue figure primarie di accudimento e al rapporto con
loro. La gravidanza, infatti, richiede una complessa rielaborazione e riorganizzazione delle
precedenti rappresentazione di sé e dell’altro, che poi si configurerà in particolari stili
materni che si rendono operativi nell’accudimento e nella cura del bambino attraverso
modalità interattive specifiche.
Si può, quindi dire, citando Stern (1995) che in una futura madre procedono tre
gravidanze contemporaneamente: il feto fisico che cresce nel ventre, l’assetto psichico che
si orienta verso la maternità e il bambino immaginario che prende forma nella mente.
La relazione genitore-bambino
Quando nasce un bambino non è tabula rasa ma possiede un corredo di capacità
sensoriali e comunicative che gli permettono di stare nella relazione con la madre in
maniera attiva e di regolare, quindi l’esperienza. Queste capacità, sebbene ancora grezze,
gli permettono di orientarsi verso una figura elettiva, generalmente la madre, da cui ha
ricevuto l’imprinting (Lorenz, 1953). Secondo Bowlby (1969) a partire da questa esperienza di imprinting, si stabilisce un legame estremamente forte tra il bambino e la
madre, basato sulle ripetute esperienze di attaccamento/accudimento nel periodo di immaturità che condurrà il bambino a costruirsi un’immagine di sé e della sua figura di
attaccamento all’interno di quelli che lo psichiatra britannico chiamava Modelli Operativi
Interni. Questi ultimi formano, col tempo, il substrato di tutte le esperienze affettive
che il bambino farà nel corso della sua vita in quanto “filtrano” la percezione del mondo
e di sé stesso nel mondo. Grazie al processo che Bowlby (1980) ha chiamato esclusione
difensiva questi modelli operativi tendono a rimanere, pur variando in funzione dell’età,
stabili nel corso del tempo andando così ad influenzare vari aspetti anche della vita adulta
dell’individuo come, ad esempio, la sua genitorialità o caregiving behavior.
Come proposto anche da Main e Goldwyn (1989), un adulto con un modello di attaccamento sicuro, sarà in grado di cogliere e comprendere i segnali del bambino senza
operare distorsioni, mentre un adulto con un modello di attaccamento insicuro, dovrà
ignorare o alterare alcuni dei segnali del bambino perché essi tendono a destabilizzare
l’attuale organizzazione mentale delle esperienze di attaccamento. Questi due contesti di
accudimento vengono definiti sensibili (o sensitive), nel primo caso, e insensibili (o insensitive) nel secondo caso.
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Un genitore sensibile viene definito come un genitore in grado di rispondere in modo
pronto ed adeguato ai bisogni del bambino, riuscendo anche a comunicare in maniera
soddisfacente con lui a un livello emotivo, a questo proposito è stato formulato il concetto di responsività materna (Riva Crugnola, 1999) che esprime, per l’appunto, questa
capacità genitoriale di percepire, comprendere e rispondere in maniera funzionale ai bisogni del bambino ed anche la disponibilità ad espletare queste funzioni. Al contrario
un genitore insensibile non è in grado di percepire e di rispondere ai bisogni del piccolo
strutturando, in questo modo, una situazione in cui gli affetti e le emozioni non trovano
uno spazio condivisibile e comune tra il bambino ed il genitore e nella relazione che ne
deriva, emerge uno scambio affettivo incoerente e scarsamente reciproco che non consente al bambino di comprendere gli stati emotivi che si stanno, via via, sviluppando in lui.
Un contributo importante, in questo senso, è quello che viene dall’Analisi Transazionale di Eric Berne che nella sua descrizione degli stati dell’Io che compongono la
personalità umana, includeva, oltre ad uno stato Bambino (o archeopsichico) latore dei
residui infantili interiorizzati, e ad uno stato Adulto (neopsichico) che comporta una
valutazione oggettiva della realtà; anche uno stato dell’Io Genitore (o esteropsichico) che
deriva dall’introiezione di stati che riproducono quelli dei genitori (così come la persona
li vedeva). Questo Genitore si manifesta in due forme, diretta, come stato attivo in cui
l’individuo agisce come agivano effettivamente i suoi genitori (“Fa come me”); e indiretta, come influenza che spinge ad agire come i genitori volevano (“Non fare come me, fa
quello che io ti dico”).
Trattandosi di un’introiezione a partire dalle reali figure genitoriali, è normale che
uno stato dell’Io Genitore presenta sia quelle caratteristiche parentali volte al controllo
e all’imposizione di regole, sia quelle volte alla cura e all’affetto. Esistono, quindi, due
forme in cui questo stato dell’Io può manifestarsi: sotto forma di Genitore Normativo, nel
momento in cui la persona ripropone comportamenti volti ad orientare ed indirizzare
l’azione dell’altro, o sotto forma di Genitore Affettivo, quando invece tende a dimostrargli
affetto e cura. Alcuni autori fanno distinzione tra le suddivisioni positive e negative in
ciascuna di queste parti del Genitore: il Genitore Normativo Positivo consiste in tutte
quelle norme genitoriali che mirano a proteggere e a promuovere il benessere dell’altro; il
Genitore Normativo Negativo consiste in quei comportamenti genitoriali volti a sminuire
e svalutare l’altro; il Genitore Affettivo Positivo comporta un prendersi cura degli altri
partendo da una posizione di rispetto; il Genitore Affettivo Negativo significa dare aiuto e
vicinanza da una posizione che svaluta l’altro.
Genitorialità a rischio
Il passo successivo, nel percorso di analisi delle dinamiche che portano alla strutturazione delle relazioni di accudimento, riguarda tutti quei fattori che possono mettere a
rischio questo percorso e, quindi, compromettere lo sviluppo funzionale del bambino. Le
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ricerche più recenti riguardanti le condizioni genitoriali considerabili a rischio in questo
senso, si concentrano fondamentalmente su 4 livelli.
Un primo livello riguarda le condizioni specifiche dei caregiver, quali la presenza di
condizioni psicopatologiche (in particolare schizofrenia e depressione), di comportamenti disfunzionali (quali l’abuso di alcool) o delinquenziali, e la presenza di stili di parenting maltrattanti (Candelori, Mancone, 2001; Riva Crugnola, Albizzi, Walder, 2007).
Tuttavia questi fattori sono effettivamente predittivi di disturbi dello sviluppo solo se
combinati con ulteriori fattori che possono avere effetto di moderazione. Tra questi, una
grande importanza rivestono i Modelli Operativi Interni e lo Stile di Attaccamento dei
genitori, in particolare della madre (Teti e Gelfand, 1997), che permette la strutturazione
di stili di caregiving flessibili ed adeguati ai bisogni dei bambini, nonché la strutturazione
di modalità di relazione, che siano ampie e stimolanti e che abbiano una funzione di regolazione e sintonizzazione con il bambino (Haft e Slade, 1989; Sroufe, 1995; Stern, 1995).
Il secondo livello riguarda le caratteristiche stesse del bambino, i suoi tratti temperamentali quali irritabilità, emozionalità negativa e disregolazione biologica (Murray e Cooper, 1997) e la strutturazione di adeguati Stili di Attaccamento in modo da permettere
al bambino, in seguito, di formarsi una Base Sicura e dei Modelli Operativi improntati
alla Fiducia, in sé e negli altri.
Un terzo livello è quello concernente le relazioni coniugali tra i due genitori che può
essere un fattore di notevole facilitazione nelle attività di cura e accudimento ed un fattore
di sostegno reciproco tra i partner.
Un quarto livello riguarda la relazione di caregiving, sia intesa come specifica relazione
diadica genitore-bambino ma, soprattutto, come Alleanza Genitoriale, ossia come capacità di collaborare alla genitorialità in maniera rispettosa e cooperativa (Fivaz-Depeursigne,
Corboz-Warnery, 1999).
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5. Un percorso per la comunicazione
intrafamiliare
Andrea Calderone, Donatella Tomassi
Premessa
Prima di procedere alla presentazione del lavoro svolto nell’ambito del progetto “Radici e Ali”, che ha visto nell’organizzazione di un percorso per la genitorialità il punto focale
dell’intervento, riteniamo doveroso fare delle premesse che, nella loro semplicità, possano
rendere conto delle scelte metodologiche effettuate nell’ambito del nostro operato.
Il presupposto di partenza, con cui il progetto è stato presentato ai genitori e che è
stato il filo conduttore dell’intero intervento, è la convinzione che non esista il “genitore perfetto”, così come non esiste la perfetta relazione genitore-figlio. Ciò che invece è
sempre presente è un rapporto che coinvolge tre soggetti attivi e dotati di intenzionalità e all’interno del quale ogni individuo cresce vivendosi reciprocamente. Conseguenza
operativa diretta di questa convinzione è stata quella di non offrire un pacchetto predeterminato di tecniche, formule e soluzioni da utilizzare in modo rigido all’interno del
rapporto con il bambino; riteniamo, infatti, che un atteggiamento di questo genere non
possa render conto della complessità che caratterizza il rapporto genitore-figlio e, più in
generale, i rapporti umani.
Il secondo elemento fondamentale che ha caratterizzato l’intervento è stata la volontà di focalizzare l’attenzione sulle risorse e competenze possedute piuttosto che sulle
criticità. Così come per favorire l’apprendimento e incrementare il senso di autoefficacia
del bambino è opportuno focalizzarsi sui risultati raggiunti piuttosto che sulle criticità
incontrate, allo stesso modo un percorso che miri a far sì che ognuno possa essere il miglior genitore possibile per il proprio bambino deve necessariamente partire dalle risorse
già presenti, dalle competenze che spontaneamente emergono all’interno della relazione
con il bambino. Soltanto in questo modo è possibile restituire al genitore il senso della
propria efficacia, della propria unicità e motivarlo a vivere ogni momento di crisi come
un momento di potenziale crescita e rafforzamento e non come un momento in cui ci si
sente sovrastati dagli eventi e incapaci di reagire.
Infine, uno dei principi guida alla base dell’intervento è stata la volontà di restituire
valore allo stare insieme. All’interno di una società sostanzialmente individualistica, che
rende lo scambio con l’altro qualcosa che sottrae tempo al dovere nei confronti della vita
professionale e alle incombenze familiari, quasi un “lusso” che viene vissuto dai genitori
stessi con un costante senso di colpa, creare uno spazio dedicato alla riflessione individuale e collettiva e al confronto è stato uno degli elementi cardine del progetto. I genitori
sono un inconsapevole serbatoio di informazioni ed esperienze e la possibilità di mettere
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in campo questo bagaglio di inestimabile valore restituisce senso al proprio ruolo e favorisce la presa di coscienza delle proprie potenzialità.
Le premesse date forniscono lo scopo di questo lavoro, che è quello di presentare un
percorso in cui le nozioni teoriche e le scelte operative e metodologiche si intrecciano
con ciò che viene vissuto nel qui ed ora all’interno del gruppo e che, in quanto tale, è
difficilmente riconducibile a uno schema precostituito. Il nostro tentativo sarà quello di
esporre, nel modo più chiaro possibile, gli elementi cardine che hanno contraddistinto
questo percorso, consapevoli però del fatto che a rendere efficace ogni intervento è la
capacità empatica o (gestalticamente) “sim-patica” di stare con il gruppo.
Perché un percorso sulla genitorialità?
Negli ultimi anni si è assistito al proliferare in Italia di “scuole per genitori”, “corsi
per genitori” e, in generale, di itinerari educativi di supporto alla genitorialità. Spesso,
nel corso della nostra esperienza, abbiamo avuto modo di confrontarci con persone che
si ponevano interrogativi sul perché, improvvisamente, l’essere genitori fosse diventato
qualcosa di tanto complesso da legittimare la partecipazione ad un “corso”; l’obiezione
più frequente veniva fatta attraverso un confronto tra sé stessi e le famiglie d’origine, con
frasi come “mia madre e mio padre non hanno mai frequentato delle lezioni per essere
genitori, eppure hanno fatto ugualmente un buon lavoro”. Un’affermazione di questo
genere difficilmente è obiettabile. C’è però un elemento da considerare ed è quello su cui,
fin dagli incontri preliminari, abbiamo sollecitato la riflessione dei genitori. Nella specie
umana, a differenza di quanto accade nelle altre specie animali, l’essere genitori non si
esaurisce con il mettere al mondo il nuovo nato. Per comprendere ciò, intendiamo, è
necessario fare una distinzione tra due concetti che, spesso, anche nella letteratura specialistica vengono sovrapposti: la generatività e la genitorialità. Mentre la generatività è un
processo che rimanda all’atto di generare e, concretamente, nella vita di ognuno fa riferimento alla procreazione, la genitorialità riguarda processi interiori di “prendersi cura”, è
espressione del progetto di fare figli, un progetto condiviso all’interno della coppia, che
non si esaurisce con il generare una nuova vita, ma si concretizza nell’accompagnare il
bambino nel processo di costruzione di sé come individuo autonomo e in grado di stare
nel mondo. In questo senso, essere genitori è processo culturale, che coinvolge anche la
società in cui si vive e che, inevitabilmente, ne viene influenzato.
Nella società contemporanea i genitori hanno maturato un’idea, la cui novità riguarda soprattutto la concezione del bambino: un bambino che possiede delle competenze
innate, una disponibilità a crescere ed apprendere, con il bisogno di essere amato e riconosciuto, di essere incoraggiato mentre esplora l’ambiente.
Questa prospettiva complica il mestiere di genitore, perché richiede un’identificazione con le ragioni del bambino, una vicinanza emotiva sconosciuta ai modelli educativi
del passato. Una complicazione che richiede di adeguare il proprio stile educativo alle
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caratteristiche del bambino.
Si sta facendo strada, quindi, una nuova rappresentazione della genitorialità, alla ricerca di strategie educative che riducano il senso di incertezza sulla propria adeguatezza.
Nel difficile compito di comprendere il bambino per aiutarlo nella crescita, i genitori
sono alla continua ricerca di confronti e informazioni. Questo richiede che i genitori siano informati sul funzionamento mentale e sui bisogni affettivi del bambino nelle diverse
fasi dello sviluppo, anche in virtù del fatto che le funzioni genitoriali cambiano in rapporto al processo di crescita dei figli, soprattutto in quel difficile passaggio dall’infanzia
all’adolescenza, in cui il ruolo genitoriale rischia di diventare un ostacolo anziché proporsi
come alleato della crescita.
Alla luce di ciò è stato costituito, nell’ambito del progetto “Radici e Ali”, un percorso
per la genitorialità, che è stato così definito proprio per rimarcare il dinamismo intrinseco dell’essere genitori, uno stato in continua evoluzione che necessita costantemente di
ridefinirsi.
Modelli teorici, strumenti e metodologie
Il progetto prevede un approccio multidisciplinare e pertanto integra approcci teorico-metodologici diversi: la psicoanalisi (Freud, Klein, Winnicott, Erikson, Bion), la
psicologia analitica, la psicologia corporea, l’analisi transazionale (Berne), la psicologia
umanistica (Rogers, Maslow), la teoria dell’attaccamento (Bowlby), l’Infant Reserch, la
Video Intervention Therapy (Downing), la psicologia della Gestalt, il modello relazionale-sistemico (le Costellazioni Familiari Sistemiche), le teorie della comunicazione di
Watzlavich.
Sollecitando l’attivazione delle risorse, la riformulazione dei modelli appresi, la ricerca
di modi alternativi della propria genitorialità, vengono promosse, più che soluzioni, vie
di ricerca.
Il percorso stimola la presa di contatto e la consapevolezza dei propri “nodi interni”.
Agitando le tensioni interne, ognuno può anche intuire se ha bisogno di un percorso più
profondo.
I contenuti affrontano temi come la percezione di sé e dell’altro, la separazione (dai
propri figli, dalla famiglia d’origine), le opposizioni e l’autonomia (dei bambini e degli
adulti), la necessità dei limiti e delle regole (da porsi e da porre), i propri e gli altrui bisogni di sostegno, le ambivalenze nella relazione affettiva, l’esplorazione dei sentimenti
(positivi e negativi), i vissuti, i comportamenti e la loro elaborazione all’interno della
dinamica familiare e della relazione educativa.
Gli incontri sono stati strutturati sul modello dei gruppi di condivisione, pertanto
viene favorita una comunicazione circolare mediata dagli operatori (conduttore e coconduttore): in questo modo, le informazioni e le esperienze possono essere condivise e
diventare un valido contributo per ogni membro del gruppo.
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I conduttori, in quest’ottica, assumono il ruolo di facilitatori dello scambio reciproco,
forti della convinzione che ogni genitore, anche in situazioni di difficoltà, è il maggior
esperto di sé e della propria famiglia, per cui con il supporto degli operatori e degli altri
membri del gruppo può attingere dalle proprie risorse e superare gli ostacoli che incontra.
I conduttori-facilitatori stimolano i genitori affinché ricerchino le proprie soluzioni e sviluppino le proprie potenzialità, stimolando in tal modo l’autonomia e il riconoscimento
della propria efficacia. Gli organizzatori e gli operatori devono avere la cognizione che la
partecipazione agli incontri non può essere risolutiva dei problemi delle famiglie, ma può
essere un’occasione di apertura, per restituire ai genitori la consapevolezza delle proprie
capacità, fondamentali per costruire piccoli spazi, canali di incontro e di comunicazione.
Nei gruppi non vengono date ricette sul piano educativo o comportamentale e ognuno ha il diritto di esprimere o non esprimere i propri pensieri e i propri sentimenti (rispettare segreti, pudori, ritrosie, riserbo), di fare o non fare (rispettare le scelte su quando
e come mettersi in gioco), rispettare il diritto di ognuno alla riservatezza.
Strumento fondamentale è l’osservazione di ciò che accade, senza l’assunzione di criteri rigidi proprio per comprendere le esigenze che emergono e ricalibrare su queste le
proposte.
Una delle modalità che abbiamo privilegiato per questo ciclo di incontri è il gioco,
l’aspetto gioioso con cui re-imparare ad affrontare la quotidianità prima di tutto e poi anche le situazioni meno piacevoli. Questa dimensione è quella che maggiormente ci aiuta
a sintonizzarci con i nostri bambini; attraverso il gioco e la capacità di affrontare la vita
anche con una buona dose di umorismo, possiamo accedere a una prospettiva per noi più
vantaggiosa: la consapevolezza che il genitore perfetto non esiste.
Una delle metodologie fondamentali utilizzate nell’ambito degli incontri è stata la
Video Intervention Therapy (V.I.T.), elaborata dal Prof. George Downing, strumento
finalizzato allo studio dei processi che regolano l’interazione tra il bambino e i caregivers,
integrando la Teoria dell’Infant Research, la Teoria dell’Attaccamento e le Neuroscienze,
facendo particolare riferimento all’aspetto corporeo.
La V.I.T. osserva e analizza l’interazione caregiver-bambino ricercando gli schemi interattivi ricorrenti e il modo in cui i due partners organizzano il proprio corpo nel campo
intersoggettivo, influenzandosi l’uno con l’altro sia nel processo di autoregolazione che in
quello di regolazione interattiva.
L’analisi microanalitica dell’interazione consente di osservare la danza relazionale che
si sviluppa, individuando oltre ai patterns dominanti e ricorrenti, quelli più deboli ma
disponibili e quindi implementabili; inoltre, essa stimola nel caregiver che si auto-osserva,
con la supervisione di un operatore esperto, riflessioni profonde su se stesso e la sua storia; consente il contatto riflessivo con le proprie emozioni e sentimenti, e lo sviluppo di
migliori competenze autoregolative e relazionali (Sarno G., 2012).
Al fine di effettuare un’analisi quantitativa delle modificazioni interne ad ogni nucleo
familiare, sono state effettuate valutazioni mirate prima dell’inizio del ciclo di incontri e
al termine di questi. Gli strumenti utilizzati sono stati:
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• Colloquio clinico, il cui scopo è stato quello di indagare la motivazione e la situazione
familiare;
• LTPc (Lousanne Triadic Play clinico) per valutare lo stile genitoriale della coppia e il
grado di cooperazione;
• Somministrazione dei seguenti questionari:
- Attachment Style Questionnaire (40 item a scelta multipla)
- Symptom Checklist – 90R (90 item a scelta multipla)
- Dyadic Adjustment Scale (32 item a scelta multipla)
- Parenting Stress Index (36 item a scelta multipla)
Attraverso l’analisi statistica dei risultati ottenuti, è stato possibile verificare l’entità
dei cambiamenti ed effettuare considerazioni più oggettive sul percorso svolto.
Struttura degli incontri
Il percorso di supporto alle competenze genitoriali si è sviluppato attraverso un ciclo
di 10 incontri articolati in modo da affrontare le aree tematiche connesse alla ricerca.
Ogni incontro, schematicamente, è stato così strutturato:
1. Apertura dell’incontro con un’attività finalizzata a creare o consolidare il gruppo
(giochi di comunicazione verbale e corporea, giochi psicologici, role-play, rilassamenti,
visualizzazioni guidate, collage, etc.);
2. Proposta del conduttore (utilizzando materiale in precedenza preparato dal gruppo
di coordinamento centrale del progetto), che prevede la visione di filmati con l’obiettivo
di stimolare la ricerca personale sulle tematiche genitoriali;
3. Riflessione condivisa (verbalizzazione dei vissuti e delle esperienze);
4. Annotazione sulla lavagna degli elementi emersi con la verbalizzazione (per non
perdere di vista spunti e intuizioni);
5. Chiusura dell’incontro, con l’utilizzo della tecnica dell’ancoraggio da parte del
conduttore (consegna di un “compito a casa” e di un dono simbolico, come una breve
sintesi sui punti salienti delle tematiche affrontate).
Parallelamente agli incontri con i genitori sono stati realizzati laboratori ludicoespressivi per i figli dei partecipanti coinvolti nel progetto. Questa iniziativa ha il duplice
merito di aver facilitato la partecipazione dei genitori al percorso e di aver aperto la
possibilità di attuare un intervento non più centrato esclusivamente sui bambini o sui
genitori, ma sulle famiglie.
Reperimento dei partecipanti
La fase di reperimento dei partecipanti ha richiesto un lavoro di rete, nel quale sono
state coinvolte diverse Unità Operative della ASL 1 Avezzano, Sulmona, L’Aquila, scuole
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dell’infanzia e scuole primarie presenti sul territorio dell’Aquila e comuni limitrofi. Allo
scopo di entrare in contatto con nuclei familiari, sono stati svolti incontri informativi
presso diverse scuole dell’infanzia e scuole primarie, dove gli operatori hanno avuto l’opportunità di presentare il progetto e coinvolgere in prima persona il personale docente e
i genitori.
Incontri preliminari
Raccolte le richieste di partecipazione, sono stati organizzati laboratori ludico-espressivi per genitori e bambini; in ogni laboratorio sono stati riuniti diversi nuclei familiari
ed è stato proposto ai genitori di svolgere con i propri bambini un gioco di cooperazione. Per le famiglie con bambini fino ai 5 anni di età è stata strutturata un’attività con
le costruzioni, mentre per chi aveva bambini di età compresa tra i 6 e gli 8 anni è stato
proposto il collage.
I laboratori, dopo aver ottenuto il consenso informato delle famiglie, sono stati filmati e il materiale audio-video prodotto è stato utilizzato all’interno di un incontro di
restituzione ai genitori.
Abbiamo notato come l’approccio dei genitori a questo primo incontro fosse caratterizzato da un’oscillazione tra la curiosità e l’interesse per ciò che avvertivano come
una possibilità di crescita e supporto e il timore di non essere riconosciuti all’altezza del
proprio ruolo. Nella fase iniziale del lavoro, dopo aver visionato all’interno del gruppo il
frammento del video selezionato dagli operatori, iniziava il rituale dell’“autocritica preventiva”: gli stessi genitori anticipavano le critiche che temevano di ricevere dagli operatori e dagli altri genitori: “Tanto lo so dove sbaglio!”, era il senso delle loro prime
espressioni.
Una volta dato sfogo alla propria parte giudicante, attraverso un atteggiamento accogliente e non giudicante da parte degli operatori e del gruppo intero, i partecipanti si disponevano alla visione del video in modo più sereno, anche alla luce del fatto
che le osservazioni degli altri genitori spesso contrastavano con la visione negativa dei
protagonisti del video, pur focalizzandosi su elementi oggettivamente visibili e, quindi,
condivisibili. Gli operatori, in questa fase, mostravano ai genitori come dal video fosse
possibile osservare molte interazioni positive che contraddicevano il giudizio preventivo che avevano espresso su di sé, sistematizzando le osservazioni e le riflessioni che già
emergevano all’interno del gruppo. L’organizzazione del tempo e dello spazio di gioco, la
partecipazione alle attività, l’attenzione condivisa, il contatto emotivo erano gli elementi
su cui ci si soffermava per sottolineare le capacità inconsce dei genitori nell’interazione
con i loro bambini.
Durante gli incontri, i genitori facevano domande precise, anche se le risposte non
potevano esserlo. I genitori accolgono di buon grado che ci si soffermi sugli aspetti positivi, ma non vogliono che si “falsifichi” la realtà, che mostra anche aspetti negativi. Vedono
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nel conduttore un riferimento, se non si sottrae al proprio ruolo, di colui che opera delle
scelte in ambito educativo: in questo modo, può aiutare ogni genitore ad arrivare alle
proprie scelte e ad assumersene la responsabilità.
I criteri della V.I.T. sono stati quindi utilizzati per rinforzare le abilità già esistenti e
motivare i genitori a partecipare a questo percorso di approfondimento delle tematiche
legate alla genitorialità, con lo scopo di creare un contatto organizzato e duraturo tra i
genitori che li supportasse anche al di là di questo breve ciclo di incontri.
Questi primi incontri hanno inoltre avuto l’obiettivo di organizzare delle videoregistrazioni strutturate secondo la procedura LTP Clinico (Lousanne Triadic Play) per
l’osservazione delle microinterazioni tra genitori e bambino (Fivaz-Depeursinge, CorbozWarnery, 1999).
Aspettative dei partecipanti nei confronti del percorso sulla genitorialità
Nel primo incontro abbiamo chiesto a ognuno di presentarsi e di condividere le proprie aspettative nei confronti di un percorso sulla genitorialità. Riportiamo di seguito le
aspettative che sono emerse con una certa frequenza:
- avere una visione più serena del proprio ruolo di genitore;
- più serenità nel rapporto con mia figlia;
- capire meglio me stessa per capire meglio mio figlio;
- incuriosito dalla proposta;
- imparare a gestire di più i bambini;
- un’occasione di confronto con altri genitori;
- imparare come si fa a non farli litigare più fra di loro, a farli diventare complici;
- gestire meglio le cose, perché a volte dico “non ce la faccio più”;
- ricevere pazienza;
- trovare una chiave di lettura di certi atteggiamenti del grande che mi spiazzano e ai
quali spesso non so come reagire;
- mi preoccupo perché anche con le migliori intenzioni e nei compiti più semplici
non sempre riesco a cogliere le vere esigenze dei bambini;
- cosa e fino a che punto posso fare e dare come genitore e anche capire meglio il
carattere di mio figlio, che è sempre in evoluzione;
- sono sola, vengo per vedere se sono capace come genitore single;
- migliorare come papà;
- avere consigli su come educare il bambino, per valorizzare i suoi aspetti positivi,
limitare quelli negativi e trovare un equilibrio tra i bisogni del bambino e quelli della
coppia;
- capire come dare le ali ai bambini, come renderli autonomi, superando la paura di
ciò che potrebbe esserci;
- trovare nuovi strumenti educativi, nonché la capacità di vedere la positività anche
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nelle situazioni che di solito leggo in maniera esclusivamente negativa;
- un confronto con gli altri genitori e trovare le modalità giuste per ottenere risultati
che ancora non riesco a ottenere con i figli;
- imparare ad essere una brava mamma, perché penso di sbagliare in molte cose;
- incrementare la qualità dei rapporti familiari;
- trovare un modo per arginare la conflittualità e recuperare le proprie energie positive;
- trovare un modo per ottimizzare il poco tempo da dedicare ai bambini (a causa del
lavoro) e capire se pretendo troppo dai figli o se gli sto dando troppo poco;
- capire come rapportarmi con la bambina, che è molto ansiosa, e come darle quelle
radici che a me sono sempre mancate.
L’ascolto delle diverse aspettative ha confermato le nostre ipotesi sull’esigenza per i
genitori di nuovi modelli educativi, sul senso di inadeguatezza, soprattutto in situazioni
di conflitto e di stress, il desiderio di maggiori informazioni sul funzionamento della
mente del bambino nelle varie fasi dello sviluppo, l’idea di ricevere consigli e conforto
nel confronto con altri genitori, l’idea che una parte del sapere sul ruolo genitoriale è
acquisito passivamente e inconsapevolmente e una parte necessita di un apprendimento
attivo, la generale disponibilità ad adattarsi alle specifiche caratteristiche di personalità
del bambino, la consapevolezza che una buona armonia all’interno della coppia aiuta nel
rapporto educativo con i propri figli.
Sulla base delle indicazioni fornite dalla ricerca sulle competenze genitoriali e di una
ricognizione più mirata dei bisogni, prendendo spunto quindi anche dalle reali aspettative e richieste dei partecipanti agli incontri, abbiamo strutturato un’ipotesi di percorso
individuando quelle tematiche che potessero tornare più utili alle finalità del progetto.
Riportiamo di seguito la struttura degli incontri, ma con una avvertenza: la struttura
non è mai stata considerata nella sua rigidità e immobilità, ma nella sua plasticità, nella
sua capacità di dare forma, di sprigionare le sue potenzialità nell’adattamento creativo alle
esigenze vive del gruppo.
“Radici e Ali”. Progetto di prevenzione per lo sviluppo di competenze educative e
genitoriali
“Finché i tuoi figli sono piccoli, dai loro
radici. Quando sono grandi, dai loro ali”
(Proverbio indiano)
1) Chi è il mio bambino?
Essere genitori può far paura: nessuno ce l’ha insegnato e quasi all’improvviso ci troviamo a fare i conti con un bambino che ha completamente bisogno di noi.
Ma anche essere figli non è semplice: sentirsi sempre sotto esame, soddisfare i desideri
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dei genitori (dormire tutta la notte ininterrottamente, camminare in posizione eretta già
a 9 mesi, ecc.).
Per fortuna la vita è un processo di separazione, in cui è importante riconoscersi come
esseri separati e diversi. Riconoscersi non è però così semplice. I genitori, all’inizio, sono
in relazione più con il proprio “bambino immaginario” che con il “bambino reale”. Il
bambino ideale dell’immaginario dei genitori condiziona lo svolgimento delle fasi dello
sviluppo del bambino. Secondo la Mahler, il bisogno inconscio della madre attiva, tra
le infinite potenzialità del bambino, quelle che riflettono i bisogni specifici della madre
stessa; tra la varietà di segnali che il bambino produce per indicare i sui bisogni e le sue
emozioni, la madre risponde selettivamente solo ad alcuni segnali, inducendo il bambino,
che vuole essere accettato e gratificato, a modificare il proprio comportamento in relazione alle risposte materne.
La pratica psicanalitica “recupera” le informazioni di base sul processo di formazione
della personalità del bambino attraverso il racconto autobiografico dell’adulto. Per comprendere più a fondo i vissuti del bambino, il genitore può provare a ricordare la propria
infanzia e le sensazioni e i sentimenti che suscitavano in lui le azioni e le risposte dei propri genitori, può provare a intuire con i sentimenti il senso che possono avere le cose per
suo figlio (Bettelheim, 1987). Cosa abbiamo dovuto modificare di noi stessi da bambini
per avere l’apprezzamento dei nostri genitori?
I genitori mantengono un contatto con le diverse fasi in cui si è scandita la propria
vita attraverso l’identificazione (l’essere stati bambini e adolescenti) e attraverso la relazione (il rapporto con i propri figli bambini e adolescenti). Identificazione e relazione sono
le due tematiche descrittive della situazione edipica le cui dinamiche possono aiutare o
complicare ulteriormente il rapporto con i propri figli.
La discrepanza fra il bambino reale e l’immagine che abbiamo di lui suscita sempre
un’attenta riflessione. Il riconoscimento, però, è fondamentale per la nascita del Sé. Anche da adulti preferiamo incontrare le persone che ci fanno sentire riconosciuti. Per un
bambino è vitale avere il riconoscimento del genitore, il riconoscimento della sua identità
separata e autentica.
Di fronte al riconoscimento delle differenze individuali tra le personalità dei bambini,
occorre anche individuare alcune caratteristiche ricorrenti nel nostro contesto socio-culturale. Si affaccia all’orizzonte anche l’idea che i bambini di oggi siano in parte diversi dai bambini di un tempo: i nuovi bambini sono forti, perché precoci, curati e stimolati a esprimersi
liberamente; sono fragili, perché cresciuti all’interno di un modello educativo all’insegna
della protezione continua. Sono intelligenti e sensibili, ma vulnerabili (Vegetti Finzi, 2008).
La percezione e la consapevolezza dell’alterità del figlio da parte dei genitori rappresenta il primo gradino del percorso per la valorizzazione del suo mondo interno e per aiutare i genitori a evidenziare i suoi aspetti positivi, utilizzando i concetti di risorse e punti
di forza, piuttosto che di criticità e punti problematici, in modo da cercare un’alleanza
con questi punti di forza proprio per sostenere l’impegno del bambino nella crescita e
nella costruzione di un’identità.
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- Attività Previste
Abbiamo proposto un’attività di presentazione strutturata come “Gioco di Presentazione a Coppie”. Le persone, a coppie, si sono presentate l’una all’altra; poi, nel gruppo,
ognuno ha descritto l’altro secondo le informazioni che ha ricevuto.
Dopo la presentazione siamo passati a proiettare lo spezzone del film “Mi chiamo
Sam”, in cui è messa in scena la tendenza dei genitori a imporre ai propri figli un loro
punto di vista senza tenere in considerazione i desideri e le caratteristiche del bambino
stesso. Dopo la visione del filmato, è stata avviata una discussione a seguito della quale
sono state distribuite delle schede in cui i genitori hanno individuato tre aggettivi per
descrivere il proprio bambino. È stata avviata, poi, una discussione sul contenuto e sulla
prevalenza di aspetti negativi o positivi.
Sono stati mostrati anche due filmati di interazione madre-bambino (uno con un’interazione maggiormente funzionale, l’altro con un’interazione più problematica) e sono
stati invitati i partecipanti a notare solo gli aspetti positivi di questa interazione.
- Compiti a Casa
Abbiamo chiesto ai genitori di annotare su una scheda i propri punti di forza notati
durante la settimana e i propri punti di debolezza. L’utilizzo della scheda settimanalmente
ha accompagnato i partecipanti per tutto il percorso.
Una seconda scheda consegnata ai genitori chiedeva di prendere nota delle situazioni
in cui, durante la settimana, hanno elogiato gli aspetti positivi del comportamento del
figlio.
Abbiamo chiesto ai genitori anche di produrre un video di gioco seguendo le indicazioni emerse durante il corso, da presentare facoltativamente durante i successivi incontri
del corso.
2) Lo stress genitoriale
Il ruolo di genitore prevede anche di affrontare delle situazioni stressanti in famiglia,
sulle quali è utile riflettere. È difficile, però, prendersi cura del bambino, se si è subissati
da stimoli stressanti che non si è in grado di gestire, affrontare o “assorbire”. È difficile
prendersi cura di un’altra persona, se prima non ci si prende cura di se stessi. L’obiettivo è
quello di sottolineare i rischi dello stress e di fornire strategie per affrontarlo.
Accanto alle proprie risorse interne, tra i punti di debolezza frequentemente i genitori lamentano stanchezza fisica e mentale, difficoltà nel distaccarsi dai propri figli,
difficoltà nell’esprimere la propria volontà e guidare il bambino senza imporsi in modo
eccessivamente autoritario. Uscire con figlio, passeggino, borsa per il cambio, borsa con
il biberon, ecc.; far fare i compiti a un bambino che non ne vuole sapere (si alza cento
volte, si distrae): con una battuta, osserviamo genitori che decidono di intraprendere un
percorso sulla genitorialità anche perché “percossi dalla genitorialità”! Lo stress aumenta
il rischio di scaricare le tensioni sugli altri (figli, partner), di alterare la comunicazione, di
ridurre la capacità di ascolto.
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Lo stress genitoriale, relativo alle dinamiche di accudimento, aumenta se il genitore adotta schemi interattivi rigidi e diminuisce, invece, se mostra una certa apertura e
interesse verso l’acquisizione di un repertorio “necessario” per organizzare una risposta
appropriata, grazie al quale potersi concedere la possibilità di un adattamento creativo
alle necessità educative, utile anche in situazioni difficili.
Alcune strategie possono alleggerire un po’ il peso delle tensioni. Ma è la duttilità, nel
senso di non aggrapparsi rigidamente alle usuali modalità acquisite inconsapevolmente,
che occorre a un genitore per provare nuove cose, nuove soluzioni, se quelle tentate non
funzionano. È di fondamentale importanza trasmettere ai genitori l’idea che non esiste
un pacchetto di regole e consigli che sono giusti e validi per tutti, ma ognuno deve cercare
di costruire una struttura che sia adeguata al rapporto con il proprio bambino, del quale
quei genitori sono i più competenti.
Se nell’ambiente familiare si “respira” un buon clima emotivo, improntato sulla fiducia in se stessi e nell’altro (partner e bambino), nel riconoscimento delle competenze di
ogni singolo componente e dell’intero sistema familiare (il tutto non è la semplice somma
delle parti), è possibile ridurre le problematiche, fonti di tensioni e di stress, e abbassare la
soglia di allerta dei meccanismi difensivi abituali, causa di ulteriori difficoltà nella ricerca
di comunicazioni efficaci e di soluzioni più adeguate.
Annotare queste situazioni è uno dei modi attraverso cui il genitore può entrare in
contatto con le proprie risorse e con le proprie difficoltà. I momenti positivi sono più
determinanti dei conflitti nella costruzione e nella riparazione di una situazione, così
come la necessità di adeguare i propri spazi e i propri interessi alla luce del nuovo ruolo
che ci si trova a ricoprire, cercare di rendere quindi il più possibile piacevole il tempo da
trascorrere con i propri figli. È interessante notare coma, durante l’incontro, vengano
proposte diverse strategie dai genitori stessi: l’introduzione di rituali, ad esempio, che
rendano più prevedibili le attività da svolgere sia per i bambini che per i genitori e che
possano limitare i capricci e i conflitti che si generano nella quotidianità. La psiche ha
bisogno anche di routine e sane abitudini, ciò che conosciamo ci rassicura: è per questo
che negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia si aiutano i bambini a costruire piccole ma
fondamentali routine quotidiane.
Sonia, una giovane madre, pur avendo dichiarato di non avere strategie e di trovarsi
sempre in difficoltà in alcune situazioni (nella messa al letto della figlia di tre anni, ad
esempio), in realtà utilizza già una strategia efficace, ma non è ancora pronta per riconoscerlo a se stessa: “Ieri sera sono riuscita a farla addormentare da sola al proprio letto,
anche se ha pianto un po’. È stato difficile per me”. Le facciamo notare come lei sia già
in grado di sostenere il pianto della figlia, di offrirle degli argini, di aiutarla ad accettare i
confini e a starci dentro, e come invece il suo problema sia piuttosto quello di volere una
strategia che sia meno conflittuale con se stessa, un metodo che non la faccia sentire in
colpa del pianto della figlia.
Gli stress sono dei conflitti da gestire e potrebbe essere utile iniziare a differenziarli
rispetto a chi o che cosa quel conflitto esiste, rispetto a quali situazioni e in quali condi57
zioni. Ci sono vari tipi di conflitto rispetto ai figli: intra-personali (con noi stessi); interpersonali (nei confronti del bambino); esterni (rapporto tra fratelli, tra il proprio figlio e
i suoi amici, ecc., all’interno dei quali il genitore dovrebbe avere il ruolo di facilitatore);
organizzativo (come agire, come trovare le strategie giuste per gestire le situazioni stressanti) (Novara, 2009).
È vero che i bambini hanno una notevole capacità di percepire tutto, anche gli stati
d’animo dei genitori, ma è anche vero che da parte dei genitori non ci sono errori irreversibili. Ogni giorno è per i genitori un’occasione per tornare a casa con qualcosa di diverso
e riuscire forse a generare qualche cambiamento. E c’è una differenza e, allo stesso tempo,
una continuità fra gli “oggetti esterni” (tipologia dei letti, strategie pratiche, luci, ecc.)
e gli oggetti interni (disposizione al cambiamento, sicurezza nella relazione, aspettative,
ecc.) attraverso cui iniziare a produrre qualche novità.
- Attività Previste
Dopo una breve introduzione sul tema dell’incontro (stress, luogo protetto, oggetto
d’infanzia smarrito), è stato mostrato un secondo spezzone del film “Mi chiamo Sam”,
esplicativo degli effetti dello stress accumulato nella relazione di accudimento e di come
questo stress ricade sul bambino.
È stata poi avviata una discussione sui contenuti del film e sul modo che le persone
hanno per gestire le situazioni di stress, introducendo il concetto di “luogo protetto”. In
seguito, è stato avviato un gioco di gruppo relativo al “luogo protetto”: è stato visualizzato
il luogo (fisico e/o mentale) in cui la persona si sente sicura e, andando indietro nel tempo, l’oggetto d’infanzia smarrito che dava sicurezza.
- Compiti a Casa
Attraverso un’apposita scheda, i genitori sono chiamati individuare, durante la settimana, le situazioni stressanti e a riflettere su quali strategie utilizzano per affrontarle,
quante volte queste vengono utilizzate e gli effetti che hanno.
3) Cosa ho preso e cosa voglio dare
Ognuno di noi è portatore di modelli genitoriali, quelli che abbiamo conosciuto e
introiettato durante l’infanzia e che ora sono riattivati dalla relazione con i nostri figli. A
quali modelli ci siamo ispirati per essere madri o padri? Qual è il sentimento nei confronti
di questi modelli: ammirazione e gratitudine? Da quali modelli, invece, ci siamo voluti
differenziare? Qual è il sentimento: irritazione, rancore?
Quali manifestazioni amorevoli e positive rivolgiamo ora ai nostri figli? A quale dei
genitori appartengono? Quali manifestazioni negative? A quale dei genitori appartengono?
Chi è stato abituato a urlare per avere l’attenzione? Chi non è stato abituato ad abbracciare il figlio o non è stato abituato a usare un linguaggio descrittivo, così importante
per i bambini?
Quante volte abbiamo detto: “Io non sarò mai come mio padre o mia madre!”, poi
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puntualmente mettiamo in atto gli stessi modelli. C’è la tendenza a riproporli, ma anche
la possibilità di discostarsene o di adattarli al proprio tempo e alla propria famiglia.
Nella valutazione di qualsiasi situazione siamo portati a reagire in un certo modo non
solo sulla base di ciò che accade in un dato momento, ma anche dal nostro bagaglio di
esperienze, da come ci siamo sentiti noi da bambini e da quello che è stato il clima familiare
in cui siamo cresciuti che, direttamente o indirettamente, ci condiziona nei rapporti futuri.
Nel corso degli incontri non diamo soluzioni, sono i genitori stessi a vivere il proprio
ruolo, ma a casa possono disporre di strumenti in più. Cerchiamo di ampliare il repertorio delle nostre possibilità cercando di rendere più elastica l’interazione con i nostri
bambini. Non si ha più il modello autoritario cui ispirarsi, perciò la sfida è creare ognuno
il proprio modello genitoriale.
Anche i genitori sono stati figli, tutti noi abbiamo schemi acquisiti e schemi che invece attuiamo per contrapposizione verso ciò che abbiamo ricevuto dai nostri genitori; in
ogni genitore c’è una parte normativa e una parte affettiva. Nella ricerca del proprio ruolo, alcuni genitori hanno privilegiato di più l’aspetto normativo e altri l’aspetto affettivo.
Il genitore sa quale strumento utilizzare per far valere la regola e i limiti: alcuni in modo
drastico, altri andando a lavorare sull’intesa che si crea con il figlio. Non tutti i genitori
riescono ad acquisire una certa autorevolezza.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una radicale trasformazione nelle famiglie;
il normativo viene messo da parte, perché dai genitori abbiamo ricevuto le regole e noi
vogliamo dare affetto. Ci si accorge, però, che qualcuno deve assumersi il compito di dare
limiti, e oggi questo compito viene delegato ad altri, ad esempio alla scuola. Chi ricopre
oggi il ruolo paterno? Spesso ascoltiamo donne che lamentano di doversi caricare anche
di questo ruolo; prima i ruoli erano più definiti, oggi entrambi i codici sono sia nella
mamma che nel papà. Oggi nelle famiglie entrambi i genitori spesso assumono un ruolo
affettivo; tra la famiglia normativa di prima e la famiglia affettiva di oggi, però, bisogna
passare alla famiglia educativa (Novara, 2009).
Oggi, demandando altrove il ruolo normativo, l’interdizione alla meta rappresentata
nel complesso edipico freudiano dalla funzione paterna (Perilli, 2012), abbiamo il “papà
peluches”, il “papà mammizzato”, incapace di regolare l’atteggiamento narcisistico del
bambino: rimaniamo sempre all’interno del codice materno. Quel che viene meno è la
funzione paterna, in una sorta di “evaporazione del padre” (Recalcati, 2010). Se manca
questo aspetto abbiamo il bambino tiranno.
Si prospetta una sorta di “orfanità educativa” anche lì dove il genitore si offre solo
come amico del figlio, quando non sente di dover investire il ruolo di guida adulta. Essere
guidati, invece, e liberarsi dalla figura guida è una necessità del bambino prima e dell’adolescente poi (Novara, 2009; Benasayag, 2008).
Il bambino dice “no”: sono atteggiamenti oppositivi che mettono a dura prova il genitore, in quanto si teme il conflitto e si cerca di evitarlo a tutti i costi, dimenticando che,
in determinati contesti e momenti, è proprio tale opposizione che permette al bambino
di differenziarsi.
59
Inoltre, spesso proprio la mancanza di equilibrio tra le due funzioni, materna e paterna, crea terreno fertile per quell’inserimento dei nonni (Vegetti Finzi, 2008) considerato
eccessivo: essi vanno a colmare uno spazio che vedono vuoto, così come il bambino può
inserirsi nelle crepe che si aprono tra i genitori ed assumere una posizione di “potere”.
La parte mancante, quella che funge da riferimento per il limite, sta diventando sempre più un’assenza ingombrante. La sfida è quella di creare la famiglia educativa, oltrepassando un modello autoritario che non piace più, che non è più possibile imporre e
che non va più bene nella società attuale, ma senza appiattire la relazione sull’affettività
assoluta.
- Attività Previste
A seguito della visione di uno spezzone del film “Ricomincio da tre”, esplicativo sui
rapporti genitore-bambino relativo all’aspetto affettivo e normativo e alle conseguenze,
in prospettiva, per il bambino, è stato affrontato il tema del Genitore Normativo e Genitore Affettivo attraverso il già utilizzato “Gioco di Presentazione a Coppie”. La variante,
in questo caso, è rappresentata dal fatto che ogni persona presenta all’altro, descrivendo
il modo in cui i genitori erano usi a dargli regole (cosa mi hanno insegnato, come me
lo hanno insegnato, come mi comunicavano le regole, come mi punivano) e poi come i
genitori erano abituati a dargli affetto (come mi volevano bene, come mi dimostravano
il loro affetto). Dopo la discussione, è stata compilata una lista delle modalità genitoriali
utilizzate.
- Compiti a Casa
Abbiamo invitato i genitori a riflettere sugli stili genitoriali rilevati e a scrivere su
un’apposita scheda quante volte al giorno si utilizzano queste modalità nell’accudire i
figli. Abbiamo chiesto, inoltre, per il successivo incontro, di portare delle foto (almeno 3)
che rappresentino la propria storia in tappe diverse e significative.
4) Le connessioni
Tra i compiti genitoriali è importante il riconoscimento dei rapporti intergenerazionali e della loro invisibile presenza nella relazione con i propri figli. Ogni genitore
ha un proprio passato di figlio e come genitore è un intermediario tra quel passato e la
personalità del proprio bambino; riconoscere queste connessioni permette di accedere a
una modalità genitoriale più consapevole e comprensiva di quel passato importante che,
direttamente o indirettamente, si proietta nella generazione dei figli.
Dobbiamo chiederci non solo come ci si liberi, ma anche come ci si connetta all’altro.
Oltre alle separazioni, la nostra vita e il nostro sviluppo è legato anche alle unioni, al costruire legami: una rete di legami verticali e orizzontali, una clinica dei legami (Benasayag,
Schmit, 2003). Da questi legami possiamo attingere forza o stati conflittuali irrisolte, delle questioni rimaste aperte, delle gestalt incompiute che si tramandano tra le generazioni
e di cui spesso l’anello più debole si fa carico. Riconoscere le persone e le situazioni dalle
60
quali riceviamo forza e quelle che ci tolgono energia, ci permette di recuperare le risorse
sane disponibili nel sistema familiare.
La complicità tra le generazioni si costruisce con il tempo, e lavorare sul senso di
responsabilità ci aiuta a creare un clima di intesa. Una mamma chiedeva: “Per noi essere
genitori è un impegno costante. Ma quando si impegnano i bambini?”. Il rapporto genitori/bambini è squilibrato, perché il genitore dà e il bambino riceve. C’è una differenza
tra presente e passato nella concezione dell’educazione e del bambino, che non è più visto
come una tabula rasa. La visione del bambino di oggi è più vicina all’immagine che ci
danno le scienze umane, ma questo crea un compito più difficile per i genitori. Per esempio, Debora diceva che si sente “rigida” a casa. Forse perché vede i limiti come qualcosa di
punitivo che genera conflitto? Ma i limiti sono anche contenimento e possono aiutarci a
creare sintonia e definizione dei ruoli. Noi tendiamo ad accorciare la distanza con i nostri
bambini (nella nostra società, lo scambio generazionale viene fortemente compromesso),
ma questa distanza è necessaria per il bambino: è nella differenza tra adulto e bambino
che si instaura un rapporto educativo.
Questa differenza alla base del rapporto educativo è anche quella generazionale. Per la
teoria sistemica, il sistema familiare fa parte di un sistema più ampio, intergenerazionale.
I sistemi, in generale, possono squilibrarsi e poi ritrovare un nuovo equilibrio che li lega.
In ogni sistema, più o meno ampio, c’è un anello debole, qualcuno che più di altri si carica o viene caricato degli irrisolti. Il tentativo di mantenere l’ordine all’interno del sistema
è necessario. In una situazione in cui uno squilibrio è dato da una confusione di ruoli e
funzioni è necessario agire a vari livelli per ripristinare o trovare un nuovo ordine nella
coppia genitoriale o nella coppia genitore-figlio. Esistono dei legami intergenerazionali e
ogni generazione ha delle qualità specifiche che devono essere mantenute. I genitori dovrebbero provare a rendersi loro stessi punti di riferimento per i loro figli, ma non è facile.
Intorno agli anni ‘70 è saltato il legame con la vecchia generazione, i nonni dei nostri
genitori e i nostri nonni sono molto diversi dai nonni di oggi, cioè i nonni dei nostri figli.
Il nonno non è più il vecchio saggio che dispensa consigli o il vecchio rancoroso verso le
generazioni più giovani, i nonni di oggi sono giovani e con una disponibilità spesso totale. Può derivarne una confusione tra i ruoli, può esserci il rischio che il nonno sconfini nel
ruolo di genitore. Dall’altro lato, il nonno può essere una risorsa proprio perché dovrebbe
essere una figura svincolata dalle ansie educative e avere con il nipote soprattutto un rapporto nel “qui ed ora” (Vegetti Finzi, 2008).
È in senso transgenarazionale che i genitori hanno anche un “compito trasmissivo”, e
cioè assumersi il ruolo di “restituire” al proprio bambino una parte di ciò che si è ricevuto
(Stoppa, 2011). Affrontando i propri nodi irrisolti, una generazione libera la generazione
successiva dei “fardelli” che non le appartengono: questo è un modo per sostenere la
nuova generazione, riconoscerla nella sua specificità e darle forza.
Oltre al compito trasmissivo, il genitore di oggi deve assolvere anche al compito di
aiutare il figlio a sviluppare una “capacità di ascolto dialettico”, che gli sarà utile nel mondo con cui si confronterà; aiutare i bambini e poi gli adolescenti, quindi, a non introiet61
tare acriticamente il mondo circostante (e i modelli problematici provenienti dal passato
generazionale), ponendo dei confini che gradualmente li aiutino a riconoscere se stessi e
gli altri (a partire dai genitori) come esseri distinti.
- Attività Previste
A seguito della rituale condivisione sui compiti per casa e a un’introduzione discorsiva al tema dell’incontro, viene effettuato un gioco dal titolo “Le mie tre foto”. In questo
gioco, che si svolge in gruppi di tre persone (una persona attiva, un ascoltatore e un
osservatore-reporter), con le tre fotografie significative richieste nell’incontro precedente,
vengono invitati i partecipanti a osservare gli elementi di collegamento tra le foto che
rappresentano eventi importanti della vita di ognuno, avviando così una riflessione su
quanto emerso.
Questi elementi vengono condivisi nel gruppo allargato e le riflessioni generali sono
annotate sulla lavagna e raccolte dai singoli genitori in una scheda apposita.
- Compiti a casa
Le attività che i genitori sono chiamati a svolgere a casa riguardano l’identificazione,
su una scheda apposita, delle persone o delle situazioni da cui si riceve forza e quelle che
invece tolgono energia, quante volte si entra in contatto con queste situazioni e in quali
circostanze.
5) Favorire l’autonomia e la libertà di espressione
I genitori possono fare in modo di facilitare lo sviluppo di capacità critiche, l’autonomia e la libertà di espressione del bambino. Il primo passo è il riconoscimento delle sue
capacità e competenze, aiutarlo anche con delle conferme positive. “Non trattarmi come
un bambino piccolo!”: le sue competenze cambiano e vanno riconosciute; se lo trattiamo
come un bambino più piccolo della sua età compromettiamo i suoi sforzi per diventare
indipendente. È importante permettergli di fare esperienze adeguate all’età e sostenerlo
nell’esplorazione di se stesso, delle proprie capacità, dell’ambiente. Il prevenire sempre,
ad esempio, i desideri del bambino gli impedirà due cose: la mentalizzazione del bisogno
insoddisfatto e la spinta all’utilizzo delle proprie risorse per uscire da questa situazione
di disagio. Si rischia di intervenire nella realtà non per il bambino, ma al posto suo, e il
messaggio profondo che il bambino riceve può diventare svalutativo e disconfermante
(Marcoli, 1999).
Cos’è per voi l’autonomia? Quali possono essere, secondo voi, le difficoltà verso l’autonomia? La difficoltà di controllare i propri stati emotivi? Ci sono quelle situazioni
oggettive che rendono tutto più difficile. Ci sono delle differenze tra il modo di vivere
del passato e quello del presente: un’importante differenza rispetto al passato sta nel fatto
di percepire il mondo come un posto più pericoloso. Questo rende più difficoltoso il
compito di facilitare il figlio nella conquista delle sue autonomie. Può essere, allora, di
aiuto riuscire a capire quali sono le difficoltà che appartengono a noi, quali abbiamo
62
assorbito dal contesto culturale e dove possiamo permettere al bambino di sperimentare.
Certo, spesso anche la necessità di sbrigarci, perché abbiamo fretta, o la preoccupazione
di ciò che potrebbe succedere, a volte, ci impedisce di dare al bambino l’opportunità di
sperimentare.
Ricordando quando eravamo piccoli, cosa ci aiutava ad essere più autonomi, indipendenti rispetto ai genitori? Cosa pensiamo oggi dell’atteggiamento dei nostri genitori?
Proponiamo al gruppo un esercizio a coppie in cui ognuno è invitato a prendere contatto con il proprio corpo e con le sensazioni provocate dal contatto sulle spalle delle mani
dell’altro. Viene chiesto poi a chi è davanti di fare un passo avanti. Nella condivisione
in gruppo emerge la consapevolezza che “i nostri corpi parlano”, i nostri e i corpi altrui
comunicano fra loro e a se stessi: quanto siamo disposti a “lasciare andare” l’altro, quanto
abbiamo bisogno di appoggiarci all’altro, quanto riusciamo a “prendere” dall’altro, quanto ci lasciamo guidare o trascinare, dove è il confine. Attraverso questo esercizio abbiamo
voluto introdurre l’argomento dell’autonomia.
Apprendiamo dalla Video Intervention Therapy che le ricerche sull’infanzia, attraverso la tecnica della microanalisi delle interazioni tra genitore e bambino, mostrano quanto
siano importanti per lo sviluppo dei bambini alcune componenti nelle modalità di interazione: linguaggio descrittivo, lode, connessione emotiva, partecipazione, rispecchiamento verbale. Elementi che consentono al bambino di sentirsi sostenuto nelle iniziative
e nella conquista dell’autonomia.
Si tratta di tanti piccoli elementi che non devono essere presi come equazioni matematiche. Il contatto con il limite, ad esempio, permette al bambino di trovare la propria
misura. Non sempre il bambino comprende le nostre spiegazioni, ma la fermezza, il tono
di voce, l’autorevolezza aiutano.
La ricerca mostra come il bambino abbia delle competenze nelle interazioni già dai
primi giorni di vita, tanto che nell’LTPc osserviamo il bambino dotato della capacità di
entrare in interazione triadica con la madre e con il padre: questo proietta l’inclusione del
padre nel mezzo della relazione di cura già dalla nascita del bambino (Fivaz-Depeursinge,
Corboz-Warnery, 1999).
Questa inclusione precoce del padre e, di contro, l’idea della progressiva “rarefazione del padre” sollecitano una riflessione sul ruolo paterno e sulle sue funzioni (favorire
l’autonomia, sostenere nell’esplorazione del mondo circostante, senso di responsabilità,
regole e limiti) e, soprattutto, spalancano l’opportunità per una nuova paternità: non
più adatta a incarnare un ideale normativo, la nuova paternità è un’occasione storica per
proporsi come atto singolare, passione, vocazione, progetto creativo e lasciare traccia di
questi cambiamenti significativi. Nella perdita di modelli di riferimento, nella ricerca
di modalità individuali di declinare il proprio ruolo e nella molteplicità di percorsi esistenziali, non potendo più trasmettere il vero senso della vita, i nuovi papà sembrano
in grado di “mostrare” di dare un senso alla vita (Recalcati, 2010). Coinvolgere i padri
(storicamente rimasti in disparte rispetto ai compiti di cura dei bambini) in un confronto
sul tema dell’immaginario maschile nell’esperienza del diventare padri è senz’altro un’e63
sperienza per collaudare la propria capacità di trovare uno spazio specifico in cui la nuova
paternità può esprimersi e definirsi, senza passare necessariamente attraverso l’imitazione
dei modelli materni.
- Attività Previste
A seguito della visione di uno spezzone del film “Dragon Trainer”, esplicativo sul tema
dell’autonomia e della libertà di espressione, viene effettuato un gioco psicodramamtico a
coppie. In questo gioco, una persona mette le mani sulle spalle del compagno che ha davanti e ci si concentra sulle sensazioni provate; al segnale dell’operatore la persona davanti
fa un passo: ci si concentra poi sulle sensazioni e sulla eventuale difficoltà ad andare o a
“lasciare andare l’altro”.
Dopo quest’attività e la successiva condivisione, vengono mostrati due video dimostrativi di interazione caregiver-bambino per evidenziare gli aspetti che favoriscono l’autonomia e la libertà di espressione. La formazione si conclude con la visione di uno spezzone di uno spettacolo di Paolo Rossi riguardante i rischi del dare libertà senza dare limiti.
- Compiti a casa
Le attività che i genitori sono invitati a svolgere a casa riguardano il prendere nota, su
un’apposita scheda, delle conferme positive date alle attività dei loro bambini, stimolandoli a utilizzarle in numero adeguato.
6) Dare struttura e limiti alle attività del bambino
I genitori si interrogano in continuazione sul tema del dare limiti e struttura alle attività del bambino, su come farlo in modo equilibrato, senza eccedere né sul versante del
lassismo, ma neanche su quello della rigidità autoritaria.
“Lo voglio. Me lo compri?”. Con le sue richieste ostinate il bambino vuole metterci
alla prova e capire fino a che punto può arrivare. Guardare la tv mentre si mangia o si
fanno i compiti: il bambino fa sentire la madre crudele e lei cede, perché si sente in colpa.
Il bambino ha dei bisogni e dei desideri: il bisogno di conferme e il desiderio di passare
del tempo con i genitori. Solo rispettando questo, si può chiedere con calma e fermezza
di fare alcune cose. Così si costruiscono insieme delle regole, che vanno rispettate da genitori e figli, ma soprattutto, trascorrendo col bambino i diversi momenti della giornata e
i diversi stati d’animo, molte più aspetti della vita si arricchiscono di significati condivisi.
Le spiegazioni sono importanti, ma a volte non bastano per raggiungere lo scopo,
perché non sempre vengono comprese dai bambini; allora nel dare indicazioni diventa
importante soprattutto la fermezza del genitore, anche in situazioni di stress, per evitare
che questo abbia degli effetti sulla coerenza del rapporto educativo (può accadere ma non
può essere la regola).
Serena, una bambina di 6 anni, tende a cercare il contatto con il limite e a superarlo:
piano piano capirà qual è il proprio. Può succedere a volte che siano i genitori a creare
degli ostacoli; diciamo spesso “Se ti succede qualcosa, qua c’è mamma”, stiamo aprendo
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la possibilità al fatto che succeda qualcosa. Nuovamente ci troviamo di fronte alla “famiglia affettiva”, per cui il ragionamento del genitore è “io ti proteggo da questo mondo e
faccio al posto tuo quello che dovresti fare tu”. Il valore del bambino oggi è cambiato, non
ci sono più le famiglie che mettono al mondo molti figli. La sofferenza del bambino o il
conflitto con lui nelle famiglie numerose del passato erano più tollerati rispetto ad oggi:
è molto diverso il contesto culturale.
Fabrizio ammette di non riuscire ad assumere il ruolo paterno; non è una figura normativa, riconosce di essere diventato un “papà peluches”: il bambino ride quando prova
a dargli delle regole. Paolo dice: “Non si può permettere tutto al bambino!”. In effetti,
il rischio insito nel nostro modo di rapportarci al bambino è permettergli tutto per non
generare conflitto, in quanto non si riesce a sopportare la sofferenza che ne deriverebbe.
L’imperativo dei nostri giorni è di “essere felici” a tutti i costi, dimenticando che la tristezza è un’emozione di base che dobbiamo sperimentare (Novara, 2009), ma non riusciamo
ad accettarla, in particolar modo nei nostri figli.
Constatiamo quotidianamente quanto sia difficile per le mamme e per i papà di oggi
espletare la funzione materna e la funzione paterna (che comprendono il dare affetto e il
dare limiti) senza che l’una escluda l’altra.
Debora aveva espresso la sua difficoltà a gestire le proprie emozioni negative davanti
alle proprie bambine e aveva rimarcato come a volte esprimeva anche verbalmente alle
figlie la propria rabbia e frustrazione. I genitori avevano accolto negativamente queste
parole e l’avevano attaccata. Ma mostrare ai bambini i propri limiti, le proprie debolezze,
mostrare al bambino il proprio aspetto umano significa mostrare quella parte che per i
bambini può essere negativa ma funzionale. È importante mostrare ai bambini che si può
essere un po’ più umani: la mamma non è inesauribile. Un’emozione negativa, anche se è
diretta verso il bambino, entro certi limiti non è traumatica. Sperimentare una frustrazione ottimale, che è ottimale perché viene vissuta in un ambiente protetto e in misura adeguata alle capacità di auto ed di etero-regolazione emotiva del bambino (Tronik, 2008),
permette al bambino di crescere ed essere più autonomo.
Valeria chiede come mai la sua bambina, parlando di un disegno della famiglia, abbia
detto di voler più bene al nonno, che è l’unico davvero severo con lei. Un’altra mamma,
Claudia, interviene dicendo che ai bambini le regole danno certezza.
Rebecca riferisce che il figlio Francesco imita tutti senza rendersi conto delle conseguenze: racconta di quando imita la voce di un bambino, figlio di amici, che ha una
difficoltà di linguaggio e del loro imbarazzo a gestire la situazione (tra l’altro non aiutati
dai genitori stessi del bambino). Francesco non sa che il bambino in questione ha un problema e la mamma racconta che in queste occasioni non spiega a suo figlio che il bambino
ha delle difficoltà: “Siccome Francesco dice tutto a tutti, preferisco non spiegargli nulla,
perché temo che possa riferirlo alla madre del suo amichetto mettendola in imbarazzo;
allora, dico solo non si fa!”. A volte i genitori si sentono in colpa quando c’è una problematica e poi finiscono per cercare di compensare con una maggiore permissività. È utile
dare più indicazioni possibili al bambino.
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Dare delle indicazioni è importante perché sono dei riferimenti; il chiarimento di
Rebecca con Francesco può essere improntato sulla delicatezza. È importante soprattutto
per gli effetti che può avere sul bambino: se Francesco non conosce la realtà pensa di essere preso in giro dall’altro e quindi reagisce a questo fraintendimento; se invece conoscesse
la realtà dei fatti, magari attraverso termini linguistici adeguati, e lo si aiutasse a relazionarsi con questa differenza e a rispettarla, forse capirebbe che i segnali che derivano dal
compagno non sono minacciosi tanto da doverlo prendere in giro. Il comportamento di
Francesco è la risposta al fatto che non gli vengono date spiegazioni; il bambino continua
a notare che il suo amichetto parla male, lo imita anche quando non è presente, perché di
fatto è per lui una questione irrisolta.
Spesso è necessario trovare degli spazi in famiglia per parlare di questi aspetti, per
dare indicazioni, spiegare e aiutarlo a capire che in quel momento c’è un limite da non
superare, poiché altrimenti ci sono delle conseguenze sull’altro. Evitare soprattutto che il
bambino debba farsi carico della responsabilità di tutelare l’imbarazzo degli adulti.
La famiglia è la prima palestra di vita per il bambino: qui può imparare che tutte
le emozioni possono essere sperimentate e le emozioni negative possono essere espresse
in senso costruttivo. Anche per i genitori le emozioni sono oggetto di sperimentazione
continua. Ad esempio, spesso provano un forte senso di colpa nel lasciare il bambino dai
nonni o dagli zii, ma questo può essere funzionale a incrementare la capacità di costruire
relazioni diverse da quelle che hanno con i propri genitori.
Parlando di regole e limiti, il discorso viene affrontato attraverso la lettura della favola
“Il cucciolo che attirava sempre l’attenzione su di sé” (Marcoli, 1999). I genitori, a turno,
leggono un paragrafo della favola. Il messaggio della favola è che dare dei limiti aiuta i
bambini. I genitori notano e condividono il discorso dei limiti e della coerenza, della
sintonia fra madre e padre, fra la casa e l’asilo. In questo modo è possibile parlare dell’importanza delle regole concordate e condivise.
La psiche cerca di rimanere nelle posizioni acquisite. Quindi, dal punto di vista del
bambino, ciò che può fare il genitore perché deve farlo il bambino? In molte famiglie
vanno ridefiniti nuovi equilibri. Sandra riflette: “Un genitore che non mette affatto dei
limiti alla fine li mette lo stesso perché non dà separazione né dà autonomia!”. È questo
il paradosso del genitore! In fondo, anche il bambino deve rinunciare gradualmente all’idealizzazione dei genitori e abituarsi a considerarli degli esseri umani.
Flavio è il papà di un bambino di 4 anni e vorrebbe vedere il proprio bambino sempre
felice. Nella nostra epoca, uno degli imperativi categorici è vedere il bambino sempre felice, ma è importante che il bambino conosca anche altro, che può essere la frustrazione, la
rabbia o la tristezza. Bisogna sperimentare la realtà e l’ideale sarebbe farlo all’interno della
famiglia, in quanto ambiente protetto. Chiedendogli cosa accadrebbe se sgridasse il figlio,
Flavio risponde: “Mi vedrebbe come un orco”. Questa sembra proprio la percezione che
lo stesso Flavio mostra di avere nei confronti degli insegnanti del figlio, che all’occorrenza utilizzano la voce per ristabilire la calma e la concentrazione in classe provocando,
secondo la sua percezione, “enormi” frustrazioni ai bambini. Molti genitori pensano che
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cambiare scuola (che rischia di diventare l’unica depositaria del ruolo normativo) sia la
soluzione migliore, ma rischia di diventare insostenibile pensare di cambiare scuola al
bambino di fronte a una difficoltà, perché anche nella scuola migliore del mondo possono esserci difficoltà; è importante aiutare il bambino a capire che la scuola non è un
luogo negativo, come è portato a percepire da determinati atteggiamenti dei genitori. È
più utile non disconfermare la scuola (alleata nei processi educativi), pur aiutando il bambino nelle difficoltà, permette di utilizzare tutte le risorse in campo: genitore e insegnante
stanno dalla stessa parte.
Per i bambini può essere importante anche la trasgressione (non come abitudine)
per prendere contatto con i propri confini e con i limiti, per vedere dove si può arrivare
(spesso incontra limiti, spesso non li incontra). Il bambino impara, avvicinandosi e allontanandosi, nel contatto con i limiti.
Guardando un video sull’interazione tra bambini nelle attività parallele ai gruppi con
i genitori, abbiamo potuto vedere come a volte i bambini hanno bisogno di regolarsi,
soprattutto quando il livello di attivazione si alza eccessivamente. Abbiamo osservato,
ad esempio, come in una circostanza in cui l’educatrice è stata costretta a richiamare
Francesco, che stava creando confusione, il bambino ha avuto bisogno di regolarsi, anche
all’interno di una co-regolazione reciproca (Tronick, 2008), per poi tornare all’attività
con livelli di attivazione sostenibili. Francesco ha accettato il rimprovero, si è calmato,
forse aveva bisogno anche di un contenimento; l’intervento dell’educatrice lo ha aiutato
a ritrovare il proprio posto nella situazione di gruppo.
Spesso è importante mettere un limite al bambino proprio per mettere un limite
all’esasperazione del genitore; in questo, infatti, capita che ci si senta in colpa sempre nei
confronti dei bambini, ma mai nei confronti di se stessi.
Uno dei rischi è che ci si basi solo sull’affettività (Thompson, 2007), generando una
società sempre più iper-protettiva che non consente più al bambino di “sperimentare”
attraverso la curiosità e l’esplorazione di sé e dell’ambiente. Il modello sociale della civiltà
narcisistica, senza limiti e senza traumi, è nato a partire dall’illusione che potessero esistere generazioni senza dolore e bambini totalmente felici. Su questa illusione ha fatto leva
anche un mercato che sembrava attendere la comparsa di soggetti disponibili al consumo
sfrenato.
L’idea di sottrarre frustrazioni (perfino quelle che Winnicott e Kohut definivano “ottimali” per lo sviluppo dell’autonomia del bambino dalla madre e della madre dal bambino) alle nuove generazioni ha finito per produrre il sogno onnipotente di creare soggetti
vicini alla perfezione Ne è scaturito un soggetto in preda a un’“identità immaginaria” che,
tuttavia, avverte con tormento lo scarto tra l’ideale e la vita quotidiana (Stoppa, 2011).
Nell’illusione di liberare l’infanzia dal trauma e dal dolore, si è prodotta una traumaticità
continua e strisciante, in cui ad essere in discussione e sotto esame non è più il passato,
come in Freud, ma la possibilità stessa di pensare il proprio futuro. Alcuni genitori sono
così preoccupati del destino dei loro figli e così insicuri rispetto alle proprie competenze
da non permettersi errori (Stoppa, 2011). Ma, secondo Jung, la personalità deve ten67
dere alla completezza, non alla perfezione. È, infatti, proprio questa ostinazione verso
la perfezione a intrappolare se stessi e i bambini, sottraendoli al confronto con l’idea di
imperfezione e di mancanza, unica possibilità per legittimare il desiderio e la possibilità
di superamento del senso o del “dovere” di onnipotenza.
- Attività Previste
Vengono inizialmente mostrati due spezzoni dei film “Billy Elliot” e “I Simpson” che
esemplificano, in maniera chiara, uno stile educativo troppo rigido, in cui le regole vengono imposte e non negoziate e, al contrario, uno stile educativo troppo lassista, in cui ci
sono poche regole che sono facilmente aggirabili, ignorabili e raramente rispettate.
Dopo la riflessione, viene avviata la lettura della fiaba “Il cucciolo che attirava sempre
l’attenzione su di sé”, di A. Marcoli, sull’importanza di dare limiti e struttura evidenziando
le modalità corrette e quelle meno funzionali. In seguito, viene avviata una discussione in
gruppo per rilevate le modalità migliori e più frequenti per dare struttura e limiti.
- Compiti a Casa
Come compiti per casa le persone devono, in una scheda, evidenziare tutte le situazioni in cui hanno avuto necessità di porre dei limiti, il loro vissuto rispetto a questo aspetto
e, soprattutto, il comportamento educativo attuato.
7) La relazione con gli altri bambini
L’attenzione dei genitori, durante gli incontri, spesso ricade sul rapporto tra fratelli,
sia perché si tratta di una relazione sociale tra pari importantissima per il bambino sia
perché è un banco di prova fondamentale per i genitori, che si trovano a gestire le gelosie
e le richieste di due o più bambini.
I fratelli spesso litigano per un giocattolo o un programma televisivo. Il primogenito
nutre ostilità e rivalità nei confronti del secondogenito, è furibondo con la madre, teme di
non essere amato come il fratello, si sente trascurato e riproduce comportamenti infantili
per richiamare l’attenzione (ciuccio, pipì a letto). Ma i litigi (entro certi limiti) aiutano
a crescere e a confrontarsi, a conoscere la propria personalità. C’è un ordine di nascita
e va rispettato: il più grande non ha bisogno di meno attenzioni o di responsabilità che
non sono sue. Ogni età ha i suoi bisogni e i suoi desideri. Quando responsabilizziamo
troppo il fratello più grande, si assiste ad una “adultizzazione” del più grande, che porta
un alleggerimento del carico genitoriale. Il destino di un figlio dipende molto dal mondo
rappresentazionale dei suoi genitori, ma per i figli è difficile accontentare i desideri dei
grandi. Si dovrebbe cercare di adeguare le responsabilità che si danno, ma anche riconoscere i maggiori diritti del figlio più grande.
È molto importante non fare paragoni tra i fratelli, per non rischiare di far pensare
ai bambini che debbano competere per l’amore dei propri genitori. Non dobbiamo rischiare che passi il messaggio: “Io ti vorrei diverso da come sei”, possiamo solo accettare
il temperamento specifico di ognuno e cercare di potenziare le capacità che già possiede
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per aumentare la sua autostima.
Le relazioni implicano momenti di incontro e momenti di scontro. Anche attraverso
il litigio c’è comprensione di sé e dell’altro. È importante per lo sviluppo del bambino
imparare a leggere l’intenzione altrui per muoversi meglio nelle situazioni. Spesso l’utilizzo dell’aggressività in modo adeguato aiuta i bambini a conoscersi, a comunicare con gli
altri e a regolarsi. In milioni di anni le pratiche umane si sono sedimentate ed ora sono
diventate anche principi psicologici: i bambini hanno giocato ognuno per le proprie
competenze, hanno compreso le reali intenzioni del gioco e dei partecipanti. I bambini
stanno imparando sperimentando, quindi a volte è bene concedere ai propri figli di superare di tanto in tanto i limiti, senza che la reazione dei genitori sia spropositata. Potendo
andare anche un po’ oltre, i bambini si autoregolano: questo gli permette di capire dove
possono arrivare e in che modo.
I bambini si rendono conto quando uno di loro supera dei limiti; per esempio quando un compagno supera certi limiti di aggressività, i bambini riescono a percepirlo: questo riferimento può aiutarli a muoversi all’interno della cornice di gioco. È difficile anche
per gli adulti a volte capire le regole e le situazioni e quindi siamo indotti a comportarci
erroneamente di conseguenza.
Mentre in passato le famiglie più numerose permettevano di abitare un contesto di
socialità, oggi, invece, in una società di famiglie “ristrette”, di figli unici, si va configurando un progressivo impoverimento delle competenze relazionali orizzontali. È molto
importante, quindi, creare ulteriori opportunità di crescita per i bambini, fare in modo
che i genitori si incontrino e permettano ai bambini di fare esperienze tra coetanei.
Chiedendo ai genitori chi di loro è primogenito e come hanno vissuto l’arrivo del
secondo, emerge il tema delle differenze di aspettative nei confronti primogenito e secondogenito e di come a volte il secondogenito non goda della stessa fiducia del primo, di
come su di lui forse non gravano alte aspettative. Il destino dei figli dipende anche dalle
rappresentazioni che hanno di loro i loro genitori.
Antonio è un padre molto presente e, ricordando la propria infanzia, apre una riflessione sull’economia familiare di quando era bambino, che condizionava anche le scelte
per i figli (per esempio, usare gli stessi libri o gli stessi vestiti per tutti). Un tempo, infatti,
era molto diffusa anche una sorta di economia relazionale, cioè si applicava lo stesso modello per tutti i figli. Oggi è diventata sempre più elevata l’attenzione rivolta alla specificità di ogni figlio e alla ricerca di una modalità specifica di relazionarsi con ognuno dei
figli, in modo da dare a ognuno ciò che può avere e far diventare ciascuno ciò che è, ciò
che può diventare. I sistemi familiari, infatti, hanno al loro interno un ordine di nascita
e il problema sorge proprio quando l’ordine di nascita, i ruoli, non vengono rispettati.
Spesso con la nascita di un nuovo fratellino, il primogenito può mettere in dubbio addirittura l’amore dei propri genitori. Rispettare i ruoli e il proprio posto aiuta i bambini a
relazionarsi e a rispettarsi.
Le differenze di età influiscono molto anche sul tipo di rapporto che si instaura tra
fratelli: se ci sono pochi anni di differenza, ad esempio 2, i bambini si ritrovano a dover
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dividere molte più cose rispetto a quando la differenza di età è maggiore. Ci sono delle
differenze anche fra le capacità dei bambini grandi e le capacità di quelli piccoli, così
come tra genitori e figli. I bambini apprendono per imitazione non solo dei genitori,
ma anche nei confronti dei fratelli più grandi, che in alcuni contesti sono la loro “base
sicura”. L’imitazione è un modo molto utile ai bambini per imparare in certe situazioni,
mentre in altre situazioni sembra più utile svincolarsi.
Nella crescita incontriamo diversi modelli (positivo-negativo, buono-cattivo, etc., anche se ci sono diverse sfumature fra queste due polarità), non è vero che seguiamo sempre
quelli negativi, seguiamo quelli più desiderabili: per esempio, in certi contesti diventa
desiderabile essere come gli altri (e quindi se si tratta di un modello negativo, il bambino
seguirà quel modello).
Flavio pone una domanda: “Ma se c’è una prevaricazione evidente tra bambini, bisogna intervenire per ristabilire l’equilibrio e fare giustizia?” Forse bisogna capire quanto
la difficoltà sia nostra e quanto effettivamente del bambino. I bambini sono in grado di
sopportare delle piccole frustrazioni, è necessario che siamo capaci anche noi. Spesso tra
bambini di questa età assistiamo anche a giochi che permettono in modo socialmente accettato e divertente l’aggressività. Si tratta di un’aggressività di tipo ludico in cui prevale,
attraverso segnali espliciti, l’aspetto e lo scopo giocoso (Fonzi, 2001).
Insieme alle regole della casa e della scuola, esiste anche la “legge dei coetanei”, cioè
il coprirsi a vicenda, fare gruppo; i bambini riescono già in tenera età a gestire queste situazioni, attraverso delle competenze sociali innate che ridefiniscono insieme ai coetanei,
oltre che con gli adulti.
Nei conflitti tra bambini il genitore è portato spesso a cercare il “colpevole”; bisognerebbe insegnare, invece, ai bambini a gestire da sé le situazioni difficili. I bambini dovrebbero risolvere tra loro queste cose, perché ne sono capaci. Al massimo si può proporre
un’attività da fare insieme per favorire la riappacificazione. Il rapporto tra fratelli o tra
pari è una palestra emotiva, non dobbiamo sostituirci a loro pensando a priori che non
sono in grado di fare senza di noi.
Nel lavoro in gruppo possono appartenere alla “cassetta degli attrezzi” anche una serie
di domande con cui stimolare la condivisione tra i genitori: quali sono, secondo la loro
esperienza, i vantaggi o gli svantaggi di essere primogeniti o meno? Cosa pensano che i
bambini possano imparare dai fratelli che invece non imparano dai genitori?
- Attività Previste
Dopo un giro di condivisione in gruppo sul tema del rapporto tra fratelli e sul modo
di gestire queste situazioni, viene mostrato uno spezzone del film “I Simpson”, esplicativo
sulle differenze di trattamento tra fratelli, a cui fa seguito una condivisione su questo tema
e la selezione sulla lavagna degli elementi comuni e più frequenti di questa condivisione.
Dopo viene mostrato un video (scelto tra quelli dei laboratori o tra quelli girati a casa
e resi disponibili dai partecipanti) esplicativo, in situazione di gioco, in cui un genitore
gioca con più bambini, evidenziando punti di forza da utilizzare e punti di debolezza
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da evitare. Viene poi avviata una discussione per analizzare i comportamenti utilizzati e
quelli potenzialmente alternativi.
- Compiti a Casa
I genitori sono invitati a provare ad utilizzare, durante la settimana, i comportamenti
possibili evidenziati nella griglia e a osservarne gli effetti.
8) Prendersi del tempo per la coppia
Nei primi mesi le cure del bambino assorbono tutte le energie. Essere genitori cova in
sé il pericolo che si parli solo con i figli o di loro. Per il resto, la vita in comune svanisce.
La donna subisce una frustrazione notevole, data dalla necessità di far coesistere ruoli che,
spesso, entrano in competizione tra loro; la volontà di essere una brava madre, una brava
moglie, una brava lavoratrice, la percezione di dover raggiungere standard elevati in ogni
ambito di vita genera un vissuto di delusione, insoddisfazione, senso di colpa; questo si
riversa su un compagno che spesso viene percepito come assente e poco responsabile.
D’altro canto, il marito (compagno, convivente) è frustrato perché percepisce scarso interesse nei suoi confronti e sente di essere il “capro espiatorio” della sua compagna. Per
mantenere o recuperare un buon rapporto di coppia occorre tempo, tempo da passare insieme come coppia “coniugale”, per ricordare che questa dimensione deve coesistere con
quella della “coppia genitoriale”. Il rifornimento per l’autostima e per il senso di fiducia
nell’altro arriva proprio dall’armonia che c’è nel rapporto: riconoscere il piacere di stare
col partner. Un buon rapporto di coppia contribuisce a dare una base sicura ai figli. I figli
stanno benissimo quando vedono i genitori parlare, ridere e divertirsi insieme.
Che idea abbiamo della coppia? La nascita di un bambino altera le relazioni di coppia,
però il desiderio di passare un po’ di tempo da dedicare alla coppia c’è, nonostante questo
ostacolo. I desideri sono un motore che ci spinge a conquistare le cose, come lo stare con
la persona che abbiamo scelto. Nella bilancia delle cose importanti per noi bisogna vedere
quanto è importante dedicare del tempo all’altro e a noi stessi. Chiediamo ai nonni di
stare con i bambini quando dobbiamo andare a lavorare, e di questo non possiamo farne
a meno. Però diamo la priorità a questo e non ad altro.
Paolo dice di dedicare del tempo alla moglie quando rimane con il bambino mentre
lei va in palestra. Questo rientra nella cooperazione della coppia, ma il prendersi del tempo per la coppia è diverso. I problemi ci sono, ma è importante far emergere un’esigenza
nella coppia e della coppia, un’esigenza che, se soddisfatta, è in grado di aiutare qualitativamente anche nel rapporto con il bambino. Cosa ci piaceva, e spero ci piaccia ancora,
della coppia a cui non riusciamo a rinunciare?
Mentre in passato i matrimoni erano tutelati istituzionalmente, oggi assistiamo a una
crescente fragilità dell’unione coniugale: c’è una diminuzione dei matrimoni e un aumento delle separazioni; la famiglia diventa una forma di autorealizzazione espressiva personale; oggi sposarsi significa convivere con un’altra persona che soddisfa i propri bisogni
sentimentali e affettivi, piuttosto che costruire un “noi” attraverso una relazione impegna71
ta a realizzare un progetto comune. La fragilità è il frutto sia di troppo elevate aspettative
sia dello sbilanciamento della relazione sul versante affettivo, a scapito di quello etico/
normativo e di impegno del patto. L’indebolimento degli aspetti di vincolo è pagato dalla
coppia a prezzo di una precarietà sempre incombente: la possibilità di scelta immette una
quota di incertezza che incrementa la paura di legarsi (Scabini, Iafrate, 2003).
A volte è difficile salvaguardare uno spazio per la coppia o uno individuale, per esempio a volte ci si concepisce solo come genitori. Sembra quasi colpa di questi figli, verrebbe
da dire: chissà quanto saremmo stati contenti senza di loro!
Questi pensieri vanno a intrecciarsi anche con i processi evolutivi tipici della vita di
coppia. La coppia è un “noi” che va al di là dei confini psichici individuali e nel quale
agiscono sia aspetti inconsci di comunanza e somiglianza, come nella fase dell’innamoramento, e sia aspetti di differenza e di alterità. Cruciale per una coppia è il modo in cui
affronta il disincantamento, la caduta degli aspetti enfatici, illusori e acritici della prima
fase, per passare alla fase dell’amore coniugale, che è invece una condizione di comunanza, reciprocità e fondata sulla nuova capacità di vedere e accettare anche gli aspetti deboli,
“ombra”, dell’altro: il patto coniugale va ridefinito sulla base delle nuove “scoperte” per
la costruzione di un più ampio progetto comune e questo richiede un lavoro psichico
prezioso (Scabini, Iafrate, 2003; Carotenuto, 1991).
È complesso il sistema di relazioni da coltivare (madre-padre, madre-bambino, padrebambino, e delle relazioni al di fuori della famiglia) nella propria vita e spesso la relazione
di coppia viene collocata per ultima. Spesso ci sentiamo in colpa se pensiamo di organizzarci da soli, senza il bambino, mentre non percepiamo la stessa colpa se non coltiviamo
la coppia o la dimensione individuale: potrebbe aiutarci imparare a scindere.
C’è una differenza tra coppia coniugale e coppia genitoriale, c’è un equilibrio da
ripristinare dopo la nascita di un bambino, c’è la necessità di ridefinire la propria posizione e quella del proprio partner. Chiediamo ai partecipanti di scrivere su un foglio, da
dividere in due colonne, i propri pregi e i propri difetti come genitore e i pregi e difetti
del proprio partner.
Quanto il rapporto è diverso da prima della nascita del figlio? Quando si trascorre del
tempo insieme, cosa si riceve dall’altro? Essere compagni ed essere genitori sono evidentemente due cose distinte e spesso ci si dimentica del ruolo di compagni all’interno della
coppia. La ricerca di momenti ed esperienze per la coppia aiuta anche la crescita della
coppia genitoriale; è positivo per un bambino poter contare sulla coppia genitoriale, ma
è importante prima ancora per la coppia genitoriale poter contare sulla coppia coniugale.
Anche rispetto allo stress genitoriale, all’interno della coppia l’uno può rappresentare una
risorsa per l’altra.
Da che cosa, in concreto, si potrebbe ripartire per ridefinire o recuperare la dimensione di coppia? È importante fare uno sforzo per ricordare quello che c’era prima dell’arrivo
del bambino e quello che resta quando il bambino non c’è, lo sforzo di tornare in contatto con l’essere moglie e marito. Il bambino è tutto per molte coppie, a volte si percepisce
chiaro però anche il desiderio di riscoprire il piacere di stare con l’altro.
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È importante guardarsi in faccia dopo tanti anni e riconoscersi, ma Enzo, con un
po’ di malinconia:“Mi sembra che noi lasciamo questo tipo di scelta a quando loro se ne
andranno”, come per senso di compensazione. Si ha l’impressione che se cerchiamo di
compensare vuol dire che qualcosa manca. Forse uno spazio per desiderarsi? Il desiderio
viene messo in secondo piano, poi però agisce in maniera sotterranea; è importante sentirsi desiderato dall’altro: per esempio, cercarsi anche solo per un caffè è un modo per
non perdersi di vista.
- Attività Previste
A seguito della visione di uno spezzone del film “Amore, Bugie e Calcetto”, esplicativo
sul tema del prendersi del tempo per se stessi e per la coppia, viene avviata una discussione per evidenziare le situazioni piacevoli che la coppia vive e si ritaglia per se stessa, quali
sono gli ingombri quotidiani che invadono questi spazi e come prendersene cura.
In seguito, viene svolta un’attività in cui le persone devono costruire dei collage,
prendendo pezzi diversi ritagliati da quotidiani, che rappresentino l’ideale di famiglia;
questo collage, poi, passa di mano in mano e ogni partecipante può scrivere sul retro le
sensazioni provate nell’osservarlo. A quest’attività segue un giro di condivisione. Questo
gioco ha lo scopo di aumentare la consapevolezza del livello di coesione di coppia.
- Compiti a Casa
Come compiti per casa le persone devono evidenziare su una apposita scheda tutte
le situazioni piacevoli della vita di coppia e quanto spesso sono state utilizzate nel corso
della settimana.
9) Non sono il solo genitore
Uno dei fattori fondamentali del prendersi cura dei bambini in maniera efficace, per
permettere loro di avere una base sicura (Bowlby, 1988) e una coerenza interna critica, è
quella che i genitori cooperino sempre, senza cercare di “sovrastarsi” e senza coinvolgere
i figli nei propri conflitti.
Dalia lamenta l’incompetenza del marito nelle faccende domestiche: “Ma, quindi,
questo significa che, ad esempio, la prossima volta che mi sento male devo rispiegare tutto
da capo a mio marito, perché nel frattempo [voi “maschi”] ve lo siete scordati?”
Le mogli si lamentano della poca cooperazione dei mariti: “Si permette il lusso di
rientrare a casa a ora di cena, quando la cena è pronta e i bambini hanno già mangiato,
fatto i compiti grazie alla mamma, che nel frattempo ha fatto anche la spesa”. Spesso è
utile dedicare del tempo a riconoscere le attività che possono favorire la cooperazione.
A volte punti di forza e punti di debolezza possono anche coincidere. Per molte donne i mariti sono un punto di riferimento e di forza, ma lamentano anche che i mariti non
riescono ad aiutarle come vorrebbero nelle faccende domestiche e nell’accudimento. Il
maschio è in ritardo sotto questi aspetti, perché per millenni non se ne è occupato. Storicamente, il ruolo del padre ha avuto un’evoluzione. La differenza arriva nel momento
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in cui il papà decide di darsi una casa e di tornarci; il rientro a casa aumenta le possibilità
di sopravvivenza della prole: è un principio di famiglia. Questa scelta è arrivata tardi e
risolve solo in parte la difficoltà, il cambiamento riguarda soprattutto la presenza maschile
accanto alla donna e al figlio. L’uomo ha cercato di favorire la crescita del figlio, l’indipendenza soprattutto e i limiti, attraverso una funzione che è poi diventata quel principio
psicologico che chiamiamo Codice Paterno (favorire l’autonomia, esplorazione e conquista della vita, senso di responsabilità, regole e limiti). Storicamente, il ruolo classico del
padre, però, si è andato perdendo (Zoja, 2000; Recalcati, 2010), ma questo può aiutarci
a capire che il papà può adattarsi. Non è una giustificazione, è un modo di recuperare
un atteggiamento, una capacità di apprendimento del padre relativa alla famiglia, e se si
fa insieme è meglio. Ci si può aiutare parlandone, dialogando, costruendo insieme uno
stile cooperativo.
È utile metterci in una condizione di cooperazione, non di conflitto, e imparare insieme. Ci sono cambiamenti enormi che stanno avvenendo: dalla parte dei genitori c’è che
possiamo accorgerci di questi cambiamenti e fare qualcosa per adeguarci ad essi. Possiamo
metterci in ascolto del compagno/a, delle esigenze della famiglia e collaborare, sapendo
che è più realistico basare le nostre aspettative su ciò che abbiamo di fronte. Alcune cose
si possono modificare parlando, altre no. Dovremmo modificare le aspettative e a volte
capita che più che modificare le aspettative cerchiamo di modificare chi ci troviamo di
fronte, generando tensioni e conflitti.
È importante che il bambino impari che ci possono essere anche momenti di conflitto
tra i genitori, ma è altrettanto importante aiutarlo a capire che dopo il conflitto si può
e si sa fare pace. Nel conflitto c’è uno scontro tra forze in cui, a volte, uno si mette nel
ruolo di sottomissione e l’altro attacca. Si potrebbe avere, invece, un dialogo tra forze:
“Il conflitto è padre di tutte le cose” (Eraclito); per i bambini assistere a questi conflitti è
sano, ma è importante che il bambino non venga mandato a letto per non farlo assistere
al conflitto; in questo modo il bambino non sa che si fa anche pace e questo può diventare
un momento costruttivo, perché capisce che a un conflitto può seguire una negoziazione,
una soluzione e una riappacificazione.
Nell’incontro sul tema della cooperazione di coppia, i genitori stessi hanno potuto
osservare le evidenti differenze nelle competenze tra maschi e femmine, nell’accudimento
e nelle faccende domestiche. Si è aperto un conflitto attraverso cui poter riconoscere
queste differenze. Anche qualche operatore è rimasto disorientato: il conflitto è stato
rimosso non solo all’interno delle “famiglie affettive”, ma anche all’interno dei gruppi di
condivisione.
Come lo avrebbero affrontato questo conflitto i miei genitori? Come lo affronto io?
Ci sono delle corrispondenze?
Dal patto coniugale (segnato da due eventi critici: la nascita del figlio e la sua rinascita sociale da adolescente) nasce il patto genitoriale, che prevede l’impegno e la capacità
di prendersi cura in modo responsabile di colui che si è generato. Attraverso il patto
genitoriale cominciano a prendere forma due funzioni distinte (almeno fino al passa74
to). La funzione materna, che consiste nel generare, nel dare cura, protezione, affetto e
contenimento; e la funzione paterna, che consiste nel rispetto della giustizia, nella lealtà
nelle relazioni, nella trasmissione di valori e norme educative, nel senso di appartenenza
(Scabini, Iafrate, 2003).
L’impatto della genitorialità sulla relazione di coppia è enorme e le possibilità di superare incolumi questo impatto dipendono dal modo in cui la coppia affronta e supera
le problematiche relative alla ridefinizione dei ruoli, rimodula le aspettative nei confronti del partner, regola l’intensità degli investimenti emotivi sul figlio, mantiene costante
l’attenzione sui confini tra il sistema coniugale e il sistema genitoriale (Scabini, Iafrate,
2003).
Il sostegno e il riconoscimento reciproco all’interno della coppia genitoriale aiuta anche nella relazione educativa: coppie in cui è ancora presente un forte interesse reciproco
assolvono con più facilità anche il proprio compito genitoriale. Questo evita l’amplificarsi dei vissuti depressivi e la sensazione, comune a molte mamme, di ritrovarsi sole
nell’accudimento dei figli, con conseguenti sentimenti negativi e relativi sensi di colpa
nei confronti di questi ultimi.
- Attività Previste
A seguito della visione di un secondo spezzone del film “Amore, Bugie e Calcetto”,
esplicativo sul tema della cooperazione genitoriale, viene avviata una discussione condivisa in gruppo allargato per evidenziare la collaborazione che c’è all’interno della coppia
(“C’è collaborazione? Cosa ti aspetti dal partner?”).
In seguito, vengono mostrati due filmati di interazioni caregiver-bambino in cui vengono evidenziati punti critici e punti forti di questa attività, a cui fa seguito una condivisione in gruppo che porta alla stesura di una griglia riguardante il “Cosa posso fare io per
migliorare la cooperazione” e “Cosa può fare il partner”.
- Compiti per Casa
Sulla base della griglia creata durante l’incontro, vengono invitati i genitori a cercare
di dedicare del tempo alle attività che possono favorire la cooperazione, individuando su
una apposita scheda anche quanto frequentemente si sono verificate.
10) Le mie risorse interne
Nell’ultimo incontro, i partecipanti concludono con una sorta di “punto della situazione”, evidenziando, dopo il percorso fatto, quali sono le proprie risorse interne su
cui possono far leva e se e come il percorso formativo abbia contribuito alla crescita. È
l’incontro in cui emergono vissuti di perdita e di abbandono, delle regressioni “messe in
scena” per scongiurare l’inizio della fine, dinamiche “fisiologiche” in questa fase della vita
di gruppo.
Martina ha due bambini, di cui una più grande rispetto al gruppo di bambini che
svolge le attività in parallelo: condivide la preoccupazione che non si senta motivata a sta75
re in quel posto, anche se dice di frequentarlo volentieri. Guardando il video, osserviamo
come le attività vengano diversificate per età e che nei grandi viene stimolata una certa
responsabilizzazione. Nell’osservare il video, facciamo notare il coinvolgimento dei bambini in qualcosa che riguarda la famiglia, come se i bambini stessero comunicando ai loro
genitori che anche loro vogliono contribuire. Ciò avviene anche perché, probabilmente,
a casa i genitori si sono mostrati interessati e motivati, e così facendo hanno coinvolto
anche i loro figli.
Ricordiamo insieme il percorso e i progressi che ognuno ha individuato nel proprio
ruolo genitoriale e il coraggio di essersi messi in gioco. All’interno del gruppo si è sviluppato un clima che ha favorito l’apertura e i genitori sono riusciti a sintonizzarsi a un
livello più profondo. È accaduto che si è passati dall’agito, cioè da cose apprese che si
fanno quasi automaticamente, alla mentalizzazione, alla “pensabilità” di ciò che facciamo,
alla “pensabilità” dei modelli che si mettono in atto, non necessariamente per cambiarli.
Questo non è mai stato il posto delle risposte, ma un posto per aprire domande.
Chiediamo al gruppo di riprendere la scheda in cui dal primo incontro sono state annotate le risorse interne che ogni partecipante ha contattato nel corso di queste settimane
di incontri e chiediamo di disegnare su un altro foglio una torta a spicchi dove in ogni
spicchio devono indicare quelli che credono siano i loro punti di forza, le caratteristiche
positive che attribuiscono a se stessi. Tutti devono scrivere il proprio nome vicino alla
torta. Poi si deve passare il foglio alla persona alla propria sinistra e scrivere sul foglio che
ricevono una caratteristica positiva della persona indicata nel foglio, che non sia una ripetizione di ciò che è scritto nella torta. Il giro di fogli prosegue finché non ci si riappropria
della propria scheda.
Qual è la parte di noi che facciamo più fatica ad accettare? Enzo dice: “L’essere simpatico!” Con quale parte di te sta in conflitto l’essere simpatico? Enzo: “Con l’essere serio!”.
Ma anche il gioco è serio e lo apprendiamo proprio dai bambini. Nel corso degli incontri
abbiamo cercato di affinare lo sguardo dei genitori per riuscire a sintonizzarsi non solo sui
bisogni dei bambini, ma anche sui propri, e a imparare proprio dai bambini la capacità di
giocare di tanto in tanto con la propria serietà.
Cosa vi risuona in modo particolare in questo momento e cosa scegliete di portarvi
dietro di questo percorso? Questo è un percorso che abbiamo fatto insieme, abbiamo
uno sguardo diverso per guardare i nostri bambini, poi noi come coppia e poi ancora
noi stessi: è quasi un passaggio obbligato per essere genitore. Abbiamo individuato delle
caratteristiche che ci riconosciamo e quelle che ci attribuiscono gli altri, ma i bambini recepiscono ciò che siamo, i nostri interessi e le nostre passioni. Le diverse culture familiari
influenzano diversamente lo sviluppo dell’autonomia e di un proprio senso critico, qualità utili soprattutto nei momenti di passaggio, nei momenti di crescita e di crisi evolutiva
(per esempio, in adolescenza): possiamo aiutare i futuri adolescenti già da piccoli, prima
dell’arrivo dell’età adolescenziale, in un momento in cui il genitore è ancora una figura
centrale per il bambino. Aiutarlo a capire chi è e chi può essere, fin dove può arrivare, fin
dove può contrapporsi. “Il senso di dargli delle radici” dice Ada. Si, delle radici, ma che
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non siano catene: “Radici e ali”.
- Attività Previste
L’attività dell’ultima giornata sono impostate su un gioco volto a evidenziare le risorse
interne della persona. Viene distribuito un foglio su cui viene disegnato dai partecipanti
un cerchio. Ogni persona evidenzia su questa “torta” le proprie risorse interne individuate
durante il percorso. Il foglio poi passa di mano in mano e ciascuno può aggiungere sul
retro le proprie impressioni e altre risorse riconosciute alla persona in questione. A seguito
di questa attività, viene avviata una condivisione in gruppo in cui, oltre a dare feedback e
suggerimenti, ci si sofferma sulle lezioni apprese (“Cos’ho imparato?”). Infine, si conclude
l’esperienza con un rituale di chiusura.
Conclusioni
Il lavoro portato avanti con il gruppo, una volta giunto al termine, ha coinvolto i
partecipanti tanto da spingerli a chiedere un ulteriore ciclo di incontri. L’evoluzione del
gruppo può essere paragonata allo sviluppo di un bambino: si è partiti da una fase iniziale di totale affidamento ai conduttori e pochi scambi reciproci per arrivare, attraverso
l’acquisizione di una maggiore consapevolezza di sé e, perché no, di diverse “ribellioni”
nei confronti dell’“autorità”, all’acquisizione di una sana autonomia, della capacità di
mettersi in discussione e di ascoltarsi reciprocamente.
Durante questo processo evolutivo, anche la funzione dei conduttori si è andata gradualmente modificando: all’inizio del primo ciclo di incontri, la scarsa confidenza tra i
membri e il timore di scoprirsi troppo ha fatto sì che il principale compito del conduttore
fosse quello di stimolare la discussione e creare un clima sereno, accogliente e non giudicante; a tale scopo, molto utile può essere l’utilizzo di tecniche di lavoro creativo con il
corpo, drammatizzazioni e role-playing. Durante il procedere del percorso e, in particolare, nel secondo ciclo di incontri di approfondimento, il principale lavoro del conduttore
è stato quello della gestione dei numerosi scambi e confronti tra genitori (“portatori sani”
di esperienze, suggerimenti, alternative).
Questa “crescita” era visibile anche attraverso l’osservazione dell’organizzazione spontanea dello spazio: la disposizione del setting seguiva l’evoluzione psicologica del gruppo.
Ci sono state delle metamorfosi, a cominciare dalla struttura a semicerchio della disposizione delle sedie (di fronte a strumenti didattici come la lavagna), fino ad arrivare al
cerchio. Anche la posizione dei tavoli, durante le cene organizzate dopo i gruppi per
agevolare la partecipazione, ha assunto dapprima una struttura a “ferro di cavallo”, per
arrivare a comporre, negli ultimi incontri, un unico grande tavolo centrale.
I partecipanti hanno constatato come, tra le altre cose, spesso le difficoltà nelle relazioni sono dovute a interpretazioni rigide, a convinzioni su noi stessi e sugli altri, ed è
molto difficile deporre ciò che, tutto sommato, ci dà sicurezza. Eppure, nello scambio
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alla pari con chi si trova nella nostra stessa condizione, ci accorgiamo che è più utile avere
a disposizione una varietà di comportamenti possibili piuttosto che un unico modello.
Al termine del ciclo di incontri, i genitori hanno potuto concedersi qualche considerazione in proprio favore, riconoscimenti, piccoli passi fatti nella direzione che desideravano. Alcuni hanno addomesticato un po’ la propria ansia di separazione: si sono resi
conto che l’eccesiva premura, la rassicurazione e la consolazione oltremisura ottengono
l’effetto opposto a quello desiderato, perché lasciano pensare al bambino che il mondo là
fuori sia pieno di pericoli dai quali deve difendersi e lasciarsi difendere (la consolazione,
infatti, avviene dopo un dolore subito, quindi è già nell’ambito della rassegnazione); altri
hanno notato più determinazione e fermezza nei propositi educativi; alcuni sono riusciti
a tollerare dentro di sé dosi maggiori di conflitto sano (interno e interpersonale); alcuni
sono riusciti a relativizzare il senso di colpa di fronte ai tentativi di manipolazione dei
bambini; infine, di fronte alla constatazione che la psiche tende a rimanere nelle posizioni acquisite a discapito delle forze creative che tendono alla trasformazione, alcuni sono
riusciti a pensare che le strategie non si sono esaurite e che la creatività, in questi casi,
è di grande aiuto, un antidoto alla nefasta combinazione “comportamenti ripetitivi” ed
“errori irreversibili”.
Prendere parte a questo percorso ha portato ogni partecipante a riconsiderarsi come
genitore, come figlio, come partner, come individuo inserito nella società, all’interno di
un processo di rottura e riparazione: rottura nei confronti di una visione rigida e univoca
di sé, riparazione come capacità di affrontare i momenti di crisi uscendone fortificati.
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6. Laboratori ludico-espressivi in età prescolare
Lucia Signorelli
Premessa
Negli ultimi anni la pedagogia e la psicologia dello sviluppo si sono orientate sempre
più verso un modello di intervento di tipo positivo volto a cogliere la complessità del
sistema-bambino a sua volta inserito in contesti socio-familiari specifici. Osservando,
infatti, i modelli teorici di riferimento (stadiale, Piaget, Vitgosky, Bowlby) che hanno cercato di sistematizzare lo sviluppo in aree specifiche (cognitiva, affettiva-emotiva, linguistica, psicomotoria) si osserva come, sebbene le fasi proposte siano utili come riferimento
teorico generale, la variabilità inter-individuale abbia un’importanza considerevole. Per
tale motivo, sembrerebbe utile programmare lavori sia di prevenzione che di intervento
sull’incremento di competenze già acquisite dal soggetto. Ciò permette sia di evitare un
sovraccarico delle strutture sanitarie sia evitare lo stress (a genitori e bambini) di uno
stigma sociale purtroppo oggi ancora molto diffuso.
Su queste basi il progetto “Radici e Ali” ha avuto come finalità la promozione delle
competenze genitoriali, da un lato, e infantili dall’altro. Nello specifico si è voluto dare
la possibilità di osservare i bambini aderenti al progetto in un ambiente protetto, ma
non istituzionalizzato e creare un luogo di scambio e crescita. Facendo particolare riferimento ai modelli dello sviluppo affettivo (Freud, Spitz, Mahler, Bowlby) e al concetto di
area prossimale di sviluppo (Vigotskji) sono state strutturate attività che permettessero
ai bambini di entrare in contatto con emozioni e situazioni significative adeguate, nel
linguaggio e negli strumenti utilizzati, alla loro età. Per fare ciò si è scelto di proporre dei
laboratori ludico-espressivi utilizzando il gioco strutturato come strumento d’elezione per
entrare in contatto con i bambini e poter coinvolgerli in un lavoro.
Presupposti teorici
Lo sviluppo in età prescolare (3-5 anni) si caratterizza per la comparsa, in modo
specifico, del concetto di sé e dell’identità sessuale. Il concetto di sé comprende un Io
esistenziale (“sono un’entità separata dagli altri”) che inizia a svilupparsi dal momento
della nascita, un Io categorico (“possiedo caratteristiche specifiche di sesso, nazionalità,
opinioni”, già definito a questa età) e l’autostima (“giudico positivamente o negativamente queste mie caratteristiche”).
Raggiunti i 4-5 anni di età, il bambino ha più consapevolezza dell’esistenza di un
“Io”, entità fisica continua e definita, come momento fondamentale del processo di ap81
prendimento. Le capacità di linguaggio e di pensiero si consolidano e, tramite il loro
sviluppo, il bambino si può cimentare in abilità e relazioni più complesse. Ascoltando e
immagazzinando i rinforzi dell’ambiente sulla sua identità di genere e sulle sue capacità e
suoi limiti, giunge a un primo abbozzo di conclusioni e riflessioni su sé stesso, dando un
apporto concreto al concetto di sé in formazione.
Anche l’aspetto morale assume importanza e inizia la conquista dell’autocontrollo e
del senso di responsabilità. Il ruolo del padre esce sempre più dallo sfondo e si consolida
la triade madre/padre/bambino, in cui la figura maschile insegna le regole e sottolinea i
divieti. È anche una fase di “sfida”, in cui il bambino costruisce l’autostima e si confronta
iniziando a uscire dalla famiglia (scuola materna e allargamento di relazioni, nascita delle
prime vere amicizie).
L’acquisizione delle capacità appena descritte sono rese possibili dalla comparsa e dallo sviluppo nel bambino della Teoria della Mente (Theory of Mind, ToM): la capacità del
bambino di attribuire stati mentali a sé e agli altri e di prevedere, sulla base di tali inferenze, il proprio ed altrui comportamento. La capacità di assumere una prospettiva diversa
dalla propria non si limita al riconoscimento dei pensieri e delle credenze dell’altro, ma
anche delle sue emozioni (Bonino, Lo Coco, Tani, 1998).
Intorno ai 24 mesi, comincia a manifestarsi la capacità dei bambini di rappresentarsi
i desideri e la loro funzione nel modulare il comportamento umano. A tre anni si osserva uno sviluppo della psicologia del desiderio/credenza, ovvero i bambini cominciano a
riferirsi esplicitamente agli stati cognitivi, parlando di ciò che essi stessi o altri pensano,
sanno, ricordano. Tuttavia, non si tratta di vere e proprie rappresentazioni (che quindi
possono essere vere o false), ma di copie fedeli della realtà (Wellman, 1990). Intorno ai
5 anni, ci si trova in presenza di una vera e propria Teoria della Mente: il bambino è in
grado di comprendere come differenti percezioni possano condurre le persone a interpretazioni differenti degli eventi.
Le ToM trova i suoi precursori in fasi precoci dello sviluppo, in cui il bambino è
in grado di interagire in modo costruttivo con il proprio ambiente. In particolare, essa
affonda le proprie radici nell’intenzione comunicativa dichiarativa (12 mesi), nel gioco
simbolico (18 mesi) e nell’utilizzo dell’esperienza come fonte di conoscenza dei propri
stati interni (Teoria della Simulazione): quando vede un adulto o un compagno compiere
certe azioni, vi attribuisce il medesimo significato come se fosse lui stesso a compiere
quelle azioni. Poiché è in grado di identificarsi con l’altro, può comprenderne il comportamento (Harris, 1996; Tomasello, 1999).
Adottando una prospettiva sociale e sistemica, la ToM assume i connotati di un’impresa relazionale che si struttura all’interno di contesti emotivamente significativi: famiglia e scuola dell’infanzia. In particolare, si è osservato che la presenza di fratelli (Dunn,
1990), uno stile di attaccamento sicuro nei confronti del caregiver (Fonagy, Redfern,
Charman, 2001), l’abitudine all’utilizzo di un linguaggio che faccia riferimento ai sentimenti e le credenze (Dunn, 1996) e la manifestazione di calore emotivo all’interno della
famiglia (Hughes, 1999) sono fattori positivamente correlati e potenzialmente facilitatori
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di un adeguato sviluppo della capacità di mentalizzazione.
Metodologie e strumenti
Gran parte delle energie e intenzionalità del bambino in questa fascia d’età sono incanalate e trovano sfogo attraverso il gioco. Già Freud nel 1920 sottolineò l’importanza
del gioco per il bambino, per il quale esso non è solo un divertimento o un passatempo,
ma costituisce un modo per comprendere meglio le proprie esperienze emotive. Nel 1900
Carl Cross sostenne che l’attività ludica è una sorta di esercizio utilizzato per sviluppare
delle attività motorie e mentali dell’individuo, un pre-esercizio per fare in modo che determinate strutture innate si trasformino in strutture più complesse e più adatte a quelle
che sono le modificazioni ambientali.
L’attività ludica è la forma di espressione privilegiata dal bambino e lo strumento
attraverso il quale si rapporta a se stesso, esplorando il mondo circostante. Il gioco dà
la possibilità di ricombinare in maniera personale e creativa le informazioni provenienti
dall’ambiente e ad esso i bambini affidano le proprie emozioni, i propri pensieri e i ricordi. Infine, è anche un’azione che il bambino compie intenzionalmente per inserirsi
nella realtà che lo circonda e per manipolarla, e aiuta ad acquisire consapevolezza di sé a
elaborare un’identità sociale e personale.
Grazie allo svilupparsi della capacità immaginativa intorno ai tre anni, il bambino comincia a mostrare interesse a giocare con gli altri e tende a imitare il loro comportamento:
compaiono così i primi giochi di socializzazione. Il gioco, come espressione delle proprie
dinamiche interne, invece, compare tra i quattro e cinque anni di vita.
Dati tali presupposti, il gioco si configura come strumento d’elezione per stabilire un
contatto con il bambino e, allo stesso tempo, intervenire in un contesto a cui egli possa
dare significato.
I laboratori ludico-espressivi, che hanno visto il coinvolgimento di pedagogisti e operatori esperti, sono stati inoltre videoregistrati seguendo i principi e le modalità della
Video Intervention Therapy.
Laboratori
Partendo da tali presupposti teorici, sono stati proposti laboratori ludico espressivi allo scopo di rinforzare le capacità di riconoscimento ed espressione delle emozioni,
rafforzare l’identità sotto il profilo corporeo (percezione delle sensazioni e attenzione ai
cinque sensi) e potenziare le capacità immaginative, di ascolto e concentrazione.
Nei primi incontri si è cercato di creare un clima caloroso e divertente che potesse
rivelarsi adeguato per l’accoglienza dei bambini e il loro distacco dai genitori. Proprio
quest’ultimo si è rivelato come la maggiore (e più diffusa) problematica osservata nei
83
soggetti partecipanti al progetto. Gli operatori hanno osservato come tale difficoltà si
manifestasse sia nei bambini più piccoli (2-3 anni) sia in quelli più grandi. Inoltre, spesso,
la problematica dell’abbandono non riguardava esclusivamente il bambino ma, in larga
misura, anche il genitore che, mosso da dinamiche interne, metteva in atto, più o meno
consapevolmente, strategie non idonee al distacco bensì facilitanti il contatto. Attraverso
il lavoro congiunto sui genitori (attraverso discussioni e il confronto di gruppo e la visione delle videoregistrazione del momento del distacco, seguendo la metodologia V.I.T.)
e delle operatrici sui bambini, si è cercato di strutturare delle strategie alternative e più
specifiche possibili che i genitori potessero mettere in atto in questi momenti critici.
In alcuni casi, è stato sufficiente rendere consapevoli genitori di tali meccanismi e
aiutarli ad allontanarsi senza per questo richiamare l’attenzione del figlio già impegnato
nelle attività di gioco. In altri casi, si è ritenuto necessario accogliere, nella fase iniziale,
i genitori all’interno della stanza dei bambini, inserendoli in alcuni giochi, in modo da
abituare i piccoli al nuovo ambiente e successivamente attuare un distacco molto graduale. Solo in due casi estremi non si è riusciti ad ottenere il risultato voluto, in quanto
una madre si presentava molto resistente a ogni tipo di cambiamento (lascerà il progetto
prima della sua conclusione) e un altro in cui la bambina (Ida) di 2 anni mostrava gradi
di ansia, agitazione e angoscia troppo elevati e di seria difficoltà di gestione in assenza di
almeno uno dei genitori. Nonostante ciò, alla fine degli incontri previsti, i genitori di Ida
manifestavano maggiore sicurezza e determinazione, rinforzati da un seppur lieve miglioramento della figlia nella capacità di distaccarsi da essi.
Per mantenere una continuità tra il lavoro svolto negli incontri dei genitori e i laboratori dei bambini, alcuni laboratori hanno visto come destinatari i nuclei famigliari riuniti.
Questa tipologia di laboratorio ha permesso agli operatori di poter osservare in maniera
diretta le dinamiche familiari, la qualità delle microinterazioni (osservate tramite le videoregistrazioni) e aiutando, contemporaneamente, a far emergere nei bambini aspetti del
proprio mondo interiore.
Gli altri laboratori si sono concentrati sulla stimolazione della propria consapevolezza
corporea e personale, utilizzando strumenti quali la musica, le arti espressive grafiche e
teatrali, e metodologie come il gioco strutturato e il lavoro in piccoli gruppi. Dalle osservazioni svolte dagli operatori emerge come il rispetto delle regole all’interno del gioco
sia un altro elemento critico nel campione di bambini osservati. La difficoltà di rimanere
all’interno della cornice del gioco si osservava soprattutto in bambini particolarmente
attivi sul piano fisco e con scarse capacità di concentrazione e che mostravano, molto
spesso, una “fame di attenzione e riconoscimento”. In questi casi, è stata premura degli
operatori cercare di introdurre i giochi attraverso una spiegazione dettagliata delle attività
(in modo che tutti i bambini potessero crearsi delle aspettative precise e non ansiose
sull’andamento dell’incontro) e, successivamente, conferire ai soggetti più problematici,
da tale punto di vista, compiti e ruoli particolarmente stimolanti in modo da focalizzare
in maniera più efficace le loro capacità attentive.
I laboratori hanno messo anche in luce come i bambini possedessero già delle buone
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competenze di base per relazionarsi con i pari e, in particolare, come la presenza di un
fratello maggiore fosse di grande aiuto per l’inserimento di alcuni bambini più piccoli che
mostravano iniziale paura o timidezza.
Tutti i laboratori, sebbene variassero nella scelta degli strumenti e dei materiali, hanno avuto la caratteristica comune di stimolare la consapevolezza delle emozioni e il riconoscimento delle stesse nelle sensazioni fisiche di piacevolezza, stanchezza o disagio.
In particolare, grande importanza ha rivestito la possibilità di poter parlare, leggere e
rappresentare emozioni negative (in genere, riferite nel contesto specifico al personaggio
“cattivo”) in quanto spesso considerate nelle famiglie dei piccoli tabù.
Conclusioni
Il progetto “Radici e Ali” ha avuto il merito di mettere in evidenza come le dinamiche dello sviluppo affettivo, cognitivo e sociale del bambino, sin dai primi anni di vita,
si intersecano e influenzano tra loro e non possono prescindere dalla considerazione del
contesto specifico. Ogni bambino e ogni famiglia è unica e l’attenzione alle sfumature,
alle espressioni e alle piccole interazioni (tra pari, ma anche con gli adulti) possono essere
di grande rilevanza nell’individuare i punti di forza e le competenze di cui il bambino
comincia a essere padrone.
Ciò non allo scopo di individuare carenze e predisposizioni a uno sviluppo patologico, bensì quello di conoscere ed entrare in contatto con il mondo interiore e fantastico del
bambino. In questo modo, l’obiettivo diventa il riconoscimento, a partire da riferimenti
generali scientifici e teorici circa le capacità e lo sviluppo infantile, delle caratteristiche e
potenzialità specifiche di quel bambino, in modo da poterlo sostenere in maniera consapevole e mirare a uno suo sviluppo armonico e un benessere a tutto tondo: psicologico,
fisico e sociale.
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7. Spazio familiare e fedeltà nascoste
Marilisa Marianella
Scrive Simone de Beauvoir che “I complessi, le ossessioni, le nevrosi di cui soffrono gli
adulti hanno la loro radice nel passato familiare; i genitori che hanno i loro conflitti, i loro
problemi, i loro drammi, sono la compagnia meno desiderabile per il bambino”. Ma se questo
è vero per il bambino interiore, è anche vero che avanzare sulla strada della maturità comporta il disidentificarsi da quest’ultimo e assumere il punto di vista dell’adulto.
È chiaramente espresso dalla psicologia e pedagogia sistemica che il bambino va osservato all’interno del sistema in cui vive, perché il primo e più importante sistema a cui
appartiene il bambino è quello familiare. All’interno di questo spazio di vita familiare
che chiamiamo spazio di crescita e quindi verosimilmente “educativo”, tra i genitori ed
il bambino si crea un legame d’amore molto profondo, che va al di là di ogni possibile
credenza. Per quanto possa sembrare difficile da accettare, tale legame resta indissolubile
anche davanti a comportamenti negativi, come il maltrattamento e l’abuso.
Dal momento stesso della nostra nascita ogni cellula del nostro corpo è intelligente,
completa e programmata per essere ciò che è, ad ogni condizione possibile. Il programma non è nella mente che pensa, ma è nel corpo, in quello che chiamiamo DNA e che
seguiamo per la sua spontanea saggezza. Così da bambini seguiamo i nostri istinti per
soddisfare i nostri bisogni, sappiamo cosa ci piace e cosa no, quando ci piace e quando no.
Progressivamente il nostro corpo si sviluppa e la nostra mente matura e iniziamo ad usare
dei simboli per trasmettere il nostro messaggio e, come esseri umani siamo programmati
per creare un linguaggio e inventare una simbologia. Se osserviamo i bambini da 0 a 4
anni, vediamo i loro sforzi per assimilare l’intera simbologia. È proprio così che tutti noi
abbiamo imparato quello che sappiamo.
Oltre il linguaggio, gli adulti che si prendono cura di noi ci insegnano quello che
sanno, ovvero ci programmano attraverso le loro conoscenze, comprese le regole sociali,
religiose e morali della cultura nella quale viviamo. Impariamo a comportarci in base
al condizionamento di bravo/a bambina se facciamo quello che vogliono gli adulti o di
cattivo/a bambina quando non facciamo ciò che vogliono da noi. Per paura di perdere
l’amore o di ricevere una punizione, iniziamo a compiacere gli altri.
Nell’addomesticamento umano ci vengono imposte tutte le regole ed i valori della nostra famiglia e società, come fossero dei file scaricati nella nostra testa attraverso
i processi di attenzione e inoltre, attraverso l’immaginazione, la curiosità, la ricerca di
informazioni, iniziamo a pensare e diamo significato ad un numero sempre maggiore di
simboli, che si agganciano al nostro pensiero automaticamente.
Le voci di ciò che abbiamo imparato cominciano ad agire su di noi attraverso la voce
di nostro padre, nostra madre, o altri. È una voce che non smette mai di parlare… così
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le opinioni degli esseri umani che ci circondano iniziano ad impadronirsi della nostra
mente e noi, che non sappiamo ancora bene chi siamo, ci vediamo nello specchio di
quello che gli altri dicono di noi. Ma non appena accettiamo che questo è ciò che siamo,
quell’opinione diventa parte del nostro sistema di credenze, come essere bello o brutto,
intelligente o stupido, vincente o perdente.
La paura di essere rifiutati diventa la paura di non essere abbastanza bravi e ci mettiamo alla ricerca di qualcosa che chiamiamo perfezione, ma non sappiamo ancora che
non esiste. Costruiamo un’immagine di perfezione in base alla quale ci giudichiamo e
giudichiamo gli altri, e saremo tanto più severi nel giudizio verso l’esterno quanto più
severi siamo verso noi stessi. Qui inizia il processo di rifiuto di noi stessi perché adesso i
simboli sono contro di noi, quindi ci accorgiamo di aver imparato i simboli del rifiuto
di noi stessi.
Man mano che cresciamo perdiamo il contatto con le qualità essenziali e sviluppiamo
una personalità con la quale ci relazioniamo con gli altri e con il mondo. La personalità
è il risultato delle nostre interazioni personali, prima con i genitori, poi con l’ambiente,
la cultura, la società, la religione, la scuola. È frutto di esperienze, idee, convinzioni,
identificazioni, credenze. Generalmente anche i nostri genitori si sono identificati con
le loro personalità e non con le loro essenze, per cui non possono né incoraggiare, né
riconoscere la nostra.
Dopo alcuni anni vissuti dimenticando ciò che è importante per noi, la personalità si
sostituisce completamente alle qualità dell’essenza tanto da perderne il contatto, finché,
adulti, ci identifichiamo con la nostra personalità esteriore. L’essenza tuttavia non sparisce. Ignorata, non riconosciuta, distorta, a volte persino rifiutata, si protegge nascondendosi sotto alcuni aspetti della nostra personalità. Ciò non significa che ci sia qualcosa
di sbagliato nell’avere una personalità, anzi è necessario averla, perché senza di essa non
sarebbe possibile sopravvivere, però pensare che questa rappresenti il nostro vero essere è
una distorsione della realtà. Noi siamo molto altro rispetto alla nostra personalità.
Quindi torniamo a cercare la libertà perché non ci sentiamo più liberi di essere ciò
che siamo veramente, iniziamo a cercare la bellezza e la felicità… non ci va più che i genitori ci dicano cosa dobbiamo o non dobbiamo fare, vogliamo essere noi stessi, ma nello
stesso tempo abbiamo paura di essere noi stessi… durante l’adolescenza non abbiamo
più bisogno di qualcuno che ci addomestichi, ormai abbiamo imparato quasi tutto, ma
soprattutto abbiamo imparato a giudicarci, a punirci e a ricompensarci in base allo stesso
sistema di credenze che ci è stato insegnato, anzi spesso usiamo le stesse ricompense e le
stesse punizioni e questa è la chiara conferma che nessuno può sottrarsi al processo di
addomesticamento (M. Ruiz, 2013).
Ma il corpo continua a maturare e tutto cambia ancora perché quello che cerchiamo
sempre di più è il nostro vero sé! Cerchiamo l’amore perché abbiamo creduto che l’amore
sia qualcosa di esterno a noi, cerchiamo la giustizia perché non c’è giustizia nel sistema
di credenze che ci hanno trasmesso, cerchiamo la verità perché crediamo solo alla conoscenza che abbiamo immagazzinato nella nostra mente, e ovviamente continuiamo a
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cercare la perfezione perché ora siamo d’accordo con il resto dell’umanità che “nessuno è
perfetto”, ma non rinunciamo mai al nostro ideale di perfezione.
Per tornare alla nostra vera natura e riconquistare felicità, libertà e amore c’è bisogno
di tre forme di padronanza: quella della consapevolezza, quella della trasformazione e
quella dell’amore che contiene la fede e l’intenzione.
La padronanza di sé inizia dalla consapevolezza di sé e dal saper distinguere ciò che è
reale da ciò che è virtuale e cioè ripulire la nostra realtà dalle nostre credenze che rappresentano l’unico vero impedimento a modificare il mondo virtuale nel quale siamo immersi, per aprire attraverso la strada della trasformazione, quella dell’amore che è l’unica
vera energia di cambiamento. In sintesi, quando impariamo a riconoscere “quello che è”,
entriamo con entrambi i piedi nel territorio della vita reale e nella comprensione della
nostra eredità psichica.
Se la causa principale del disagio psichico sono i disturbi di legame che si riferiscono
e /o prendono origine dai traumi, è chiaro che essi hanno effetto attraverso molte generazioni. Ogni essere umano vive sul piano psichico un intreccio di messaggi esplicitati e
non che ricomprendono almeno quattro generazioni.
Le ferite profonde dei bambini vengono causate da stati emozionali e traumatici riferibili principalmente alla paralisi dei sentimenti di legame, causata da: assenza di uno
o entrambi i genitori; genitori presenti, ma congelati e quindi irraggiungibili emozionalmente; genitori che si contrastano e si manifestano violenza, con esplicita distruzione
della capacità di legame; genitori psichicamente confusi, quindi ingeneranti confusione
d’identità nel bambino.
È luogo comune pensare che ogni genitore darebbe la vita per il proprio figlio e invece
unica realtà confermabile è che ogni bambino dà continuamente la vita per i propri genitori, disponendosi a portare pesi non propri o facendosi carico della loro tristezza pur di
vederli felici. I genitori sono al primo posto nel cuore di ogni bambino e tra di essi si crea
un filo di comunicazione unica e irripetibile, proprio grazie alla capacità del bambino di
captare le zone d’ombra del proprio genitore.
È vero che ogni genitore sa perfettamente tramandare la vita, ma nel corso di questa
può trasmettere al proprio figlio solo quello che ha, ovvero quello che, a sua volta, ha
ricevuto dai suoi genitori. Pertanto, ogni genitore è destinato a commettere errori a causa
della inevitabile imperfezione che potrà sanare solo imparando ad inchinarsi davanti alle
proprie imperfezioni, quindi assumendosene la piena responsabilità.
Bert Hellinger ci ricorda che il sistema famiglia è un grande campo di coscienza all’interno del quale tutti sono in risonanza tra loro, ma in questo campo la coscienza non ha
niente a che vedere con il bene e il male, il buono ed il cattivo, il giusto e l’ingiusto, bensì
con l’appartenenza o la non appartenenza alla famiglia d’origine. Se adottiamo comportamenti conformi alla nostra famiglia d’origine, ci sentiamo appartenere ad essa e viviamo
una condizione interiore di buona coscienza. Viceversa, quando ci discostiamo troppo dal
suo orientamento, abbiamo paura di perdere l’appartenenza e quindi scivoliamo in uno
stato di cattiva coscienza.
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Attraverso questo tipo di coscienza siamo in grado di legarci alla nostra famiglia e
di sperimentare e riconoscerne l’appartenenza o l’esclusione. Inoltre nel gruppo della
famiglia esiste una coscienza più arcaica, che lega tutti nel rispetto di determinati ordini,
indispensabili alla sopravvivenza e coesione del gruppo. Il primo ordine è che tutti gli
appartenenti al gruppo abbiano lo stesso diritto di appartenenza, perché la coscienza di
gruppo non sopporta le esclusioni. Infatti la conseguenza importante è che qualcun altro,
senza esserne consapevole, interpretando l’escluso, sarà destinato a prenderne il posto.
Molti bambini che sembrano assumere uno strano comportamento, con atteggiamenti contrari al vivere, tipo le forme di dipendenza patologica, sono legati emozionalmente ad una persona esclusa. Per aiutare questi bambini è importante che gli altri
membri della famiglia, che hanno sempre distolto lo sguardo dalla persona esclusa in
quanto considerata pericolosa, indegna, cattiva, si decidano a guardare in quella direzione
e a prendere atto di ciò che hanno voluto negare. Il riconoscimento di “ciò che è” aiuta
sempre a guarire e, in questo caso, disconnette il bambino dalle identificazioni, lasciandolo libero di vivere la propria vita.
Nella descrizione degli “Ordini dell’Amore” proposti da Bert Hellinger, c’è un altro
ordine di base che causa molte difficoltà ai bambini; si tratta di una semplice legge di
rango, che prescrive che coloro che arrivano dopo rispettino chi è arrivato prima. Tuttavia, spesso per amore, questo ordine gerarchico viene violato. Così tutte le volte che un
bambino si sostituisce al proprio genitore per farsi carico di qualcosa che spetta a chi è più
grande di lui, si verificherà un fallimento o uno stato di malessere e scompiglio nell’intero
sistema.
Cosa possiamo quindi fare noi adulti per aiutare i bambini a stare al loro posto, liberi
e in armonia? Quando il genitore sa prendere il proprio posto e farsi carico in prima
persona delle proprie scelte e conseguenze, evitando che il bambino possa intervenire
per “salvarlo” lì dove è mancante, aiuta il bambino a non immischiarsi in ciò che non lo
riguarda. Questa posizione genera rispetto per il genitore che non perde la sua dignità,
equilibrio nella relazione dove il flusso del dare/avere è nella giusta direzione che va dal
più grande al più piccolo (il genitore dà ed il bambino prende) e inoltre, mantiene il
bambino nella libertà di non prendersi pesi inappropriati che potranno generare una
catena di futuri risentimenti.
I maggiori conflitti, malesseri, dipendenze, hanno alla base la distorsione ed il mancato rispetto di questi due ordini fondamentali: “Chi è arrivato prima ha la precedenza su
chi è arrivato dopo” e “Nessuno all’interno del sistema può essere escluso” (Hellinger, 2001).
Quando queste regole implicite e sottaciute interagiscono all’interno di un sistema
familiare, con i processi educativi più visibili, si crea nella grande anima del sistema familiare quell’inspiegabile tentativo di riparazione inconscia che spinge il bambino a lasciare
la sua vera essenza per interpretare un copione in collegamento transgenerazionale con
fatti, situazioni e personaggi che mantengono vivi emozioni e destini di generazioni precedenti. Questa lealtà familiare invisibile risponde ad “obblighi d’amore” inconsci .
Infatti, il rispetto e l’amore familiare non sono espressi dai sentimenti, ma da uno
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schema comportamentale di fondo, dove spesso le idee e le opinioni che esprimiamo
differiscono in maniera sostanziale dai nostri comportamenti, tanto siamo governati dalla
potenza di questo sostrato inconscio. Così per quanto sia possibile modificare il proprio
atteggiamento nei confronti di genitori, fratelli, sorelle e parenti, non dobbiamo dimenticare che la nostra appartenenza alla grande anima della famiglia fa parte del nostro
destino e quanto questo destino ci condizioni.
In qualità di educatori, il nostro compito più importante è quello di svolgere un’azione preventiva aiutando il bambino a non perdere durante la crescita il contatto con le sue
più profonde qualità interiori , ovvero con la sua Essenza.
Solo sviluppando l’essenza personale nascosta nella personalità, abbiamo la possibilità
di vivere la nostra vita limitando l’identificazione con eventi, situazioni esterne, pensieri,
credenze o quant’altro. Per questo è di fondamentale importanza incoraggiare i bambini
a sviluppare e riconoscere le proprie qualità essenziali, in modo da renderli consapevoli di
quello che realmente sono e di ciò di cui hanno bisogno per diventare individui completi
e liberi.
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91
Parte II
“GenerAzioni”
94
8. Incontri di educazione all’affettività in età
scolare
Valeria Pesce, Lucia Signorelli
Premessa
Nell’accostarsi alla psicologia dello sviluppo è importante fermarsi a riflettere e concentrare la nostra attenzione sia sull’importanza che hanno gli schemi evolutivi comuni sia sulle differenze individuali. Tale riflessione è necessaria soprattutto nel contesto
odierno dove i cambiamenti e l’evoluzione sono sempre più veloci e complessi. È evidente, quindi, come sia importante la ricostruzione di una progettualità che funzioni da
contenitore che vada a supportare il bambino lungo quel faticoso percorso di sviluppo
non soltanto cognitivo, ma anche affettivo e sociale. Da tali presupposti nasce il progetto “GenerAzioni”, con l’obiettivo di sviluppare competenze socio-affettive, rivolgendosi
non soltanto a soggetti in età evolutiva, ma anche a genitori e insegnanti; all’interno di
tale progetto è stato avviato un percorso di “Educazione all’affettività e alla sessualità”.
Convinti che lo sviluppo dell’affettività tramite gesti, scambi, esperienze e processi di
identificazione con modelli maschili e femminili costituiscano la base dell’educazione
sessuale. Attraverso la creazione di un “luogo protetto”, ogni bambino ha avuto l’opportunità di esplorare il proprio mondo interiore, facendo emergere questioni, domande
specifiche, riflessioni a volte anche molto profonde ed ampie inerenti la sfera sessuale,
affrontate poi da un’equipe multidisciplinare utilizzando metodi consoni allo sviluppo
cognitivo e affettivo del bambino.
Presupposti teorici
L’età scolare è un periodo in cui la personalità del bambino acquista, attraverso processi evolutivi, una maggiore autonomia e maturazione nella comprensione della partecipazione affettiva e di socializzazione. In questo periodo (6-10 anni), le energie del
bambino, incentrate fino ad allora principalmente sul gioco, si indirizzano verso compiti
più maturi come l’impegno scolastico (che va man mano assumendo una maggiore importanza), lo sport, attività artistiche, mansioni di responsabilità e così via, e vede emergere il senso di competenza e di efficacia che vanno ad integrarsi alla speranza, volontà e
fermezza di propositi.
È importante, al fine di superare una certa tendenza regressiva, che il bambino-fanciullo applichi la propria intelligenza e canalizzi la sua esuberante energia in compiti di
adeguata difficoltà e di una certa responsabilità, che siano sostenuti da una corrisponden95
te motivazione interna, altrimenti gli sforzi non porteranno a un’autentica soddisfazione.
Si tratta di un momento molto delicato, in cui il bambino può acquisire una certa sicurezza e padronanza delle proprie capacità di operare, premessa fondamentale per sviluppare in futuro una riconosciuta competenza lavorativa, oppure può prodursi un inibente
sentimento di inferiorità (Erikson, 1968).
Tale periodo è caratterizzato da un notevole sviluppo del senso del dominio, di competenza, moralità, stabile autostima, tutto ciò accompagnato e supportato da uno sviluppo delle capacità cognitive. Il bambino in questa fascia di età è nel pieno del periodo concettuale (dai due anni in poi), a cavallo fra il periodo preoperatorio, a sua volta suddiviso
in stadio del pensiero preconcettuale (2-4 anni) e stadio del pensiero intuitivo (da 4 ai
7-8 anni), e il periodo operatorio concreto che va dai 7-8 agli 11-12 anni (stadiale, Piaget, Vygotskij, Bowlby che hanno cercato di sistematizzare lo sviluppo in aree specifiche:
cognitiva, affettivo-emotiva, linguistica, psicomotoria). Durante tali periodi, il pensiero
evolve da uno di tipo egocentrico, che vede il mondo solo ed esclusivamente dal proprio
punto di vista, a un ragionamento logico collegato ad azioni concrete. Inizia a capire
il concetto di numero, sviluppando l’idea di spazio e tempo sebbene sia ancora legato
alla concretezza degli oggetti. Evolve anche l’esecuzione dei compiti iniziando a seguire
un metodo, a differire una soddisfazione immediata per una gratificazione ottenuta con
sforzo e costanza.
Possiamo comprendere, quindi, la complessità di tale periodo di vita, non soltanto
da un punto di vista cognitivo, ma anche psicosessuale-affettivo, il bambino è nel pieno
della posizione di latenza (dai sei anni alla pubertà) (Erikson, 1968). In essa la libido è
“dormiente” e le pulsioni sessuali, se la rimozione è avvenuta correttamente, vengono
sublimate verso altri scopi. Questa posizione è molto importante per accrescere la socializzazione del bambino e sviluppare rapporti amicali con bambini dello stesso sesso
e per lo sviluppo dell’affettività. La sessualità coinvolge molti aspetti della personalità
definendo non solo l’identità corporea nella sua dimensione sessuale, ma anche l’identità
psicologica e sociale. È importante sottolineare che ogni fase, una volta vissuta, non viene
abbandonata per sempre, ma rimane all’interno dell’universo psichico del soggetto. In
questo senso, Melanie Klein ha preferito il termine posizione a quello di fase, proprio
per sottolineare che si tratta dell’organizzazione psichica non rigidamente legata a una
età cronologica.
Proprio partendo da tali presupposti teorici, nell’ambito del progetto “Generazioni” è
stato avviato un percorso di “educazione all’affettività e alla sessualità”.
Metodologie e strumenti
Gran parte delle energie e della vita dei bambini in questa fascia di età si sviluppa a
scuola, luogo dove trascorrono gran parte delle loro giornate ed è proprio fra le mura di
una scuola che avviene la loro crescita, il loro sviluppo affettivo e sessuale. Lo scopo degli
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interventi proposto nelle scuole è stato quello di permettere l’esplorazione della tematica
della sessualità nella sua complessità e completezza, ponendo l’accento sulla dimensione
psicologica e sociale e facendo riflettere su atteggiamenti e comportamenti individuali e
collettivi. Nell’ambito di tale percorso, l’identità personale è stata rinforzata e arricchita
dalle somiglianze, dalla diversità e dalle differenze riscontrate attraverso il confronto con
gli altri bambini, avendo come assunto di base l’idea fondamentale che la radice del male
consiste nell’unilateralità psichica, mentre la “salvezza” è sempre nella totalità, all’interno
della quale ogni aspetto della psiche, anche quello più negativo, può adempiere una funzione costruttiva (Jung).
La metodologia utilizzata è stata quella dell’educazione socio-affettiva: un processo
educativo che si occupa di atteggiamenti, sentimenti, credenze ed emozioni degli studenti. Tale modello implica un’attenzione per lo sviluppo personale e sociale degli allievi e
per la promozione della loro autostima, del loro sentirsi bene nella propria pelle. Inoltre,
l’educazione affettiva privilegia la dimensione interpersonale e riconosce che lo sviluppo
di capacità sociali e interpersonali è centrale. Sottolinea l’importanza di offrire sostegno e
guida e di riconoscere che lo sviluppo di capacità sociali e interpersonali è centrale e che
le componenti cognitive e affettive dell’educazione sono collegate tra loro (Lang, 1994).
Le dinamiche emerse nel corso degli incontri sono state affrontate attraverso metodologie
adeguate allo sviluppo cognitivo e affettivo del bambino quali l’ascolto attivo, l’apprendimento cooperativo e il confronto all’interno del gruppo-classe.
I laboratori sono stati videoregistrati adottando i presupposti teorici e pratici offerti
dalla Video Intervention Therapy.
Attività
Allo scopo di riconoscere e rinforzare la dimensione emotiva e affettiva della sessualità, creare un clima positivo dove potenziare il rispetto per i valori altrui incentivando
atteggiamenti positivi alla sessualità, sono stati pianificati e attuati diversi incontri con
le classi quinte di diverse scuole del territorio cittadino. Le attività sono state svolte da
un’equipe multidisciplinare e sono state precedentemente concordate con i docenti e il
dirigente scolastico, in modo tale da far convergere le energie e il lavoro degli operatori e
degli insegnanti di riferimento al raggiungimento di obiettivi condivisi. Inoltre, un ulteriore incontro ha visto come destinatari gli insegnanti delle classi e i genitori dei bambini
coinvolti nel progetto.
Nel corso degli incontri i bambini hanno avuto l’opportunità di esplorare il loro
mondo interiore, di confrontarsi con prospettive diverse dalla propria, di esprimersi nel
rispetto di sé e degli altri. È stato creato un contesto protetto nel quale i bambini si sono
potuti concedere l’opportunità di far emergere questioni specifiche inerenti la sfera sessuale, anche attraverso domande scritte dai bambini in maniera anonima. Inizialmente,
si è esplorato il mondo interno delle credenze dei bambini in merito all’affettività e alla
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sessualità, per individuare il livello di sviluppo e consapevolezza raggiunto dai soggetti.
Si è evitato di procedere presentando tematiche e attività troppo rigidamente strutturate,
per evitare che gli operatori fossero i primi “prevenuti” circa un argomento difficile da
trattare in quanto, ancora oggi, fonte di imbarazzo e tabù. Partendo quindi dalle domande poste liberamente dai bambini si è lavorato, ponendo particolare attenzione all’utilizzo
di un linguaggio semplice e adeguato, ma non per questo “censurato”, sulle tematiche che
loro stessi hanno proposto.
È stato interessante notare che i bambini, già in quinta elementare, possiedono conoscenze molte vaste circa la sessualità e la riproduzione (alcuni riferiscono anche di
aver visionato, tramite amici più grandi, materiale pornografico), ma che mostrano grande difficoltà nel contestualizzare e dare significato alle nozioni apprese. Esiste, dunque,
molta confusione circa i problemi inerenti l’identità di genere e l’orientamento sessuale
di una persona, l’importanza della reciprocità e del rispetto nelle relazioni affettive e/o
sessuali e come tutto ciò si correli agli stati emotivi e ai sentimenti.
In diverse classi i bambini hanno chiesto chiarimenti espliciti circa la pedofilia, l’omosessualità, il transessualismo e le malattie, dimostrando di ricevere molti input dall’ambiente circostante (televisione, internet, amici, ecc.), ma di non essere ancora in grado di
elaborarli all’interno di un sistema di significati a loro idoneo. Parallelamente al lavoro
di contestualizzazione di quanto emerso nelle discussioni (in modo da creare un sistema
il più possibile armonico e comprensibile dato il livello di sviluppo), si è andati a operare sulla capacità di riconoscimento (tramite attività espressive e giochi strutturati) delle
emozioni, in particolare quelle coinvolte nella sfera della sessualità. Nello specifico, si
è dato riconoscimento e valore anche a emozioni vissute in maniera negativa come la
vergogna, la paura e il disgusto. Stimolando il rispetto della sfera emotiva di ciascuno, se
ne è poi discusso in gruppo cercando anche soluzioni creative da loro stessi proposte per
superare eventuali stati di disagio.
Per creare o, dove già esistente, mantenere una continuità tra l’educazione scolastica e
quella famigliare, i genitori sono stati coinvolti a loro volta in alcuni incontri con gli operatori. Uno degli obiettivi è stato quello di metterli a conoscenza del livello di conoscenze
in possesso dei loro figli, ma soprattutto cercare di coinvolgerli in prima persona in una
riflessione circa quelle che potevano essere le difficoltà e i punti di forza di un bambino
nella società contemporanea.
È stata riscontrata una discreta partecipazione numerica delle madri, ma anche dei
padri, indice di un cambiamento dei ruoli nella famiglia di oggi. Il progetto e le tematiche
trattate sono state accolte con entusiasmo dalla maggior parte dei genitori che si sono
prestati alla discussione e al confronto in gruppo, aprendosi e portando anche richieste
specifiche circa il comportamento da adottare in casi di disagio. Le insegnanti sono state
una grande risorsa e un aiuto in quei pochi casi in cui alcuni genitori si sono mostrati
restii nel trattare gli argomenti e soprattutto dubbiosi dell’opportunità di affrontarli con
bambini di quinta elementare. La rassicurazione ma soprattutto la restituzione delle attività svolte in classe da parte degli stessi docenti ha permesso di contenere la ansie e creare,
98
in maniera più agevole, un canale di comunicazione efficace. Inoltre, si è osservato che
molte insegnanti, di diverse discipline scolastiche, si trovano spesso in difficoltà nell’affrontare le tematiche affettive e sessuali con i loro alunni, chiedendo consigli specifici agli
operatori del progetto.
Conclusioni
L’esperienza maturata nel compiere tale progetto ha evidenziato la necessità e l’importanza di un intervento precoce di educazione in materia affettiva e sessuale al fine di
promuovere un benessere totale dell’individuo e permettere uno sviluppo armonico dello
stesso. Risulta altresì fondamentale creare una rete di comunicazione e collaborazione tra
scuola e famiglie.
Dalle osservazioni effettuate e i feedback ricevuti sarebbe auspicabile programmare,
ove possibile, incontri periodici rivolti specificatamente ai bambini, ai genitori e agli insegnanti, prevedendo per quest’ultimi laboratori improntanti al sostegno e alla formazione.
Riferimenti bibliografici
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Vygotskij, Piaget, Bruner, Concezione dello sviluppo, Raffaello Cortina, Milano, 1998.
99
9. Le ali di carta: sulle tracce di adolescenze
possibili
Andrea Calderone, Alessandro Ciocca, Mara Sacchetti
Premessa
L’esperienza da cui scaturiscono le seguenti riflessioni deriva da GenerAzioni, un progetto di promozione di processi educativi svolto con gruppi di preadolescenti e adolescenti. Il progetto GenerAzioni ha attivato diversi programmi di intervento tra i quali i
laboratori “GenerArti” e “AdoleScienza”, ai quali faremo riferimento nella trattazione di
questo capitolo.
L’idea di aprire un’ulteriore riflessione sull’adolescenza, infatti, è nata dal confronto
con gli adolescenti stessi, durante i laboratori nelle scuole e in contesti extrascolastici,
nel corso dei quali i ragazzi continuano a mostrare i molteplici volti di un’età definita
come “l’età dell’oro”, la “terra di mezzo”, “l’età incerta”, “l’età incompiuta”, ecc. e forse è
proprio da queste immagini che potremmo iniziare una riflessione sull’adolescenza e sulle
implicazioni del contesto culturale in una fase così complessa.
“L’adolescenza non è solo una stagione della vita, ma anche una modalità ricorsiva della
psiche con tratti di incertezza, ansia per il futuro, irruzione delle istanze pulsionali, bisogno
di rassicurazione e insieme di libertà” (Galimberti, 2004). Oltre alle molteplici definizioni
che si danno dell’adolescenza, Galimberti esorta a tenere presente anche gli adolescenti
in rapporto agli adulti, ciò che dell’adolescente invoca la disponibilità dell’adulto alla
trasformazione. “Per questo di fronte agli adolescenti gli adulti sono ansiosi: essi testimoniano
tutto il possibile che nel mondo adulto non è diventato reale” (Galimberti, 1994).
Prima di essere dentro di sé, l’adolescente vive nella mente degli adulti di riferimento
(genitori, insegnanti): le rappresentazioni collettive e individuali dell’adolescenza precedono e influenzano il destino dei giovani più di quanto si possa pensare. È contro questa
minaccia che a volte i ragazzi mostrano segni di fatica e di affanno, tanto da impegnare le
proprie risorse in questa “lotta”: la psicologia junghiana parla proprio di una “lotta contro
il drago” che il giovane deve combattere per la conquista dell’autonomia, una necessità,
quasi un “appuntamento” della psiche con i propri compiti evolutivi.
È importante dare senso ai comportamenti adolescenziali ipotizzando che essi esprimano la fatica, la gioia e la creatività della crescita, e riconoscendo come essi non siano
comprensibili se li legge come sintomi di malattie mentali. Le comunicazioni dell’adolescente esprimono la sua soddisfazione per il lavoro che sta effettuando o la delusione
e la mortificazione per gli insuccessi che sta collezionando (Pietropolli Charmet, 2010).
Sul campo è sparsa la fiorita del mandorlo, s’attacca sotto i sandali, in cucina la donna va
dicendo: “Il solo sei che porta in casa i fiori sotto i piedi”. “E tu la sola che li accoglie col manico
101
di scopa anziché con il vaso di cristallo” (E. De Luca).
Prima di esporre le metodologie e i contenuti dell’esperienza, però, pensiamo sia opportuno fare un breve passaggio attraverso i diversi riferimenti teorici che hanno guidato
le equipe di operatori durante questi percorsi.
Breve storia delle rappresentazioni sull’adolescenza
La psicanalisi ha sempre rivolto lo sguardo alla mitologia per dare profondità e risonanza alla descrizione delle dinamiche psichiche: Edipo, Narciso, Icaro, Dedalo, Elettra,
Telemaco, Dioniso, ecc.. La potenza del mito, infatti, risiede nella sua perenne attualità.
L’immagine che più sembra descrivere la fase dell’adolescenza è senz’altro quella del mito
di Icaro.
Icaro era figlio di Dedalo, il mitico architetto inventore del celebre labirinto costruito
a Cnosso, nel quale venne rinchiuso il Minotauro, mostro nato dall’accoppiamento tra la
moglie del re Minosse, Pasifae, e un toro. In seguito, Dedalo fu imprigionato da Minosse,
ma fu liberato proprio da Pasifae, in nome della vecchia complicità. Nel suo tentativo di
fuga, Dedalo scoprì che Minosse aveva sequestrato tutte le imbarcazioni: per fuggire da
Creta, dunque, fabbricò per sé e per il figlio Icaro delle ali di penne, tenute insieme con la
cera. Il mito narra che Dedalo riuscì a mettersi in salvo; Icaro, invece, volò troppo vicino
al sole (Ovidio, Metamorfosi 8), i cui raggi fecero sciogliere la cera: precipitò, quindi, nel
mare e morì (Ferrari, 2006).
Non deve essere facile per Icaro fidarsi dell’invenzione del padre, ma si affida, è una
questione vitale, il labirinto rischia di soffocarlo: desidera crescere, svincolarsi dai limiti
appresi, dall’accortezza e dalla moderazione, ha fretta di volare, di raggiungere l’ideale, la
perfezione, senza tener conto dei condizionamenti della realtà. Come Icaro, l’adolescente
desidera uno spazio nuovo e un tempo ulteriore, impegnato com’è quotidianamente nel
tentativo di cercare un nuovo equilibrio tra la sua parte irrazionale, impulsiva, emotiva e
la sua parte razionale. Il nuovo equilibrio tarda ad arrivare, il giovane oscilla tra la nostalgia dell’infanzia e il desiderio di diventare grande. Dopo il lancio, trovato un assetto per
non cadere, è necessario trovare un modo per non volare troppo in alto e bruciarsi. Questa instabilità favorisce rappresentazioni collettive di un’adolescenza inquieta, turbolenta,
caotica, bisognosa di argini e delle ali giuste.
Già nell’antichità incontriamo rappresentazioni del giovane come selvaggio, poco
incline alle regole sociali, potenzialmente turbolento, tendente agli eccessi. Nel Fedro,
Platone descrive l’anima utilizzando il mito dell’auriga: la natura dell’anima è simile a
una coppia di cavalli alati guidati da un auriga; un cavallo è eccellente, l’altro è pessimo,
sicché l’opera dell’auriga è difficile e penosa (Abbagnano, 1993). Ne scaturisce un’immagine della gioventù che incarna l’anima irrazionale e corrisponde all’intemperanza e al
sentimento dell’ira.
Su queste basi va configurandosi sempre più nella polis greca anche l’idea di paidèia,
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che non dispensa soltanto un insegnamento, ma anche un ordine sociale che contrappone
i giovane ai vecchi, in cui, secondo Aristotele, i giovani sono destinati a obbedire e gli
anziani a comandare.
Se il giovane era considerato soggetto intemperante per natura, incline alla competizione fisica e alla violenza e dai comportamenti turbolenti, la sua formazione si basava
sul controllo di questa intemperanza attraverso l’addestramento fisico finalizzato all’obbedienza e al rispetto dei ruoli. Ma c’era una differenza nella concezione della formazione
nelle diverse città greche: a Sparta, ad esempio, l’educazione aveva come obiettivo la formazione del militare, ad Atene, la formazione del cittadino. È quest’ultimo soprattutto il
senso che ha l’educazione in Platone: attraverso la virtù della temperanza, l’uomo si pone
alla ricerca di un equilibrio, la capacità di porre la ragione al di sopra dell’impulso, per
evitare di cadere in balia della sola natura irrazionale.
Anche in riferimento alla storia romana, troviamo delle continuità nelle rappresentazioni della giovinezza, caratterizzata da una certa sregolatezza che portava i ragazzi ad assumere comportamenti moralmente punibili. Lo stesso mito della fondazione della città,
che racconta dei due gemelli Romolo e Remo abbandonati e allevati da una lupa, segna
l’origine selvaggia dei due che, una volta divenuti giovani, assumono dei ruoli sociali di
aperta contrapposizione alle leggi e ai codici morali (Barone, 2009).
Nel corso del Medioevo assistiamo a una forte affermazione del principio della corrispondenza tra la biologia umana e gli eventi della natura: le stagioni della vita corrispondevano alle stagioni naturali. In alcuni casi, si arrivava a periodizzazioni che comprendevano fino a sette fasi: infanzia, puerizia, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia,
decrepitezza. Queste classificazioni rendevano conto solamente dei tratti fisici e biologici
della vita.
Intorno al XIV secolo si comincia a osservare un’estensione alla sfera sociale del significato delle tappe della vita: l’infanzia viene rappresentata come l’età dei giochi; la
fanciullezza, l’età della lettura e della scrittura; la giovinezza, l’età dell’amore e degli sport
cavallereschi; l’età adulta, quella del portamento del soldato; infine, la vecchiaia, l’età
sedentaria degli uomini di legge, di scienza e di studio (Barone, 2009). Mentre l’infanzia
era considerata per la sua effettiva debolezza fisica e cognitiva, la giovinezza era caratterizzata da una fragilità dello spirito e della ragione, per la quale diventava necessario
l’intervento moralizzatore degli educatori.
Tra il XIV e il XV secolo troviamo una diffusa rappresentazione culturale della giovinezza con immagini prevalentemente negative, considerata come l’età della “moderazione
necessaria”, insistendo quindi sulla necessità di esercitare un forte controllo sui giovani.
Nasce un’urgenza sociale che porta rapidamente alla costituzione di un’istituzione scolastica moderna a carattere disciplinare: il collegio.
Il modello pedagogico del collegio era basato sulla sorveglianza, il controllo e la punizione. Il tema dell’umiliazione, poi, rimarrà presente fino al Novecento, in quanto
realizzazione del dispositivo disciplinare che afferma la “necessaria” subordinazione dell’adolescente al potere dell’adulto. Verso la fine del Novecento, il mito della compiutezza
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dell’adulto cederà sempre di più il posto al mito della giovinezza, così potentemente rappresentato nell’immaginario collettivo attuale (l’archetipo dell’eterno fanciullo nel quale
oggi sono invischiate le storie di molti adulti).
C’è una continuità storica tra le rappresentazioni dell’ “età inferma” del XV secolo e
la fragilità con cui vengono descritti gli adolescenti attuali: il concetto stesso di crisi adolescenziale proietta prepotentemente in uno scenario di emergenza sociale (Barone, 2009).
Nei recenti manuali di psicologia dello sviluppo, troviamo una descrizione della crisi
adolescenziale che riguarda principalmente la sfera percettiva, affettiva e cognitiva che
influenza l’organizzazione dell’identità individuale (si dice che l’adolescente attraversi una
“crisi d’identità”). Questa nozione pone al centro la definizione dell’Io e del Sé nel processo evolutivo dell’individuo, che proprio in adolescenza sarebbero esposti a una riconfigurazione tale da mettere in pericolo l’equilibrio psichico del soggetto: Anna Freud parla
dell’adolescenza come di un disturbo di tipo evolutivo (A. Freud, 1969).
Erikson elabora una originale teoria dello sviluppo della personalità, integrando la
teoria freudiana e la rigorosa concettualizzazione della Psicologia dell’Io con aspetti relativi ai fattori socioculturali nella strutturazione della personalità. Presenta un modello
evolutivo dell’intero ciclo di vita, che va dalla prima infanzia fino alla senescenza, diviso
in otto stadi caratterizzati ciascuno da specifici compiti di sviluppo. La personalità si
specifica e si organizza gerarchicamente passando attraverso alcuni momenti critici che
permettono al soggetto di ampliare la gamma delle sue relazioni sociali (Erikson, 1963).
All’adolescenza corrisponde il dilemma dell’identità con il suo doppio esito di affermazione o confusione. Quindi, per Erikson, la crisi adolescenziale è legata al processo di
identificazione e di riqualificazione sociale, che permette al ragazzo di superare le identificazioni precedenti.
La lettura psicosociale di Erikson, attraverso l’idea di una “moratoria psicosociale” che
inserisce il concetto di “sperimentazione” nella costruzione dell’identità dell’adolescente,
consente un parziale distanziamento dalle interpretazioni patologizzanti precedenti.
Altri contributi che hanno cercato di porre l’attenzione sull’intreccio tra le componenti sociali e culturali e quelle biologiche e personali, evidenziando l’esigenza per la
ricerca psicologica di una contestualizzazione storica, sono stati quelli di Marcia, che
introduce le nozioni di esplorazione e di impegno nella costruzione dell’identità da parte
dell’adolescente, e di Havighurst, che propone una teoria dello sviluppo basata sulla realizzazione dei compiti evolutivi (Barone, 2009).
Le variabili culturali
In riferimento alla storia delle rappresentazioni dell’adolescenza, solo all’inizio del
Novecento cominciano a emergere due riferimenti contrapposti riguardo alla descrizione
dell’adolescenza: Adolescence di Stanley Hall (1904), in cui permane l’idea di grandi trasformazioni biologiche che denotano questa età come turbolenta, problematica, ribelle; e
104
L’adolescenza in Samoa di Margaret Mead (1928), in cui, attraverso una ricerca antropologica sull’adolescenza in Samoa, l’autrice mette in discussione le teorie che mettono al centro delle proprie ipotesi scientifiche la “natura” burrascosa e conflittuale degli adolescenti:
queste caratteristiche biologiche e quindi ipoteticamente universali erano del tutto assenti
nella popolazione giovanile in Samoa. Gli studi della Mead mostrarono la necessità di
integrare le interpretazioni scientifiche intorno all’adolescenza con l’analisi delle variabili
culturali e sociali dei contesti di appartenenza (Barone, 2009) e riconoscere lo scacco
a cui è sottoposto il ricercatore quando cerca di afferrare la complessità adolescenziale
attraverso categorie che hanno pretesa di validità universale.
Mettendo in crisi il paradigma dell’adolescenza come evento prettamente naturale,
bisogna ripensarla come “invenzione culturale”. Il riferimento alle variabili storico-culturali tira in ballo Vygotskij e il suo concetto di cultura, come l’elemento fondamentale
che contribuisce a dar forma alla mente, poiché rappresenta la realtà a cui adattarsi e allo
stesso tempo gli strumenti per farlo.
Infine, troviamo Bruner, per il quale il compito specifico dell’uomo è la costruzione
di significato, per cui, attraverso la narrazione e la condivisione dei significati, avviene la
costruzione del Sé.
In questo modo, si prospetta sempre più una lettura della crisi adolescenziale non più
come evento catastrofico in un percorso di crescita idealmente lineare, ma come un necessario e fondante passaggio evolutivo attraverso temi esistenziali e temi legati alla scelta
e al cambiamento: la crisi, allora, mostra la sua duplice valenza di disagio e opportunità.
Il codice simbolico
L’adolescenza è senz’altro l’età della complessità e dell’ambiguità, ma solo nella logica
del controllo e della subordinazione tipiche della società moderna possono risultare caratteristiche poco auspicabili e da emarginare anche attraverso la mediazione di psicofarmaci, di cui la nostra società abusa sempre più. L’adolescente è impegnato, invece, in un
processo di simbolizzazione, di traduzione in parole e pensieri di quelle trasformazioni
che stanno avvenendo nel suo corpo e nella sua mente (Pietropolli Charmet, 2010).
Oltre ad essere un animale biologico, sociale, economico, infatti, l’uomo è anche l’unico
“animale simbolico”.
Complessità e ambiguità fanno emergere, quindi, la necessità di ampliare i codici
linguistici per mostrare ciò che tende a nascondersi e recuperare il codice simbolico con
cui le società preindustriali istituivano lo spazio e il tempo rituali per il passaggio dei
giovani iniziandi all’età adulta. Gli adolescenti, infatti, diventavano dapprima ombre di
se stessi, fantasmi costretti a transitare nello spazio simbolico della morte (morte del
mondo infantile), per rinascere poi alla nuova condizione sociale. I riti separavano dalla
vita quotidiana determinati membri di un gruppo, collocandoli in un limbo, un luogo
diverso da quello in cui erano stati in precedenza, e restituendoli alla vita del gruppo in
105
qualche modo cambiati (Turner, 1993).
Se guardiamo alle diverse interpretazioni del significato del rito, vediamo che può
rispondere a un bisogno di protezione, soprattutto nelle fasi di passaggio dall’adolescenza
all’età adulta. Per De Martino, il rito aiuta a superare e a sopportare le difficoltà quotidiane, fornendo modelli di comportamento rassicuranti garantiti dalla tradizione. Secondo
altre interpretazioni, il rito ha un significato inconscio: in esso trovano espressione contenuti inconsci individuali e collettivi che sfuggono alla verbalizzazione. Il rito può avere
la funzione di contenitore psichico delle istanze trasformatrici, che si rende necessario
quando l’equilibrio psichico del soggetto è minacciato dalla transizione da una condizione psicologica a un’altra. In assenza di rituali collettivi, l’individuo può escogitare
spontaneamente e inconsciamente dei rituali che salvaguardino la stabilità della propria
personalità. Freud traccia un parallelismo tra la pratica rituale collettiva e il cerimoniale
ossessivo individuale, nel tentativo di ridurre l’angoscia determinata da pulsioni che il
soggetto giudica inaccettabili (Galimberti, 2004).
Lavorare in un ambiente scolastico o extrascolastico con adolescenti, quindi, prevede
anche il compito di scandire l’esperienza attraverso rituali che “separino” il luogo dei
laboratori dal resto del contesto quotidiano, attraverso la preparazione di un setting e
la disposizione di una temporalità che permettano ai ragazzi di centrarsi nel qui e ora di
un percorso psichico e corporeo a forte valenza simbolica, che non lasci il giovane con la
sensazione di essere solo di fronte alla transizione e alle sue eventuali difficoltà.
I nuovi adolescenti
La ricerca di sé stesso attraverso l’incontro con l’Altro sembra tessere le trame dei
momenti più critici della crescita. Paura, rabbia, piacere sembrano costellare questi punti
critici, ma a volte la forza di gravità non porta verso il centro. Il rischio è una delle componenti di questo momento della vita. Il rischio non è nei confronti di qualcuno o qualche
situazione, ma nei confronti di se stessi: il rischio è quello della perdita di un’identità
senza averne trovata una nuova. Ma l’assunzione responsabile del rischio (di perdere i
punti di riferimento dell’infanzia) segna l’accesso all’autonomia.
Rischiare non è un piacere per l’adolescente, ma un delicato compito evolutivo: è un
rischio costruttivo, se dispone a nuove capacità cognitive e, se necessario, per la messa in
prova del nuovo corpo; è un rischio distruttivo, se invischiato in rigide condotte mortifere o delinquenziali.
I nuovi adolescenti devono fare i conti anche con la “società dell’accelerazione”, che
vive una temporalità appiattita sul presente, che tende a soffocare il principio di linearità e
ciclicità temporale tipico delle società del passato, per adeguarsi al modello di sviluppo del
sistema capitalistico che, per realizzare un maggior profitto, esige di ridurre sempre di più
il tempo che separa la produzione dalla circolazione delle merci. Il nostro tempo caratterizzato da un complesso di Dedalo collettivo per la sua smisurata fiducia nella tecnica, così
106
accentuata nella società iper-moderna da generare la sua ombra sul disperato volo di Icaro.
L’immediatezza a cui sono sottoposti gli adolescenti della società dell’accelerazione,
il districarsi nel bombardamento di informazioni prodotto dal dinamismo dell’apparato
tecnologico, riduce il portato conoscitivo insito nella riflessione sull’esperienza. Se non
c’è riflessione si perde il valore dell’esperienza. Diventa di fondamentale importanza, allora, l’elaborazione dell’esperienza, pensare ciò che fino a un certo momento è stato impensato perché non ancora esperito, e creare piccole occasioni utili per la mentalizzazione, la
simbolizzazione e la pensabilità del futuro.
Il rischio per i nuovi adolescenti arriva proprio dal futuro, percepito come minaccioso: ma quando un futuro non promette, arriva la demotivazione. Mara (14 anni): “Non
voglio desiderare: se non credo di poter raggiungere un obbiettivo, non lo desidero, così poi non
devo fare i conti con la delusione”.
A tal riguardo, l’esperienza educativa ha la possibilità di mettere in atto una pedagogia della resistenza per attenuare gli effetti irreversibili della società dell’accelerazione,
creando le condizioni per un tempo “altro”, un tempo della durata, rituale, ripetitivo, in
cui sia riconosciuta l’importanza della differenza tra un prima e un dopo, determinante
per l’esperienza e la temporalità formativa. Tempo della responsabilità in grado di aprire
il presente al futuro e convocare l’adolescente nella realizzazione del proprio compito
esistenziale e consegnargli il messaggio oggi forse più “arrischiante” (come diceva Jung):
“Diventa ciò che sei” (Barone, 2009).
Compiti di sviluppo e paure dell’adolescente
Dal punto di vista della ricerca teorica sviluppatasi negli anni in seno alla psicologia, i
classici riferimenti all’adolescenza la inquadrano come fase di passaggio, come tappa decisiva del distacco, come periodo di crisi, ecc, tendendo a tenere in maggiore considerazione i punti di partenza e di arrivo, ovvero l’infanzia e l’età adulta. Piuttosto, l’adolescenza
va riconosciuta, secondo noi, come area specifica dell’esistenza con dinamiche proprie
non riconducibili all’area conflittuale dell’infanzia, come fase in cui “si decide buona parte
della vita futura dell’individuo, attraverso l’accettazione oppure il rifiuto dell’integrazione
della dimensione fisica con quella mentale” (Hall, 1904).
L’adolescenza è quel periodo della vita umana che normalmente è compreso fra gli
11 e i 20 anni circa, in cui l’individuo acquisisce le competenze e i requisiti necessari per
assumere le responsabilità dell’adulto e raggiungere l’autonomia. Gli stessi confini temporali di questa fase sono incerti, tanto che si parla oggi di tarda adolescenza, addirittura
oltre i 20 anni. Alcuni autori suddividono ulteriormente il periodo in tre fasi:
- Pre-adolescenza, età 11-15 anni
- Adolescenza vera e propria 15-18
- Tarda adolescenza 18-21 anni.
L’adolescente va incontro a un rinnovamento da molteplici punti di vista, sia fisici che
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della personalità; alla crescita corporea si somma il processo di definizione dell’identità;
il ragazzo abbandona il concetto di sé costruito sull’opinione dei genitori per sostituirlo
con una considerazione di sé derivata dal confronto con i coetanei. Il gruppo dei pari e
il confronto con essi diventa fondamentale per sviluppare possibilità di identificazione e
sperimentazioni, per riconoscersi separato da altri, confrontandosi con l’immagine che
gli altri gli rimandano, definendo i propri limiti e le proprie risorse, in ultima analisi,
costruendo il proprio senso di identità. Da ciò si desume l’importanza del lavoro con i
gruppi di adolescenti come luogo naturale di sviluppo del processo di crescita.
Erikson, pur considerando l’adolescenza come una “crisi normativa”, riconosce le potenzialità evolutive di questa fase, soffermandosi sull’interazione fra funzioni dell’Io, modelli di allevamento genitoriali, relazioni interpersonali e caratteristiche socio-culturali: il
faticoso compito in questa fase consiste nello stabilire una continuità nel proprio senso
di identità (Erikson, 1982).
Dal punto di vista del funzionamento cognitivo, l’adolescente arriva a perfezionare
la capacità di ragionare in astratto (capacità simbolica), a saper valutare diverse ipotesi, a
fare i conti con le conseguenze di una scelta. Nel confronto con gli altri, viene man mano
depotenziato il carattere egocentrico della mente infantile, ovvero emerge la necessità del
confronto con il pensiero altrui, con punti di vista differenti.
Quella dell’adolescenza definibile, seguendo il pensiero di Ferrari, come la seconda
sfida dopo quella della nascita, nell’arco del ciclo vitale, può essere intesa come una fase
basata su microintegrazioni di esperienze, centrate sulla dinamica primaria mente-corpo,
tra disintegrazione e armonia (Ferrari, 1994). Il ciclo di incontri da noi proposti si propone di offrire, appunto, esperienze di integrazione dei vissuti contrastanti, esperiti a vari
livelli, specificatamente nella fase adolescenziale.
In proposito, possiamo riportare le parole di Esman: “Il giovane adolescente si muove
in un periodo di apprendistato in cui mette alla prova le sue appena acquisite capacità e il suo
aumentato grado di libertà; gran parte del suo aspetto ribelle, del suo bisogno di sperimentare
in questo periodo ha una qualità analoga all’innamoramento verso il mondo che la Mahler attribuisce al bambino che ha appena cominciato a camminare” (Esman, 1993). A complicare
il quadro si aggiunge il fatto che l’adolescente è “chi per definizione non è più, ma non è
ancora”, il cui nucleo di personalità è ancora disperso, frammentario e troppo fragile per
resistere alla tempesta di stimoli interni ed esterni che gli si impongono. La complessità
intrinseca di questa fase è legata alla natura stessa del processo di cambiamento: questo
passaggio non si svolge in maniera fluida, lineare, né con un ritmo uniforme, ma, al contrario, le finalità e le conquiste psichiche che caratterizzano l’adolescenza spesso seguono
direzioni contraddittorie e sono qualitativamente eterogenee.
L’adolescenza viene spesso indicata come una fase di crisi, caratterizzata da quello che
W. R. Bion definisce “cambiamento catastrofico”, nella misura in cui essa implica la rottura
di precedenti equilibri interiori, abbandono di preesistenti certezze, perdita di sicurezze
emotive già stabilizzate, producendo disagio, ma nello stesso tempo consentendo la nascita del nuovo. Attraverso questo passaggio vitale, l’individuo si avvia a strutturarsi come
108
tale, inaugurando una ridefinizione globale del proprio sistema di riferimenti, del campo
esperienziale, dell’idea di sé e della lettura del mondo.
In questa sede, alla luce della natura degli interventi proposti, ci pare utile riflettere
sull’adolescenza non soltanto come uno stadio o fase di passaggio, ma piuttosto come
una configurazione specifica del rapporto con l’oggetto, delle angosce e delle difese che
persistono per tutta la durata della vita.
Alla luce di quanto descritto finora, questo progetto di prevenzione si propone di
prendere in considerazione criticità proprie di questa fase di vita collegate ai compiti di
sviluppo specifici.
In proposito, è utile specificare che se i compiti evolutivi sono comuni a tutti gli
adolescenti, la loro comparsa (il timing) e la sequenza di apparizione sono differenti nelle
diverse realtà culturali e sociali. Dunque, è importante tenere presente lo specifico contesto aquilano ancora caratterizzato da dinamiche imposte dalla cornice post-sisma. Ne
sono testimonianza i frequenti riferimenti al terremoto del 2009 emersi dai ragazzi sia nei
dialoghi con loro che nei lavori scritti, come evento critico significativo. Basti pensare alla
perdita di confini fisici e psichici insieme, con la conseguente perdita di equilibri familiari
e sociali preesistenti.
Per quanto riguarda l’obiettivo della prevenzione primaria, in generale, quanto più
l’adolescente avverte la difficoltà e il peso di affrontare e superare questi compiti di sviluppo specifici, tanto più aumenta la possibilità che l’abuso di sostanze possa apparirgli un
modo per ridurre gli stati spiacevoli collegati ad ansie, angosce, incertezze, tensioni, depressione, e per meglio rispondere alle richieste del suo ambiente di vita (Erikson, 1968).
I laboratori “GenerArti” e “AdoleSci enza”
Nelle prossime pagine presenteremo la descrizione sintetica del lavoro svolto da
un’equipe mista, composta da operatori con diverse formazioni, all’interno di alcune
scuole secondarie di primo e secondo grado della città di L’Aquila, finanziato dal DPA
(Dipartimento Politiche Antidroga - Presidenza del Consiglio dei Ministri) e realizzato
dal Ser.T. della A.S.L. di L’Aquila. Nello specifico, si è trattato di un progetto volto alla
prevenzione dell’uso di sostanze psicotrope rivolto alla fascia adolescenziale, anche con
l’obbiettivo di individuare eventuali aree problematiche specifiche. Per quanto riguarda la
strutturazione degli interventi, sono stati previsti laboratori con i gruppi-classe e incontri
con i genitori; successivamente, su richiesta del corpo docente sono stati proposti anche
degli spazi per gli insegnanti stessi.
La natura dell’intervento è in linea con i contesti privilegiati in cui l’adolescente si
trova ad affrontare i suoi compiti di sviluppo, in cui sperimenta strategie di soluzione,
ridefinisce i legami e costruisce relazioni significative: scuola, gruppo dei pari, famiglia.
Affinché la lettura di questo lavoro possa essere utile agli operatori che rivolgono il
proprio intervento ai giovani, quasi a indicare un percorso pedagogico che accompagni lo
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sviluppo del potenziale dei ragazzi e delle ragazze, riportiamo l’esperienza dei laboratori
realizzati nelle scuole, nei centri estivi e in percorsi extra-scolastici nell’area dell’Abruzzo
aquilano. Si tratta di una pedagogia dell’adolescenza in grado di sostenere, attraverso
proposte metodologiche di lavoro formativo, le riflessioni teoriche derivanti dai diversi
ambiti del sapere a cui si riferiscono le scienze umane e sociali. Questo lavoro si avvale
anche della disponibilità degli operatori che hanno contribuito a riportare in forma scritta le riflessioni su un’esperienza complessa e illuminante quale il lavoro con adolescenti
e preadolescenti.
Strumenti
Gli interventi proposti sono stati impostati sul lavoro di gruppo ed hanno fatto sì che
i partecipanti potessero lavorare su un medesimo tema, sperimentando il canale a ciascuno più congeniale (linguaggio corporeo, musicale, espressivo), di volta in volta adattato
ai bisogni emergenti del gruppo stesso. La cornice gruppale ha consentito un grado di
auto-svelamento di contenuti personali e, dunque, una condivisione che ha portato all’identificazione delle emozioni e alla normalizzazione delle stesse.
La condivisione dei propri stati d’animo è già di per sé un’esperienza terapeutica che
risponde a uno dei bisogni principali dell’adolescente (confronto con i pari, definizione
dell’identità), tanto più in una cornice storico-sociale come la nostra, dominata da un
senso di isolamento e di solitudine pervasivi. Rollo May scrive a tal proposito: “Nella
nostra epoca spesso è evidente che il senso di isolamento, l’alienazione del proprio Sé dal mondo
sono sofferti non solo da individui in condizioni patologiche, ma anche da innumerevoli persone normali”. In proposito, un intervento come questo, che si sviluppa senza una connotazione in alcun modo patologica, mira a creare esperienze di sostegno e di cambiamento
all’interno del normale processo di crescita, come fattori protettivi dal disagio.
Gli incontri strutturati in questo modo hanno consentito un processo di integrazione
avvenuto almeno a due livelli. In primo luogo, anche i ragazzi più reticenti alla partecipazione hanno avuto la possibilità di lavorare su se stessi e integrare delle parti di sé
attraverso il lavoro degli altri. In secondo luogo, interessanti sono state altre dinamiche
relative all’integrazione, nell’arco degli incontri, di quelli che inizialmente apparivano
come sottogruppi o casi di singoli individui isolati per via di differenze etniche, culturali,
sociali. Al terzo incontro, infatti, nella maggior parte dei casi, si è arrivati a un vero e
proprio lavoro di gruppo, con un coinvolgimento dell’intera classe all’unisono.
La scelta degli esercizi ha seguito una progressione che partiva dalla concentrazione
sul corpo, all’interazione a coppie e poi col gruppo. Il primo incontro con ciascuna classe,
inoltre, è stato la base su cui lavorare successivamente, ovvero da cui trarre spunto rispetto
alle tematiche da affrontare nei gruppi successivi. L’osservazione dei ragazzi stessi, delle
dinamiche tra loro (sotto-gruppi, singoli tendenti all’esclusione, aggressività agita, ecc.)
ha suggerito la direzione.
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Scelta delle metodologie
Freud ci ha insegnato ad analizzare e a interpretare, attraverso la tecnica della Video
Intervention Therapy (V.I.T.) ora possiamo anche vedere. Ciò che osserviamo sono verità, intuizioni di possibili realtà interiori. Ci sono molte possibilità di avvicinarsi alla realtà
interiore: qui scegliamo la possibilità del corpo. Il corpo, con le sue posture, i movimenti, i
gesti, il respiro, la voce, la pelle, è veicolo di realtà interiori. Vederlo in azione è occasione
di intuizioni fondamentali. La relazione, infatti, è sempre un movimento: tra la distanza e
il creare giocoso della vicinanza, a cominciare dal gioco tra il bambino e la madre.
La VIT è uno dei metodi che offrono dei modelli per l’osservazione delle relazioni
tra corpi e, attraverso queste, delle dinamiche presenti all’interno del sistema familiare.
Seguire gli sviluppi della relazione tra madre e bambino (o tra padre e bambino, tra genitori e bambino, tra genitori) può facilitare la comprensione di modelli comportamentali
disfunzionali che si ripetono nel rapporto genitori-figli.
La Video Intervention Therapy (V.I.T.) è un metodo di intervento psicoterapeutico
ideato da George Downing che ha come scopo il cambiamento della relazione genitorebambino e genitore adolescente. Il metodo si basa sulla ricerca più attuale della psicologia
dell’età evolutiva, attraverso l’uso di video dello sviluppo del bambino e dell’adolescente
in interazione con le figure di riferimento. È un metodo utile nei processi educativi e anche un eccellente strumento di diagnosi e prevenzione. Patterns ripetitivi d’integrazione
(sia positivi che negativi) possono essere analizzati a un livello “micro” (con fotogrammi).
Si tratta di un mezzo rapido fondato sull’evidenza per rendere più immediato il cambiamento attraverso l’osservazione strutturata delle interazioni e micro-interazioni. Consente di descrivere i comportamenti nell’interazione e correlare questi dati visibili con quelli
dell’esperienza soggettiva di chi osserva e di chi si osserva.
Il corpo sa e indica la strada. Il corpo ci invia dei segnali che chiamiamo “sensazioni”.
Ma non sempre siamo in grado di riconoscere le sensazioni e di nominarle. Eppure, le
sensazioni sono il linguaggio primario del corpo. Il linguaggio verbale è solo il prodotto
più recente della comunicazione umana, per questo incapace di cogliere gli strati più
profondi dell’umano. La prima comunicazione tra un bambino e la madre è corporea (il
contatto col seno, l’odore della pelle, il contatto visivo, ecc.): attraverso questo linguaggio i genitori aiutano il bambino a entrare in sintonia con il mondo. Recuperare questo
linguaggio, fortemente ridimensionato dal verbale, vuol dire recuperare la capacità di
ascoltare se stessi e gli altri e di entrare in una relazione in modo sano.
In che modo, allora, mettere le persone in condizione di sperimentare nuovamente e
in modo consapevole il proprio corpo e le sensazioni che ne derivano?
Una delle più antiche pratiche umane per mettere il corpo in azione in un ambiente
protetto è la tecnica teatrale. Il teatro è l’arte della messa in relazione dei corpi, l’arte
dell’azione: l’attore (l’uomo in azione), in una situazione scenica o di esercizi teatrali, può
sperimentare il linguaggio del proprio corpo in un contesto giocoso e protetto, come
quello della relazione primaria tra madre e bambino.
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Il teatro è un campo per la sperimentazione di sé e degli altri e, allo stesso tempo, la
possibilità di rappresentare vissuti inespressi e non elaborati. La rappresentazione e la visione dello spettacolo sono i processi alla base dei diversi metodi di osservazione, di quelli
almeno che esigono che le condizioni della situazione da osservare siano il più possibile
aderenti alla realtà.
Se proviamo a interrogare l’etimologia, vediamo che “adolescenza” deriva da “adolescere”, che vuol dire “iniziare a crescere”: si tratta di un verbo che indica un’azione,
un’azione indeterminata e dalle implicazioni più imprecisate. È per questo che abbiamo
scelto per il progetto GenerAzioni alcuni esercizi teatrali, che nell’ultimo secolo sono
state rivalutate e adottate anche da numerose scuole psicoterapeutiche, come strumento
di lavoro con i ragazzi: per aiutare a soffermarsi sulle sensazioni e da lì cominciare a pronunciare in modo sano le parole del corpo.
Struttura dell’incontro
- Giro di condivisione seduti in cerchio per centrarsi sul qui e ora, con la definizione
di come sta ciascuno.
- Esercizio sulla concentrazione, con l’indicazione di fare attenzione a ciò che succede
sulla base di movimenti improvvisati avviati da parte di uno dei conduttori (battito della
mani, movimento libero nella stanza, gioco delle statue, ecc.).
- Nella terza parte dell’incontro, si propone un esercizio basato su tecniche espressive
e corporee (rispecchiamento non verbale, gestione dello spazio individuale/confini, inversione dei ruoli) sulla base di quanto emerso nella prima parte, perlopiù riguardante l’interazione fra i ragazzi (esercizi a coppie, contatto visivo a coppie col gruppo in movimento,
gioco delle statue con improvvisazione, gioco del cieco e della guida, ecc).
- Giro di condivisione finale.
Gran parte degli interventi sono stati videoregistrati, per rendere possibile poi l’analisi
delle interazioni (e micro-interazioni), sulla base delle linee-guida della Video Intervention Therapy.
Abbiamo cercato di seguire il principio di conoscere attraverso l’azione: “La verità esiste per l’individuo solo in quanto la traduce in azione” (Kierkegaard). Gli esercizi utilizzati,
infatti, hanno lo scopo di mettere in scena, portare all’esplicitazione e/o all’azione contenuti emotivi al fine di riconoscerli, dargli un nome e rielaborarli con l’aiuto del gruppo
come contenitore rassicurante.
Piccole grandi trasformazioni
La fase che delinea il passaggio dall’infanzia all’adolescenza è definita preadolescenza
ed è caratterizzata da una fugace serie di cambiamenti radicali in aree quali: psiche, cor112
po e ambiente sociale. I cambiamenti, per lo più fisici, dell’individuo in fase puberale,
subentrano e lo influenzano in maniera totalizzante: “Li vedo ogni mattina, quando mi
guardo allo specchio” (Sandra, 14 anni). Gli effetti relativi a tali cambiamenti suscitano,
nel preadolescente, una serie conflittuale di reazioni che riguardano: il concetto personale
di identità, che comprende l’immagine di sé, l’autostima e lo status sociale; nonché la
capacità del preadolescente di adottare una serie di strategie di adattamento.
Le trasformazioni dettate dalla pubertà generano una vera e propria crisi nell’individuo che spezza gli equilibri interni che erano stati raggiunti durante la fase precedente,
ovvero quella di latenza, “e purtroppo c’è qualcuno, tipo mia madre, che non lo vuole capire!”
(Anna, 14 anni). Il termine crisi deve essere inteso nel senso di periodo critico, in cui si
decidono certi percorsi di sviluppo.
Nonostante tali difficoltà il preadolescente sviluppa strumenti cognitivi efficaci per
l’elaborazione di un nuovo concetto di sé. In questa fase, infatti, emerge il “pensiero
astratto”, ovvero la capacità dei ragazzi di ragionare in modo più articolato: un ragionamento ipotetico-deduttivo, svincolato da ogni dipendenza dal reale.
Compito del preadolescente è di trovare una stabilità personale, relazionale e sociale.
Questa integrazione avviene oscillando tra mondo infantile, al quale ci si sente ancora,
inevitabilmente, appartenenti, e mondo adulto, al quale si vorrebbe appartenere.
I compiti evolutivi che vedono coinvolti i preadolescenti sono: in primis, la necessità
di procedere a una ristrutturazione dell’identità corporea, messa in crisi dalla quantità e
qualità dei cambiamenti corporei della pubertà, che per la maggioranza degli individui
si situa cronologicamente nella prima parte dell’adolescenza. Strettamente legato al corpo è anche il problema dei comportamenti e atteggiamenti riferiti al genere sessuale di
appartenenza.
Altro aspetto caratterizzante la preadolescenza è il delinearsi del processo di autonomizzazione dalla famiglia: “Mamma e papà non mi devono più dire quello che devo o non
devo fare” (Carlo, 13 anni); e l’apertura a nuove forme di socialità, fra le quali acquisisce
un peso crescente il mondo dei coetanei. Anche la riflessione su di sé acquista nuovi
livelli di approfondimento, come pure la riflessione su aspetti della realtà fino a quel
momento meno centrali: “È la confusione più totale: si cerca di afferrare i propri ideali
sempre e comunque. Il problema, però, è che molto spesso non si sa che cosa si vuole davvero”
(Sabrina, 14 anni). Gli ambiti di interesse subiscono delle trasformazioni, in linea con
l’ampliarsi dell’orizzonte di vita e con l’atteggiamento di sperimentazione attiva che è
tipico di questo periodo: “In questo periodo si prova tutto, quasi tutto, per la prima volta”
(Caterina, 14 anni).
Il processo di integrazione tra mente, corpo e storia di vita personale permette la
realizzazione dell’identità dell’individuo. Ad oggi, questo sviluppo risulta essere segnato
da molteplici difficoltà; la società moderna, infatti, offre ai preadolescenti uno scenario
socio-culturale ricco di modelli identificatori disorientanti.
In questa fase l’individuo si distanzia dai modelli base, quali possono essere quelli
familiari, per cercare una propria individualità: “Cominciamo a guardarci dentro, a inte113
riorizzare i principi morali secondo i quali dovremmo imparare a distinguere ciò che è giusto
da ciò che è sbagliato. Può capitare che i valori che fino a quel momento la nostra famiglia ci
ha trasmesso non corrispondano a quelli delle nuove persone che ci accingiamo a diventare. È
proprio questa, il più delle volte, la causa che ci induce a chiuderci in noi stessi” (Sabrina, 14
anni). Il preadolescente si “auto percepisce”, dunque, come essere pensante, in grado di
formulare pensieri e idee, che gli conferiscano maggiori responsabilità relative alla gestione di sé: “Ora comincio ad occuparmi di me stesso” (Leonardo, 13 anni). Famiglia, scuola
e ambiente sociale hanno il compito di educare il preadolescente e di indirizzarlo nel
mondo reale. La preadolescenza non è semplicemente un’età di transizione tra il mondo
infantile e quello adolescenziale, ma piuttosto un’età “in transizione”, connotata da suoi
peculiari processi.
Identità familiare e identità gruppale
L’adolescenza è la fase della crescita che prelude all’età adulta. Due sono i processi
che caratterizzano la fase adolescenziale: l’individuazione e la differenziazione. L’identità, infatti, costituisce l’unica possibile risposta dell’adolescente al problema della sua
individuazione: “L’adolescenza è un’età di passaggio: dall’età di spensieratezza all’età di chi
vuole diventare qualcuno” (Giovanni, 13 anni). Erikson parla di identità come di una
condizione dell’Io attraverso la quale vengono integrate tra loro diverse componenti dello
sviluppo: le identificazioni infantili, le vicissitudini emozionali, le attitudini, le capacità,
l’inserimento nei ruoli sociali.
Una delle riflessioni dei ragazzi, ai quali è stato proposto di scrivere in una pagina di
diario delle considerazioni sulle caratteristiche della propria età, è stata: “L’adolescenza
è difficile, perché è il momento che si inizia a crescere, sia fisicamente che mentalmente, e le
cose si vogliono fare un po’ di testa propria, senza dar ascolto ai genitori” (Giorgio, 13 anni).
Anche nelle condivisioni iniziali dei laboratori i ragazzi hanno evidenziato come sia cambiato il rapporto con la famiglia. Attraverso una serie di esercizi, per lo più fisici, ciò che
salta agli occhi degli operatori è proprio la conflittualità di questo rapporto, che genera
nell’adolescente la voglia di conquistare un proprio spazio. “Il problema principale di un
adolescente è il comunicare con gli adulti, perché loro giudicano tutto quello che facciamo, il
nostro modo di agire negativamente, e ci sgridano, ci vietano di fare delle cose e noi ci arrabbiamo, perché non riteniamo giusto quello che fanno” (Stefano, 13 anni).
Accade di fatto che l’adolescente inizi a sviluppare le proprie idee e, contemporaneamente, a percepire le caratteristiche genitoriali come minacciose per la sua differenziazione. Acquisendo progressivamente degli elementi che gli procurano un senso d’identità,
l’adolescente pone dei confini tra il suo senso d’integrità e l’identità del gruppo familiare.
Ciò che contraddistingue questo processo è una sorta di equilibrio tra l’esplorazione del
mondo esterno, percepita dall’adolescente come indispensabile, e il senso di stabilità proveniente dal gruppo familiare.
114
Affinché il processo d’individuazione possa aver luogo è necessario che la famiglia
trovi la giusta armonia tra la voglia di sperimentazione dell’adolescente e il senso di protezione (la base sicura) che deve continuare a trasmettere. Il bisogno di porre confini
flessibili con l’ambiente esterno ha un senso evolutivo in quanto permette all’adolescente
di sperimentarlo e di usufruire contemporaneamente della protezione della famiglia, ma
anche di costruire relazioni significative fuori di essa pur rimanendone collegato. Il processo adolescenziale è quindi segnato da questo confine che i ragazzi pongono tra sé e la
propria famiglia con lo scopo di individuarsi.
Partendo da una difficoltà di comunicazione rilevata da parte dell’equipe sia a livello
verbale che non verbale, abbiamo deciso di proporre un esercizio in coppia attraverso la
tecnica del rispecchiamento corporeo in cui i ragazzi dovevano sedersi uno di fronte all’altro
per lavorare sullo stile di comunicazione; prima, attraverso la riformulazione delle frasi
con l’indicazione di esplicitare i vissuti emotivi all’altro, in modo tale da riscontrare la
diversità del messaggio in entrata da parte dell’ascoltatore, in termini di responsabilizzazione e contestualizzazione (“Tu non capisci niente” diverso da “Io non mi sento capito da
te quando…”); poi, utilizzando esclusivamente il canale non verbale, con la presentazione
di sé e l’altro che fa da specchio con la postura e con l’espressione del viso; in questo caso
in particolare, è stato evidente un rilevante grado di coinvolgimento emotivo (la ragazza
nel rivedersi arriva alle lacrime).
Comincia a differenziarsi una zona della mente che non è più in stretto contatto con
la mente dei genitori, una zona riservata e segreta in cui poter cominciare a pensarsi come
soggetto autonomo: “Anche se succede qualcosa di bello, non ho più l’esigenza di raccontarglielo” (Miriam, 13 anni).
La fiducia
La perdita di certezze, acquisite precedentemente, accresce nell’adolescente il bisogno di “reinterpretare” se stesso, per fornire un senso al disordine creatosi internamente:
“Non so cosa sia l’adolescenza, la sto vivendo, cosa volete che ne sappia. Dovrebbero essere
gli adulti a spiegarci cosa sia, farcela capire, insegnarci ad affrontarla” (Caterina, 14 anni).
Nel processo di ristrutturazione di sé, l’adolescente necessita del confronto con gli altri.
È stato interessante notare come questo tipo di confronto nasca, in una prima fase, con
i coetanei del proprio sesso e solo in fase più avanzata subentri l’interazione tra ragazzi
di sesso opposto. Nel proporre una serie di esercizi in coppie miste è stato importante
osservare come alcuni ragazzi, evidentemente ancorati alla fase infantile, abbiano espresso
chiari segnali di imbarazzo.
Già il radicale cambiamento della propria immagine corporea suscita nell’adolescente un duplice disagio: da un lato, l’angoscia di vedere il proprio corpo che si modifica
rimanda alla necessità di un lavoro psichico notevole per ricostruire un’immagine di sé
integrata, dall’altro, l’angoscia che deriva dall’ignoto e dall’incertezza rispetto all’esito dei
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mutamenti in atto.
Nonostante il rapporto duale possa suscitare un rilevante senso di inadeguatezza e
disagio, è stato notato e posto in evidenza come il gruppo che lavora insieme riesca a
diventare più coeso con il passare del tempo.
In ogni classe, uno dei primi esercizi è stato quello sull’affidamento reciproco fatto a
coppie, in cui uno dei due si affida all’altro lasciandosi guidare ad occhi chiusi. Questa
esperienza è servita per costruire un clima più rilassato e per sperimentare una maggiore
sicurezza nel gruppo in generale, differenziando, inoltre, da subito i ragazzi che mostravano più facilità a dare fiducia all’altro rispetto a quelli più resistenti.
Identifichiamo le nostre paure
Quando compendiamo i contenuti delle idee come scaturiti da stati d’animo, desideri
e timori di chi pensa, allora comprendiamo veramente in modo psicologico o empatico
(K. Jaspers).
Ambiguità, paure e incertezze dominano il quadro adolescenziale: “Secondo me, il
periodo dell’adolescenza che abbiamo attraversato tutti è un periodo di incertezze. Alcuni
ragazzi non sono sicuri di se stessi. Sono spaventati, perché non sanno cosa diventeranno”
(Simona, 13 anni).
Abbiamo utilizzato tecniche introspettive, proponendo ai ragazzi di identificare le
proprie paure: questi hanno sottolineato come la preoccupazione riguardante il futuro li
accompagnasse sempre.
La foto di un grattacielo immerso in una metropoli richiama, nell’immaginario di
Edoardo, i caratteri affini al processo adolescenziale: “Questa città mi trasmette un senso di
caoticità e confusione, ma allo stesso tempo lo sfondo rossastro del cielo mi trasmette un senso
di pace e armonia”. Seppur l’adolescenza sia segnata da un periodo di pura confusione,
derivante da stimoli interni ed esterni in continua fase di evoluzione, il ragazzo percepisce
ancora uno “sfondo” che gli trasmette un senso di sicurezza e appartenenza (una base
sicura).
Abbiamo proposto un gioco che consisteva nel distribuire ai partecipanti due liste
contenenti vocaboli relativi a diverse paure, la prima relativa al rapporto con i genitori e
dunque la sfera familiare, la seconda relativa al mondo circostante, quindi riferito a uno
step di crescita successivo. I membri del gruppo sono stati invitati a individuare quali, tra
le due liste di paure, sono maggiormente vicine ai propri vissuti e quali reazioni hanno
suscitato. Dopodiché, il confronto tra loro, agevolato dagli operatori, ha consentito la
normalizzazione di tali paure. Con sorpresa, alcuni di loro hanno scoperto vissuti molto
simili. Come atteso, evidente è stata, innanzitutto, la diversità nel grado di introspezione
raggiunto.
Da ciò è nato anche un confronto su sogni e aspettative di ciascuno, con un forte
grado di commozione associata ad affermazioni del tipo: “Se non ci credo, se non sogno,
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è più facile accettare la delusione”, che nascondono stili di pensiero già fissati a schemi
protettivi rispetto a paure profonde. A fronte di sogni molto concreti (meccanico, venditore di computer, ecc.), altri si sono permessi di viaggiare maggiormente con la fantasia
(volare, ecc.).
La rabbia
L’adolescenza è un periodo del ciclo di vita caratterizzato da una serie di modificazioni
biologiche, fisiologiche e cognitive. Le trasformazioni psicologiche e sociali interconnesse
a tali cambiamenti, comportano inevitabilmente in questa fase, sensazioni di disorientamento e incertezza, forti tensioni e oscillazioni emotive, con conseguenti atteggiamenti
contraddittori, che fanno sentire l’adolescente come imprigionato nel “regno dei contrari” (Hall, 1904), in una situazione di crisi fisiologica di “divisione dell’io” (Laing, 1960;
Broughton, 1980).
L’adolescente, in questo processo di differenziazione tra sé e la realtà, rischia di perdere le certezze acquisite durante la fanciullezza. Il disorientamento ideo-affettivo pone
l’adolescente in una condizione di “solitudine epistemologica”(Chandler, 1975), in cui
tenta di prendere le distanze dal mondo degli adulti, vissuti spesso come fonte di disagio
per le critiche generiche, del tipo: “non capisci niente; ancora non lo puoi fare; dove
vai conciato in quel modo; ti sembra questo il modo di rispondere; che razza di musica
ascolti; ma chi frequenti; ecc.”. Di fronte a questi mutamenti relazionali e intrapsichici,
l’adolescente sperimenta spesso emozioni di rabbia, legate alla ricerca di comprensione,
di affermazione del proprio potere e di ricerca di approvazione dei pari (Jonah, 1986).
La rabbia è definibile come un’emozione basilare di tipo universale, come felicità, tristezza, paura e disgusto. Le emozioni e le valutazioni ad esse correlate hanno la funzione
di modellare e organizzare lo sviluppo e l’esistenza emotiva (Power e Dalgleish, 1977).
Secondo l’ottica cognitivo-evoluzionista, ogni emozione ha un preciso valore adattivo
e uno specifico significato (Liotti, 1991, 1994). Ogni emozione è connessa all’espressione di un comportamento, indizio di un’attività di un dato sistema motivazionale. Uno
dei modi per capire il vissuto emozionale di un individuo è quello di osservare come
si comportano gli altri di fronte a lui. Per comprendere ciò è necessario che si verifichi
il fenomeno della sintonizzazione emotiva, che presuppone l’attivazione di uno stato
emotivo reciproco allo stato emotivo espresso dal primo interattore. La rabbia, insieme
al risentimento, al fallimento e all’umiliazione, o al sentimento di potenza e trionfo,
oppure di sottomissione, di compiacenza, di attacco, o ancora a esibizioni di capacità e
volizione, sono alcuni dei pattern emotivi, cognitivi, comportamentali che sottendono
al sistema motivazionale agonistico. Durante l’adolescenza, come sottolineano Bara e
Mattei (1977), si assiste a un prevalere del sistema agonistico sugli altri sistemi motivazionali. In particolare, gli autori sopra citati, evidenziano che uno degli indizi del sistema
agonistico nell’adolescenza può essere rappresentato dai conflitti che l’adolescente agisce
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verso i pari e verso gli adulti. I conflitti interpersonali rispetto alle relazioni di dominanza
o sottomissione scatenano più spesso emozioni legate alla rabbia, che sono necessarie per
fuoriuscire dallo stato di dipendenza dell’infanzia in cui invece è prevalentemente attivo
il sistema motivazionale dell’attaccamento.
Nell’ambito del sistema agonistico, la rabbia ha un valore adattivo in quanto diminuisce la sensazione di vulnerabilità, incrementa la capacità di intimidire e di avere
accesso prioritario alle risorse; riconoscendo la rabbia, l’adolescente può trovare strategie
per ridurre i conflitti e diviene cosciente di non essere impotente (La Rosa e Iannucci,
2000). Infatti, è riconosciuto che a molti adolescenti piace arrabbiarsi, perché è piacevole
sentirsi energici, vincenti e trionfanti e questo processo ha un ruolo di rinforzo del comportamento agonistico.
In letteratura, esistono altri approcci evolutivi secondo cui le emozioni di rabbia e
aggressività adolescenziali vengono considerate non come disfunzionali, ma al contrario
come espressione di salute psichica e parte integrante del processo di crescita (White,
1977), poiché funzionali alla rottura del legame con i genitori per la creazione di una
nuova indipendenza. Tale presupposto sottolinea l’importanza di poter esprimere le emozioni di rabbia, soprattutto se sostenuta da una cornice di riferimento cognitiva che aiuti
l’adolescente a comprendere la natura del sentimento sperimentato e la situazione a cui si
riferisce. White delinea quattro modalità differenti di espressione della rabbia, attraverso
un sistema di classificazione a quattro livelli su un continuum in cui i due poli opposti
rappresentano da una parte l’esplosione e dall’altra l’implosione.
- Primo livello: è rappresentato dall’esprimere la rabbia antisociale, che corrisponde
alla rottura delle regole sociali del vivere comuni, alla violazione dei diritti altrui, alla
violenza sessuale e fisica rivolta a persone e oggetti. L’adolescente esprime la rabbia rivolgendola all’esterno nel tentativo di prendere dall’esterno quei limiti e confini psicologici
di cui è carente. In questo caso, la rabbia dell’adolescente è un’emozione talmente intensa
e incontrollabile che diventa distruttiva e disfunzionale.
- Secondo livello: è rappresentato dall’esprimere la rabbia sociale, che rappresenta la
possibilità di dar voce ai conflitti fisiologici dell’adolescenza, senza arrecare danno né a sé
né all’altro, né fisicamente né psicologicamente. Tale espressione può avvenire attraverso
lo sport, i giochi tra pari o nell’ambito familiare, in discussioni o confronti anche accesi.
Anche in questo caso, la rabbia è eterodiretta, ma viene usata dall’adolescente in modo
costruttivo per i problemi e conflitti in cui si trova coinvolto.
- Terzo livello: riguarda il fare resistenza passiva, la rabbia è trattenuta dentro di sé in
modo implosivo. L’adolescente che utilizza tale modalità si mostra bloccato, come se
fosse intrappolato tra la ribellione e l’adattamento, tende a dare risposte verbali secche e
a monosillabi.
- Quarto livello: corrisponde, infine, al mostrarsi buoni e tranquilli, è un livello di
grave implosione della rabbia, che indica un disturbo emotivo significativo. In genere,
gli adolescenti che si mostrano sempre buoni e tranquilli hanno un livello di ansia e di
adattamento molto alto, sembrano apparentemente perfetti: bravi e ordinati a casa, mol118
to educati a scuola e con gli amici. La rabbia, in questi adolescenti, viene diretta contro
sé stessi attraverso condotte di autolesionismo, più o meno gravi, quali ad esempio mangiarsi le unghie, auto-indursi il vomito, comportamenti alimentari sregolati, tagliuzzarsi,
bruciarsi o fare uso di droghe.
Implementare un progetto a scuola sulla regolazione emotiva della rabbia degli adolescenti implica coinvolgerli in programmi di intervento volti a stimolare negli studenti
abilità di gestione efficace della rabbia.
Durante uno degli incontri, gli operatori hanno lavorato principalmente su un tema
che Sonia ha introdotto nel corso di una condivisione di gruppo: la rabbia. Per gli adolescenti la rabbia assume una connotazione relazionale ed offre la possibilità di sperimentare nuovi modi di esprimersi.
Dall’input iniziale di Sonia, che ha manifestato l’esigenza di condividere l’emozione
di rabbia che stava provando a seguito di un momento di tensione con un’insegnate, è
nato l’esercizio successivo.
Le relazioni familiari, amicali e sentimentali infatti suscitano spesso, nell’adolescente,
sentimenti contrastanti e conflittuali. Questi ultimi denotano una spinta verso l’allontanamento e l’indipendenza, sostenuta dall’esigenza di sviluppare un senso di sé fondato
sull’autonomia.
Chiaramente spesso il sentimento della rabbia rappresenta un alibi per celare la propria fragilità ed esprimendola consente agli adolescenti di sentirsi inviolabili.
Appare evidente come un atteggiamento dominato dalla rabbia derivi, più profondamente, da una sofferenza interiore nonché da un senso di inadeguatezza. Prendendo
spunto da ciò, è stato proposto ai ragazzi di palesare fisicamente l’emozione rabbia, inscenando e mantenendo una posizione che meglio potesse rappresentare quello specifico
stato d’animo.
Tutto il gruppo classe ha aiutato Sonia, portatrice principale dell’emozione, a vivere
la rabbia, esprimendo le proprie sensazioni e giocando sulla postura del corpo. Elemento
fondamentale per l’elaborazione dell’esercizio è considerare il comportamento come fonte di comunicazione.
Ognuno infatti è stato invitato ad assumere la posa che maggiormente esternasse
fisicamente l’emozione stabilita. Qualcuno ha stretto i pugni, qualcun altro ha serrato i
denti, altri ancora hanno palesato il sentimento della rabbia raggomitolandosi su sé stessi.
Ogni ragazzo ha dunque appreso come, attraverso un’emozione comune, ognuno potesse
esprimersi personalmente.
Scopo dell’esercizio è stato quello di entrare in contatto con l’adolescente, instaurando un rapporto empatico, affinché si fosse sentito “ascoltato” e compreso. Autopercepirsi
simultaneamente forti e deboli mostra ancora una volta l’ambiguità tipica adolescenziale,
ovvero da un movimento oscillatorio tra due estremi. È importante assumere nei confronti dell’adolescente che esprime la sua rabbia un atteggiamento non giudicante; bensì
è efficace adottare una condotta empatica.
Entrare nei panni dell’adolescente, parlare di ciò che prova, esplorare i suoi sentimen119
ti è un modo per conoscerli ed anche per conoscersi; un modo per sapere ciò che siamo:
forti e vulnerabili.
Riconoscere i talenti
Durante i laboratori abbiamo assunto un criterio che si è dimostrato valido per incontrare nel qui e ora il mondo interno e relazionale dei ragazzi: lavorare con ciò che accade in quel luogo e in quel momento significa lasciare spazio ai ragazzi per partecipare attivamente al proprio processo educativo, unico e irripetibile, seppur con tratti ricorrenti.
Ragazzo reale e ragazzo immaginario (fantasmato), quest’ultimo, rispetto al bambino
immaginario della prima infanzia, sempre in qualche modo sottovalutato dall’immaginario collettivo. Le aspettative su quella che viene definita una “seconda nascita”, una nascita sociale del soggetto in età adolescenziale, sono ambivalenti: gli adulti di riferimento,
da un lato, vorrebbero sostenerlo nel suo percorso di crescita e, dall’altro, lo vorrebbero
diverso da quello che è. Eppure, i ragazzi chiedono di essere riconosciuti non tanto per ciò
che sono in questo momento (è difficile anche per loro definirlo), quanto per l’impegno
con cui affrontano questo difficile compito evolutivo.
Dall’osservazione dei laboratori proposti è emerso che esistono una serie di ruoli ben
definiti. I primi ruoli ad emergere dal gruppo sono normalmente quegli elementi che generano caos e dettano legge all’interno del gruppo. Inevitabilmente, quando nel gruppo
sono presenti questi soggetti, portatori di una forte personalità, accade spesso che il gruppo si lasci trascinare e influenzare negativamente. Chiaramente, questi leader tendono a
perdere importanza se tali comportamenti non vengono rinforzati dalla complicità succube degli altri membri del gruppo. Dai laboratori è emerso che l’adolescente munito di
una forte personalità, posto in coppia con uno che ne è privo, ha la tendenza di prevalere.
Dopo una serie di incontri, il gruppo in cui all’inizio i ruoli erano ben definiti, si dispone
a nuovi equilibri. È spesso accaduto che, in seguito alla formazione di un setting empatico
e basato principalmente sulla fiducia, dismettendo la maschera abituale, proprio coloro
che avevano un ruolo di superiorità rispetto agli altri comunicavano al gruppo un senso
di benessere e di libertà.
Con una classe di seconda media, sin dal primo incontro è emersa una difficoltà a creare le condizioni per strutturare esercizi di gruppo (difficoltà di concentrazione e attenzione focalizzata sui compiti proposti), a causa di un funzionamento, che potremmo definire
“da branco”, come unità chiusa in se stessa che rifiuta stimoli provenienti dall’esterno. Si
è pensato di proporre una strategia alternativa, attraverso tecniche ispirate all’arte-terapia,
utilizzando il canale musicale: sono stati messi a disposizione degli strumenti musicali
(chitarra, pianoforte) e i ragazzi a turno hanno suonato dei pezzi, individualmente oppure in sotto-gruppi, mentre il resto della classe ha partecipato producendo movimenti in
risonanza con i suoni e le sensazioni associate. In questo modo, anche il ragazzo apparso
come il più difficile da gestire durante il primo incontro (il leader del gruppo) è stato
coinvolto e, anzi, è diventato protagonista dell’azione in positivo, arrivando a gestire
120
l’esercizio, anche chiedendo più volte l’attenzione dei compagni. Partendo dalla difficoltà
di gestione della classe, si è scelto di sfruttare un canale che fosse più naturale per attirare
l’attenzione e coinvolgere il gruppo: ciò ha portato a ottimi risultati.
Il senso di solitudine
Il tema della solitudine è, infatti, uno di quelli maggiormente condiviso dai ragazzi.
Sebbene la tendenza sia quella di unirsi a un gruppo, identificarsi e confrontarsi con
esso, l’adolescente sente comunque il bisogno di distinguersi. “Accade che ci si senta soli
pur essendo in mezzo a tanta gente” (Serena, 13 anni). In questa fase i ragazzi sembrano
confondersi, differenziarsi, poi di nuovo omologarsi e conformarsi, per situarsi infine in
un nuovo punto, ancora inesplorato, per la ricerca di una propria identità. Il bisogno
principale da soddisfare è quello narcisistico di sentirsi unico, contrapposto alla paura di
sentirsi diverso dall’altro.
Il rapporto quasi simbiotico instauratosi in fase infantile con i genitori viene sostituito con il gruppo dei pari nella fase adolescenziale, gruppo nel quale il ragazzo si identifica
e con il quale si confronta. Il gruppo dei pari è quel luogo in cui è possibile l’esplorazione
della tensione comune condivisa. Dinanzi alle nuove problematiche presentate, gli adolescenti tendono ad adottare una serie di tecniche che hanno la funzione di facilitare un
migliore adattamento al gruppo.
Il processo di identificazione avviene, oltre che in contrapposizione e per identificazione con l’adulto, ance attraverso un confronto con i coetanei. Specchiarsi, uniformarsi
e omologarsi nel gruppo è un’esperienza che consente all’adolescente di sentirsi “come gli
altri”. La tendenza ad adottare un gergo comune, vestirsi in ugual modo, condividere le
medesime esperienze assicura all’adolescente di non essere solo.
Lo stato di sofferenza delle nuove generazioni è testimoniato anche da fatto che non
sanno nemmeno nominare il disagio che provano: non hanno un vocabolario delle emozioni. A volte, però, la dose di sensazioni e di emozioni è troppo al di là delle parole a
disposizione: “Ho scelto questa immagine, di una volpe solitaria in una prateria innevata,
perché mi trasmette un senso di pace, di libertà e la voglia di scoprire cos’altro c’è da vedere nel
mondo” (Sara, 14 anni). “Io, invece, ho scelto la stessa foto perché per me quella volpe vaga in
solitudine: preferisce così, piuttosto che stare insieme a un branco” (Marta, 14 anni). “Forse la
volpe è alla ricerca del branco più adatto a lei!” (Sara, 14 anni).
In conclusione, vorremmo mettere in relazione le parole, così come ci vengono consegnate dall’etimologia, e osare a interrogare questa relazione e la sua potenza espressiva,
per avere qualche indizio ulteriore sulla psiche: adolescere vuol dire, dunque, “iniziare a
crescere”; anima vuol dire “moto tempestoso del cielo” (Semerano, 2002). Ma la maggior
parte dei ragazzi e delle ragazze scopre nell’adolescenza una tendenza evolutiva caratterizzata da straordinari movimenti emotivi e identitari: “Si comincia ad avere un po’ di libertà,
ci sono i primi fidanzamenti, le prime cotte” (Anna, 14 anni); che accompagnano le nuove
121
esperienze, tra il coraggio della sperimentazione: “C’è la mia migliore amica” (Serena,
13 anni), e il timore di perdersi: “Ci sono i primi disastri fatti insieme” (Nadia, 14 anni),
ma affidandosi come un bambino a un aquilone e, alle prime parole del vento: “Mi sono
accorto che mi sta crescendo anche qualcosa dentro l’anima!” (Stefano, 13 anni), stare a guardare se, per una volta ancora, quelle ali di carta sosterranno il peso del cielo.
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10. Il pensiero del corpo e l’azione scenica
Andrea Calderone, Enrica Fazio
Per una biografia corporea
La psicologia, ma anche gran parte del pensiero occidentale, è un discorso sulla psiche,
che nella sua storia si è vista scivolare di mano la corporeità da cui si è originata, fino a
condurre le sue indagini verso una psiche senza corpo, che è la più profonda negazione di
sé, perché, come diceva Sartre, il corpo è l’oggetto psichico per eccellenza, il solo oggetto
psichico.
Discorso sul corpo vuol dire “discorrere”, correre, muoversi intorno al corpo. Ripensamento, meditazione, cultura scritta, come distanza del discorso, eliminazione
dell’immediatezza, dello splendore della spontaneità e della istantaneità della pratica. La
cultura orale, invece, non si trascinava fuori dall’evento. Il discorso è una sorta di riduzione, sconsacrazione, dell’evento magico nel momento della sua esplosione fisica. Se si
parla del corpo, esso scompare nella riflessione. Significa entrare in una cultura postpagana, cristiana, in cui il discorso è centrale.
Il discorso è il vagito della ragione che sin dalla nascita è adulta. “La ragione nasce
adulta” significa anche l’inizio della perdita del corpo. Cartesio per salvare la ragione
doveva dividerla dal corpo. Il pensiero filosofico moderno si disincarna e si disimpegna
dal corpo. Dobbiamo rimarginare questa ferita dell’uomo, lacerato e separato dal corpo.
Per il primitivo il corpo ha una sua ambivalenza: la tensione del corpo è la carne dello
spirito. Il mio corpo non era solo il mio, apparteneva alla tribù, aveva segnata su di sé la
mappa geografica del mondo. Il corpo individuale era un corpo collettivo, cosmico. L’ambivalenza della tensione è andata perduta con il corpo-macchina del pensiero occidentale.
Lo spirito ha finito per usare il corpo e quando se ne va, il corpo non funziona più.
Sin dai primi giorni, l’esistenza si manifesta come un approccio corporeo alla realtà. Il
corpo è lo sfondo di tutti gli eventi psichici. Heidegger diceva che il corpo è l’originaria
apertura al mondo dell’uomo e il mondo è l’abito che permette al corpo di sentirsi nelle
proprie possibilità.
Oggi la psicologia riflette su questa distanza da sé e tenta di recuperarsi attraverso la
contaminazione con quei luoghi (arti e pratiche sportive) che hanno custodito quell’unità, o almeno la parte mancante (il corpo). Allora, il senso della totalità deve innanzi tutto
scaturire da una dislocazione del punto di osservazione, da un decentramento della psiche,
per fondarsi su uno sguardo che nasca dal corpo, dal vissuto corporeo come matrice di
riflessioni psichiche.
Il discorso sul corpo diventa un discorso del corpo, un discorso che il gesto corporeo
usa per indicare la propria origine e il proprio tendere. Il gesto corporeo è già un discorso,
125
è già intriso di significato. Bisogna soltanto legarlo con gli altri significati dell’esistenza.
La verbalizzazione e la mentalizzazione diventano significative solo in relazione a uno
sfondo corporeo da cui attingere. L’emozione stessa non è un fatto psichico o interno, ma
una variazione dei nostri rapporti con gli altri e col mondo, leggibile nel nostro atteggiamento corporeo (M. Merleau-Ponty).
Secondo l’analisi esistenziale fenomenologicamente fondata, l’uomo è originariamente aperto al mondo, il rapporto con la vita è principalmente un rapporto corpo-mondo, di
interazione con il mondo, piuttosto che tra corpo e anima. Corpo-mondo è quell’originaria co-esposizione, in cui c’è il primitivo senso del mondo, il suo scaturire immotivato, a
cui il corpo, dopo il primo ingenuo contatto, cerca di dar senso (Galimberti, 1983). Nel
mondo, ogni mio atto rivela che la mia esistenza è corporea e che il corpo è la modalità
del mio apparire. Non esiste un uomo al di fuori del suo corpo.
Ogni corpo è un tentativo di interpretare l’esistenza; in ogni corpo si sintetizza la
prospettiva di un universo. Il tentativo corporeo ingloba il mondo, ne diviene il centro
dinamico da cui partono e a cui convergono eventi e prospettive. Il progetto del corpo
nel mondo non è un “uscir fuori di sé” per gettarsi sul mondo, ma un “gettarsi in sé”
attraverso il mondo (Galimberti, 1983).
Corpo-mondo significa anche riconoscimento dei limiti del corpo, perché solo vivendosi come limitato il corpo potrà incontrare un mondo come non-Io e nel mondo l’altro
come non identico a sé.
Il gesto è la risposta del corpo a un mondo che lo impegna. Infatti, al di fuori di questo
rapporto, non si può cogliere nell’ordine gestuale un’unità di significato, ma solo una
somma inespressiva di movimenti legati al processo “stimolo-risposta”. Il gesto è il veicolo
delle mie intenzioni che tendono a saldare le cose che mi circondano alle azioni che esse
sollecitano. Non è il corpo che dispone dei gesti, ma sono i gesti che fanno nascere un
corpo dall’immobilità della carne (Galimberti, 1983).
I tratti fondamentali del gesto umano, essendo essenzialmente legati alla prensione,
portano in primo piano la mano, che Kant ha definito “il cervello esterno dell’uomo”.
Avendo conquistato la posizione eretta, infatti, l’uomo ha la mano libera nel cammino e
ciò consente a tutto il corpo di liberarsi nella manipolazione del mondo.
Tutto il vocabolario umano è una variazione interminabile su un unico tema: prendere
(Conte, 1988). Il “prendere” implica la funzione della bocca che nell’animale è l’organo
prensorio per eccellenza. Mentre per afferrare gli oggetti gli animali inferiori incontrano
i limiti del proprio schema corporeo e non possono afferrare se non trasferendosi verso
l’oggetto, nell’uomo la funzione della mano, che prolunga la facoltà prensoria della bocca,
si può estendere a più grandi distanze. Ma l’uomo ha mantenuto anche la facoltà prensoria
della bocca mutandone la forma (linguaggio): frasi e discorsi sono strumenti di prensione
a distanza con lo scopo di avvicinare e ingabbiare i fenomeni della natura. La voce come
ponte tra l’individuo e il mondo: la parola è uno dei suoi segni possibili. Le parole sono il
prolungamento del gesto. Le parole sono gesti, nient’altro che gesti (Artaud, 1964).
Il gesto trasforma gli strumenti tecnici in vere e proprie estensioni animate del proprio
126
corpo. Trasferisco le intenzioni del mio corpo a strumenti esterni: con la freccia estendo
le possibilità del mio corpo, così con una palla. Questo avviene anche con le persone, attraverso la voce: abbiamo trasferito le possibilità del gesto nella parola (“attento a quella
macchina!”): provoco un movimento. Questo è qualcosa di profondo, risale alle prime
esperienze dell’infanzia, al mio primordiale modo di interrogare il mondo.
Incontrando il mondo noi lo percepiamo. Poiché il percepire comporta il riconoscere,
stimoli ambigui e sconosciuti tendono ad essere ricondotti a forme note; difatti, un’esperienza presente, povera e poco organizzata, trae profitto da esperienze anteriori meglio
organizzate (Gestalt).
L’esperienza del gioco: conoscere attraverso gli oggetti, riconoscere il rumore, come fa
il bambino quando lascia cadere gli oggetti a terra. Il gesto come domanda che esige una
risposta. Il rumore è una risposta. Il mondo mi riconosce, allora esisto. Il nostro gesto di
oggi è un gesto che nasce molto prima, che ci tiene legati alle prime esperienze infantili.
Attraverso questi gesti, nel tempo sempre più raffinati, abbiamo continuato a dare senso
al mondo.
Il gesto per dare forma al mondo. Noi abbiamo bisogno di stabilizzare le cose, di
nominarle, definirle. Questo è utile, ci è utile questo inganno: viviamo nella necessità
dell’inganno. Nel linguaggio non ci sono solo parole che nominano le cose, ma anche
relazioni tra le cose. Le nostre verità sono raffigurazioni dello stato di cose. La verità
costruisce legami non solo tra il discorso e la cosa che ha davanti, ma anche legami tra
discorsi. La verità è una grande rete che trattiene le diversità e l’imprevedibilità delle cose.
Anche nel gioco infantile avviene qualcosa di simile: col gioco animiamo il mondo,
giocando trattengo le cose presso di me, per comprenderle meglio. Nel gioco questa
possibilità di immaginare la realtà, secondo le mie esigenze, mi tiene in tensione con
l’esistenza, mi tiene nelle sue prossimità, nelle sue vicinanze. Io agisco il mondo con la
“passione” di esso. Agisco e patisco: il gesto compie questa simultaneità. Diamo forma,
attraverso le nostre capacità, all’irruzione improvvisa di una forza (Es). Una forza alla
quale abbiamo imparato a dare una forma: formare il mondo.
Questo continuo esercizio ci ha consegnato un’arte per dare la nostra forma agli eventi. In ogni gesto c’è la relazione del soggetto col mondo, c’è tutta una biografia.
Quindi la pratica corporea è anche teoria. La teoria è un modo di fare apparire. Il
modo di fare apparire il mondo crea la prospettiva per praticarlo. Viviamo di apparenze.
Le apparenze organizzano la vita, la rendono più vivibile. È un modo di dare significato
al mondo, di interrogare il mondo e vedere se il mondo risponde in quel modo.
La modalità di fare apparire il mondo è precondizione del suo controllo. La verità
come preparazione del mondo. Chiedere al mondo qualcosa di nuovo perché il mondo
si manifesti a noi in modo nuovo. Non più apparenza contro realtà, ma il fare apparire le
cose come orizzonte in cui appare la realtà, come orizzonte in cui incontrarla e innescare
risonanze profonde, legare il presente a profondità emotive, psichiche. Alimentare la vita
non delle cose stesse, ma della loro risonanza intima. La psiche è questa risonanza e là
dove il mondo non risuona non si dà vita interiore (Galimberti, 1983).
127
Laboratorio “corpo”
L’esperienza dei laboratori è stata condotta su tre livelli distinti, ma sempre connessi
tra loro: la percezione del corpo e delle emozioni, la formazione dell’identità e la relazione
con gli altri.
Durante l’adolescenza il corpo subisce diversi cambiamenti e per questo diventa fondamentale dare dei significati e riuscire a identificare come ci si sente. Il corpo diventa
contemporaneamente soggetto e oggetto, nella dualità tra essere un corpo e avere un
corpo. Infatti, la corporeità è lo sfondo e la base di tutti gli eventi psichici: per questo
sono stati proposti esercizi durante i quali, era importante focalizzare l’attenzione sui
movimenti, sulle sensazioni e sulla conoscenza del proprio corpo. Ad esempio, i ragazzi
hanno sperimentato come la percezione del corpo varia a seconda della velocità alla quale
si cammina; quanto sia importante la posizione e la postura per comunicare un emozione, e come la mimica e le espressioni facciali siano sufficienti per comprendere gli altri. Il
corpo rappresenta il mezzo di espressione delle emozioni e spesso i ragazzi si trovavano in
difficoltà nel dare una definizione del proprio stato e nell’esprimere i propri bisogni. In
tal senso, diventa problematico anche riconoscere quale emozione si stia provando. Per
questo gli esercizi erano volti a recuperare tutte le esperienze nel loro complesso, sia di
natura fisica, che emotiva e mentale, dal momento che il funzionamento dell’individuo
è unitario e armonico.
Oltre alla consapevolezza del proprio corpo, è stato interessante notare in che modo
i ragazzi si relazionavano con la scoperta di un corpo diverso dal proprio, soprattutto in
riferimento all’altro sesso.
L’imbarazzo e le difficoltà nelle relazioni con l’altro sesso sono un segnale di quanto i
ragazzi si trovino in un momento di transizione tra la fase dell’infanzia e l’adolescenza. I
cambiamenti fisici e puberali comportano necessariamente una ridefinizione del proprio
ruolo, alla ricerca della propria identità di genere.
Questa tematica è emersa durante lo svolgimento degli esercizi nei quali era necessario formare delle coppie, come nel “gioco dello specchio”: un ragazzo conduce, compiendo una serie di movimenti, l’altro segue, copiando i movimenti come uno specchio.
I movimenti diventano sempre più complessi ed è importante concentrare l’attenzione
sull’altro, sul movimento delle mani, del volto, sulla postura e sullo spostamento di equilibrio. Proprio attraverso la relazione con l’altro e dell’identificazione delle differenze i
ragazzi svolgono il loro compito di acquisizione di un senso di identità stabile. I momenti
di condivisione hanno dato tempo e spazio per far interagire tra di loro i ragazzi; attraverso la definizione dei propri problemi, desideri e potenzialità, gli studenti hanno acquisito
la consapevolezza dei tratti della propria individualità.
La difficile transizione tra l’infanzia e l’adolescenza si ritrova nelle relazioni, spesso
conflittuali, con i genitori e gli insegnanti, che i ragazzi descrivono comunicando un
sentimento di chiusura e di incomprensione. Infatti, il concetto di sé si va definendo non
più in base alle opinioni degli adulti, ma rispetto al giudizio del gruppo dei pari. Il grup128
po di appartenenza diventa il parametro per confrontare i propri comportamenti e un
riferimento per i propri valori e modelli di comportamento. In diversi esercizi l’adesione
al comportamento di gruppo ha generato risposte e azioni simili. L’appartenenza al gruppo, piuttosto che la presenza dei singoli individui, sembra essere la fonte del benessere
affettivo dell’adolescente.
L’opportunità di esprimersi è stato il punto di forza degli incontri: infatti, i ragazzi
si sono mostrati molto incuriositi dal “message-box”: una scatola dove hanno inserito le
loro domande, opinioni, problematiche e curiosità riguardo il periodo di vita che stanno
vivendo. Tra interrogativi sul sesso e la sessualità che iniziano a scoprire, problemi relazionali con i genitori o i fratelli, ciò che ha destato preoccupazione è stato il messaggio di
una ragazza: “Non dovresti tagliarti, perché non serve, soprattutto se lo fai per amore”. Il
tagliarsi è un comportamento che spesso inizia nell’adolescenza ed è diffuso soprattutto
tra le ragazze: una spiegazione di questo fenomeno sta nel fatto che si preferisca il dolore
fisico alla sofferenza psicologica. In altri casi, il corpo diventa un mezzo per far vedere in
modo tangibile la propria angoscia, per richiedere un aiuto e un’attenzione da parte dei
genitori, degli insegnanti o degli amici. In altre situazioni, può indicare una difficoltà
nella relazione con il proprio corpo che, in questa fase di grandi cambiamenti, non viene
accettato.
Il fatto che già dopo due incontri i ragazzi si siano sentiti sicuri di poter trattare un
tema tanto delicato fa comprendere quanto il bisogno di comunicare e di sentirsi compresi e protetti sia un’urgenza per gli adolescenti, troppe volte lasciati soli a far fronte ai
loro “doveri”.
Il peso di famiglie frammentate, divise o ricomposte è presente in diversi gruppiclasse e la sofferenza per le separazioni diventa un punto in comune di discussione: nuovi
compagni per i genitori, nuovi fratelli o sorelle, il rifugio dai nonni, visti come un riferimento, le incomprensioni e la mancanza di comunicazione sono le tematiche sulle quali
si confrontano i ragazzi.
I social network e la perdita dell’esperienza corporea
Il gruppo ha trovato anche un modo di comunicare tramite il social network più
utilizzato dagli adolescenti: facebook. L’uso e la funzione dei social network è quella di far
entrare in connessione le persone permettendo loro di condividere le proprie vite, tramite
parole ed immagini.
Questo avviene durante qualsiasi attività della nostra quotidianità; mentre l’insegnante parla, durante un esercizio, o mentre un amico sta raccontando un episodio importante per lui. L’avere sempre a disposizione cellulari o tablet, permette ai ragazzi di estraniarsi
da ciò che stanno vivendo, dalle loro sensazioni, dal loro dolore o dalla loro ansia e questo
ha ripercussioni sia sul rapporto con gli altri, ma anche nel rapporto con sé stessi e nella
capacità di auto-riflessione. È un nuovo modo di essere da soli, ma insieme; essere con gli
129
altri, ma altrove, in connessione con tutti i luoghi in cui si vuole essere presenti. Mandare
e-mail, messaggiare, postare: tutte queste cose permettono di mostrarci come vogliamo
essere. Mostrare il corpo attraverso la foto del profilo, ma senza entrare nella relazione.
Guardare le espressioni degli altri nell’attimo migliore, non nella spontaneità dell’emozione. La possibilità di “cambiare l’immagine del profilo” fa divenire l’identità un concetto flessibile, precario e incerto, rendendo ancora più arduo il suo processo di formazione.
Il corpo virtuale è costituito da immagini parziali, che non consentono l’integrazione di
tutti gli aspetti della personalità. La componente corporea svanisce dietro il filtro del monitor, facendo scomparire la voce, la postura, i gesti e l’intensità dello sguardo. Infatti, le
relazioni umane sono ricche e complesse e, attraverso la tecnologia, si rischia di eliminare
alcuni aspetti di se stessi difficili da mostrare e che non si vogliono condividere.
Le conversazioni con gli altri sono una modalità per conversare con noi stessi e il dire
“preferisco chattare che parlare” sintetizza tutta la difficoltà esperita dai ragazzi.
Lo spazio virtuale rappresenta una soluzione per esprimere pensieri e opinioni che
non si avrebbe il coraggio di manifestare di persona. Questo avviene perché le persone
non hanno una piena consapevolezza che le parole diffuse su facebook mancano della connotazione espressiva e intenzionale, come se non ci fossero conseguenze nella vita reale. Il
social network elimina la componente empatica e il riconoscimento degli altri, sminuendo
il peso delle dichiarazioni fatte e influendo anche sul piano della privacy. Gli adolescenti
sono portati a esporre la propria intimità senza riflettere e in maniera acritica. La condivisione della propria identità, il rendersi visibili sono una prerogativa del social network;
d’altro canto, il continuo confronto con le vite degli altri permette di definirsi e mettersi
alla prova. Facebook può essere visto come un sociogramma virtuale che indica la qualità
e la quantità delle relazioni dei ragazzi: in tal senso, diviene uno strumento per migliorare la competenza sociale. Sul piano educativo, è indispensabile guidare i ragazzi all’uso
consapevole di questi strumenti, ma soprattutto è necessario che i ragazzi facciano ampia
conoscenza della realtà vera, per un sano sviluppo delle competenze sociali e morali.
Lo spazio di gruppo creato durante gli incontri del laboratorio teatrale, ha permesso
un rapporto relazionale con la realtà, facendo sentire i ragazzi compresi e apprezzati per la
propria individualità, con i propri pensieri, emozioni, visione del mondo. L’aggregazione,
infatti, sviluppa due importanti funzioni: quella creativa e quella educativa. Da una parte,
agisce come canale di socializzazione culturale, dando risalto ai bisogni e alle capacità
dell’adolescente; dall’altro, contribuisce a un processo formativo e di costruzione di senso
di identità. Trovare un luogo dove confidarsi, raccontarsi e ascoltare le proprie ed altrui
esperienze è stato una motivazione essenziale per i ragazzi.
L’arte del crescere
Proprio la relazione con il gruppo dei pari e la sperimentazione a diversi livelli di
esperienza sono anche alla base dei laboratori artistici svolti in contesti extrascolastici.
130
Uno dei laboratori è stato incentrato sul teatro e sulle sue potenzialità per lo sviluppo di
abilità introspettive e relazionali.
Lo scopo del laboratorio, oltre a favorire lo scambio relazionale, è stato quello di
lavorare con le emozioni e, attraverso immaginazione e consapevolezza psico-corporea,
sviluppare le competenze comunicative.
Il teatro racchiude in sé linguaggi differenti: verbale, non verbale, gestuale; dunque, è
uno strumento multidisciplinare e di espressione sia emotiva e relazionale che culturale.
La funzione educativa del teatro è espressa non soltanto dalla rappresentazione finale, ma
dal susseguirsi di processi che sottostanno alla messa in scena di un’opera.
I ragazzi hanno avuto modo di sperimentare come il cambio di intonazione e il timbro della voce diano un’intenzionalità alla comunicazione, modificandone il significato.
Cosa vuoi esprimere? Quale emozione vuoi mostrare agli spettatori? Cosa pensa e
prova il personaggio?
Queste semplici domande racchiudono il senso del laboratorio teatrale. Infatti, entrando nel ruolo di attori, i ragazzi hanno trattato diversi aspetti:
- la componente fisica, con il movimento sulla scena, il gioco, la posizione e la postura
del corpo;
- l’ambito cognitivo, sviluppando concentrazione, memoria, elaborazione e ragionamento, creazione e immaginazione;
- il campo affettivo, rappresentato da ascolto, aspettative, empatia e comunicazione,
autonomia;
- l’ambito sociale, attraverso confronto, cooperazione, partecipazione, rispetto degli
altri e delle norme collettive.
Un momento significativo è stato la scelta del personaggio e del proprio ruolo: la scelta dipende dalla propria personalità e il ruolo permette di identificarsi con un carattere e
una maschera, confrontandosi con se stessi e sperimentando ciò che è altro da sé.
Ai ragazzi è stata data l’opportunità di provare le parti di diversi personaggi e sentire
in quali situazioni e tipi di ruoli si sentivano più a loro agio. Inoltre è stata fondamentale
l’osservazione di come ciascuno metteva nell’interpretazione una caratteristica personale,
unica e originale.
Il confronto con le caratteristiche degli altri, oltre a curiosità e interesse, ha fatto
emergere anche emozioni profonde. I ragazzi, quindi, sono stati sostenuti nell’appropriarsi dei propri sentimenti e nell’esplorazione delle emozioni; il personaggio interpretato diventa un mezzo per affrontare in modo creativo le problematiche della crescita e
sperimentare nuove parti di loro stessi, in un clima sicuro e riservato. Recitare davanti
a un pubblico è stata una prova di coraggio che ha aiutato i ragazzi a credere e scoprire
le proprie potenzialità, che se stimolate in un contesto espressivo e creativo, diventano
l’origine di un percorso di sana maturazione e crescita.
La realizzazione delle proprie potenzialità diventa, dunque, un processo primario per
l’affermazione dell’individualità della persona, secondo un modo più autentico di manifestare se stessi e vedere gli altri.
131
Il teatro e le alterità possibili
Potremmo immaginare l’adolescenza anche come l’età della differenza. Essere diverso
è il tema centrale su cui ruotano le ansie e le ambizioni dell’adolescente. Ma il teatro si
nutre di alterità: a cominciare dalle fiabe, troviamo storie affollate di antieroi, di mostri,
di alterità (i mostri piacciono molto ai bambini). Attraverso il teatro si può coltivare già
nei bambini un immaginario che contempli la diversità.
Il teatro è relazione con ciò che è straniero, con la moltitudine di personaggi interiori
che affollano le nostre zone in luce e le nostre zone in ombra. È un modello relazionale
complesso che simula la realtà, è una via positiva per integrare le proprie differenze interne, attraverso la sosta in quell’area intermedia in cui è ancora possibile incontrare il gioco,
il rito e le potenzialità espressive di un “corpo nuovo” e dei suoi simboli originari, in cui
la coerenza è un’illusione così come il concetto di identità. In questo senso, può diventare
per l’adolescente uno spazio simbolico e carnale in cui è ancora possibile sperimentare se
stessi (“Conosci te stesso”) e a volte “incontrar-si”.
L’inclusione delle differenze è una strategia vitale e il teatro ha queste matrici inclusive innate. Il teatro nasce per produrre cittadinanza, serve a decodificare l’alfabeto e ad
attivare i neuroni specchio, l’empatia: in questo modo, “la vita non si allunga, si allarga”
(Ruzzante).
In un contesto sociale e tecnologico in cui la cultura dominante genera profitto anche
dalla produzione di senso (industria di senso), nell’esperienza urbana diventa di vitale
importanza quel processo che crea una relazione con l’altro. Si tratta di un antidoto che
combatte gli effetti totalizzanti sulla psiche delle persone da parte di tv, cultura, droghe,
ecc. Gli individui non sono copie conformi all’originale e il disagio indica necessità vitali.
A questo punto, però, si apre un nuovo interrogativo: la cultura per combattere il disagio
o il disagio per combattere la cultura?
L’obiettivo minimo del teatro è quello di “rattoppare” le reti che si sono lacerate. È
naturalmente contro il disagio, perché è a disagio nei confronti della realtà. L’artista fa
un lavoro di esplorazione, di poiesis, di messa in forma. Il teatro come formazione di una
cultura “altra”, soprattutto in quei luoghi dove il disagio è più forte.
“Il mondo è un palcoscenico: entri, guardi intorno ed esci” (Democrito): allora, quello che possiamo fare è dare un senso a questo guardare.
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134
11. Le emozioni bloccate
Gianpaolo Della Cagna
Stupefacente, crudo, complesso e a tratti commovente. Con pochi aggettivi si può sintetizzare il lavoro svolto, in ambito scolastico, con ragazzi che frequentano le scuole medie
inferiori. È una proposta articolata, che attira e spaventa, quella che è stata fatta a ragazzi
che vanno dagli undici ai tredici anni: guardarsi dentro, per poi rivolgere lo sguardo anche verso ciò che li circonda. Si tratta di una sfida, rischiosa e stimolante, soprattutto perché rivolta a ragazzi che si trovano nel momento “dell’infanzia dell’adolescenza”, all’inizio
quindi di quella tragedia, splendida e inevitabile, che implica cambiamenti radicali nel
corpo e nell’anima. Si tratta a tutti gli effetti di una nuova nascita; ed è con la delicatezza
e la fermezza che si deve a delle coscienze appena nate e imprigionate in corpi acerbi, che
ci siamo accostati ai ragazzi.
Carichi di interesse, aspettative e un po’ di timore, ci siamo apprestati ad entrare in classe.
Abbiamo voluto impostare un lavoro incentrato su due grandi aree tematiche: il rapporto
con i coetanei e con gli adulti significativi. Soprattutto con i genitori, ma anche in relazione a parenti e insegnanti. Ci siamo proposti cioè di fare da termine medio, attraverso
attività ludiche ma rivelatrici e gruppi di discussione, tra i ragazzi e le loro emozioni,
aiutandoli nell’espressione e nella digestione, quando necessaria, delle stesse. Subito, già
dal primo impatto, ci siamo resi conto di quanto il termine “adolescenti” sia riduttivo e
tuttavia necessario per descrivere chi abbiamo avuto di fronte. Molte cose accomunano i
ragazzi, una tra tutte l’abbigliamento (non è stato raro contare qualche decina di paia di
scarpe completamente uguali), oppure il taglio di capelli, o i blue jeans della stessa marca.
Successivamente, dopo un’osservazione più attenta, ci siamo accorti delle diversità. Lo
sguardo basso di chi, spaventato e incuriosito dalla novità, timido taceva; quello altrettanto eloquente di coloro che invece ci fissavano in attesa di sapere chi eravamo, cosa avremmo voluto da loro, o forse cosa avrebbero potuto chiedere loro a noi. Infine, c’era chi
sghignazzava, forse anch’egli un po’ intimorito, ma che grazie all’alleanza del compagno
poteva concedersi qualche parola e una risata. Aiutare i ragazzi a dare voce alle proprie
emozioni è stata un’esperienza che ha richiesto una delicatezza che non è esagerato definire chirurgica. Si, perché se il timore, mascherato dall’imbarazzo, apparteneva stabilmente
al comportamento dei nostri giovani partecipanti, una paura era presente anche in chi
era chiamato ad operare nel contesto scolastico: quella di osare troppo ai danni di chi più
di tanto non voleva esporsi; ma anche quella di poter fare troppo poco, nel momento in
cui era evidente che qualcuno richiedeva più attenzione. Spesso siamo stati chiamati a
sentire, “con la pancia” più che con le orecchie, chi non riusciva ad esprimere un vissuto
che forse per la prima volta si affacciava alla propria coscienza. C’era chi urlava la noia, il
disagio o la frustrazione, e in questi casi abbiamo abbassato il volume sempre di più, fino
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a riuscire a dar voce al sentito; c’era chi provava ad esprimere con un sibilo impercettibile,
a volte l’affetto, il bisogno di protezione o accudimento. In questi momenti abbiamo usato “il megafono”, così facendo, come per magia, l’emozione si liberava nell’aria passando
attraverso la bocca di un volto stupito ma più leggero.
Ogni volta, quando iniziavano le attività, c’era un caos più o meno organizzato; i ragazzi
si muovevano chiassosi nello spazio, ci lanciavano sguardi sfuggenti e di attesa. Sempre
formavamo un cerchio seduti a terra e, dopo averlo fatto noi, chiedevamo loro di presentarsi, aggiungendo al nome qualcosa che poteva descrivere come si sentissero, cosa gli piacesse fare. Invariabilmente si assisteva allo stesso fenomeno, comune e rivelatore. I primi
che prendevano la parola, comprensibilmente tesi, si limitavano a dire il proprio nome e
affermavano di star bene o di essere felici. Nell’arco di poco tempo, tuttavia, la tensione
scendeva e le presentazioni diventavano meno banali e più interessanti; c’era chi si definiva nervoso o stanco, oppure curioso ma intimorito, c’era anche chi diceva di essere triste
spiegando il perché, e chi invece alla tristezza non se la sentiva di attribuire una causa. Era
in questi momenti che si inserivano i primi rimandi da parte dell’equipe. A mio avviso,
infatti, è sempre stato un imprinting fondamentale restituire immediatamente ai ragazzi
che tutti i sentimenti sono pensabili e degni di essere rivelati senza vergogna, nella misura
in cui ciascuno se la sente. Una volta rotto il ghiaccio, eravamo soliti proporre qualche
attività. Per brevità ne citerò alcune particolarmente significative.
Un buon modo per far sperimentare la complessità della relazione ai ragazzi è stato farli
disporre su due file, una di fronte all’altra, in modo tale che ognuno dei partecipanti
avesse davanti a sé un compagno. Una volta date le istruzioni, a turno ognuno doveva
far avvicinare o allontanare chi aveva di fronte ma senza parlare, soltanto per mezzo dei
gesti, e mantenendo il contatto oculare. È stato interessante notare che nessuno veniva
fatto avvicinare troppo e, quando ciò talvolta è accaduto, presto qualcuno distoglieva lo
sguardo per mezzo di una risata quanto mai salvifica. Un accadimento particolare ha spesso riguardato le ragazze; frequentemente capaci di sostenere lo sguardo ad una distanza
minore rispetto ai ragazzi, quando l’esercizio probabilmente diventava intollerabile, si
scioglievano in un abbraccio con la compagna che, al pari delle risate, poneva fine all’attività alleggerendo la tensione.
Inaspettatamente, ma forse neanche troppo, ad un esercizio diverso in cui la distanza tra
due persone era estremamente ridotta, molto spesso i ragazzi hanno risposto con una
minore fatica. È questo il caso di un’attività svolta per mezzo della formazione di coppie
casuali, nell’ambito della quale i ragazzi erano chiamati a muoversi per tutto lo spazio
della stanza, tenendo in equilibrio tra di loro un palloncino che bisognava sorreggere, di
volta in volta, usando diverse parti del corpo. Quasi tutte: pancia, fronte, schiena, ma mai
usando le mani. Nel gruppo di condivisione sono emersi in modo chiaro i vissuti totalmente diversi relativi alle due attività. I ragazzi, chiamati a esprimere le loro impressioni,
per la quasi totalità affermavano che far avvicinare o tenere a distanza un compagno guardandolo negli occhi, era “imbarazzante”, infatti, aggiungono, “veniva da ridere”. Essere
legati da un palloncino e ad una distanza molto ridotta, invece, era divertente ma non
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imbarazzante. La riflessione fatta insieme alla fine è stata rivelatrice; guardarsi negli occhi
“è difficile”, e decidere di tenere a distanza qualcuno, senza che l’interessato “ci rimanga
male”, lo è altrettanto. Abbiamo scoperto insieme, quindi, che non è facile guardare a
lungo e tenere vicino qualcuno con cui non si ha una speciale confidenza. Tutte queste
difficoltà erano annullate quando tra due ragazzi veniva posizionato un palloncino. Innanzitutto, perché “non dovevamo guardarci”, dice qualcuno, ma anche, aggiungiamo
noi, perché anche un piccolo pallone gonfiato con la bocca costituisce una barriera che
non ci espone al disagio di una vicinanza non cercata.
Una ulteriore riflessione deve guardare a ciò che è avvenuto sempre. Quasi a simboleggiare il termometro che segnava l’imbarazzo, la difficoltà e il disagio; il chiasso e il vociare
prendevano piede nel momento in cui veniva introdotto l’elemento della vicinanza, che
altro non è se non la relazione. Quando poi il suddetto elemento veniva tolto e si passava
ad altro, quasi magicamente l’atmosfera all’interno delle mura scolastiche diventava più
serena e meno caotica. Se è acclarato che entrare in relazione con qualcuno espone chiunque al giudizio dell’altro, creando, almeno inizialmente, in tutti comprensibile imbarazzo, come non capire la difficoltà di ragazzi che, per il particolare momento che vivono, si
trovano a fare i conti con un corpo che non ri-conoscono, che speso non piace, e con un
Sé ancora fragile e ipersensibile alle critiche?
Degne di nota sono state poi le giornate dedicate al rapporto con i genitori. Inevitabilmente impegnati nell’affrontare un lento processo di svincolo, desiderato e temuto, per
mezzo della consolidata prassi fatta di “giochi” e discussioni, molti dei ragazzi con i quali
ci siamo trovati a lavorare ci hanno permesso di guardare per qualche ora all’interno del
loro mondo.
Aiutati da un interessantissimo gruppo di condivisione, all’interno del quale si è discusso
della differenza che esiste tra un genitore e un amico, i ragazzi sono giunti a definire la
figura parentale come colei che protegge, vuol bene incondizionatamente e soprattutto
pone delle regole. Anche qui, superato l’imbarazzo iniziale, i nostri giovanissimi partecipanti si sbottonavano rivelando tutta la loro voglia di parlare e di farsi vedere senza filtro
alcuno. C’era chi raccontava di genitori molto presenti le cui regole rigide sono difficili
da rispettare, ma c’era anche chi, sbilanciandosi e andando controcorrente, affermava
candidamente di volere qualche attenzione in più.
È difficile, in poche righe, esprimere tutto quanto è venuto fuori dalla trattazione di
questa tematica. Ciò che hanno affermato in molti, e risulta comprensibile, è che resta
difficile confidare le proprie emozioni e preoccupazioni ai genitori per paura del giudizio. Spesso, quindi, è preferibile parlare con un coetaneo che, per definizione, “non ti
giudica”.
A questo proposito è interessante citare un’attività proposta, che è stata sempre foriera
di spunti stimolanti. Due ragazzi venivano invitati a mettersi uno dietro l’altro, chi stava
davanti, con gli occhi chiusi, doveva essere guidato da chi stava dietro mantenendo gli
occhi aperti. Gli altri ragazzi venivano invitati a disporsi nella stanza formando una sorta
di percorso a ostacoli che la coppia doveva poi percorrere nel modo più sicuro possibile.
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Tutti i partecipanti, a turno, hanno affrontato il percorso a ostacoli, sia nella parte di chi
doveva guidare, sia nella parte di chi doveva essere guidato.
Nei gruppi di discussione che seguivano questa attività si è potuto notare che chi aveva
parlato di un rapporto se non problematico, quantomeno non idilliaco con genitori o insegnanti, riferiva delle difficoltà nel momento di doversi affidare alla guida altrui. D’altra
parte, coloro i quali avevano evidenziato un rapporto soddisfacente con l’adulto significativo sembravano trovarsi a proprio agio nell’affrontare entrambi i ruoli.
A questo punto risulta difficile non richiamare alla mente Bowlby, con la sua teoria
dell’attaccamento e il concetto di base sicura. Se prendiamo come assunto che per un ragazzo che ha fatto sua una relazione nutriente con l’adulto di riferimento possa essere più
facile affidarsi rispetto a chi, probabilmente, di una base sicura non ha avuto esperienza;
ecco spiegate le maggiori o minori difficoltà sperimentate nel momento di doversi affidare
completamente all’altro da parte di coloro che anno preso parte al “gioco”.
Le attività di laboratorio hanno avuto l’importante funzione di aprire una finestra sul
mondo dell’adolescenza, aiutando i ragazzi a tradurre in parole quel groviglio di pensieri,
emozioni e bisogni che ognuno di loro si porta dentro. L’adolescente spesso spaventa,
fa rumore, è respingente; ma forse questa esperienza insegna che il chiasso può essere
interpretato come una messa alla prova e, soltanto se saremo capaci di guardare oltre e di
non correre via, potremo riuscire a intercettare lo sguardo sfuggente di chi si appresta ad
affacciarsi alla vita.
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12. L’adolescente: con sé, con l’altro, con
l’autorità
Monica Cocciolone, Fabrizio D’Alessio, Donatella Tomassi
Premessa
I profondi cambiamenti cui la nostra società è andata incontro negli ultimi decenni
hanno reso necessario la presa di coscienza dei limiti insiti nei tradizionali modelli educativi. Costruire la propria identità nella società contemporanea rappresenta una sfida, in
cui “la possibilità di realizzare molteplici e differenti esperienze sociali e culturali rappresenta
sicuramente una risorsa, tuttavia la frammentarietà e la contraddittorietà dei modelli valoriali proposti dalla stessa società di appartenenza può costituire un fattore di rischio per quella che
Erickson chiama confusione dell’identità o crisi di identità” (Cavalieri, 2005).
Alla luce di ciò, la scuola e la famiglia sono chiamate a divenire sempre più consapevoli del proprio ruolo che, di fronte alla complessità contemporanea, deve assumersi
l’ambizioso compito di aiutare il bambino e l’adolescente a definirsi come persone in
grado di stare nel mondo, per consentire “il pieno sviluppo della persona umana”.
All’interno della scuola abbiamo assistito negli ultimi decenni ad una vera e propria
“rivoluzione pedagogica”, in cui ad un approccio disciplinare tradizionale vengono affiancate offerte formative finalizzate a dare spazio ai bisogni più profondi dell’allievo (De
Santi, Guerra, Morosini, 2008).
Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi,
affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. La scuola affianca al compito dell’insegnare ad apprendere quello dell’insegnare a essere.
All’interno di una società instabile, che non offre punti di riferimento fermi e di
fronte alla necessità di formarsi e crescere in una società multiculturale, è necessario che
i principali scopi dell’azione educativa della scuola siano formare la classe come gruppo,
promuovere i legami di cooperazione e gestire i conflitti.
In quest’ottica, la scuola diviene il contesto in cui potersi sperimentare e conoscere; in
particolare, la presenza del gruppo-classe offre la cornice ideale per affrontare un percorso
incentrato sui reali bisogni dell’adolescente, dando la possibilità di esprimersi all’interno
di un clima paritario e non giudicante.
“Nei gruppi infatti, sovente, viene posto l’accento sul sentire, sul mettersi in contatto con i
propri sentimenti, sull’entrare in relazione affidandosi all’altro. Con l’eco di gruppo si esce dal
proprio isolamento” (Manes, 2007).
I laboratori organizzati nell’ambito del progetto “AdoleScienza” hanno avuto lo scopo
di coinvolgere gli alunni in un percorso di presa di consapevolezza; attraverso le attività
proposte, i ragazzi sono entrati in contatto con il proprio mondo interiore, hanno avu139
to l’opportunità di esprimere i loro reali bisogni e di vivere l’esperienza dell’ascoltare e
dell’essere ascoltati. È stato creato uno spazio di profonda riflessione, in cui chi ha voluto
ha potuto mostrare la parte più autentica di sé, e questo riteniamo sia necessario all’interno di un processo di costruzione della propria identità.
Si tratta di un’identità che si costruisce a condizione del riconoscimento dell’identità/
diversità altrui. Il gruppo funziona pertanto come luogo di apprendimento, di sperimentazione e di controllo dell’azione individuale e come modalità di confronto e valutazione
delle diverse componenti che concorrono a costruire il concetto di Sé (Cavalieri, 2005).
Modelli e metodologie di riferimento
Date le premesse, è stato preso come riferimento per l’attuazione dell’intervento il modello bio-psico-sociale, paradigma di riferimento della psicologia della salute. Tale cornice
teorica permette di cogliere la natura dinamica e reciproca delle interazioni individuo-ambiente, riconoscendo la stretta relazione tra i fattori biologici, sociali, culturali e psicologici
nelle dinamiche di salute e malattia. Questa prospettiva propone un’accezione positiva della
salute che, in linea con quanto affermato dall’O.M.S., non va più intesa come assenza di
malattia, bensì come stato di benessere fisico, psicologico e sociale. Il vantaggio di questo
approccio è rappresentato dal rovesciamento della prospettiva, che passa dalla ricerca della
malattia alla promozione della salute; è proprio in quest’ottica che nel 1993 il Dipartimento di Salute Mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha evidenziato
come le tecniche volte al potenziamento delle life skills debbano essere privilegiate per la
promozione dell’Educazione alla Salute nell’ambito scolastico. Le Life Skills sono abilità
che permettono di gestire efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana; possono
quindi essere considerate come quelle “abilità di vita” e “per la vita” che mettono in grado
l’individuo di adottare strategie efficaci per affrontare i diversi problemi che si presentano
(decision making e problem solving, pensiero critico e pensiero creativo, comunicazione
efficace, abilità sociali, empatia, gestione delle emozioni e dello stress, autoefficacia).
È all’interno di tale cornice che sono stati organizzati laboratori ludico- espressivi, che
hanno avuto lo scopo di coinvolgere attivamente l’intero gruppo classe attraverso attività
che, a partire dal gioco, potessero aiutare i ragazzi a recuperare una visione olistica di sé
come unità di corpo, mente, emozioni e sensazioni. Sono state quindi utilizzate metodologie attivo-partecipative, che attraverso tecniche che traggono origine dal mondo del
teatro, della danza, della musica potessero accompagnare gli alunni in questo percorso di
ri-connessione alle più autentiche dimensioni del sentire e dell’essere.
I laboratori
Verranno di seguito riportate alcune delle attività svolte nell’ambito dei laboratori
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organizzati nelle diverse classi aderenti al progetto “AdoleScienza”; prima di procedere
nella presentazione del lavoro svolto è, tuttavia, necessaria una premessa.
Nella stesura dei principali elementi emersi abbiamo ritenuto opportuno, per semplificarne la lettura, suddividere le attività proposte in tre macro-aree: il “Rapporto con
il proprio Sé”, il “Rapporto con l’altro” e il “Rapporto con i genitori e l’autorità”. Nel
lavoro con i ragazzi, però, è importante sottolineare come l’obiettivo principale degli
operatori sia stato quello di accogliere ciò che gli alunni, nel qui ed ora, portavano nel
gruppo, soffermandosi sui loro bisogni attuali e reali. Piuttosto che aderire ad uno schema
preconfezionato da attuare sistematicamente, gli operatori hanno modellato le attività su
quelli che erano i temi che gli adolescenti aprivano spontaneamente, in linea con le loro
necessità del momento.
Tale suddivisione va perciò intesa come un tentativo di sistematizzare operativamente
il materiale emerso: in realtà, tutte le aree sono strettamente connesse e intersecate tra
loro, e vanno lette con la consapevolezza che uno schema difficilmente può essere rappresentativo di un’esperienza tanto ricca e densa di significato.
Il corpo e le emozioni
“Vi è più ragione nel tuo corpo
che nella tua migliore saggezza”
(Friedrich Nietzsche, 1883/85)
Aderendo ad una visione olistica dell’individuo, considerato come una totalità di
mente, corpo, e quindi di pensieri, emozioni, immagini, azioni, in cui, come afferma
Kepner: “è il funzionamento integrato nel tempo e nello spazio dei vari aspetti del tutto ad
essere la persona” (Kepner, 1993), con gli adolescenti, più che mai, non si poteva estromettere il corpo da un processo imperniato sulla consapevolezza di sé e dell’altro. Il corpo
dell’adolescente è un corpo che varca le soglie del mondo adulto e compartecipa alla
costruzione dell’identità, all’immagine di sé, all’immagine sociale, al processo di rottura
e separazione a cui è chiamato.
Il lavoro laboratoriale condotto con gli adolescenti ci ha riportato in figura come
ascoltare il proprio corpo, identificare i propri messaggi, riconoscere i propri sentiti sia
tutt’altro che facile; ciò che traspare è un senso di estraneità nei confronti di attività che
sembrano bizzarre, in linea con una società in cui la tecnologia ha promosso una comunicazione, quella virtuale, in cui la corporeità viene meno, poiché l’incontro è mutilato,
cioè privo di quelle informazioni che il corpo comunica.
Occuparsi del corpo significa promuovere la riconnessione con i dati primari e grezzi
dell’esperienza, con quelle informazioni orientate al proprio sé, come nella propriocezione e nella cinestesia, e quelle rivolte all’esterno mediante i nostri organi di senso (Kepner
1993). Occuparsi del proprio corpo significa ricollegarsi alle proprie emozioni, e quindi
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a ciò che ci fa muovere, trasportare fuori, “a quel sistema di appoggio senza il quale l’intero edificio della ragione non può operare a dovere” (Damasio, 2000). Damasio sottolinea
come “la coscienza, proprio come l’emozione, sia mirata alla sopravvivenza dell’organismo
e, proprio come l’emozione, affondi le radici nella rappresentazione del corpo […] quando la
coscienza è sospesa, dalla coscienza nucleare in su, di solito è sospesa anche l’emozione […]
e questo suggerisce che le loro basi potrebbero essere collegate” (Damasio, 2000). Emozione,
coscienza e corpo costituiscono le basi sulle quali strutturare un adattamento al mondo
in nome dell’unitarietà, della flessibilità e dell’autenticità.
Nelle attività laboratori ali, alla domanda “Cosa provi in questo momento e dove lo
senti nel corpo”, le risposte degli adolescenti partecipanti erano: “Non lo so dove la sento
questa emozione”, “In che senso dove lo sento?” .
La maggior parte dei ragazzi ha pochissima familiarità sulla localizzazione corporea
delle proprie emozioni, quasi come il corpo fosse un estraneo nel processo emotivo, e
in più il processo imitativo spesso diviene lo strumento per distogliere l’attenzione dal
proprio Sé e uniformarsi.
I ragazzi molte a volte tendevano a imitare quanto in precedenza detto dai loro compagni; la risposta più tipica era: “Sono felice e lo sento nella pancia” . L’imitazione come una
modalità che, nella fase adolescenziale soprattutto, se da un lato consente di promuovere
l’appartenenza al gruppo, e insieme alla sperimentazione, favorisce la costruzione di un’identità, dall’altro si struttura come un rischio, operando a favore del processo di fusione
piuttosto che della differenziazione e dell’unicità e quindi a favore di un falso Sè.
Il contatto con l’emozione autentica, sentita nel qui ed ora da ciascuno dei ragazzi,
inizialmente, veniva facilmente contaminato dai processi imitativi e vedeva come prevalenti le emozioni positive.
Tale atteggiamento rispecchia, probabilmente, il processo di educazione e di crescita
che l’ambiente familiare e sociale, molto spesso, impernia sull’evitamento e sul mascheramento delle emozioni negative, quali rabbia, tristezza e paura, poiché considerate come
espressioni di debolezza, di fragilità, mentre il mondo richiede costantemente sicurezza
di sé, saper fare, essere all’altezza, capacità, rapidità e aderenza agli stereotipi sociali. La
stessa operazione, ripetuta a conclusione della giornata, molto spesso ci consentiva di notare che i ragazzi divenivano più autentici nel riconoscimento del proprio stato emotivo e
del proprio sentito corporeo: “Sono più tranquilla, adesso”. Accogliendo, non giudicando,
ma semplicemente stando con loro e ascoltandoli, i ragazzi si permettevano pian piano
di svelarsi.
Negli stessi giochi imperniati sull’identificazione dell’altro, il che cosa, cioè il contenuto verbale torna in figura, e prevale sul come, o meglio sulla comunicazione non
verbale; incarnare il proprio compagno, riproponendone i gesti, la postura e lo stesso
tono di voce, risulta essere imbarazzante, per cui lo ripresento con le sue parole, ma
non lo incarno, rimango nei miei gesti, nella mia postura, e non entro totalmente nel
suo mondo. L’imbarazzo è l’emozione prevalente che è stata osservata; essere al centro
dell’attenzione del gruppo, così come guardarsi negli occhi, favorisce un contatto con
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se stessi, e con l’altro dal quale si tende a fuggire, distogliendo lo sguardo, arrossendo,
comunicando il timore di svelarsi, di mettersi a nudo, di essere giudicati per quelle caratteristiche che socialmente o idealmente non possono essere desiderabili, per cui è meglio
non far trasparire.
L’attenzione al corpo passa sempre in secondo piano rispetto ai contenuti della comunicazione verbale.
Parlare del rapporto che l’adolescente ha con se stesso, con particolare riferimento a
quella che è la relazione che lui detiene con il proprio corpo, significa tornare a quelle basi
fondanti da cui si struttura e si radica il Sé di ognuno, andando a prevenire tutte quelle
forme di disagio sociale che alienano il corpo, che lo fanno regredire, che lo bloccano e
che lo scollano con il mondo degli affetti.
Lo sfondo e le radici
Su uno sfondo accogliente e non giudicante, in un clima in cui gli operatori costantemente si trasportano dal piano del Puer a quello del Senex, o meglio entrano nel mondo
dell’adolescente, utilizzando anche i suoi linguaggi, per poi regolarmente tornare nel ruolo dell’adulto, l’adolescente si concede pian piano di ricontattare se stesso e di raccontarsi
rivelando parti di sé fino a quel momento inaccessibili all’altro.
Questo è quello che è avvenuto quando all’interno di un laboratorio ci viene detto:
“Il pensiero della mia vera terra, sono dieci anni che non lo vedo, sono arrivato che avevo nove
anni e mi manca quel modo di vivere, e di essere libero che qui non ho tanto”. La voce è quella di un adolescente; il silenzio è quello del gruppo, un silenzio che parla di attenzione,
ascolto, vicinanza, ma anche di pesantezza e imbarazzo.
Il bisogno di tornare alle origini, in quella terra lontana fatta di ricordi spiacevoli, di
un passato difficile, viene condiviso per la prima volta con i propri compagni di scuola e
con noi operatori:“Ho avuto un po’ di problemi, diciamo: l’orfanotrofio e i cambi di famiglia
continui, però questa è stata un’esperienza per vedere la realtà com’è, specialmente adesso che
sto passando la fase dell’adolescenza, cioè vedere come è la vita reale perché prima, magari,
la vedevo un po’ alla leggera, invece adesso no, ora sono consapevole delle mie azioni. Da una
parte sono ricordi che non vorrei avere, anche se non dovrei cancellarli del tutto, perché sono
una parte di me”.
Il tema delle radici, di fare ritorno in quella cultura, in quegli ambienti in cui tutto è
iniziato, esprime la volontà di riconnettersi con la propria storia, di non sottovalutare le
propria diversità e di includere nella propria identità anche tutto il dolore legato al vissuto
dell’abbandono e dello sradicamento.
Allo stesso tempo, affianco al tema dell’adozione emerge la difficoltà di confidarsi e
quindi di fidarsi di qualcuno con cui poter essere sé stessi, in modo autentico.
La famiglia viene sentita come fondamentale: “Senza la famiglia non puoi andare da
nessuna parte, l’aiuto e il sostegno che ti può dare la famiglia nei momenti difficili e cruenti è
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insostituibile”. Da un lato lo sradicamento, dall’altro l’attaccamento. In una fase così ricca
di mutamenti come quella adolescenziale, si fa sentire il desiderio di recuperare le proprie
fondamenta per costruire la propria identità.
Il corpo, il colore della pelle, il calore e l’emotività di chi si racconta già di per sé ci
parlano della sua terra e della difficoltà di inserirsi in un contesto culturale di per sé già
molto diverso da quello originario, e con in più quelle paure, quelle delusioni e quella
diffidenza ancora portate dentro.
Il gruppo a sua volta riesce a stare, a non fuggire, con l’ironia o il chiacchiericcio,
all’intimità, ma soprattutto alla tristezza di un vissuto del proprio compagno. I feedback
che si condividono rimandano a colui che, generosamente ci ha regalato un pezzo di vita,
il coraggio, la forza ma anche la pesantezza di quella storia.
Se il tema dell’attaccamento e della separazione sono i temi cardini su cu si gioca l’adolescenza, in questo caso il campo su cui si costruisce l’identità è ancora più complesso
perché in esso devono ricongiungersi più storie, quella della famiglia di origine e quella
della famiglia adottiva. Come afferma Anna Oliviero Ferraris: “Il Sé come membro di una
famiglia è una componente dell’identità; l’adottato ha però due famiglie: una che conosce e
l’altra che non conosce o di cui ha soltanto dei ricordi più o meno chiari, più o meno lontani”
(Ferraris, 2002).
Questa giornata di laboratorio ci consente come sempre di accogliere e di contenere quello che i ragazzi ci portano, ringraziando coloro che si concedono di raccontarsi.
Chiudendo l’attività facciamo leva sulle risorse che ognuno di loro possiede, permettendogli di lasciare la pesantezza all’interno del gruppo, e di poter tornate fuori dal contesto
protetto, con la sensazione di aver alleggerito, anche se di poco, il bagaglio della loro vita.
Rapporto con l’altro
Nell’adolescenza il gruppo procura uno status simbolico autonomo, fondato sulle
proprie realizzazioni: uno status che è loro negato nella società. Molti adolescenti vivono
quanto possono in gruppo perché vi sono considerati persone autonome e non, come nei
luoghi gestiti dagli adulti, bambini che devono esser guidati e controllati. L’esigenza di
parità e di partecipazione, che caratterizza molti adolescenti nella nostra società, viene di
continuo frustrata. In reazione, gli adolescenti si creano una società diversa - il gruppo in cui può sentirsi alla pari con gli altri. In altre parole, il gruppo è la fonte primaria di
status autonomo durante l’adolescenza.
Alla luce di ciò, l’equipe ha proposto dei lavori di gruppo mirati a sviluppare la consapevolezza di sé, del proprio corpo e delle proprie emozioni in relazione all’altro, avvalendosi di tecniche di lavoro quali drammatizzazioni, role-playing, movimento, espressione
corporea e attività grafico espressive.
Nelle drammatizzazioni il protagonista proietta le sue preoccupazioni, le sue attrazioni, le sue repulsioni. Con l’esprimere liberamente i propri conflitti, il soggetto prende
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coscienza della sua situazione e può liberarsi dei traumi rivivendoli intensamente. Il roleplaying può essere utilizzato come valido strumento di conoscenza personale e di apprendimento di nuove modalità comportamentali. Ogni partecipante ha modo di “allenarsi”
nella relazione, cercando di non inibire i propri pensieri e le proprie emozioni. Con gli
esercizi di movimento ed espressione corporea, il linguaggio del corpo, che precede quello
verbale più formale e strutturato, ha la caratteristica di mettere in contatto la persona
con aspetti di sé molto profondi, che appartengono all’inconscio, e per questo favorire
l’accesso ad emozioni remote. Le tecniche grafico espressive permettono di proiettare
all’interno di un disegno i propri vissuti, arginando le difese ed esplorando il proprio Sé
in modo più autentico.
Per mettere in risalto la relazione con i pari l’equipe ha deciso di proporre ai ragazzi
un’attività che permettesse di creare e contattare la vicinanza, la condivisione e l’appartenenza attraverso il gioco “La statua di gruppo”. Ai ragazzi, che hanno scelto un posto nella stanza in cui si sentissero a proprio agio, viene chiesto di chiudere gli occhi e vengono
guidati dagli operatori in modo da occupare una posizione diversa all’interno dell’aula.
Nonostante un’iniziale agitazione da parte di diversi alunni, l’attività è proceduta tranquillamente ed ognuno ha occupato il suo posto in una statua collettiva. In generale,
tutti hanno scelto di sedersi, di mettersi alla pari, a contatto con la terra, pochi i ragazzi
in piedi. Prima di aprire gli occhi, è stato chiesto loro di trovar un punto di contatto con
qualcuno accanto. Alcuni hanno avuto difficoltà a creare un contatto fisico con l’altro,
ma dopo qualche minuto ognuno è in collegamento almeno con un compagno. A questo
punto gli operatori hanno invitato gli alunni ad aprire gli occhi e a cercare lo sguardo:
dell’altro; questa operazione è stata ripetuta tre volte, chiedendo ogni volta di guardare
negli occhi una persona diversa. Nella discussione di gruppo sono emerse diverse tematiche: alcuni hanno riferito di essere stati stupiti dalla posizione occupata da sé e dai
compagni, perché avevano avuto la sensazione di essere soli nonostante attorno a loro vi
fossero molte persone; altri si sono soffermati sull’agitazione sperimentata al momento
di lasciarsi guidare con gli occhi chiusi, altri ancora hanno invece dato risalto al senso di
tranquillità e protezione vissuto nello stesso momento. È emersa poi la difficoltà sperimentata dalla maggior parte dei ragazzi nel sostenere lo sguardo altrui, perché attraverso
lo sguardo si ha la sensazione di entrare nel mondo dell’altro, e che l’altro possa entrare
profondamente nel proprio mondo, e questo crea delle emozioni difficili da gestire. Ci
si è soffermati anche su come a volte, nonostante si abbia la convinzione di conoscere
profondamente qualcuno, in realtà non lo si conosce mai totalmente.
La condivisione ha quindi aperto il tema della fiducia, che è stato affrontato con il
gioco “Fidati e Affidati”; vengono formate delle coppie in cui un componente, mettendo
le mani sulle spalle del compagno che ha gli occhi chiusi, lo guida, per poi passare ad
invertire i ruoli nella seconda fase. Nella condivisione si è visto come molti dei ragazzi,
inizialmente tesi all’idea di lasciarsi guidare non potendo avere il controllo dell’ambiente,
si erano invece sentiti molto tranquilli nell’affidarsi. Il tema della leadership prende piede
e viene delineato come un buon leader, per poter guidare efficacemente, debba anche
145
sapersi affidare all’altro. I ragazzi hanno ricondotto infine il tema della fiducia, oltre al
rapporto con i pari, anche al piano lavorativo, sottolineando come essa sia fondamentale
nei diversi contesti di vita.
Per chiudere gli incontri con le diverse classi viene proposta “la cerimonia del diploma”. Ogni partecipante scrive il proprio nome su un foglio e lo fa girare tra i compagni
che scriveranno su di esso una qualità o una caratteristica positiva. Al termine dell’esercizio ognuno potrà leggere e quindi vedersi riconosciute le proprie qualità dall’altro.
Questo esercizio è risultato particolarmente utile, poiché come è stato spesso notato
dagli operatori, gli alunni, spesso autocritici e giudicanti verso se stessi, con la cerimonia
del diploma, hanno avuto modo di chiudere l’esperienza laboratoriale portandosi dietro
tutto il positivo presente in loro stessi, quel positivo difficilmente riconosciuto in prima
persona, mentre facilmente identificato dall’altro. Da qui infine, i ragazzi hanno avuto
buoni spunti di riflessione per confrontare, con l’aiuto del gruppo, la propria percezione
di sé con quella degli altri, nei loro confronti.
Rapporto con l’autorità
In qualità di operatori nell’ambito del progetto “AdoleScienza”, il nostro è stato
di certo un punto di osservazione privilegiato per analizzare come i ragazzi coinvolti
si rapportassero all’autorità. All’interno di ogni incontro, infatti, eravamo noi stessi a
rappresentare l’autorità all’interno della classe e questo ha avuto importanti implicazioni
sull’andamento degli incontri. All’interno della scuola, gli alunni sono abituati a rapportarsi con i docenti che, oltre ad avere un ruolo ben definito che di per sé fornisce
autorevolezza, hanno strumenti che consentono di mantenere la disciplina ed esercitare il
proprio potere (voti, note, richiami). Non volendo ridurre questo il complesso rapporto
che si crea tra docente e alunni, tale prospettiva è però fondamentale per comprendere
come gli alunni abbiano avuto modalità molto diverse di rapportarsi a noi, avendo l’esigenza di definire quale fosse il nostro ruolo, quali fossero i limiti da rispettare all’interno
di questo nuovo rapporto e quali fossero i nostri obiettivi. Siamo insomma stati messi
alla prova. Un simile atteggiamento da parte dei ragazzi è stato più che legittimo, poiché
per la natura delle attività proposte chiedevamo loro di esporsi, di mettersi in gioco in
modo autentico, mostrando le proprie vulnerabilità davanti all’intera classe; è proprio
per questo che, nel rapporto con gli operatori, emergeva l’ambivalenza tra il bisogno di
far riferimento ad una figura protettiva che fosse pronta ad assumersi la responsabilità del
suo ruolo e la necessità di essere riconosciuti come soggetti dotati di una propria individualità, capaci di affermare le proprie idee e, spesso, anche di opporsi. Raggiungere un
equilibrio tra queste due istanze nell’arco di tre incontri non è stato semplice, ma abbiamo potuto osservare che mettendoci in gioco in prima persona, ad esempio partecipando
alle attività che venivano proposte con i ragazzi, esponendoci anche mostrando le nostre
debolezze e difficoltà, cercando di ascoltare quali fossero le reali esigenze dei ragazzi, è
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stato possibile creare un contesto di scambio autentico, in un clima di reciproco rispetto
e di fiducia, che ha permesso ai ragazzi di esporsi parlando anche di rapporti importanti
all’interno delle loro vite, come quelli con genitori ed insegnanti.
All’interno di ogni classe frequentemente i ragazzi riportavano esperienze che avevano
come protagonisti i professori; di certo quella del docente è la figura autoritaria di fronte
alla quale ognuno ha la certezza di trovare appoggio da parte dei coetanei, pertanto per i
ragazzi era probabilmente più facile esporsi rispetto a quanto lo sarebbe stato parlando del
rapporto con i genitori. Spesso venivano presentate situazioni in cui i ragazzi si trovavano
di fronte all’esercizio di un’autorità ferma, rigida, di fronte alla quale non c’era possibilità
di ribellione senza la minaccia della punizione; queste esperienze venivano vissute come
ingiuste, soprattutto nel caso in cui la motivazione di determinati comportamenti da
parte degli adulti non veniva compresa. È in queste situazioni che i ragazzi si sentivano
vittime di ingiustizia, e questo li portava a sperimentare frustrazione, rabbia e tristezza.
Riportare all’intera classe tali vissuti, veder rispecchiate dai propri compagni le proprie
esperienze ed emozioni, aver modo di discutere sulle diverse strategie per far fronte a tali
situazioni ha contribuito ad accrescere il legame tra i ragazzi, oltre che dar modo di riflettere sulle proprie modalità di reagire di fronte alle ingiustizie, alla frustrazione e, spesso,
aiutare a comprendere le ragioni di alcuni comportamenti “adulti” considerati ingiusti.
Nonostante spesso i ragazzi portassero delle esperienze che coinvolgevano il mondo degli “adulti”, è stato possibile notare come difficilmente si facesse riferimento nello
specifico a situazioni che vedessero coinvolte le figure genitoriali, quasi fosse qualcosa di
troppo privato, da non condividere con gli altri; era sufficiente però stimolare la riflessione attraverso attività giocose perché si aprissero importanti discussioni tra i ragazzi, in
grado di coinvolgere ogni alunno più di ogni altro argomento.
Uno dei nostri primi obiettivi è stato quello di definire quale fosse la rappresentazione
interna che i ragazzi avevano del genitore, poiché all’interno di ogni discussione gli alunni
erano molto centrati sulle proprie esperienze ed avevano difficoltà ad accogliere e comprendere una prospettiva diversa. A tale scopo, ogni alunno è stato invitato ad associare
alla parola genitore (utilizzata in senso generico, per evitare consapevolmente una diretto
collegamento con le proprie figure di riferimento e quindi meccanismi difensivi e minore
autenticità) un aggettivo. Il genitore è (riportando le loro parole): “protettivo, oppressivo,
disponibile, comprensivo, severo, pignolo, rompiscatole, difficile, paziente, tiranno, sincero, simpatico, cattivo, aggressivo, intelligente ecc..”
È stato interessante notare come la maggior parte dei ragazzi riuscisse a riconoscere il
ruolo genitoriale nella sua complessità, sottolineando come spesso nel genitore possano
coesistere caratteristiche in piena contraddizione tra loro che, frequentemente, si rivelano
essere gli estremi di un continuum (ad esempio protettivo-oppressivo).
Il dibattito ha offerto numerosi spunti sulla difficoltà dei ragazzi ad avere un dialogo
aperto con i loro genitori; è emersa la difficoltà di costruire all’interno della relazione
genitore-figlio il giusto equilibrio tra attaccamento e differenziazione, per cui alcuni studenti tendevano a sottolineare l’atteggiamento iperprotettivo dei loro genitori, altri inve147
ce apparivano come piccoli adulti. Tali dinamiche sono state sperimentate direttamente
dai ragazzi attraverso:
- il role playing: divisi in coppie, colui che si immedesimava nel ruolo di genitore
aveva il compito di presentare al gruppo classe il figlio, ossia l’altro membro della coppia
- il Gioco dei confini”: la classe è stata divisa in due file, quella dei figli e quella dei
genitori. I primi dovevano decidere quanto avvicinare a loro il genitore con il solo utilizzo
di gesti, senza l’uso del canale verbale.
La prima attività ha creato un clima di gioco, in cui i ragazzi incarnavano genitori
che, tendenzialmente, sembravano più atti a sottolineare il disimpegno e le carenze dei
loro figli e meno i loro successi e le loro abilità. Il genitore è stato rappresentato o come
eccessivamente severo e punitivo o, al contrario, eccessivamente lassista, totalmente deresponsabilizzato all’interno di un rapporto amicale. È stato possibile notare, in alcuni casi,
la marginalità della figura paterna, la riduzione del tempo che i genitori trascorrono con
i loro figli, la difficoltà nell’essere flessibili tra regole e autonomia.
Il gioco dei confini ha sottolineato proprio quest’ultimo aspetto: i componenti di
ogni coppia sono stati posizionati l’uno di fronte all’altro, in modo che da un lato ci fossero tutti coloro che incarnavano i “genitori” e dal lato opposto i rispettivi “figli”. È stato
quindi chiesto al gruppo-figli di determinare quale fosse la giusta distanza alla quale volevano posizionare i propri genitori, invitandoli ad avvicinarsi, o ad allontanarsi con il solo
uso del gesto. In una prima fase dell’esercizio, tutti i genitori erano molto vicini ai figli e si
era creato un forte allineamento tra loro; non emergevano differenze significative tra una
coppia e l’altra. I ragazzi sono stati invitati a riflettere sulla posizione raggiunta e durante
la discussione è emerso come molti genitori spesso non avessero rispettato i segnali dei
figli e si fossero avvicinati autonomamente. È stato quindi poi ripetuto l’esercizio, questa
volta facendo esplicita richiesta ai genitori di rispettare i limiti imposti. In questa seconda
fase, sono state visibili differenze rilevanti nelle posizioni raggiunte dalle diverse coppie; è
stato chiesto ai genitori che precedentemente non avevano rispettato le decisioni dei figli
quali fossero state le loro motivazioni e, dalle risposte fornite, sono emersi diversi bisogni
che li avevano portati a voler essere più vicini di quanto richiesto (affetto, controllo, bisogno di protezione). I conduttori hanno cercato di stimolare una negoziazione tra figli
e genitori, in modo che entrambe le parti avessero chiare le esigenze e le motivazioni del
comportamento reciproco e si potesse raggiungere un compromesso.
Ulteriore spunto di riflessione ci viene fornito dal lavoro di una coppia. La figlia di
questa coppia dopo aver posizionato il genitore ad una distanza non proprio prossima,
reclama a quest’ultimo il suo bisogno di uscire e di avere una vita sociale simile agli altri, chiedendo esplicitamente fiducia nei suoi confronti, ma sottolineando la necessità,
comunque, di avere delle regole. Dopo questo confronto la figlia chiede al genitore di
avanzare fino a quella distanza che consentirà tra loro un abbraccio tenero.
Il rapporto con le figure genitoriali e l’atteggiamento di opposizione può essere esteso
in termini più generici al rapporto con l’autorità e le regole. All’interno di una classe, in
cui i ragazzi avevano manifestato un’elevata conflittualità ed erano emerse delle difficoltà
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a riconoscere il proprio ruolo, è stato proposto il “Gioco della locomotiva”. I ragazzi sono
stati invitati a trovare una propria posizione all’interno di una immaginaria locomotiva,
di cui ognuno di essi rappresentava un vagone. Molte sono state le difficoltà iniziali incontrate nell’individuare una posizione definitiva, in particolare per chi si collocava agli
estremi. Chi era in prima posizione esprimeva, anche con il corpo, un atteggiamento di
sicurezza e spavalderia, mentre chi si era collocato nell’ultima fila appariva più taciturno.
Abbiamo invitato i ragazzi a prendere consapevolezza della propria posizione, ad entrare
in contatto con il proprio ruolo e con tutto ciò che esso implicava. In particolare, l’intera
classe si è soffermata sul ruolo dei “leader”; i “capovagoni” avrebbero dovuto guidare
l’intera locomotiva nel suo breve percorso all’interno della stanza, pertanto sono state
elencate un insieme di caratteristiche che il leader avrebbe dovuto possedere. Questa
discussione ha portato due dei tre ragazzi che si erano posti in prima linea a cambiare
posizione: uno perché non si riconosceva nelle suddette caratteristiche, l’altro perché,
sentiva di non essere riconosciuto dal gruppo come leader, pertanto preferiva occupare
un’altra posizione. Soltanto un ragazzo è rimasto in prima fila come guida per gli altri
vagoni. Abbiamo chiesto a questo punto alla “locomotiva” di muoversi all’interno della
stanza. Lungo un breve tragitto, in cui ognuno doveva rappresentare anche corporalmente il vagone rimanendo piegato, è stato possibile assistere allo sbocciare di un insieme di
dinamiche legate alle diverse concezioni di autorità. Il capo-vagone ha cercato di esercitare responsabilmente il suo ruolo di guida, ma spesso ha dovuto scontrarsi con la ribellione
di alcuni “vagoni” che, alzando la schiena, gli facevano notare come alcune scelte fossero
inopportune e ne chiedevano la spiegazione. Queste opinioni si sono scontrate con quelle di altri ragazzi, che sostenevano che il compito dei vagoni fosse quello di obbedire al
leader senza discutere.
La condivisione al termine dell’attività ha fatto emergere diversi spunti di riflessione:
prima di tutto, è una netta opposizione tra “autorità oppressiva” e “autorità democratica”.
Molti alunni hanno sostenuto come, per essere un leader ed esercitare in modo efficace la
propria autorità, sia necessario ascoltare le opinioni e le considerazioni anche di chi occupa un rango inferiore, mentre altri studenti sostenevano che un vero leader debba prendere le decisioni senza lasciarsi influenzare dal pensiero altrui. Un altro spunto interessante è
stato fornito dalla discussione sorta tra alcuni alunni e il ragazzo che, dopo aver occupato
nella fase iniziale del gioco la posizione di capo-vagone, si era in un secondo momento
tirato indietro. Nel confronto è emerso che lo studente in questione, pur ritenendo di
possedere le qualità del leader, non sentiva che queste ultime gli venivano riconosciute
dal gruppo; in opposizione a ciò, il ragazzo che è rimasto ad occupare il ruolo di capovagone, che all’interno della classe era stato descritto come tendenzialmente introverso e
che anche nelle precedenti giornate di laboratorio non era apparso molto coinvolto, si è
concesso la possibilità di mostrare un’altra parte di sé, che è stata riconosciuta dall’intero
gruppo e che tutti hanno apprezzato, restituendogli feedback positivi al momento della
condivisione e generando in lui una forte emozione.
Il senso delle dinamiche emerse nell’ambito di questa attività è ben descritto dalle
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parole di Carotenuto che, parafrasando Erikson, afferma: “In questa fase si integra il senso
della fedeltà ai propri valori e alle proprie ideologie, ovvero un atteggiamento di coerenza
nonostante le inevitabili contraddizioni a cui ci espongono pulsioni contrastanti. Su questo
sentimento di coerenza poggia in maniera stabile l’identità, che si può definire come un insieme coerente nel tempo di atteggiamenti, valori e caratteristiche. L’adesione a qualche forma
di ideologia caratterizza questa fase, in cui è fondamentale per l’acquisizione dell’identità il
sentimento di appartenenza a un gruppo che conferma un’adeguatezza dei propri valori e del
proprio modo di essere” (Carotenuto, 1991) .
Conclusioni
Il lavoro condotto nelle classi della scuola secondaria di primo e secondo grado ha
portato alla luce elementi di grande interesse psicologico e pedagogico, creando importanti spunti di riflessione per i ragazzi e, soprattutto, per coloro che in varie vesti sono
impegnati nel complesso compito educativo.
Nel corso degli incontri ci si è spesso trovati di fronte a difficoltà derivanti da una
scarsa disponibilità, da parte degli alunni, ad ascoltarsi reciprocamente; molte energie
sono state spese per creare un ambiente sereno, non giudicante, in cui ognuno fosse libero
di esprimersi liberamente. Superati gli ostacoli iniziali, la ritrosia si è trasformata in voglia
di raccontarsi e i ragazzi hanno espresso un reale bisogno di sentirsi riconosciuti nella loro
unicità; questo bisogno era sentito da tutti come prioritario e purtroppo il tempo da dedicare non è stato sufficiente ad accogliere nel modo ottimale le molte richieste pervenute
dagli alunni. All’interno di uno spazio protetto, gli studenti hanno avuto la possibilità di
conoscersi in modo nuovo; ognuno è stato messo nelle condizioni di confrontarsi con i
propri pregiudizi, schemi, resistenze, mettendo in discussione le proprie certezze e acquisendo modalità di pensiero che si sono arricchite nel confronto con l’altro.
Dal punto di vista emotivo si è potuto notare come i ragazzi non siano così allenati a
contattare i propri stati d’animo; il mondo delle emozioni è difficile da ascoltare e da verbalizzare, così come lo è per il corpo. Se gli adolescenti di oggi hanno quindi un’estrema
dimestichezza nell’utilizzo della tecnologia a ricercare, vedere e conoscere nuovi mondi,
all’inverso si mostrano come inesperti nel dialogare con il proprio mondo emotivo interno.
Il bisogno di creare contesti e luoghi dove poter rincontrare se stessi in un’atmosfera
scevra dal giudizio, dalla valutazione e dalla svalutazione, si fa necessario affinché gli adolescenti di oggi siano futuri adulti, consapevoli, responsabili e differenziati.
150
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151
13. D
alla terra al cielo: cronaca di
sperimentazione del limite
Luigi Pasquinelli
Il progetto “Dalla Terra al Cielo: un percorso di elevazione e di crescita della Persona”,
che si è tenuto all’Aquila nella primavera del 2013 su iniziativa della Asl 1 e del Centro di
Servizio per il Volontariato, rivolto principalmente agli adolescenti, ha confermato la sua
efficacia e il suo “appeal” per quella fascia di età. L’idea era di unire tre forme di attività
fisica: ballo, arrampicata in montagna e volo, a un lavoro preparatorio di tipo psicologico.
L’obiettivo era quello di stimolare i ragazzi a prendere una maggiore consapevolezza del
proprio corpo e dei processi mentali, delle emozioni e delle relazioni con gli altri. Tre
tipi di “sport” accomunati dalla volontà di staccarsi da terra, di elevarsi, di puntare verso
l’alto. La danza intesa come movimento, improvvisazione, immaginazione, è uno degli
strumenti più potenti per esprimere i propri contenuti interni senza bisogno delle parole.
L’ascesa in montagna richiede motivazione, resistenza, calma, equilibrio, la capacità di
gestire le vertigini che nascono dal cambiamento di prospettiva, uno spirito di gruppo
perché si è tutti “in cordata” e stabilisce un rapporto potente con la natura. Il volo, sia dal
punto di vista letterale, sia da quello metaforico, è da sempre collegato alla promozione
delle parti più alte e nobili che stanno dentro di noi (amore, altruismo, creatività, ideali,
forza, generosità, compassione), al riconoscimento dei nostri limiti, definiti dal confronto/scontro tra desiderio e paura.
Noi usiamo certi sport, o attività fisiche come il ballo, come metafora di potenziamento e di crescita personali. Queste esperienze fanno sperimentare alle persone, in
maniera viscerale, la propria capacità di cambiare, di crescere, di fare cose mai ritenute
prima possibili, facendo emergere la consapevolezza che paure e limitazioni sono gabbie
autoimposte. Il nucleo del nostro lavoro tratta l’incontro/scontro tra paura e desiderio,
quelle che noi riteniamo essere le due emozioni fondamentali, il freno e l’acceleratore
dell’esistenza. Il nostro obiettivo è pervenire a una collaborazione tra queste emozioni di
base, in maniera che dalla loro sinergia si produca forza vitale. Le esperienze che forzano
i nostri limiti sono di per sé altamente terapeutiche, sono uno strumento potente per
venire in contatto con le proprie emozioni, per alzare autostima e fiducia in noi stessi, per
allargare in tutti i sensi i nostri orizzonti, per esperire sulla nostra pelle la possibilità del
cambiamento, per mutare prospettiva sul mondo, per divertirsi. Ballare, scalare, volare
diventano, a livello simbolico, esperienze di successo che, impresse nella memoria, funzioneranno da modello per imparare a danzare, arrampicarsi e decollare, in altre parole
per avere meno paura, nella vita di tutti i giorni. Anche il gruppo, dove queste esperienze
prendono vita, è un formidabile veicolo di promozione e contenimento delle emozioni,
è un’esperienza di scambio a livello profondo, di comunicazione autentica, palestra di
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corrette relazioni interpersonali. Il percorso prevede un graduale avvicinamento alle dinamiche cognitive ed emotive, alle credenze, ai valori che ci guidano. Lavoriamo su tecniche
respiratorie e immaginative, sulla consapevolezza corporea e relazionale, sui punti di forza
e di debolezza, sugli obiettivi, sulla comunicazione, sul linguaggio, sull’empatia, sulla dialettica paura/desiderio e su quella sicurezza/libertà, utilizziamo tecniche antiansia e promuoviamo la capacità di fidarsi e di affidarsi. Il fine ultimo è cambiare concretamente il
nostro modo di rapportarci a noi stessi e al mondo e imparare a ballare e a volare alto non
solo negli spazi infiniti del cielo ma anche in quelli più ristretti della vita di tutti i giorni.
Nel corso di tre week-end e di sei pomeriggi, nel periodo compreso tra marzo e maggio, i ragazzi dell’Aquila, un gruppo di circa 20 persone, hanno partecipato ai lavori con
passione, intelligenza e divertimento. Gli incontri preparatori alle attività fisiche si sono
tenuti presso la moderna e comoda sede del Centro per il Volontariato. Condotto da due
psicologi clinici esperti in danzaterapia e preparazione agli sport estremi, Luigi Pasquinelli e Stefania Salerno, il gruppo dei ragazzi ha cominciato a prendere contatto, attraverso
esercizi e simulate collettive e individuali, con quelle dimensioni di sé e dell’altro che costituiscono le nostre personalità e definiscono il modo in cui stiamo al mondo: superato
l’imbarazzo iniziale, legato al doversi “rivelare” davanti agli altri, e alla novità dell’approccio psicologico, molti elementi si sono coinvolti nei numerosi lavori calibrati su misura
dei ragazzi: descrivi l’immagine di te stesso, cosa ti piace e cosa vorresti cambiare del tuo
corpo? E del tuo carattere? Quali sono i tuoi sogni? Come fare a trasformarli in obiettivi?
Il rapporto con le esperienze dolorose, come gestirle? E tanti altri temi come l’assunzione
di responsabilità, la capacità empatica, l’espressione dell’affettività, il condizionamento
degli altri, la possibilità di cambiare punto di vista, la fiducia in se stessi e negli altri, il
rapporto con il rischio e con la paura, eccetera.
Dopo essersi rinforzati nella consapevolezza che i nostri punti di forza possono essere
migliorati e che le aree di debolezza possono essere corrette e che ognuno di noi può diventare in buona misura artefice, in base alle scelte fatte, o non fatte, del proprio destino,
i ragazzi hanno partecipato, nella grande sala del Centro Volontariato, alle sessioni di
danza, condotte da un ballerino professionista, nelle quali hanno potuto sperimentare
sul proprio corpo la difficoltà, in alcuni casi la facilità, di muoversi davanti agli altri, di
sentirsi leggeri o pesanti, liberi o bloccati, freddi o caldi, capaci o inibiti, isolati o in relazione con il gruppo. Un grande successo ha anche riscosso la gita in montagna, nei dintorni dell’Aquila, nella quale i partecipanti si sono cimentati anche con un’arrampicata
in parete, sotto l’attenta sorveglianza della guida alpina che li accompagnava. Per quanto
riguarda la pratica del volo si è scelto di avvicinare i ragazzi a questa dimensione così diversa dalla normale vita quotidiana con alcuni esercizi di caduta, di perdita di equilibrio e
di “tuffi” su cuscini, in attesa che, raggiunta la maggiore età, possano decidere in autonomia se riprendere, o meno, il discorso. Non si è voluto, in altre parole, mettere i genitori
davanti a scelte (consentire o meno ai propri figli il giro in deltaplano o in parapendio?)
che sarebbero potute risultare poco gradite.
Nel complesso il progetto “Dalla Terra al Cielo”, grazie all’incontro tra psicologia e
154
attività fisiche divertenti come il ballo, l’arrampicata e il volo, può essere considerato un
ottimo metodo per avvicinare i ragazzi a lavori di sostegno psicologico, prevenzione dei
rischi, consapevolezza di se stessi e degli altri, così preziosi in un età fragile e complicata
come quella dell’adolescenza nella quale si tende a compiere scelte e prendere decisioni in
grado di ricadere, nel bene o nel male, in maniera definitiva, sull’identità in costruzione.
155
14. G
enerAzione Adolescente e Pedagogia del
Rispetto
Marilisa Marianella
Il titolo: GenerAzione Adolescente e Pedagogia del Rispetto, a conclusione di questa
lunga carrellata di esperienze, vuole chiudere la rassegna con una riflessione forse utile per
tentare un cambiamento di prospettiva e quindi generare una nuova Azione. Abbiamo
usato la parola Generazione per introdurre parallelamente stratificazioni generazionali,
processi intra e intergenerazionali e guardare a fasce diverse di età dall’interno della stessa
generazione. Ma abbiamo anche usato la parola GenerAzione con l’intenzione di proporre il processo del generare Azioni utili e finalizzate all’attivazione di processi educativi
trasformativi. All’interno dei processi trasformativi è chiaro che la parola Adolescente
richiama ad uno specifico momento di trasformazione che, nella sua tipica condizione di
rito di passaggio, sembra evocare in modo scontato il significante dell’insicurezza e della
precarietà. Ma oltre le connotazioni da catalogo, vorrei insistere nel proporvi di uscire
dalla lettura unidirezionale, dove l’unica Generazione Adolescente individuabile sembrerebbe essere quella degli adolescenti di oggi, ma piuttosto riferibile ad una condizione
evolutiva della società odierna che potremmo tranquillamente definire come “generazione adolescente”.
Conseguentemente a ciò, il link con i termini Pedagogia e Rispetto crea una chiara
connessione ai temi dell’agire etico e non disgiunto dal riconoscimento della fragilità,
che è qualità tipicamente umana. Tutti capiamo il dolore e la fragilità altrui perché tutti
quanti siamo vulnerabili. Uno dei maggiori intellettuali dei nostri tempi, lo spagnolo
Fernando Savater, suggerisce che “La libertà di scelta e la vulnerabilità della condizione
umana stanno alla base dell’etica e ci impongono dei doveri” ed è proprio questo il caso
di rendersene conto! Dovere verso un rispetto reciproco, dovere di insegnare il rispetto
attraverso la propria capacità di rispettare, per una pedagogia del rispetto che ci stimoli a
capire che tipo di vita desideriamo.
In realtà viviamo in un’epoca in cui il tempo sembra essere affidato ad una casualità
sprovvista di direzione ed orientamento, epoca delle “passioni tristi”, come furono chiamate da Spinoza e recentemente rievocate da Galimberti, nel suo scritto sui giovani e il
nichilismo.
Questa condizione non fa tanto riferimento alla sofferenza generata dall’incontro con
il dolore, ma viene generata dall’impotenza, dalla disgregazione e dalla mancanza di senso
che complessivamente mettono in crisi l’impalcatura della nostro mondo civile. Conseguentemente, il processo di demotivazione del sistema sociale isola i nostri figli nelle
loro stanze, a fronteggiare il proprio vuoto tra la musica esplosiva e le pozioni sedanti,
come chiaro sintomo di arresto del desiderio. La mancanza di promessa nel futuro porta
157
questa generazione adolescente a vivere nella sopravvivenza e priva genitori ed insegnanti
dell’autorità di indicare la strada. Ma ancor peggio, quando tra adulto e adolescente si
instaura un rapporto contrattualistico (Galimberti, 2007) all’interno del quale genitori e insegnanti si sentono continuamente tenuti a giustificare le scelte che diventano
proposte contrattabili dal giovane, come in un rapporto paritario. Troppo facilmente
dimentichiamo che la relazione tra adolescente e adulto non va giocata su un piano di
simmetria perché equivale a lasciar solo chi ha fisiologicamente bisogno di contenimento
e rassicurazioni.
I genitori di oggi devono sapere che la struttura sociale attuale è la radice di disagi
e malattie personali e sociali, quindi le manifestazioni comportamentali dei figli sono il
sintomo ovvero l’effetto e non la causa di tutto questo.
Gli adulti devono essere consapevoli degli effetti che la struttura sociale ha su loro
stessi e della possibilità di trasmettere valori diversi ai propri figli. Il lavoro di esercizio al
rispetto, che le persone possono fare nel micro sistema familiare, può per estensione avere
effetti nel macro sistema sociale. Per ogni genitore è fondamentale la conoscenza di sé e
la comprensione sistemica delle proprie origini. In tal modo i figli potranno far propri,
in modo spontaneo, dei valori di grande portata, rendendo stabili i propri modelli di
condotta e di relazione sociale.
I genitori che oggi si confrontano con i figli adolescenti dichiarano di trovarsi di
fronte a situazioni ingovernabili; di conseguenza, molto spesso i figli di questa età rappresentano un gravoso “dovere” e questo sottintende un vissuto di forte mancanza di rispetto
proprio da parte del mondo adulto che “getta la spugna”.
Questi genitori che, oggi più che mai, faticano a mantenere il ruolo o hanno ceduto
l’autorevolezza per crearsi approvazione da parte dei figli, non hanno considerato che proprio figli così ingestibili hanno ancora bisogno di loro e forse ne avranno per tutta la vita,
esattamente come noi adulti sentiamo a volte l’esigenza di appoggiarci sia materialmente
che nel ricordo ai nostri genitori.
Quindi tutti gli adolescenti, “buoni” o “cattivi” che siano, sono persone in evoluzione, bisognose di rispetto e riconoscimento, che vanno accolte e aiutate a individuare la
loro strada, a partire dal saper colmare il divario tra cercare sé stessi e poter diventare ciò
che sognano di essere.
Ma non è forse questo il nodo sul quale il “mondo adulto” ha trascorso o ancora vive
un’adolescenza interminabile? Basterebbe riflettere sul fatto che i figli che non accogliamo
e non rispettiamo sono quelli che non siamo riusciti ad educare in quanto in conflitto
con le nostre stesse esigenze di riconoscimento. Inoltre, un certo programma di anestesia
delle coscienze nel quale buona parte della generazione adulta è cresciuto, favorendo la
tendenza a non farsi più domande, oggi si sta esaurendo perché i problemi dell’attuale
generazione adolescente sono sotto i nostri occhi. Siamo costretti a chiederci se abbiamo
intenzione di fare qualcosa per prendere confidenza con i segnali della generazione di
confine e prendere la responsabilità di saper distinguere nell’espressione di un giovane lo
spirito di gioia dal nascondimento di un imminente tzunami.
158
Il momento risulta paradossalmente ideale perché, nonostante la situazione drammatica, non esistono molte strade da prendere per garantire un reale cambiamento sulla
crisi valoriale, economica e sociale. L’unica azione che potrà permettere a tutto il resto di
trovare un aggiustamento è l’investimento in una nuova educazione. Tornare ad educare
dopo aver pensato che non ce ne fosse più bisogno!
Nonostante si sentano nell’aria continue ventate di terrorismo sulla difficoltà di educare oggi, nonostante si esprimano continui giudizi sulle adolescenze di ieri e di oggi,
possiamo dire che sebbene la tecnologia abbia cambiato molti aspetti basilari delle nostre
vite, i sentimenti elementari come la gioia, l’amore, la paura, l’ambizione, sono in fondo
rimasti inalterati. Come dire che le cose secondarie cambiano continuamente, ma quelle
essenziali durano ininterrottamente. Volendo usare le parole di Savater: “Cambia l’epidermide del mondo, ma al di sotto c’è un nucleo che rimane vivo”.
L’idea che il compito degli esseri umani sia quello di realizzare la propria felicità e
aiutare le persone intorno a noi a fare altrettanto non può interrompere la manifestazione
dell’amore, del rispetto o della cortesia. Se ancora oggi riceviamo insegnamenti dagli
scritti di duemila anni fa è perché trattano di questioni che restano valide e attuali. Per
quanto cambi il contesto esterno e quanto profondamente possano variare i costumi o la
tecnologia possa alterare le nostre percezioni, il solo fatto di essere in questa realtà condivisa, ci obbligherà a prendere una direzione nell’avvicinare il prossimo.
L’educazione è la madre di tutti i problemi, quindi se ci tiriamo indietro e non affrontiamo questo compito, la situazione non potrà che peggiorare. L’educazione non esaurisce
il suo compito mandando i figli a scuola, ma aiutando una giovane generazione a crescere
forte, capace di stare sulle proprie gambe e fiduciosa nella ricerca dei propri talenti. In
sintesi offrendo spazio alla loro capacità di incidere sulla realtà.
In primo luogo, proprio la scuola deve imparare a non rimaner fuori dai problemi
connessi ai processi di crescita, perpetrando quella posizione di falsa innocenza, tipica di
chi ben sa che non prendendosi cura della soggettività dell’alunno potrà rimanere con le
mani pulite, ma avrà limitato di gran lunga la propria capacità di azione.
Già dalla prima infanzia, genitori ed educatori si affannano a promuovere gli addestramenti del bambino sia sul piano fisico che intellettuale, ma nulla viene fatto per
l’educazione affettiva, che possa guidare nel riconoscimento di emozioni, sentimenti,
paure, entusiasmi. Quando realizziamo che l’emozione non è scindibile dalla relazione
con l’altro, abbiamo già trascorso buona parte della nostra vita. In quel frangente dice
Galimberti: “…nel deserto della comunicazione emotiva che da piccoli non ci è arrivata,
da adolescenti non abbiamo incontrato e da adulti ci hanno insegnato a controllare, fa la
sua comparsa il gesto, soprattutto quello violento, che prende il posto di tutte le parole
che non abbiamo scambiato né con gli altri per istintiva diffidenza, né con noi stessi per
afasia emotiva”.
Per questo il lavoro più complesso da fare è l’educazione preventiva dell’anima, perché vediamo che risulta insufficiente dare nutrimento solo al corpo e alla mente per creare
risonanza e integrazione con questa epoca. Gli spazi dell’intelligenza e della corporeità
159
senza cuore diventano lucidi e freddi.
Questo è l’unico passaggio per insegnare ai giovani ad essere sé stessi, il passaggio
per la forza del cuore, unica forza d’animo che conti per farci ritrovare la strada di casa
ed evitare tutti gli “altrove” della vita. Ma per aiutare i giovani in questo è essenziale che
gli adulti per primi siano pronti ad accettare le proprie parti ombra, che generalmente
vengono mantenute per dare nutrimento alla battaglia interna di evitamento del dolore.
Accettare il nostro passato e dire “anche questo mi appartiene” significa trasmettere
un buona stabilità ai nostri figli che si nutrono indirettamente attraverso le nostre stesse
radici.
Inoltre, parallelamente al processo di riconoscimento della propria storia da parte
dell’adulto/genitore, è opportuno che gli educatori/insegnanti riescano a trattare i bambini in modo terapeutico e spirituale. Terapeutico nel senso di saper riconoscere nel profondo le fratture interne con le quali i bambini entrano nel mondo della scuola. Spirituale
non in senso religioso, ma inteso come rispetto profondo e sintonia con le necessità
affettive degli alunni.
L’obiettivo dovrebbe consistere nel costruire una certa “Competenza Esistenziale”
(Naranjo, 2011) da intendersi come capacità di integrare e portare equilibrio tra ragione,
emozione e istinto. Se questo compito sarà almeno parzialmente svolto nella prima infanzia, diventerà molto più semplice entrare nel processo della GenerAzione Adolescente
e costruirne l’accompagnamento.
Riferimenti bibliografici
Chopra D., La vita senza condizioni, Sperling&kupfer, Milano, 1992.
Crepet P., Educare oggi, Enea, Siena, 2012.
Galimberti U., L’ospite inquietante, Feltrinelli, Milano, 2007.
Naranjo C., Amore, Coscienza e Psicoterapia, Xenia, Milano, 2011.
Onnis L., Legami che creano, legami che curano, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.
Savater F., Piccola bussola etica per il mondo che viene, Laterza, Bari, 2014.
Schiralli R., Cercasi genitori disperatamente, Franco Angeli, Milano, 2004.
160
APPENDICI
161
a) Introduzione all’analisi dei dati
Margherita Paglino
Profilo sociale dei destinatari di “Radici e Ali”
Premessa
Per delineare il profilo sociale dei partecipanti alle attività laboratoriali del progetto
“Radici e Ali” è stata eseguita una ricerca qualitativa, attraverso i seguenti passaggi:
- distribuzione del questionario;
- analisi dei dati raccolti.
La distribuzione dei questionari è avvenuta nelle 5 città coinvolte dal progetto (L’Aquila, Roma, Pesaro, Reggio Emilia e Verona); una volta compilati, i dati sono stati analizzati con il programma di calcolo statistico SPSS. L’analisi è stata di tipo monovariata
e bivariata. Per semplificarne la lettura, i dati emersi sono stati sistemati in tabelle e
trasformati in grafici.
Analisi monovariata: tecnica che prende in considerazione una sola variabile alla volta.
Essa è il punto di partenza per tutte le analisi dei dati.
Il punto di partenza dell’analisi monovariata è la distribuzione di frequenza, ossia ad
ogni modalità della variabile viene associata la frequenza con cui essa si presenta nella
matrice-dati.
Analisi bivariata: tecnica che prende in considerazione due variabili per volta. Serve a
stabilire se date tra due variabili (x e y) esista una relazione di indipendenza o di associazione.
Dati generali
Dall’analisi del questionario sui dati generali emerge che a partecipare alle attività
progettuali sono state in maggioranza donne, che l’età prevalente oscillava tra i 40 e i 46
anni, con un livello di studio medio-alto e un lavoro impiegatizio. Inoltre, a partecipare
erano prevalentemente persone coniugate con uno o due figli di età compresa tra i 2 e
i 3 anni, dove con l’aumentare del livello del titolo di studio diminuiva il numero dei
figli.
163
Attachment style questionare (scala1)
Dall’analisi dell’Attachment style questionare (scala1) emerge che prevalentemente i partecipanti hanno un sensazione positiva circa le relazioni con gli altri; infatti ritengono:
- di essere persone valide;
- che nel momento del bisogno, gli altri è facile che ci siano;
- entrano facilmente in confidenza con gli altri;
- hanno fiducia nelle relazioni con gli altri;
- a volte si preoccupano di non entrare in sintonia con gli altri, preoccupazione che
aumenta con l’aumento del titolo di studio;
- che se qualcosa li disturba, gli altri non ne sono sempre consapevoli o preoccupati;
- sono fortemente fiduciosi di essere graditi e rispettati dagli altri.
Parenting stress index
Dall’analisi del Parenting stress index emerge un profilo abbastanza positivo; infatti, prevalentemente i partecipanti:
- hanno la sensazione di riuscire a far fronte alle situazioni;
- per i figli non sacrificano la loro vita più di quanto si aspettavano;
- non si sentono intrappolati dalle loro responsabilità di genitori;
- riescono a fare cose nuove e diverse anche da quando hanno i figli;
- sono soddisfatti dell’ultimo acquisto che hanno fatto per se stessi;
- non ci sono molte cose che li disturbano in questo momento della loro vita;
- pensano che aver avuto un figlio non ha causato più problemi con il partner di
quanti se ne aspettassero;
- non si sentono soli e senza amici;
- sentono di essere apprezzati dai propri figli e non li percepiscono come problematici;
- si considerano genitori medi;
- le mamme più che i papà hanno l’impressione che i figli reagiscano duramente
quando accade qualcosa che non gli piace.
Dyadic adjustement scale
Dall’analisi del Dyadic adjustement stile emerge che prevalentemente le coppie genitoriali che hanno partecipato alle attività laboratoriali:
- sono quasi sempre d’accordo nella gestione delle finanze, sulle modalità del diverti164
mento, per quanto riguarda la religione, sulla scelta degli amici e, in generale, sulle scelte
di vita condivisa;
- invece, le donne sono occasionalmente in disaccordo per quanto riguarda i compiti
domestici;
- non hanno mai considerato il divorzio o sono andati via di casa dopo un litigio,
hanno fiducia nel proprio compagno e non si sono mai pentiti di essersi sposati;
- che le cause di divergenza spesso sono legate al fatto di essere troppo stanchi per
fare l’amore;
sono desiderosi che la loro relazione riesca e faranno di tutto perché ciò accada.
165
b) CorrElazIoNI StatIStIChE DEllE CoMPEtENzE
GENItorIalI
Fabio Rossi
CAMPIONE
Campione
Il campione di questo studio preliminare è costituito da un totale di 182
persone nelle 5 città incluse nello studio: L’Aquila, Roma, Pesaro, Reggio
Il campione
studio preliminare è costituito da un totale di 182 persone nelle 5
Emiliadiequesto
Verona.
città incluse
nello studio:
Reggioescludere
Emilia e Verona.
Da questo
totale, L’Aquila,
tuttavia, Roma,
è statoPesaro,
necessario
24 soggetti perché
Da questo
tuttavia,
è stato
necessario completo
escludere 24
non totale,
avevano
compilato
il pacchetto
deisoggetti
test. perché non avevano
Il campione
analizzato,
compilato
il pacchetto
completoquindi,
dei test.è così formato:
Il campione analizzato, quindi, è così formato:
- Distribuzione per Sesso ed età
- Distribuzione per Sesso ed età
Tab. 1 – Distribuzione del campione per Sesso ed Età
TAB. 1 – DISTRIBUZIONE DEL CAMPIONE PER SESSO ED ETà
Sesso
Maschi
(%)(%) FemmineMedia
(%)
Femmine
106 52
(67,1)
52
(32,9)
(32,9)
41,54
Sesso
Maschi (%)
106 (67,1)
Età
Età
Media Dev.
Dev.St.St.
41,54
5,95
5,95
Rangerange
25 - 5925 - 59
167
- Distribuzione per Sedi
- Distribuzione per Sedi
2 – Distribuzione
del campione
per
Sedi
TAB. 2 – Tab.
DISTRIBUZIONE
DEL CAMPIONE
PER
SEDI
Città
Città
l’aquila (%)
Pesaro (%)
reggio Emilia (%)
roma (%)
L’Aquila (%) Pesaro (%) Reggio Emilia (%) Roma (%)
38 (24,1)
10 (6,3)
34 (21,5)
36 (22,8)
38 (24,1)
10 (6,3)
34 (21,5)
36 (22,8)
Verona (%)
Verona (%)
40 (25,3)
40 (25,3)
- Distribuzione per Variabili
- Distribuzione per Variabili
Tab. 3 – Distribuzione delle Variabili nel campione totale
TAB. 3 – DISTRIBUZIONE DELLE VARIABILI NEL CAMPIONE TOTALE
Media
Dev.St.
Media
ASQ
45,71 45,71
6,50
aSQ
DAS
DaS
PSI-SF
PSI-SF
PD
PD
P-CDI
P-CDI
DC
168
DIF
DC
TOT
51,76
50,12
50,12 51,42
52,35
51,42 51,41
CDDIF
SDTOT
EA
CoD
CD
TOT
52,35 46,40
51,41 36,27
61,99
45,12
46,40 43,58
10,43
SD
36,27
7,11
EA
61,99
12,01
CoD
45,12
7,12
TOT
43,58
7,22
51,76
9,78
10,58
10,12
10,01
7,79
Dev.St.
6,50
9,78
10,58
10,12
10,43
10,01
7,79
7,11
12,01
7,12
7,22
- Distribuzione delle Variabili per Sede
PSI-SF
PD
P-CDI
DC
DIF
TOT
51,04
48,85
51,39
51,04
50,67
10,46
8,51
7,37
11,34
8,56
45,46
49,47
49,03
46,18
47,51
10,71
8,12
10,55
10,97
29,80
50,85
50,37
49,86
52,21
50,41
7,99
12,55
11,91
8,42
11,22
52,99
48,94
51,86
53,07
51,72
9,96
9,35
9,78
10,53
9,09
53,70
52,34
52,98
54,60
53,64
9,76
12,13
11,08
10,56
10,99
DaS
TAB.4 – DISTRIBUZIONE DELLE VARIABILI PER SESSO
l’aquila
Pesaro
reggio Emilia
roma
Verona
Media Dev.St. Media Dev.St. Media Dev.St. Media Dev.St. Media Dev.St.
aSQ
45,12
7,90
45,73
4,09
46,59
6,57
46,32
7,13
44,95
4,76
CD
SD
EA
CoD
TOT
46,96
37,68
63,22
45,25
44,51
7,46
6,68
11,96
7,28
6,18
44,85
31,69
62,50
46,15
41,53
13,70
11,68
20,49
11,72
15,08
41,46
33,85
59,04
42,17
39,37
6,60
8,31
11,81
7,64
6,38
49,32
40,94
64,03
46,55
47,18
6,11
4,21
10,42
5,88
5,43
47,85
33,93
61,35
45,96
43,55
6,76
4,12
10,92
5,56
5,57
- Distribuzione delle Variabili per Sesso
Maschi
Dev.St.
7,02
PSI-SF
Media
45,74
PD
P-CDI
DC
DIF
TOT
50,40
48,34
48,37
50,48
48,89
8,11
10,38
9,16
8,64
8,80
52,43
51,00
52,92
53,26
52,64
10,48
10,62
10,27
11,13
10,37
DaS
TAB.5 – DISTRIBUZIONE DELLE VARIABILI PER SESSO
Femmine
Media
Dev.St.
aSQ
45,64
5,34
CD
SD
EA
CoD
TOT
46,91
36,15
62,21
44,82
43,73
7,95
9,10
13,38
8,37
8,63
46,16
36,32
61,88
45,27
43,51
7,74
5,94
11,34
6,45
6,46
Strumenti utilizzati
Le persone che hanno composto il campione di studio, sono state valutate attraverso
la somministrazione dei seguenti questionari, contenuti in un “libretto” consegnato ai
genitori durante il primo incontro del progetto “Radici e Ali”:
169
Attachment Style Questionnaire (ASQ; Feeney, Noller, e Hanrahan, 1994).
Il primo strumento che compone questo libretto è un questionario che serve alla valutazione dello stile di Attaccamento del soggetto. Il questionario completo è costituito da
40 item con punteggi da esprimere su scala likert da 1 a 6 punti, e restituisce un profilo
costituito da 5 scale:
1.Scala Fiducia. È la scala principale che riguarda uno stile di attaccamento Sicuro e
che, per punteggi al di sopra della media è indicativa di un profilo sicuro e fiducioso
in sé stesso e negli altri. Secondo le indicazioni degli autori, punteggi elevati in questa
scala permettono di considerare quelli nelle altre scale come indicativi di una tendenza
generale che però si inscrive all’interno di una complessiva sicurezza.
2.Scala Disagio per l’Intimità. Esprime la difficoltà del soggetto ad entrare in intimità
con il prossimo ed a vivere serenamente i rapporti intimi e la vicinanza.
3. Scala Secondarietà per le Relazioni. Elevati punteggi in questa scala individuano soggetti che enfatizzano l’autoaffermazione, il successo e il fidarsi esclusivamente di sé, a
discapito dell’intimità.
4.Scala Bisogno di Approvazione. Indica una tendenza del soggetto in cui si desidera
l’intimità ma non c’è fiducia negli altri e pertanto si evitano coinvolgimenti intimi che
possono portare alla perdita o al rifiuto.
5. Scala Preoccupazione per le Relazioni. In opposizione con la scala Secondarietà per le
Relazioni, il soggetto con elevati punteggi presenta un estremo interesse per le proprie
relazioni e per il mantenimento delle stesse, anche a discapito di se stesso e delle proprie aspettative e ambizioni.
Per questioni di praticità di assessment si è deciso di considerare soltanto gli item
relativi alla prima Scala, quella della Fiducia. Alcuni item relativi a questa sono riportati
nella Tab. 6.
Tab. 6 – Esempi di item della Scala Fiducia dell’ASQ
1. Nel complesso sono una persona valida
2. Sono fiducioso che gli altri ci saranno quando avrò bisogno di loro
Parenting Stress Index – Short Form (Abdin, 2008).
Il Parenting Stress Index – Short Form è un questionario che, in 36 item con punteggi da esprimere su scala likert a 5 livelli, valuta lo Stress genitoriale relativo a diversi
aspetti dell’accudimento. Oltre ad un punteggio complessivo, questo strumento, restituisce valori relativi a 3 sottoscale:
1. PD – Parental Distress (stress genitoriale). Definisce il livello di stress che un genitore
sperimenta nelle attività relative al suo ruolo genitoriale.
2.P-CDI – Parent-Children Dysfunctional Interaction (Interazione Disfunzionale Geni170
tore-Bambino). Questa scala è focalizzata sulla percezione che un genitore può avere
del proprio figlio come non rispondente alle sue aspettative, pertanto, non si sente
rinforzato nel suo ruolo genitoriale.
3. DC – Difficult Child (Bambino difficile). Riguarda prevalentemente le caratteristiche
comportamentali, sia temperamentali che acquisite, che rendono il bambino facile o
difficile da gestire.
Esempio di item relativi a questo strumento sono riportati nella Tab. 7.
Tab. 7 – Esempi di item delle Scale del Parenting Stress Index – Short Form
Scala
Parental Distress
Item
1. Spesso ho la sensazione di non riuscire a far fronte molto bene alle
situazioni
2. Per venire incontro ai bisogni di mio/a figlio/a mi accorgo di sacrificare la mia vita più di quanto mi aspettassi
Parent-Children Dysfunctional
Interaction
15. Mio/a figlio/a mi sorride molto meno di quanto mi aspettassi
16. Quando faccio le cose per mio/a figlio/a ho la sensazione che i miei
sforzi non siano molto appressati
Difficult Child
25. Mio/a figlio/a sembra che pianga o si agiti molto più della maggioranza dei bambini
26. Mio/a figlio/a di solito si sveglia di cattivo umore
Oltre a queste tre scale, ne è stata inserita una ulteriore, con la di controllo, ossia la
scala Risposta Difensiva (DIF) che serve a valutare la tendenza del soggetto a rispondere
in modo da dare una più favorevole immagine di se, minimizzando sia i problemi che lo
stress.
Dyadic Adjustment Scale (DAS; Adattamento italiano di Gentili et al., 2002).
Questo strumento, ideato da Spanier nel 1976 e tarato in Italia da Gentili e collaboratori, è un questionario che misura l’adattamento di coppia, ossia l’equilibrio che esiste
tra i due appartenenti alla coppia coniugale. Anche in questo caso, oltre ad una misura
complessiva dell’Adattamento Diadico, lo strumento fornisce indicazioni su 4 sottoscale:
1. Consenso Diadico (CD). Valuta il grado di accordo e disaccordo dei partner su argomenti come finanze, tempo libero, amici, organizzazione della vita domestica e del
tempo trascorso insieme. Negli item di questa scala, il soggetto deve esprimere una
valutazione su scala likert, sul grado di accordo/disaccordo relativamente a questioni
quale: la gestione delle finanze (item 1), il modo di agire con i genitori e i suoceri (item
9), le decisioni rispetto alla carriera (item 15).
2. Soddisfazione Diadica (SD). Valuta la felicità o l’infelicità che le coppie percepiscono
della loro relazione, prendendo in considerazione la frequenza dei litigi, il piacere o
meno dello stare insieme, ecc. Anche in questo caso, il soggetto deve esprimere la sua
171
preferenza su una scala likert a domande quali: Quanto spesso lei parla o ha preso in
considerazione il divorzio, la separazione o il porre fine alla sua relazione? (item 16),
Quanto spesso lei o il suo compagno/a ve ne andate di casa dopo un litigio? (item 17).
3. Espressione Affettiva (EA). Valuta come la coppia esprime i propri sentimenti, l’amore
e la sessualità. La valutazione del soggetto, sempre espressa su scala likert, questa volta
riguarda aspetti strettamente legati alla vita affettiva e sessuale come le dimostrazioni
d’affetto (item 4) e i rapporti sessuali (item 6).
4. Coesione Diadica (CoD). Valuta la quantità di tempo in cui i partner condividono attività piacevoli o il lavorare insieme su obiettivi comuni. La valutazione su scala likert,
questa volta riguarda aspetti come: avere uno stimolante scambio di idee (item 25),
Ridere insieme (item 26).
Analisi delle correlazioni
Analizzando la matrice di correlazioni possiamo vedere diversi dati significativi.
PSI-SF
PD
P-CDI
DC
DIF
TOT
DAS
Tab. 8 – Matrice delle Correlazioni
PSI-SF
Età Sesso ASQ
PD P-CDI DC
Età
1
,343** ,078 -,011 ,065 ,034
Sesso
,343**
1
,007 ,097 ,118 ,212**
ASQ
,078 ,007
1
-,322** -,062 -,042
-,011
,065
,034
,033
,034
CD -,082
SD -,026
EA -,051
CoD -,160*
TOT -,097
DIF TOT
,033 ,034
,126 ,177*
-,306** -,171*
CD
-,082
-,046
,159*
SD
-,026
,011
,077
DAS
EA
-,051
-,013
,069
CoD
-,160*
,030
-,002
TOT
-,097
-,014
,120
,097 -,322**
,118 -,062
,212** -,042
,126 -,306**
,177* -,171*
1
,467**
,453**
,940**
,772**
,467**
1
,677**
,466**
,843**
,453**
,677**
1
,434**
,871**
,940**
,466**
,434**
1
,739**
,772**
,843**
,871**
,739**
1
-,309**
-,158*
-,156
-,348**
-,250**
-,166*
-,038
-,063
-,194*
-,109
-,405**
-,219**
-,250**
-,425**
-,353**
-,235**
-,183*
-,161*
-,196*
-,231**
-,345**
-,177*
-,185*
-,369**
-,285**
-,046
,011
-,013
,030
-,014
-,309**
-,166*
-,405**
-,235**
-,345**
-,158*
-,038
-,219**
-,183*
-,177*
-,156
-,063
-,250**
-,161*
-,185*
-,348**
-,194*
-,425**
-,196*
-,369**
-,250**
-,109
-,353**
-,231**
-,285**
1
,505**
,507**
,478**
,889**
,505**
1
,385**
,360**
,762**
,507**
,385**
1
,394**
,669**
,478**
,360**
,394**
1
,677**
,889**
,762**
,669**
,677**
1
,159*
,077
,069
-,002
,120
Legenda:
**: significativo per p < .01. / *: significativo per p < .05.
ASQ: Attachment Style Questionnaire (Scala Fiducia)
PSI-SF: Parenting Stress Index-Short Form
PD: Parental Distress (stress genitoriale) / P-CDI: Parent-Children Dysfunctional Interaction (Interazione Disfunzionale Genitore-Bambino) / DC: Difficult Child (bambino difficile) / DIF: Difese /
TOT: Stress Totale
DAS: Dyadic Adjustment Scale
CD: Consenso Diadico / SD: Soddisfazione Diadica / EA: Espressione Affettiva / TOT: Stress Totale
172
Iniziando dalle variabili anagrafiche, possiamo notare subito una forte correlazione
positiva tra il Sesso e l’Età dei partecipanti, evidenziando un età media più elevata nei padri rispetto alle madri. Una correlazione negativa di una certa significatività si evidenzia,
inoltre, tra l’Età e la scala CoD – Coesione Diadica del DAS.
Per quanto riguarda la scala “Fiducia” dell’ASQ, si rileva una moderata correlazione
con la Scala Totale del PSI-SF ma, se si considerano le sotto-scale, si può vedere come vi
sia una forte correlazione tra la “Fiducia” e le scale PD – Parental Distress (stress genitoriale)
e DIF – Difese.
Le correlazioni più forti, tuttavia, si hanno tra le scale del DAS e le scale del PSI-SF.
I punteggi totali dei due strumenti mostrano, infatti, una forte correlazione negativa.
Se si considerano anche le sottoscale, inoltre, il punteggio totale al PSI-SF correla negativamente in maniera molto forte con le scale EA – Espressione Affettiva, CD – Consenso
Diadico e CoD – Coesione Diadica del DAS.
Se si considera invece il punteggio totale del DAS, le correlazioni più forti sono tra le
scale PD – Parental Distress (stress genitoriale) e DIF – Difese. Correlazioni meno significative si hanno, invece, con le scale P-CDI - Parent-Children Dysfunctional Interaction e
DC – Difficult Children del PSI-SF.
Analisi della predittività
Sulla base delle correlazioni evidenziate dalla Tab. 1, si è deciso di impostare un verifica della predittività, per mezzo dell’analisi della Regressione Lineare, impostando come
Variabile Indipendente il punteggio totale al DAS e come Variabile Dipendente il punteggio totale al PSI-SF. Il presupposto teorico di questa scelta riguarda il fatto che la coppia coniugale nasce prima della triade familiare potendo porsi, in questo modo, sia come
fattore protettivo che come fattore precipitante dello stress da accudimento.
Tab.9 – Regressione Lineare tra l’Adattamento Diadico (DAS) come Variabile
Indipendente e lo Stress Genitoriale (PSI-SF) come Variabile Dipendente.
Valori della Regressione
R2
R2Corr
F
p
dfmodello
dferrore
,081
,075
13,750
<,0001
1
156
B
-,395
Errore B
,106
Stime dei Parametri
β
T
-,285
-3,708
p
<,0001
Oltre a questi punteggi si è impostata anche un’analisi della predittività tra la scala
“Fiducia” dell’ASQ come Variabile Indipendente e i punteggi alle scale PD – Parental
Distress e DIF – Difese del PSI-SF.
173
Tab.10 – Regressione Lineare tra la scala “Fiducia” dell’ASQ come Variabile
Indipendente e il Parental Distress (Scala PD del PSI-SF) come Variabile
Dipendente.
Valori della Regressione
R2
R2Corr
F
p
dfmodello
dferrore
,104
,098
18,056
<,0001
1
156
B
-,485
Errore B
,114
Stime dei Parametri
β
T
-,322
-4,249
p
<,0001
Tab. 11 – Regressione Lineare tra la scala “Fiducia” dell’ASQ come Variabile
Indipendente e la Scala Difese (DIF) del PSI-SF come Variabile Dipendente.
Valori della Regressione
R2
R2Corr
F
p
dfmodello
dferrore
,094
,088
16,097
<,0001
1
156
B
-,491
Errore B
,122
Stime dei Parametri
β
T
-,306
-4,012
p
<,0001
Per quanto riguarda i dati anagrafici si è impostata un’analisi della predittività della
Scala DC del PSI-SF rispetto all’età, che hanno mostrato una forte correlazione negativa.
Tab. 12 – Regressione Lineare tra l’Età come Variabile Indipendente e la Scala
Difficult Child (DC) del PSI-SF come Variabile Dipendente.
Valori della Regressione
R2
R2Corr
F
p
dfmodello
dferrore
,001
-,005
0,181
,671
1
156
B
,058
Errore B
,136
Stime dei Parametri
β
T
,034
,426
p
,671
Dai questi dati emerge, chiaramente, come l’Adattamento Diadico è molto predittivo
di bassi livelli di stress genitoriale mentre un buon livello di Fiducia, pur non essendo
predittivo di bassi livelli globali di stress da accudimento, risulta tuttavia molto predittivo
dei bassi livelli di stress specificamente presenti nella figura genitoriale e di bassi livelli
di difese, presentando la situazione dell’accudimento in connotazioni più rosee di quello
che in realtà sia.
Infine, l’età non risulta predittiva della percezione del bambino come difficile.
174
Conclusioni
Relativamente alla variabile principale di questo lavoro, ossia la Fiducia, considerata
la variabile principale per la valutazione di un Attaccamento Sicuro, si può notare come
questa sia in correlazione con solo due sub-scale del PSI, ossia la scala Stress Genitoriale
e la scala Difese. Queste correlazioni, risultate molto forti anche a livello di predittività
dei risultati, indicano che un soggetto che ha maggiore fiducia in se stesso tenderà anche
a percepire un minor livello di stress nelle attività specifiche di caregiving e, soprattutto,
tenderà a rispondere ad essere più sincero nella valutazione delle problematiche dell’accudimento, evitando di presentare un’immagine di se come genitore difensivamente migliore.
Molto stretto ed importante, inoltre, è risultato il legame tra lo Stress Totale e l’Adattamento Diadico che si pone come fattore protettivo nei confronti del primo. La
correlazione negativa, infatti, sta ad indicare che le persone che percepiscono un maggior
equilibrio nella coppia e una maggiore affinità, tendono anche a vivere il ruolo del genitore e il peso che ne deriva, come meno stressante e più leggero da sopportare. Come già
esposto nelle considerazioni teoriche e nelle premesse a questo lavoro, quindi, il rapporto
di coppia è un aspetto fondamentale nell’accudimento del figlio, in quanto fornisce coerenza educativa tra i membri della diade genitoriale e sostegno reciproco nelle situazioni
stressanti.
Un ultimo aspetto rilevante riguarda la correlazione negativa che intercorre tra il
sesso e la percezione del bambino come difficile da gestire (Scala DC del PSI-SF). Questo
tipo di correlazione sta ad indicare come le mamme tendano ad avere una percezione
maggiormente negativa del bambino stesso, da un punto di vista di temperamento e
manifestazioni comportamentali. La forza della correlazione, tuttavia, ad un’analisi della
predittività, non è risultata significativa.
175
c) Capacità relazionali e strategie di coping in un
campione di studenti di scuole medie nell’aquilano
Fabio Rossi
Premesse
Il presente lavoro si inserisce all’interno del progetto GenerAzioni, un progetto promosso e coordinato dall’Azienda Sanitaria Locale di Avezzano-Sulmona-L’Aquila, che si
pone come obiettivo quello di attivare e realizzare interventi preventivi a carattere educativo, di sostegno psicologico e sociale, specifici e diretti a bambini e adolescenti. Questo
lavoro di ricerca, in particolare, ha avuto come destinatari bambini di età compresa tra i
10 e i 15 anni frequentanti alcune scuole della provincia di L’Aquila. Lo scopo di questo
lavoro è stato quello di andare ad esplorare le qualità delle relazioni dei bambini di questa
specifica fascia di età e le loro capacità di risoluzione di problematiche sociali tipiche della
loro fascia d’età, in modo da impostare modalità di intervento consone e mirate.
Campione
Il campione di questo studio preliminare fa parte del Progetto GenerAzioni che coinvolge gli alunni di 4 scuole medie del comune di L’Aquila e del comune di San Demetrio.
Il numero di soggetti coinvolti nelle scuole è così distribuito:
Scuola
Scuola Media Giosuè Carducci (L’Aquila)
Scuola Media Giuseppe Mazzini (L’Aquila)
Scuola Media Teofilo Patini (L’Aquila)
Scuola Media Francesco Rossi (San Demetrio)
Totale
n°
66
84
112
98
360
Dal campione iniziale costituito da questi 360 soggetti sono stati tolti 83 soggetti che
non avevano compilato completamente il pacchetto di questionari.
Il campione analizzato è quindi così formato:
- Distribuzione per Sesso ed Età
Sesso
Maschi (%)
174 (63)
Femmine (%)
103 (37)
Media
12.45
Età
Dev. St.
.865
Range
10 - 15
177
- Distribuzione per Scuole
G. Carducci
N° (%)
76 (27)
G. Mazzini
N° (%)
71 (26)
T. Patini
N° (%)
86 (31)
F. Rossi
N° (%)
44 (16)
- Distribuzione per Variabili
Media
Dev.St.
Co_M
39.09
80.11
Co_F
33.65
.48
TRI
Mad.
Pad.
22.83
27.70
.87
11.10
Ins.
44.22
12.13
Tot.
24.40
8.47
Io di fronte alle situazioni
AVS
AA
RSS
EE
5.01
4.82
6.05
4.13
9.29
14.87
11.20
2.42
Legenda:
Io di fronte alle situazioni
- AVS: Analisi e valutazione della situazione
- AA: Autosvalutazione e Autocritica
- RSS: Ricerca Supporto Sociale
- EE: Evasione ed Evitamento
TRI: Test per le Relazioni Interpersonali
- Co_M: Coetanei
- Co_F: Coetanee
- Mad.: Madre
- Pad.: Padre
- Ins.: Insegnanti
- Tot.: Punteggio Totale
Strumenti utilizzati
I soggetti che hanno composto il campione di studio, sono stati valutati attraverso
la somministrazione dei seguenti questionari contenuti in un “libretto” consegnato ai
bambini durante i laboratori e compilato a casa.
Test per le Relazioni Interpersonali (TRI – Bracken B. A., 2003).
Il primo strumento che compone questo libretto è un questionario che serve alla
valutazione della qualità delle relazioni interpersonali nei principali ambiti sociali del
bambino. È costituito da 5 Scale, ognuna delle quali composta da 35 item con punteggi
da esprimere su scala likert a 4 punti (AV: Assolutamente Vero; V: Vero; NV: Non Vero;
NAV: Non è Assolutamente Vero). Le 5 Scale indagano le relazioni con: i Coetanei, le
Coetanee, la Madre, il Padre e gli Insegnanti. Oltre a queste scale, lo strumento restituisce
il punteggio totale per le abilità relazionali in generale. Di seguito un esempio di item
del TRI:
AV
1. Sono veramente compreso da..
178
V
Madre
NV
NAV
AV
V
Padre
NV
NAV
Io di fronte alle situazioni (I.S.FO.L. – Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale
dei Lavoratori).
Il secondo strumento è un questionario elaborato dall’I.S.FO.L. che serve alla valutazione delle modalità di coping che il bambino attua nelle situazioni sociali. Le domande di questo testo sono costituite da situazioni di difficoltà sociale cui il bambino deve
rispondere, per ogni possibile azione, con un punteggio in una scala likert a 4 punti. È
costituito da 4 scale che indagano 4 modalità di coping:
- Analisi e Valutazione della Situazione (AVS), che indica la tendenza ad agire con
impegno e motivazione per affrontare le difficoltà, a comprendere e definire la situazione
prendendo direttamente in carico la soluzione del problema;
- Autosvalutazione e Autocritica (AA), che indica la tendenza a non affrontare situazioni difficili, esprimendo sentimenti di inadeguatezza o incapacità e sentendo di non
possedere gli strumenti adeguati per fronteggiare la situazione;
- Ricerca di Supporto Sociale (RSS), indica la tendenza a condividere il problema con
altri, amici o persone di fiducia, per cercare una soluzione o per avere un sostegno emotivo;
- Evasione ed Evitamento (EE), indica la tendenza a fuggire dalla situazione attraverso
comportamenti di distrazione o consolazione, o attraverso azioni di netto rifiuto della
situazione stessa.
Ecco di seguito un esempio di item dello strumento:
F. I tuoi migliori amici non si sopportano a vicenda…
Cosa faresti?
15. Chiederei consiglio ad un/una amico/a su come comportarmi
16. Mi sentirei incapace di gestire il conflitto
1
1
2
2
3
3
4
4
Procedure statistiche
L’analisi dei dati provenienti da questi strumenti è stata effettuata con il software
statistico IBM SPSS Statistics 19. Il primo passo è stato quello di compiere un’analisi
delle correlazioni dei punteggi ottenuti nelle diverse scale dei questionari. In base ai dati
ottenuti in questo primo passo è stata impostata un analisi della predittività attraverso
l’analisi di una correlazione lineare.
179
Analisi delle correlazioni
Di seguito viene presentata la matrice di correlazione dei dati ottenuti:
Sesso Età Co_M Co_F Mad.
Sesso
1
Età
,307
1
Co_M -,542 -,222
1
Co_F
,626 -,074 -,225
1
Mad.
,098 ,119 ,014 ,191
1
Pad.
-,454 -,139 ,320 -,122 ,481
Ins
-,404 -,466 ,231 -,035 ,391
Tot.
-,272 -,411 ,434 ,271 ,602
AVS
-,041 ,031 -,130 -,150 -,227
AA
-,013 -,092 ,020 ,044 ,045
RRS
,015 -,026 -,149 -,080 ,019
EE
-,114 -,069 ,089 -,034 ,324
Legenda:
in grassetto: correlazioni significative per p <.001
in corsivo: correlazioni significative per p < .005
Pad.
Ins
Tot.
AVS
AA
RRS
EE
1
,647
,751
-,147
,177
-,082
,278
,839
-,097
,183
,025
,301
1
-,221
,175
-,070
,307
1
,116
,512
-,012
1
,182
,326
1
,313
1
Iniziando dal rapporto tra le variabili anagrafiche (Sesso ed Età) e le variabili in esame,
possiamo vedere una forte correlazione negativa tra il sesso e il punteggio totale nelle
relazioni interpersonali. Per quanto riguarda le sotto-scale, invece, si vede una forte correlazione tra il sesso del compilatore e il rapporto con i Coetanei, la cui direzione dipende
dalla prima variabile. Questa relazione, infatti, è positiva nei confronti del rapporto con le
coetanee e negativa con i coetanei. Nei confronti delle figure adulte, invece, c’è una forte
correlazione negativa nei confronti del rapporto con il Padre e con gli Insegnanti, la relazione con la figura materna, invece, non è significativa così come non sono significative le
correlazioni con le scale del questionario “Io di fronte alle situazioni”.
Rispetto all’età, possiamo vedere una correlazione negativa molto forte con il punteggio complessivo per le Relazioni Interpersonali mentre, per quanto riguarda le sotto-scale
del TRI, le correlazioni più significative, entrambe negative, ci sono con il rapporto con
gli Insegnanti e il rapporto con i Coetanei maschi. Correlazioni meno forti ma comunque
significative, ci sono tra l’età e la relazione con la Madre (correlazione positiva) e con il
Padre (correlazione negativa). Anche in questo caso non ci sono correlazioni con le scale
del questionario “Io di fronte alle situazioni”.
Rispetto alle correlazioni tra le scale dei due strumenti, possiamo vedere come il
punteggio globale del test TRI ha una correlazione forte e negativa con la scala Analisi e Valutazione della Situazione (AVS) ed una correlazione forte e positiva con la scala
Autocolpevolizzazione e Autocritica (AA) e la scala Evasione ed Evitamento (EE). Non c’è
correlazione con la scala di Ricerca Supporto Sociale (RRS). Se si analizzano le correlazioni
180
tra le scale del questionario “Io di fronte alle situazioni” e le sotto-scale del TRI, possiamo
vedere come nessuna delle scale del primo strumento correla in maniera significativa con
le sottoscale del TRI che riguardano il rapporto con i Coetanei, sia maschi che femmine.
Diversa è la questione riguardo, invece, le relazioni con i genitori e con gli insegnanti.
La relazione con la Madre correla in maniera forte e negativa con le capacità di Analisi e
Valutazione della Situazione e in maniera positiva con la scala per l’Evasione ed Evitamento. La relazione con il Padre e la relazione con gli Insegnanti, invece, correlano anch’esse
positivamente ed in maniera forte con la scala Evasione ed Evitamento e con la scala Autocolpevolizzazione ed Autocritica.
Analisi della Predittività
Sulla base dei dati ottenuti nell’analisi della correlazione si è proceduto con l’analisi
della predittività. Ci si è soffermati sulla relazione tra i punteggi ottenuti ai due questionari in quanto sono le variabili di interesse maggiore per questo studio. Si è proceduto
quindi a valutare quanto è possibile prevedere un determinato stile di coping sociale, sulla
base della qualità delle relazioni instaurate con le principali figure significative. I risultati
ottenuti sono riportati a seconda delle diverse scale del questionario “Io di fronte alle
situazioni” impostate come Variabili Dipendenti.
- Variabile Dipendente: Analisi e Valutazione della Situazione.
Variabile Indipendente: Relazione con la Madre
Valori della Regressione
R 2 = 0.051
R 2corr.= 0.048
F = 14.836
Stime dei Parametri
Variabile
B
Relazione con la Madre
– 0.065
p < .0001
ß
– 0.227
dfmod. = 1
T
– 3.852
dferr = 274
p
< .0001
- Variabile Dipendente: Autosvalutazione e Autocritica.
Variabile Indipendente: Relazione con il Padre
Valori della Regressione
R 2 = 0.031
R 2corr.= 0.028
F = 8.879
Stime dei Parametri
Variabile
B
Relazione con il Padre
0.039
p < .003
ß
0.177
dfmod. = 1
T
2.980
dferr = 274
p
< .002
181
Variabile Indipendente: Relazione con gli Insegnanti
Valori della Regressione
R 2 = 0.034
R 2corr.= 0.030
F = 9.514
p < .002
Stime dei Parametri
ß
Variabile
B
Relazione con gli Insegnanti
0.025
0.183
dfmod. = 1
T
3.085
dferr = 274
p
< .002
- Variabile Dipendente: Evasione ed Evitamento.
Variabile Indipendente: Relazione con la Madre
Valori della Regressione
R 2 = 0.105
R 2corr.= 0.102
F = 32.245
Stime dei Parametri
Variabile
B
Relazione con la Madre
0.087
Variabile Indipendente: Relazione con il Padre
Valori della Regressione
R 2 = 0.077
R 2corr.= 0.074
F = 23.012
Stime dei Parametri
Variabile
B
Relazione con il Padre
0.068
p < .0001
ß
0.324
p < .0001
ß
0.278
Variabile Indipendente: Relazione con gli Insegnanti
Valori della Regressione
R 2 = 0.091
R 2corr.= 0.087
F = 27.339
p < .0001
Stime dei Parametri
ß
Variabile
B
Relazione con gli Insegnanti
0.046
0.301
dfmod. = 1
T
5.678
dfmod. = 1
T
4.797
dfmod. = 1
T
5.229
dferr = 274
p
< .0001
dferr = 274
p
< .0001
dferr = 274
p
< .0001
L’analisi della predittività attraverso l’impostazione di una correlazione lineare dimostra che tutte le variabili considerate, relative alle relazionali interpersonali, sono risultate
predittive delle strategie di coping sociale considerate.
Conclusioni
Relativamente alle variabili anagrafiche, la forte correlazione tra il Sesso e il punteggio
totale al TRI sembra deporre a favore di una maggiore capacità relazionale delle femmine
rispetto ai maschi. Le correlazioni con le sotto-scale relative ai rapporti con i coetanei,
inoltre, mostrano una maggiore affinità con i coetanei del proprio sesso.
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Per quanto riguarda l’Età, invece, la correlazione negativa forte con il punteggio totale al TRI sembra deporre a favore di una maggiore socialità nei bambini più piccoli del
campione rispetto a quelli più grandi.
Le correlazioni tra il punteggio globale del TRI e le scale del questionario “Io di
fronte alle situazioni” mostrano risultati molto interessanti in quanto ci indicano che nei
bambini del campione analizzato maggiori sono le capacità relazionali, minori sono le
capacità di Analizzare e Valutare la Situazione, mentre incrementa l’Autocolpevolizzazione
e Autocritica e l’Evasione ed Evitamento rispetto a una situazione percepita come problematica. La non correlazione con la scala per la Ricerca di Supporto Sociale, inoltre, indica
come queste capacità relazionali non vengano utilizzate per la soluzione di situazioni
problematiche. L’analisi di questi dati ci dice, in sostanza, che le capacità di relazionarsi
dei bambini di questo campione, non solo non sono utilizzate come strategie di coping,
ma anzi ostacolano una buona analisi e valutazione della situazione, portando il bambino
ad utilizzare strategie evitanti e ad autocolpevolizzarsi e autocriticarsi.
Se si analizzano, tuttavia, le correlazioni tra le scale del questionario “Io di fronte alle
situazioni” e le sotto-scale del TRI, la situazione diventa più raffinata. I dati ottenuti,
infatti, ci portano a pensare come le capacità di coping sociale del bambino non siano
influenzate in alcun modo dalle relazioni con i coetanei (né come ostacolo né come
supporto) mentre le relazioni con le figure significative sono di ostacolo all’attuazione
di buone capacità di coping sociale. In particolare, sembra che: una forte relazione con
le figure “autorevoli” sviluppi nel bambino la tendenza ad evitare la situazione attraverso
comportamenti distrattivi o consolatori; un forte rapporto con la figura materna è correlato con delle scarse capacità di analisi e valutazione della situazione; un forte rapporto
con il padre o con gli insegnanti correla con un alto livello di autocritica, esprimendo
inadeguatezza o incapacità.
Sulla base di questi risultati, è stato deciso di orientare il lavoro successivo con i ragazzi di queste classi nella direzione di uno sviluppo più funzionale delle abilità sociali e
di una consapevolezza maggiore delle proprie competenze e capacità e dei rapporti con le
figure adulte significative (genitori e insegnanti).
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Brevi note biografiche degli autori
Andrea Calderone
Pedagogista, cultore della materia di “Psicologia dinamica” e di “Teoria e tecnica della
dinamica di gruppo” presso l’Università degli Studi di L’Aquila, consigliere onorario della
Sezione per i minorenni della Corte d’Appello di L’Aquila, Presidente del “Centro per
lo Sviluppo e la Genitorialità O.N.L.U.S”, operatore teatrale. Attualmente lavora presso
l’U.O.C. Servizio per le Tossicodipendenze e Alcoldipendenze (Ser.T.) - ASL di L’Aquila,
in progetti del Dipartimento Politiche Antidroga, e come coordinatore pedagogico in un
progetto del Comune di L’Aquila per la sperimentazione di un doposcuola per ragazzi in
situazione di svantaggio socio-economico.
Alessandro Ciocca
Ha partecipato nel 2013 a corsi di formazione in eco-psicologia, danza ability e clownerie.
Attualmente counselor in training presso l’Aspic di L’Aquila, Scuola Superiore Europea
di Counseling, iscritto al 1° anno del master esperenziale triennale in “Gestal counseling
esperto tecnico socio-assistenziale, agevolatore della reazione d’aiuto”.
Monica Cocciolone
Laureata in Psicologia Applicata, Clinica e della Salute, indirizzo Psicologia Clinica e
Dinamica presso L’Università degli Studi di L’Aquila. Psicologa iscritta all’Ordine della
Regione Abruzzo. Attualmente psicoterapeuta in training presso il Centro Studi Psicosomatica, Scuola di Psicoterapia Gestalt Analitica individuale e di gruppo con sede a Roma,
cultrice della materia di “Psicologia dinamica” presso l’Università degli Studi di L’Aquila.
Fabrizio D’Alessio
Ha partecipato nel 2013 a corsi di formazione in eco-psicologia, danza ability e clownerie.
Attualmente counselor in training presso l’Aspic di L’Aquila, Scuola Superiore Europea
di Counseling, iscritto al 1° anno del master esperenziale triennale in “Gestal counseling
esperto tecnico socio-assistenziale, agevolatore della reazione d’aiuto”.
Gianpaolo Della Cagna
Psicologo specializzando in psicoterapia familiare e di coppia presso l’istituto di psicoterapia familiare di Roma. Dal 2011 lavora presso il Centro di Riferimento Regionale per
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l’Autismo. Attualmente è cultore della materia alla cattedra di Psicologia della tossicodipendenze, presso l’Università degli Studi di L’Aquila.
Arianna Di Cesare
Laureata nel 2007 in Sociologia, presso L’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
collabora al Progetto “Ri-Costruire”,del Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri presso il Ser.T di L’Aquila, da novembre 2013.
Enrica Fazio
Psicologa, specializzanda in psicoterapia della Gestalt presso la scuola di psicoterapia gestalt Kairos di Roma. Attualmente lavora presso il Centro per le famiglie “la Fonte” di
Subiaco.
Marilisa Marianella
Psicologa – Psicoterapeuta, nel profilo della dirigenza del Sistema Sanitario Nazionale.
Svolge attività didattica presso l’Università dell’Aquila, relativamente agli ambiti della
Psicologia della Salute, delle Tossicodipendenze e delle Attività Motorie-Agonistiche.
Formata nell’approccio psico-dinamico e bioenergetico-gestaltico, nonché Masteradvanced in P.N.L. ed esperta in Psicogenealogia e Costellazioni Sistemiche. Si occupa da più di
trent’anni di Dipendenze Patologiche nell’ambito dei servizi di prevenzione, cura e riabilitazione sia in qualità di responsabile di un Centro Diurno Terapeutico (ASL1 L’Aquila)
per la cura dei comportamenti dipendenti, sia in qualità di coordinatore dei programmi
di prevenzione orientati alla promozione di processi educativi transgenerazionali. Responsabile dei progetti finanziati dal DPA: “Generazioni” e “Radici e Ali”.
Margherita Paglino
Laureata presso la facoltà di Sociologia dell’Università di Roma “La Sapienza”, esperta
di Analisi multidimensionale dei dati, delle reti e dei testi con finalità di gestione dei
packages SPSS, SPAD, UCINET, LEXICO, TALTAC, è stata Consigliere Nazionale del
Mo.d.a.v.i. Onlus, Commissario Straordinario per la Regione Abruzzo dell’ AIG, oggi
ricopre la carica di Presidente dell’APS Socioplan. Oltre alla Ricerca Sociale, è specializzata in Sociologia delle Dipendenze, in Sociologia dei Mutamenti Sociali e in Sociologia
dell’Ambiente e del Territorio.
Luigi Pasquinelli
Laureato in Filosofia Teoretica e in Psicologia Clinica, specializzatosi in psicoterapia
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presso la scuola Aspic, autore di due libri, “Paura di volare” e “Non aver paura di ricominciare” editi da Sovera, ha al suo attivo centinaia di ore di volo con il deltaplano
senza motore e circa 1400 lanci con il paracadute. È l’ideatore dello Psicotraining VolereVolare che integra le esperienze di volo all’interno di percorsi di crescita personale.
Ha collaborato come docente presso l’Aspic e svolge privatamente la tradizionale attività
psicoterapeutica.
Valeria Pesce
Laureata in Psicologia del Lavoro, dell’Organizzazione e della Sicurezza Sociale presso
l’Università di L’Aquila; con una formazione in Costellazioni Ecosistemiche presso l’istituto Kàris di Roma; membro del direttivo dell’associazione di promozione sociale “SocioPlan”, attraverso cui collabora a progetti del Dipartimento Politiche Antidroga.
Fabio Rossi
Psicologo, psicodiagnosta, psicoterapeuta in formazione, CTU del Tribunale di L’Aquila, Presidente dell’Associazione Psicologi per i Popoli – Abruzzo, Cultore della Materia di Elementi di Psicologia Giuridica e di Statistica Sociale presso l’Università di
L’Aquila.
Mara Sacchetti
Laureata in Scienze Psicologiche Applicate, specializzanda in Psicologia Applicata Clinica
e della Salute. Ha maturato esperienze di tirocinio formativo presso il Centro Diurno
APTDH e il Centro Diurno Terapeutico per le Tossicodipendenze del Ser.T. di L’Aquila.
Attualmente lavora in progetti del Dipartimento Politiche Antidroga.
Lucia Signorelli
Psicologa e Psicoterapeuta in formazione in “Gestalt Analitica”, iscritta alla scuola di
specializzazione “Centro Studi Psicosomatica”, membro del “Centro per lo Sviluppo e
la Genitorialità O.N.L.U.S.”, tramite il quale collabora a diversi progetti promossi dal
Dipartimento Politiche Antidroga.
Mariachiara Sulpizio
Psicologa psicoterapeuta iscritta all’Ordine degli psicologi della Regione Abruzzo, specializzata in psicoterapia Gestalt Analitica individuale e di gruppo presso il Centro Studi
Psicosomatica (C.S.P.) di Roma; presidente della Cooperativa sociale IDeAli attiva nel
campo dei programmi di prevenzione e cura delle dipendenze patologiche, ente affida187
tario dall’anno 2007 del servizio del Centro Diurno Terapeutico del Ser.T. di L’Aquila
– della ASL 01 Avezzano Sulmona L’Aquila. Svolge attività come libero professionista.
Donatella Tomassi
Psicologa, specializzanda in Psicoterapia Cognitiva, perfezionata in Psicodiagnosi e
Psicologia Giuridica. Socio-fondatore del “Centro per lo Sviluppo e la Genitorialità
O.N.L.U.S.”, svolge attività laboratoriali rivolte a bambini ed adolescenti per lo sviluppo delle life skills e realizza interventi finalizzati all’implementazione delle competenze
genitoriali.
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