Fondamenti della Fraternità
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Fondamenti della Fraternità
1. Lo scopo della riflessione sui fondamenti della fraternità: una consapevolezza per il discernimento 2. Partiamo da un uso che “era perduto ed è stato ritrovato”: il termine fratello nella cristianità primitiva e nel Concilio Vaticano II 3. Gesù e le caratteristiche della sua cerchia 4. La fraternità, segno del Vangelo di Gesù 5. Fraternità e sacramento del matrimonio 6. La chance per la fraternità nel tempo della “morte del prossimo” 7. Gli spunti di Jean Vanier 2. “Fratelli”, un termine “perduto e ritrovato” Fino al III secolo il nome di fratello rimane ovvio nella patristica (Ratzinger, La fraternità cristiana, p. 52). Il battesimo è riconosciuto come il momento preciso in cui un individuo diventa fratello. Esso comunica, nella sua qualità di rinascita, l’accoglimento nella “fraternità” cristiana, come viene chiamata la comunità. Così Tertulliano (morto dopo il 230). La Chiesa è la madre in questa rinascita, come Dio è il padre. Una certa chiusura della comunità di fratelli all’esterno fu causata da una assimilazione (in un primo momento forse inconscia) alle comunità misteriche e alla disciplina dell’arcano, ma soprattutto la causa fu la situazione di persecuzione, che viceversa favorì nella maniera più decisa l’intima unione sino a formare della Chiesa delle origini una fraternità veramente viva. Insieme a questo movimento di chiusura troviamo però anche un movimento di apertura. Ignazio di Antiochia (morto nel 115-117) accentua con forza la fratellanza verso i persecutori: ad imitazione del Signore ingiustamente perseguitato i cristiani devono dimostrare, con la loro bontà, la loro fratellanza proprio verso gli oppressori. Pure Tertulliano distingue espressamente le due forme della fratellanza: l’una poggia sulla comune derivazione e abbraccia tutti gli uomini, l’altra poggia sulla comune conoscenza di Dio e sullo Spirito di santità bevuto insieme. Quale punto cardine della fraternità cristiana si riconosce dappertutto nella patristica fino al III secolo il pasto eucaristico fraterno. I cristiani si chiamano “fratelli e sorelle” attesta del resto anche lo scrittore romano Minucio Felice, del II secolo, nel suo Ottavio (9,2). 1 A partire dal III secolo dopo Cristo, il termine “fratello”, usato dai cristiani per denominarsi a vicenda, passa sempre più in secondo piano. Cipriano (morto nel 258) non adopera più il termine “fratello” per indicare il cristiano in generale, ma per indicare i vescovi e i chierici. Il termine “fratello” sopravviverà soltanto nelle comunità monastiche, nelle quali si concentra la vita autenticamente ecclesiale. Questa riduzione è rimasta in vigore fino al XX secolo. La riscoperta si deve al Concilio Vaticano II, che ha restituito al concetto di fraternità la sua importanza per la strutturazione della vita ecclesiale: «Primogenito tra molti fratelli, dopo la sua morte e risurrezione, (Cristo) ha istituito attraverso il dono del suo Spirito una nuova comunione fraterna fra tutti coloro che l’accolgono con la fede e la carità: essa si realizza nel suo corpo che è la chiesa. In questo corpo tutti, membri tra di loro, si debbono prestare servizi reciproci, secondo i doni diversi loro concessi» (GS 32). E al n. 26 di Lumen Gentium il Concilio afferma: «Questa Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime comunità locali dei fedeli, le quali, aderendo ai loro pastori, sono anch’esse chiamate chiese del Nuovo Testamento. Esse infatti sono, nella loro sede, il popolo nuovo chiamato da Dio nello Spirito Santo e in una totale pienezza (cfr. 1Tess 1,5). In esse con la predicazione del vangelo di Cristo vengono radunati i fedeli e si celebra il mistero della cena del Signore, affinché per mezzo della carne e del sangue del Signore sia strettamente unita tutta la fraternità del corpo». Il Concilio riabilita così un termine antico. Ora ci chiediamo quali siano le radici neotestamentarie dell’uso dei cristiani dei primi secoli di appellarsi tra loro come fratelli e di chiamare la Chiesa una fraternità. 3. Un uso risalente a Gesù stesso Potremmo dire che se anche Gesù non ha usato espressamente questo termine, tuttavia il modo con cui ha considerato i legami che l’univano alla cerchia dei suoi si lascia correttamente interpretare da esso. Gli studi recenti mostrano che risale a Gesù stesso la comprensione dei legami con i suoi nei termini di “familia Dei”. Accanto alla “sequela” in senso stretto (la cui analogia obiettivamente più 2 vicina è nella vocazione profetica, ad esempio Elia ed Eliseo 1Re 19,19-21; a proposito dei legami familiari, il chiamato dovrà porre quello con Gesù al di sopra di ogni dovere di pietà, cfr Mt 8,21 «lascia che i morti seppelliscano i loro morti», infrangendo il quarto comandamento, in maniera scandalosa) esisteva anche una seconda forma di rapporto positivo con Gesù: l’appartenenza a quella che viene chiamata “famiglia di Dio”. L’idea è attestata in molti complessi tradizionali in Marco, nonché nel materiale speciale lucano e matteano. La ritroviamo anche in Q e nel Vangelo di Tommaso. Pensiamo ad esempio al passo di Mc 3,20-21.31-35 sul quale torneremo poi nella versione di Matteo: Gesù prende le distanze dalla sua famiglia e lo fa ridefinendo il concetto di famiglia: «Chi fa la volontà di Dio, questi è mio fratello, sorella e madre». Fratelli sono per Gesù coloro che sono uniti a lui nella comune accettazione della volontà di Dio. Oppure pensiamo alla beatitudine della madre di Gesù in Lc 11,27s, che contiene un’idea analoga: è determinante non il rapporto naturale con la madre, quanto piuttosto «ascoltare la parola di Dio e custodirla». Ancora pensiamo alla ricompensa per la sequela in Mc 10,28-30 (28 Pietro allora gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29 Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, 30 che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna): chi ha abbandonato l’abitazione domestica insieme ai suoi familiari riceverà il centuplo. Troverà accoglienza presso i fratelli di fede nella nuova “familia Dei”. Ma anche qui, come sopra non troverà altri padri, perché l’unico Padre è quello celeste. Ancora pensiamo al monito di Mt 23,8-10 «8 Ma voi non fatevi chiamare "rabbì", perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. 9 E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. 10 E non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo»: questa pericope, se è formulata guardando alla comunità postpasquale, risale tuttavia alla concezione della “familia Dei” che possiamo presupporre già per il Gesù storico. Abbiamo anche alcuni testi di Luca (fonte Q): 17,3 «State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. 4 E se pecca sette volte al giorno contro di te e 3 sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai»; 14,26 «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». «La vasta diffusione di questa tradizione ne garantisce l’origine dal Gesù storico» (Theissen-Merz, Il Gesù storico, p. 275). 4. La fraternità, segno del Vangelo di Gesù Come incontriamo Gesù, vertice insuperabile della comunicazione di Dio agli uomini, comunione in lui di Dio e dell’uomo? Nella Chiesa, che appartiene all’evento stesso di Gesù (e delle sue relazioni!, la comunità dei suoi discepoli) e lo consegna in modo disteso nel tempo, a vantaggio di ogni uomo, per l’opera dello Spirito Santo, che è lo Spirito di Gesù e introduce alla pienezza di lui. Ora, questa consegna, questa originaria “tradizione”, che tramanda Gesù stesso, non si compie soltanto tramite l’annuncio della parola, ma comporta l’istituzione di una trama di relazioni stabili, attraverso le quali continua la comunione con Dio instaurata da Gesù e la partecipazione al Regno inaugurato dall’Incarnazione. La Chiesa esiste per far incontrare Gesù attraverso la Parola e per introdurre nelle sue relazioni (il corpo ecclesiale). Se pure è intessuta con la forma delle relazioni sociali via via instaurate dalla storia, e con le istituzioni religiose che legano al sacro, tuttavia, in obbedienza alla parola di Gesù, la Chiesa plasma in modo proprio queste forme e queste istituzioni, per adempiere il suo compito testimoniale. La relazione degli apostoli con Gesù, dalla quale deriva la forma oggettiva della fede della Chiesa, conosce un doppio polo: quello della vocazione a stare con Gesù e quello dell’essere inviati in missione. C’è una seconda polarità: lo stare con Gesù è in vista dell’imitazione di lui nelle figure della dedizione evangelica “senza condizioni” e della fraternità apostolica. In questo modo l’istituzione ecclesiale dà accesso a quella relazione con Gesù e permette perciò al credente di assumere il profilo specifico della fede ecclesiastica. Traduciamo: la Chiesa esiste non perché è bene che i credenti si uniscano, ma perché credere al Dio di Gesù comporta entrare in una relazione stabile con lui. In questo modo, e soltanto in questo modo, si entra in rapporto con l’Abba di Gesù. E si può perciò testimoniare questa fede soltanto offrendo al destinatario l’ingresso in queste relazioni stabili. 4 Dobbiamo adesso esplorare un po’ più da vicino questa relazione: in essa il Signore chiede la sua imitazione, l’imitazione del suo amore. Questo amore ha due forme: la dedizione che non pone condizioni (in questo senso “gratuita”) e la reciprocità fraterna. Se vogliamo essere cristiani non dobbiamo soltanto amare i poveri, gli stranieri, chi non ha nulla e non si aspetta nulla (la scena del giudizio finale di Matteo: “ad uno di questi miei fratelli più piccoli…”, cfr Mt 25,31-46), ma amarci tra di noi. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). L’amore di Gesù si rende presente sotto una doppia forma: il servizio senza condizioni, senza scambio, reso a chi è piccolo, straniero, nel bisogno, e la fraternità reciproca tra i membri della comunità. Queste due forme sono entrambi essenziali e devono essere a sostegno l’una dell’altra. 5. Fraternità e sacramento del matrimonio La questione è: come la parrocchia può essere ancora oggi uno strumento pastorale adatto per offrire relazioni stabili a chi viene chiamato alla sequela di Gesù? La risposta a questa domanda non può esimersi dal pensare al rapporto tra comunità cristiana e gruppi che vi appartengono. I gruppi li ho definiti come “sacramento” della fraternità, in quanto devono permettere di riempire di senso la realizzazione della fraternità apostolica. Ecco perché è naturale cercare delle forme attuativo-realizzative della fraternità con coloro che fanno parte della medesima comunità cristiana, così come non dobbiamo mai stancarci di cercare le forme che concretizzano l’amore come dedizione senza condizioni (lo abbiamo visto nel capitolo dedicato al servizio). C’è un contributo proprio della famiglia a questa fraternità? Sarei orientato a rispondere positivamente: sposati nel Signore, gli sposi cristiani cercano una fraternità che non li lega soltanto individualmente agli altri membri della comunità cristiana, ma lega tra loro come sorelle delle famiglie. Il Gruppo delle famiglie, all’interno di una parrocchia, cerca di realizzare questa verità. 6. Sentinelle della fraternità nel tempo della “morte del prossimo” (Luigi Zoja, La morte del prossimo, Einaudi) Dopo la morte di Dio di Nietzsche, è venuta l’ora della morte del prossimo. Sappiamo sempre meno chi è il nostro prossimo, lo vogliamo sempre meno. E’ quello che possiamo toccare, è quello vicino. Nell’era della tecnica e dei rapporti mediati, il vicino è sempre più lontano e il bisogno insopprimibile di vicinanza si riaffaccia in forme contorte, si traveste di forme paradossali o patologiche. Es. pgg. 7ss. In prospettiva sociale: pgg. 83ss. antinomia tra fraternità e libertà individuale. Ma la mancanza di vicinanza, il rifiuto della prossimità, conduce all’abolizione della sensibilità etica: pgg. 20-22. 5 7. Gli spunti di Jean Vanier (La comunità, luogo del perdono e della festa, Jaca Book, 1979) Comunità e conoscenza di sé (pag 659) L’amore del nemico (662) Il realismo della comunità (664) Le tensioni nella vita comunitaria (666) Solitudine e comunità (668) Domande per la riflessione 1. Quando parliamo di "fraternità" a cosa pensiamo? Qual è il modello che abbiamo in mente? Proviamo a dire il nostro “sogno” di fraternità cristiana, gli elementi che riteniamo più importanti perché si dia vera fraternità. Per esempio: «…Sogno una comunità in cui nessuno ha bisogno di portare una maschera, perché non teme che uno possa utilizzare qualcosa contro un altro… Sogno una comunità in cui nessuno ha bisogno di nascondere le proprie debolezze e simulare buone qualità, perché si sente accettato così com’è… Sogno una comunità in cui uno può permettersi di essere aperto davanti agli altri, senza essere punito per la sua franchezza…». …………………… …………………… 2. Pensiamo ora al Gruppo Famiglie: quali atteggiamenti fondamentali, quali condizioni necessarie devono esserci all’interno del Gruppo per poter dire che ci sono relazioni fraterne? E tra il Gruppo Famiglie e le altre famiglie della comunità cristiana? Tra il Gruppo Famiglie e gli altri soggetti della comunità cristiana, giovani e anziani? 3. Che cosa ritenete necessario che ogni singola famiglia del Gruppo faccia per prendersi cura della fraternità all’interno del Gruppo, della qualità delle relazioni che si intrecciano? 6 4. In che modo il Gruppo Famiglie ha risposto in questi anni alla critica che spesso si sente fare, che cioè il Gruppo Famiglie manca di accoglienza, di capacità di aprirsi ad altre famiglie della parrocchia, che le relazioni al suo interno sono segnate da poca fraternità? 5. Guardando complessivamente alla storia di questi anni di vita del Gruppo Famiglie, trovate che ci sia stata una crescita nella fraternità, o che al contrario ci sia stato un raffreddamento? Quali aspetti positivi e quali criticità riscontrate? «Una comunità non è tale che quando la maggioranza dei suoi membri sta facendo il passaggio da “la comunità per me” a “io per la comunità”, cioè quando il cuore di ognuno si sta aprendo ad ogni membro, senza escludere nessuno. E’ il passaggio dall’egoismo all’amore, dalla morte alla risurrezione: è la Pasqua, il passaggio del Signore, ma anche il passaggio da una terra di schiavitù a una terra promessa, quella della liberazione interiore. La comunità… è quel luogo in cui ciascuno, o piuttosto la maggioranza (bisogna essere realisti!), sta emergendo dalle tenebre dell’egocentrismo alla luce dell’amore vero… Perché un cuore faccia questo passo dall’egoismo all’amore, dalla “comunità per me” a “io per la comunità” e la comunità per Dio e per quelli che sono nel bisogno, occorrono tempo e molteplici purificazioni, delle morti costanti e nuove risurrezioni. Per amore bisogna incessantemente morire alle proprie idee, alle proprie suscettibilità, alle proprie comodità. La via dell’amore è tessuta di sacrifici» (da Jean Vanier, La comunità, luogo del perdono e della festa, Jaca Book, 1979) 7