Atti del convegno Storia e storie. Voci della Letteratura Mondiale in

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Atti del convegno Storia e storie. Voci della Letteratura Mondiale in
Atti del convegno Storia e storie. Voci della Letteratura Mondiale in Italia
Pavia, 12-13 ottobre 2012
organizzato da:
Cooperativa Sociale ONLUS Progetto Con-Tatto
via Porta Calcinara 11, 27100 Pavia (PV)
Servizi per l'immigrazione
Centro di Formazione (Accredit. MIUR D.M. 177/2000)
Registrazione Ministero del Lavoro
Enti per l'immigrazione-(n.A/495/2007/PV)
Tel./fax 0382 301183
[email protected]
www.progettocontatto.it
P.I. 01873030181
con il suo Centro Interculturale La Mongolfiera
con la collaborazione dell'Associazione Amici della Mongolfiera per LU.I.S.
Col patrocinio di:
Ministero dell'Istruzione
Fondazione ISMU di Milano
Comune di Pavia
Provincia di Pavia
Università degli studi di Pavia
E con il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Lombardia.
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PREMESSA
Questo volume offre gli Atti del Convegno Storia e storie: voci della
Letteratura Mondiale in Italia organizzato dalla Cooperativa Sociale
Progetto Con-Tatto e il suo Centro Interculturale “La Mongolfiera”,
all’interno delle azioni previste da quest’ultimo per l’anno 2012.
Svolto in collaborazione con il Comune di Pavia (Assessorato alla
Cultura), la Provincia di Pavia, l'ISMU di Milano e con il patrocinio
del Ministero dell'Istruzione e dell'Università degli Studi di Pavia e
grazie alla sensibilità e all'indispensabile sostegno economico della
Fondazione Banca del Monte di Lombardia, il Convegno ha voluto
creare un percorso tra letteratura e Storia con l'aiuto di scrittori
stranieri che vivono in Italia e studiosi del campo.
La storia dei migranti del XX/XXI secolo si muove da tutto il mondo verso le terre ricche a Nord-Ovest. Per l’Europa occidentale questa è una Storia Nuova e Diversa. Nuova nel senso che rinnova e diversa, perché ora in Europa viene gente da tutti i mondi del mondo
intero. I migranti odierni portano con sé, come forma vitale e culturale del loro migrare, una “eresia transculturale” che consiste in un
progetto di “mondo in comune” sono dunque soprattutto portatori
di futuro e di buona vita comunitaria.
In questa prospettiva critica e mondialista – che “pensa con il
mondo”, possiamo cominciare a scegliere ed esaminare le nostre
“Storie in comune”.
La Storia che studiamo e studiano i nostri studenti è eurocentrica,
ma i fatti della Storia possono essere visti da altre angolazioni. Attraverso la narrazione delle storie del mondo da parte di voci letterarie di scrittori testimoni di quei popoli che hanno subito la Storia
europea, la nostra storia in comune potrà essere conosciuta e valutata meglio, in un confronto transculturale pacifico, franco e solida3
le. Questa nuova visione della Storia e la possibilità di percorsi didattici sia storici che letterari e linguistici, possono dare specificità a
percorsi formativi nelle scuole. La scuola, infatti, è un luogo centrale
per la costruzione e condivisione di regole e può trasmettere conoscenze storiche, sociali, civiche che sono saperi indispensabili nella
formazione della cittadinanza. Il pluralismo culturale e la complessità del nostro tempo richiedono necessariamente una continua crescita professionale di tutto il personale della scuola. Diventa quindi
prioritario il tema della formazione, iniziale e in servizio.
Il Convegno, seguendo queste linee guida, ha avuto come relatori: Armando Gnisci, scrittore ed ex docente di letteratura comparata), WuMing2 (scrittore italiano), Antar Mohamed (scrittore italosomalo), Erminia Dell'Oro (scrittrice italo-eritrea), Gabriella Ghermandi (scrittrice italo-etiope), Amara Lakhous (scrittore italo-algerino), Kaha Mohamed Aden (scrittrice italo-somala), Ribka Sibhatu
(scrittrice italo-eritrea) e Mara Clementi (Fondazione ISMU,
Milano).
Proprio per meglio sviluppare le tematiche discusse e fornire
strumenti atti alla messa in pratica didattica, si sono tenuti degli approfondimenti tematici e di didattica, tenuti dal Prof. Armando Gnisci (La letteratura italiana della Migrazione e la Letteratura Mondiale), da Mara Clementi dell'ISMU di Milano (Un approccio interculturale alla letteratura) e dalla Prof.ssa Cristina Fraccaro (Le autobiografie linguistiche nella costruzione di sé).
Le giornate del Convegno sono state caratterizzate anche da
eventi che ne hanno fatto da contorno. La proiezione del film Mare
Chiuso dei registi Segre e Liberti. Il film, prodotto e distribuito da
Zalab con il sostegno di Open Society Fundations e la collaborazione di Jolefilm, raccoglie le testimonianze dei migranti vittime delle
operazioni di respingimento nel Mediterraneo: in seguito agli accordi tra Libia e Italia del 2009, le barche dei migranti intercettate
in acque internazionali nel Mediterraneo sono state sistematicamente ricondotte in territorio libico, dove non esisteva alcun diritto
di protezione e la polizia esercitava indisturbata varie forme di abusi
e di violenze. Molti dei respinti, circa 2000 persone, erano richie4
denti asilo. Dalle loro storie emergono le pesanti responsabilità dell'Italia, sancite da una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 23 febbraio 2012. Uscito pochi giorni dopo la sentenza,
Mare Chiuso ha ricevuto il patrocinio di Amnesty International Italia
e UNHCR.
Lo spettacolo teatrale Viaggi sospesi è stato scritto ed interpretato dal gruppo del Laboratorio Stranità del Teatro dell'Ortica, guidato da Anna Solaro, con la collaborazione del laboratorio "L'isola selvaggiastra" di Cairo Montenotte (SV). Alcuni degli interpreti sono
pazienti psichiatrici di Genova e della comunità della Val Bormida,
supportati da giovani studenti di Scienze della Formazione e del
Dams. Il tema è quello dei viaggi, del viaggio. I viaggiatori attendono in una stazione da cui i treni non partono più… Un viaggio sospeso. L'attesa si trasforma in parola, danza e poesia. L'attesa trasforma
la stazione in un incontro di sguardi e corpi in movimento.
Le giornate del Convegno sono state filmate dal regista Vincenzo
Cammarata che, oltre a riprendere e fotografare l'evento, ha creato
tre sezioni dello stesso (relatori, organizzatori e pubblico) successivamente inseriti sul canale Youtube visibili al seguente indirizzo:
http://www.youtube.com/user/ProgettoConTatto
Vi auguriamo una buona lettura.
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SALUTI DELLE AUTORITÀ
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Andrea Astolfi
Fondazione Banca del Monte di Lombardia
Prima di tutto ringrazio voi per quest'invito, perché mi sento quasi
un pochino di casa in questo senso, che la Fondazione Banca del
Monte di Lombardia che è una fondazione di origine bancaria, è una
fondazione che persegue tante finalità, ormai anni or sono, io non
mi ricordo neppure esattamente quanti anni or sono ma saranno
sette anni, sei anni, sposò, si innamorò di un'idea, un'idea di una persona alla quale io sono molto legato anche affettivamente, che è
Vanna Jahier, che mi è stato detto non può essere presente in questo momento per ragioni familiari, e che ci espose un problema molto semplice, molto semplice e al contempo drammatico, come tutti
voi potete immaginare, cioè il problema di come far sì che i bambini, si parlava allora essenzialmente di bambini e gli studenti delle
scuole – immigrati, stranieri, potessero non solo essere tollerati e
ammessi nelle nostre scuole ma potessero passo dopo passo vivere
le nostre scuole, vivere con gli altri bambini, partecipare, e non solo
questi bambini, ma anche le loro famiglie, e da allora grazie all'idea
di Vanna e alle persone che lavoravano con lei, si avviò questo programma, questo progetto che aveva all'inizio una valenza se posso
dire molto limitata, molto modesta, sperimentale: proviamo a lavorare insieme, essenzialmente a organizzare doposcuola, attività integrative, momenti di aggregazione che non fossero le solite cose
istituzionali ma che fossero veramente un'occasione in cui dei bambini potessero incominciare a imparare la nostra lingua come strumento essenziale per poter vivere.
Mi ricordo come uno dei temi che allora discutemmo a lungo fosse come l'indispensabilità di fare un passo ulteriore, di passare dai
bambini ai genitori, alle famiglie, affinché anche le famiglie potessero partecipare, e poi di cominciare a creare, a stabilizzare dei pro9
getti, dei programmi che potessero consentire di costruire mattone
dopo mattone un percorso che fosse sedimentato, che fosse costante, che fosse un punto di riferimento e che non fosse un'iniziativa ad
hoc.
Da allora sono passati sette anni, e noi siamo sempre stati vicini a
Con-Tatto – vorrei sottolineare anche quanto sia bella quest'espressione: contatto ma anche con tatto, con leggerezza, con grazia, con
attenzione, con sensibilità. Poi ci fu l'evoluzione, con la Mongolfiera
e la biblioteca, che raccoglie numerosissimi libri in tutte le lingue
straniere e ha coinvolto circa tremila bambini: quest'idea che loro
hanno creato e che noi semplicemente abbiamo sposato oggi è una
realtà estremamente importante. E un pochino per così dire copiata:
due anni fa degli insegnanti di Rozzano, paese alle porte di Milano e
non dei più facili sotto il profilo della gestione sociale quanto a problemi di immigrazione e presenze straniere, mi chiesero tutta la documentazione su Progetto Con-Tatto per avviare un percorso analogo.
Questo per dirvi come questo convegno rappresenta a nostro
giudizio un momento lungo un percorso che dev'essere ancora ulteriormente arricchito per passare dai semplici processi di integrazione a processi culturali diversi: io vorrei che man mano non si parlasse
nemmeno più d'integrazione, ma si parlasse di una nuova cultura, di
sedimentazione di certi valori che arricchiscono tutti e consentono a
tutti di far dei passi ulteriori. Passaggio che è evidente nel Manifesto transculturale del professor Gnisci, presentato nel 2011, che parla di una cosmovisione comunitaria in funzione di una salute generale tra le persone umane, e il cui senso è questo, di un percorso passo
dopo passo dai doposcuola all'interazione alle azioni ulteriori, fino
alla cosmovisione. E cosa vuol dire cosmovisione? Vuol dire non più
integrarsi ma assumere certi livelli diversi di conoscenza che comportano una solidarietà, comportano un approfondimento, comportano anche mettere in discussione quello di cui si parla, l'eurocentrismo classico, che oggi non può essere più.
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È proprio di questo percorso che tutti sappiamo difficilissimo e
complesso, di questa cosmovisione, che siamo qui a parlare in questo convegno, e pertanto non mi resta che ringraziarvi.
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Antonio Sacchi
Amministrazione provinciale di Pavia
Grazie, buongiorno a tutti, io porto il saluto dell'istituzione Provincia di Pavia, del Presidente Senatore Daniele Bosone e del Vicepresidente Assessore alla cultura Milena D'Imperio. Come dirigente
del Settore cultura della Provincia, detta questa premessa diciamo
di cortesia, vorrei fare una riflessione tutt'altro che formale sui contenuti e sulle prospettive che sono convinto emergeranno da questo
convegno. Sappiamo bene che a scuola la storia riveste o dovrebbe
rivestire un'importanza particolare ma, lo diceva il professor Astolfi,
a lungo la storia ci è stata insegnata secondo una visione eurocentrica e la storia di molti popoli extraeuropei ci è stata comunicata laddove si intersecava soprattutto con quella europea, denotando in
questo modo un approccio che vorrei definire di chiusura mentale –
e d'altro canto noi ci accontentiamo spesso, troppo spesso, di come
stanno le cose in questo Paese.
Questo convegno dà voce ad aspetti letterari, storici e a testimonianze che segnano un confine ben preciso per quanto riguarda coloro che hanno in fastidio la presenza delle comunità straniere nel
nostro Paese e coloro che invece guardano alla loro presenza come
a una ricchezza per il nostro Paese e per tutta l'Europa. Le esperienze letterarie che ci verranno raccontate provengono soprattutto
dall'Africa e in particolare dal Corno d'Africa, cioè da una zona dell'Africa che è stata oggetto della brutale aggressione del nostro
Paese in epoca di monarchia sabauda e ovviamente poi di dittatura
fascista; e ancora oggi purtroppo, a molti anni di distanza da quei
tempi, nonostante le reiterate affermazioni sui diritti dell'uomo e
del cittadino, troppo spesso persone – sottolineo questa parola, persone, non extracomunitari, non gente, non una qualunque di queste
espressioni generiche, ma persone, individui – con una propria legittima attesa di vita e con proprie speranze, venute qui in preda alla
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disperazione, sono viste da noi con diffidenza, con un malcelato distacco e soprattutto accade che ci si dimentichi – anche qui, vedete,
la storia ha la sua importanza – che una sorte simile toccò a noi molto molto tempo fa, quando eravamo un Paese disperato che cercava
altrove possibilità migliori di esistenza.
E allora ecco dove sta l'importanza di questo convegno: nel farsi
portavoce di un aspetto che personalmente considero fondamentale nella crescita e nella formazione soprattutto delle giovani generazioni, che è quello della memoria storica, e ci aiuta a guardare alla
storia in modo da farcene diventare diversamente testimoni e protagonisti, perché ci sia un futuro all'insegna della convivenza e del
confronto interculturale – magari, come diceva il professor Astolfi,
inventandoci anche nuove espressioni.
Allora mi piace concludere questo mio intervento con un ricordo
che ho da quando ero bambino di una vecchia idea di Léopold Sédar
Senghor, Presidente del Senegal, che si raccoglieva in questa semplicissima espressione: Eurafrica. Eurafrica, io credo che da quell'idea possa scaturire il pensiero e la prassi di una vera integrazione
euromediterranea, non un mare chiuso, ma uno specchio d'acqua su
cui far scivolare le rotte della comunicazione e soprattutto gli approdi dell'accoglienza e del rispetto. Perché è il rispetto il livello attraverso il quale noi interagiamo, e dobbiamo far sì che questo rispetto sia erga omnes: in questo senso da tempo penso che Pavia
potrebbe essere un ponte tra l'Europa, attraverso il Mediterraneo, e
l'Africa.
Grazie.
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Andrea Cerioli
Cooperativa Sociale Progetto Con-Tatto
Ringrazio Andrea Astolfi e Antonio Sacchi per aver portato i saluti
della Fondazione Banca del Monte di Lombardia e della Provincia di
Pavia e per essere subito entrati nel vivo di quello che sarà il Convegno.
Il concetto di interculturalità è oggi particolarmente attuale in
quanto si lega naturalmente a quelli di dialogo, di pace, di convivenza possibile e si contrappone ad altri concetti altrettanto attuali,
purtroppo, come scontro di civiltà, integralismo, guerre etniche,
razzismo, xenofobia. Nasce di qui la necessità e l’urgenza di porre al
centro dell’azione educativa il confronto tra punti di vista differenti,
non solo in termini etnoculturali e linguistici, ma anche in termini
politici, etici, antropologici, ideologici.
Le culture non sono organiche e chiuse, ma passano attraverso
processi di trasformazione e di adattamento: i concetti di “cultura” e
“identità” sono concetti in divenire, non dati una volta per tutte. Siamo nella fase in cui l´educazione interculturale diventa la normalità
dell'educazione nelle società globali e multiculturali come la nostra.
In questo senso, l’intercultura non è mai rinuncia, censura, negazione, ma al contrario è arricchimento di conoscenza e di saperi.
Allora diventa necessario ripensare anche la nostra storia e fare in
modo che la nostra visione eurocentrica lasci il passo ad una visione
che si creolizzi e mondializzi.
Qui abbiamo vari scrittori. WuMing 2 ed Antar che si incontrano
per scrivere e si meticciano; Ghermandi che incontriamo bambina
negli anni settanta e la lasciamo adulta nell'Etiopia di oggi e dove il
suo sguardo ci permette di unire l'Italia al suo Paese; Dell'Oro con
Elen e sua mamma che stanno fuggendo, lasciano il loro paese, l'Eritrea, la loro casa e tanti ricordi per realizzare il sogno di una nuova
vita. Questa è la loro storia, e quella di tutti coloro che sfidano ogni
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giorno il mare per raggiungere l'Italia e la pace. Kaha che narra il
conflitto che fa parte della sua vita, tra i due mondi cui appartiene e
che le appartengono: la Somalia dei ricordi e della guerra e l'Italia
dell'accoglienza e dei pregiudizi.
Questi scrittori, e tanti altri, come dice Gnisci, stanno mondializzando la letteratura e l'immaginario degli italiani. Ci aiutano a decolonizzarci e a poter pensare e vivere pensando con il mondo, un
mondo con un cammino comune.
Vi auguro buon Convegno.
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INTRODUZIONE
Armando Gnisci
Armando Gnisci è un critico letterario e docente universitario italiano. Professore
associato all'università La Sapienza di Roma, è considerato uno dei più importanti
studiosi di letteratura comparata in Italia e in Europa. È uno dei più influenti
studiosi della decolonizzazione e della transculturazione, riconosciuto e tradotto
in Cina, nel mondo arabo, in India, negli Stati Uniti, e soprattutto in Africa e nel
mondo caraibico e latinoamericano, dove spesso pubblica testi che, solo dopo o
mai, escono in italiano. Ha scritto oltre 40 libri e i suoi testi sono tradotti in 13
lingue. Nel 2010 si è dimesso volontariamente dall'università italiana. Il 16
maggio 2011 rilascia un Manifesto Transculturale, poi da lui rinominato
transmantra, nel quale introduce in Europa il pensiero della poetica prassi della
Transculturazione. Il Manifesto viene tradotto in diverse lingue. Ad esso
aderiscono umaniste e umanisti da diverse parti del mondo.
VOCI della letteratura mondiale in Italia. Storia e storie. La Storia è
al singolare femminile, è stata scritta dagli europei. La storia moderna è stata inventata dagli europei, perfino la storia mondiale che peraltro oggi in Italia non ha nessuna fortuna – sono pochissimi gli studiosi che si riferiscono all'inglese e nordamericana world history –
una storia che certe volte barcolla: non dimentichiamo che gli storici
del mondo, gli storici moderni, sono, soprattutto nell'Ottocento, gli
inglesi, che avevano come riferimento filosofico Hegel, e cioè l'idea
che la storia del mondo comincia nella modernità e la scriviamo noi.
Ecco allora che la storia del mondo è la storia dell'Inghilterra in Africa, dell'Inghilterra in America del Nord, dell'Inghilterra in Cina, in
India, cioè la presenza dell'europeo colto e soprattutto più forte degli altri, gli inglesi o il francese, e gli altri.
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Ora, questa storia è finita. Non in Italia, ma nel mondo si va crepando sempre di più. Mi piace ricordare un libro di saggi di un grande scrittore africano, Ngugi wa Thiong'o, che ha rinunciato al suo
nome e cognome all'inglese, James Ngugi, e ha ripreso la sua identità e ha iniziato addirittura a scrivere in kikuyu testi appartenenti a
una civiltà orale che non ha scrittura. Per le opinioni politiche
espresse da questi testi che portava in giro nei villaggi in Kenia
come base per la recitazione è stato incarcerato, e una volta scarcerato gli è toccato l'esilio, e da allora abita negli Stati Uniti. Spostare
il centro del mondo, dice: Moving the Center in inglese, nella traduzione italiana in Spostare il centro del mondo . Ma se si sta spostando il centro del mondo, è inevitabile che quella parte che sta seduta
su una sedia al centro del mondo si senta un po' a disagio, cominci a
barcollare, perché la sedia centrale, il sedile, il trono, non è più degli
europei, dell'uomo bianco. Una vera e propria rivoluzione contro la
storia moderna mondiale inventata insieme con il colonialismo dagli
europei che conquistarono il Nuovo Mondo e poi quello Antico e
poi nell'Ottocento si ricordarono che esisteva ancora quell'enorme
sasso nero dell'Africa davanti al Mediterraneo e che era ora di sfruttarlo. E l'hanno sfruttato, e ancora lo stanno sfruttando, e l'Africa è
ancora questa, quella sfruttata, dietro cui si muovono i grandi trafficanti di diamanti e la polizia ammazza chi protesta, ma ora le storie
almeno stanno venendo a galla. Le storie dei vari mondi, le storie
delle varie nazioni a cui fu tagliata la lingua: alcune di queste non
hanno più la lingua, appunto, e non sanno più come narrare se non
nella lingua dell'altro, in inglese, come gli australiani anche meticci,
gli australiani aborigeni, gli scrittori indiani e indiaans del nuovo
mondo anglofono parlano e scrivono in inglese, perché le loro lingue sono state mozzate per sempre. Ma ci sono scrittori anche che
continuano a scrivere nella propria lingua perché non se la sono fatta mozzare: i cinesi per esempio – tra tutti Mo Yan, Nobel per la letteratura 2012 –, che all'inizio del XX secolo hanno avuto un loro
proprio illuminismo che ha funzionato da modernizzazione della società, della mentalità, dell'industria, ma che ha anche spinto verso
un recupero delle proprie radici, confucianesimo e taoismo dall'al18
tra. Confucio insegna a vivere bene in una società enorme come
quella dell'impero cinese; Lao Tse col Tao propone il movimento, la
forma fluens, come legge che incarna il mondo – e il passare del
mondo, il passare in una forma fluens, è questa forma che si cambia
in continuazione, il Tao, ed è la via del mondo.
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STORIA E STORIE.
VOCI DELLA LETTERATURA MONDIALE IN ITALIA
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TIMIRA
Siamo tutti profughi,
senza fissa dimora nell’intrico del mondo.
Respinti alla frontiera da un esercito di parole,
cerchiamo una storia dove avere rifugio.
Dai primordi del fascismo
alla fine della Guerra Fredda,
settant’anni di storia visti con gli occhi
di un’italiana dalla pelle scura.
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Armando Gnisci
HO riconosciuto un tema comune tra me e gli autori di Timira: la
mondializzazione dell’immaginario delle letterature europee attraverso le opere, le menti, i destini e le lingue meticce, che migrano e
si traducono: omnia migrant, / omnia commutat natura et vertere
cogit, scrive Lucrezio, intendendo che tutte le cose vivono camminando e mutando insieme. Principio che Wu Ming2 e Antar hanno
esplicitamente dichiarato nel sottotitolo al loro lavoro: romanzo
meticcio.
Il mio amico Amara Lakhous dice di sé: «italianizzo l’arabo e arabizzo l’italiano»: è proprio per questa via che si compie l’atto alchemico del grande migrare contemporaneo da sud-est verso nord-ovest del pianeta. Non solo cambiando il mondo della nascita, ma anche spostando lingue-menti-destini, come fanno gli scrittori migranti e i loro pochi alleati italiani. La forma narrativa plurale e articolata dell’opera loro, completa e coinvolge la creatività di quella
solitaria dello scrittore migrante come anche dello scrittore non-migrante, e mette in gioco due e più migranze contro le solitudini. In
tal modo, la poetica creativa di Lakhous, e quella di Wu Ming2 e Antar, insieme con quella di Isabella-Timira che è il personaggio centrale e impulsivo del romanzo ma che funziona al tempo stesso anche come co-autrice, pur se defunta, si incontrano e si meticciano.
Quale è la forma di mondializzazione preventiva esposta in questo romanzo meticcio? Il Preludio, del 7 settembre 2011, incornicia
la narrazione e la trama di un immaginario naturalmente e giornalmente mondialista che avvisa il lettore che sta entrando nel suo
mondo della lettura, tanto quanto l’autore principale che si presenta
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e si costituisce come cittadino del mondo. L’effetto è che così il testo si presenta attraversando la soglia della porta del mondo di quel
giorno e anno del nostro tempo comune. In questa comunità mondana i primi sono intanto i morti, i mancanti. Come sempre mancano
i morti, in ogni tempo, ma come sempre restano tra noi diventando
forme vitali. L’incipienza mondana, che sta nella Lettera intermittente n.1 del 7 settembre 2011, dà inizio alla narrazione partendo
dalla somma delle cose importanti (per Wu Ming2) accadute nel
2011: i morti, appunto, Salinger, Monicelli e Osama Bin Laden, la
nascita della Repubblica Sud Sudan, l’inquinamento del Golfo del
Messico dal petrolio della Deepwater Horizon, il disastro doppiotriplo, il terremoto e lo tsunami oceanico e il guasto alla centrale
nucleare in Giappone, il trentenne norvegese che ammazza 77 persone, e così via. La fine del romanzo, nel Posludio, si presenta con la
Lettera intermittente n. 4 del 26 ottobre 2011, di nuovo con gli altri
defunti, Zanzotto e Gheddafi e altri eventi, locali questa volta, vicini
al mondo italo-somalo del romanzo e del suo destino.
Questo impacchettamento cronologico e mondano del libro mi
ha invitato a immaginare il mondo di questo testo come la traduzione romanzesca del mondo di tutti noi per noi, nei passaggi e nelle
intermittenze. Da questo orizzonte della mondanità nascono anche
l’aderenza e l’accesso al lettore a sentirsi benestante nella relazione
adeguata di una narrazione composita che si sgrana per epistole,
documenti e legami, e in un’epoca in cui non possiamo fare a meno
di percepirci anche come cittadini e profughi del mondo, apolidi
possibili. Questo evento ci porta più facilmente a pensare che il senso del mondo come mondo-tutto comune viene oggi proposto dalle
arti e dalle scienze, piuttosto che dalla politica e dai presidî del denaro, che tagliano invece la necessità del senso di vivere in comune
per tutti noi. Denaro e politica si propongono come i motori e i custodi della realtà e come tali vengono pubblicizzati dalla comunicazione di massa, che ne stabilisce l’autorità, ma non il senso.
Wu Ming2 e Antar traducono il mondo esplicitando la necessità
di un immaginario mondiale dal quale partire per narrare, un immaginario che riporti almeno i fatti importanti aggiornati da ognuno di
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noi nel tempo breve, per liberarci nell’orizzonte più largo dal vincolo della globalizzazione, comunicata continuamente dalla sorgente
mediatica che assegna il senso delle cose del mondo, nel tempo
stesso che elimina il loro senso. Wu-Ming2 esplicita il punto della
mondialità come il vero orizzonte normale rispetto alla normalità
assurda e pericolosa che chiamano “globalizzazione”, che subiamo
tutti e senza scampo in ogni gesto della nostra vita, e all’insaputa,
come nella trilogia di Matrix dei fratelli Wachowski e nella mondovisione della corruzione politica italiana.
Questo è il filo dell’orizzonte che ci viene suggerito dal romanzo
meticcio: quel filo dell’orizzonte che ha disegnato Édouard Glissant
per farci intendere quale sia il filo del mondo, in un Tout-Monde comune a tutti noi mortali terrestri tra i due secoli. E per noi letterati
italiani, questa proposta mondiale può rende più chiaro il vuoto di
senso espresso dalla nostra narrativa contemporanea. Qui, nel mondo di Timira, dal Golfo Persico al Caribe, si proclama la mondanità
come orizzonte necessario, come per Dante, quando dice nel De
Vulgari Eloquentia, «nos, autem cui mundus est patria, sicut piscibus
equor». E la trinità del romanzo meticcio conferma: «Siamo tutti
profughi senza fissa dimora nell’intrico del mondo. Respinti alla
frontiera da un esercito di parole, cerchiamo una storia dove avere
rifugio.»
Ci siamo serviti dell’orizzonte del poeta antillano, Édouard Glissant, morto anche lui nel 2011. WuMing2 ama Glissant: il romanzo
meticcio mette in opera e in chiaro un formidabile argomento della
poetica dello scrittore martinicano: l’esposizione odierna di ogni essere umano a tutte le lingue-nazioni e ad un immaginario diversamente ricomposto e mondiale. Questa è una po-etica che ci permette di conoscere meglio il nostro destino nella globalizzazione,
che altrimenti è solo subìta e domata dalla illusione totale offerta
dalla comunicazione di paccottiglia planetaria.
Il testo della “storia profuga” verso la fine, a data 26 ottobre
2011, ritorna a raccontare del mondo in quel giorno: dei nuovi 7 miliardi di componenti della specie umana, di morti illustri, il poeta
Giorgio Zanzotto, o l’elezione di un leghista a Governatore del Pie27
monte e la morte di Isabella-Timira, il 31 marzo del 2010, e allo stesso tempo il destino nuovo che muta il romanzo in italiano in un testo
di alleanza meticcia, a partire proprio da quel giorno. Antar, il figlio
dell’avventurosa Isabella italo-somala, propone allo scrittore italiano di finire di scrivere il romanzo insieme a lui.
Da allora hanno lavorato insieme, tutti e tre a comporre la trinità
autoriale. Al contempo hanno coinvolto me, il lettore a costituirsi
come lettore importante per il romanzo, imprevedibilmente ma fermamente, tanto che mi sono sentito e riconosciuto come un benestante nella trama intermittente della narrazione. Tanto questa coevoluzione mi ha coinvolto che mi è sembrato, addirittura, di avere
ricordo della mia presenza allo spargimento delle ceneri di IsabellaTimira. E ho capito che questo quasi-ricordo, discende da una fusione di orizzonti tra gli autori e me, e che essa derivi dal fatto che io
sono entrato già nel preludio del mondialismo aggiornato del romanzo, ma senza allora saperlo. La mutazione coinvolgente mi è apparsa man mano nella lettura e la lettura ha rifatto all’indietro e in
avanti la scoperta della co-operazione, realizzandola non come una
cooperazione allo scrivere ma come una costante sensazione personale, di un lettore tessuto nei buchi del pluriverso romanzo intermittente L’intermittenza è forse la porta dell’orizzonte del mondialismo, e la soglia d’accesso del lettore nella lettura. Questo è quanto
so di sapere, in sintesi.
Qualcuno potrebbe obiettare che questo arzigogolo sulla costituzione del lettore come partecipe e complice somiglia all’invenzione dell’acqua fredda, tutti lo dicono e confermano, lettori, critici e
teorici, nella modernità: da Montaigne a Umberto Eco. Io vado proponendo, la mia acqua fresca, dal punto di vista della mia storia di
lettura di Timira, nell’orizzonte dei romanzi da me letti lungo tutta
la vita e in particolare di quelli letti nei mesi estivi passati, insieme
ad altri testi non-romanzi. E poi, chi non ha lasciato romanzi a metà
o dopo 20 pagine, mai più ripresi, o ripresi dopo anni e ritrovati ancora repellenti? O al contrario, luminosi in ritardo. Si leggono perfino romanzi fino alla fine con fatica e per sola onestà professionale,
come mi capitò con Fame del norvegese Knut Hamsun, premio No28
bel del 1920, che trascinai lungo una lettura stitica e banale, ma fino
alla fine del testo.
Mondialità normale e costituzione del lettore come partecipe
dell’effetto-influsso del testo, sono le due porte-tracce della mia visione tratta anche dall’esperienza della lettura analitica e schedata
del romanzo Timira. Nei Titoli di coda gli autori stessi enfatizzano
l’importanza del lettore nel fare il testo. Assicuro gli autori che come
lettore mi sono trovato a mio agio nel leggere e nell’arrivare a sentirmi presente alla composizione anche se solo nella lettura. È raro
credo che gli autori conoscano da sé questo effetto, anche perché i
lettori parleranno di immedesimazione e empatia con le vicende dei
personaggi, ma qui si tratta di un’altra storia, della costituzione del
lettore come componente e amico del testo. Il lettore, mano a mano
leggendo si sente crescere come persona necessaria al leggere, e
costituito come lettore informato dei fatti, che viene riconosciuto
importante anche da parte degli autori. Un lettore amico, perché ha
un appuntamento ogni giorno-sera con Timira e gli altri, in un procedere intermittente per tutto il giorno con le vicissitudini della vita
e come desiderio-piacere di un luogo del riscatto di una giornata
qualsiasi.
Sposto il discorso ora su quella che ho chiamato anni fa, la Letteratura Italiana della Migrazione (LIM). Dopo 22 anni dalla nascita
della LIM l’impresa multiculturale-interculturale, creativa e meticcia
della operosità letteraria in Italia degli scrittori migranti è cresciuta
moltissimo e si rinnova imprevedibilmente con la Vostra opera a sei
mani. Valorosa, perché costituisce i suoi lettori come partecipanti
alla manutenzione del testo e all’effetto della sua apertura da tutti
lati, con l’aria che circola da ogni parte e che permette di fare tam
tam di promozione spontanea. Lettori-editori, piuttosto che lettoriautori. In più, Timira rinnova questa stessa storia breve di 22 anni di
meticciato. Stabilizza una cronaca attiva che ridefinisce anche la nostra compagnia letteraria di italiani insieme a non proprio-italiani.
Cosa c’entra la LIM, in tutto questo? Per me, Timira forma e riforma via facendo una agenzia comunitaria di lettura meticcia con un
balzo improvviso, che visita anche il campo della LIM. Che, a sua vol29
ta, viene ridisegnato da questo evento. Leggendo Timira mi è apparsa questa intuizione: che gli scrittori migranti in Italia non abbiano
fino ad ora costruito una proposta comunitaria alla civiltà italiana
decaduta e incerta, forse perché sono stati attirati soprattutto dal
possibile successo nel mercato della fama; una gorgone necessaria
sì, ma esiziale. Non dico che gli autori della LIM siano stati imposti
volutamente come un fenomeno esotico e curioso dall’editoria italiana, in modo virtuoso e non curioso perché scrivono in italiano, e
quindi proprio per noi. Credo che siano stati gli autori della LIM a
non aver fatto compagnia tra loro e con noi, sul modello della PoliKunst tedesco o su quello francese della prima parte del Novecento,
come il gruppo afro-americano della Négritude. Per l’assenza, forse,
della nostra istituzione letteraria accademica, quella dell’università,
ma anche dell’industria culturale di massa. Solo le scuole hanno
aperto le porte alla interculturalità, le entità locali dello stato e il
polo del volontariato, Ong Onlus, Associazioni culturali ecc. Ma,
proprio per questo, molti scrittori migranti si sono auto percepiti
come ghettizzati.
Alcuni tra loro hanno denunciato addirittura una persecutoria
esclusione dalle patrie lettere italiane e la ghettizzazione all’ingrosso in un feudo ristretto, quello marcato dalla fama di un fenomeno
etnico-esotico, con scrittori editi e letti da pochissimi critici e accademici, che li hanno valutati come riconoscibili a una condizione
sola e monotematica: scrivere sulla loro identità migratoria, insomma, di scrittori marchiati a vita come migranti, e basta. A questa lamentela, intermittente ma costante come una sirena, molti si sono
lasciati andare nel loro intimo e poi nella protesta. Gli indignati, dal
mio punto di vista, così facendo hanno elaborato e diffuso una confusa poetica vittimistica, pericolosa, perché rappresenta una rinuncia a costruire una qualsiasi poetica civile scambiandola con il diritto
di essere riconosciuti dal teatro letterario italiana non solo come migranti, ma come scrittori e basta. Credo che si tratti di un equivoco
tra loro, innanzitutto, che però rallenta e inquina costantemente la
loro identità plurale e condivisibile che non permette di riconoscersi
e di conoscerli altrimenti.
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Questa condizione porta gli scrittori della LIM nella contrattaddizione di elaborare e rendere pubblica più che altro la loro voglia di
essere riconosciuti come scrittori e basta o tout court. Una rivendicazione che mette capo a quella che più di un secolo fa si definiva in
Europa come “arte per l’arte”. Stranamente, questa rivendicazione,
non è stata praticata da parte degli scrittori della LIM che hanno
esordito e continuato a scrivere da scrittori per la vita, pubblicando
con editori importanti, e riscuotendo successo di critica e di lettori,
di traduzioni in altre lingue e di adattamenti cinematografici, come
Nicolai Lilin e Anila Ibrahimi da Einaudi, Amara Lakhous da E/O, Gabriella Ghermandi da Donzelli, Cristina Ali Farah da Frassinelli, Ribka
Sibhatu da Sinnos ecc. Ma anche da scrittori non arrivati al successo,
perché poeti. Faccio i nomi dei tre più valorosi poeti, per me: Gëzim
Hajdari, Barbara Pumhösel, Vera Lucia Oliveira, che, tra l’altro, continuano a scrivere in entrambe le loro due lingue: italiano e albanese, italiano e tedesco, italiano e porto-brasiliano, e conquistando un
profilo europeo. O altri meno fortunati e comunque valorosi, come
Christana de Caldas Brito e Julio Monteiro Martins, Bozidar Stanisic,
Arnold de Vos ecc., che pubblicano con piccoli editori. Alcuni di
loro, sono stati costretti ad emigrare dall’Italia, dopo essere emigrati
tra noi dalla Somalia e dall’Albania, ma poi riemigrati in USA, Garane Garane e Ron Kubati, e in Australia, come Ali Mumin Ahad. Isabella-Timira li avrebbe chiamati, “profughi” e “senza-casa”.
Altrettanta attenzione dobbiamo prestare alle ricerche e alle
operazioni transculturali e artistiche di alcuni altri scrittori migranti.
Penso alle ricerche sulla poesia orale, ormai in estinzione, in Eritrea
di Ribka Sibhatu, all’Atse Tewodros Project di Gabriella Ghermandi
per una transculturazione musicale tra musica etiope e il jazz europeo, all’impresa di Mia Lecomte e delle sue compagne che hanno
formato la “Compagnia delle Poete”, o alle ricerche sui dialetti del
territorio del Delta del Po e alle performance di Tahar Lamri. Mi accorgo che ho ricordato prevalentemente avventure transculturali di
scrittrici. Non a caso, però, perché la Banca dati BASILI da tre anni ci
dice che il numero delle scrittrici della LIMM ha superato quello de-
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gli scrittori. Fatto che invita a guardare meglio la sorprendete novità
della LIM.
Da tempo, però, ho intuito che gli scrittori migranti in Italia non
si accorgono che stanno mondializzando la letteratura e l’immaginario degli italiani. Ho fondato una collana con Sinnos proprio con
questa poetica, intitolandola Nuovo Immaginario Italiano. Ora non
c’è più.
A questo punto devo mettere in chiare lettere che non miro ad
imporre queste mie idee, perché ognuno fa un cammino della sua
vita, se ci riesce. E prende, sceglie e agisce nel mondo e nella qualità
del proprio tempo, ma anche nell’alleanza con altri. Altri che possono stare a Cuba, al Cairo o a Pechino, per giocare insieme “il gioco
del mondo”. Chiedo quindi agli scrittori della LIM: fate un altro sforzo insieme con noi, e riconosciamoci come scrittori MM, se vi va. Lasciando perdere l’illusione dello scrittore tout court. Giochiamo insieme questa partita: non più Tout-court contro Tout-Monde, insomma Sto con voi dalla parte di Glissant, e come italiano, dalla parte di Dante, che proclama, nel suo trattato sulla nostra lingua, De
Vulgari Eloquentia, di riconoscersi, nel 1303, nel noi mondani. Possiamo tradurre quel motto in «Noi, proprio noi che riconosciamo il
mondo come nostra patria, così come i pesci l’acqua», naturalmente.
Ho parlato della definizione della LIM, ma non ho spiegato quale
sia la poetica che essa traduce: Letteratura in Lingua letteraria Italiana degli scrittori Migranti a cavallo dei due secoli. Leggendo il
“romanzo meticcio” ho deciso finalmente di doppiare la M, LIMM.
Sentendomi felice della frase che il mio me ha spedito al mio io, parafrasando Glissant: Tout-court contro Tout-Monde. È accaduto
come una illuminazione, ora. Pur avendo riconosciuto dal 1991 la
mondialità alla scrittura migrante, ma non ho mai considerato utile
questo tratto per incrementare una sigla. Ora le cose per me vanno
a posto, cambiando la definizione della LIM in LIMM, Letteratura
Italiana della Migrazione Mondiale. Dove “mondiale” serve a definire e la Letteratura e la Migrazione, in unum, come è giusto che sia.
Anche se, temo, che agli scrittori tout court e ai loro scudieri non
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andrà bene nemmeno questa definizione. Forse ritengono che il
mondo sia stretto, quanto un ghetto, per loro.
Ho imparato molto in 22 anni di compagnia transculturale e di
co-evoluzione creativa e fraternale con gli scrittori della LIM. La nostra frequentazione mi ha fatto svoltare dall’Europa al Mondo, una
vera “opera al nero”, nel luogo più oscuro, le Facoltà di Lettere in
Italia, dove il Mondo non c’è. Da parte mia, ho imparato a vivere con
addosso il “fardello dell’uomo bianco” ora, nel XXI secolo. Ho compreso, infatti, che accanto alla decolonizzazione intima e politica
dei popoli colonizzati dagli europei, è richiesta ormai e necessariamente una decolonizzazione degli europei dall’essere coloni tout
court, a partire dalla mente. Già Fanon e Sartre, Aimé Césaire e Albert Memmi e tanti altri nel mondo, l’avevano invocata a partire dagli anni 50 e 60 del secolo scorso, ma non ebbero alcuna risposta da
parte dei filosofi, degli artisti, dei politici e dei cittadini europei.
Lo stesso meticciato delle menti non è ancora alla nostra portata.
La decolonizzazione di noi europei è sempre e ancora in ritardo, soltanto che oggi questa mutazione transculturale è diventata terribilmente più urgente dopo mezzo secolo di ricolonizzazione del mondo, da parte di USA, NATO, EU e ora Cina (basti guardare l’Africa) e
altri delle ex-colonie. Il tema è sempre all’ordine del giorno, ma è rimosso, tanto che nessuno lo ri-attiva, se non fuori dall’Europa, come
nei Caraibi e nell’América latina, in Africa, in India e in Australia. Il
tema della decolonizzazione europea è un progetto transculturale
che tende a diventare un movimento eutopico e comunitario per
costruire insieme una transculturazione o creolizzazione, come amava dire Glissant, del Tout-Monde, di tutti noi mutuamente, urgente
soprattutto in Italia, la meno laica e civile delle nazioni europee.
Anche gli scrittori della LIMM si trovano di fronte a questo enorme fardello, ma per loro resta opaco o invisibile, o semplicemente
impensabile, proprio come a noi europei. Noi stessi, infatti, mondialisti e ultimi-umanisti europei restiamo perplessi, e non sappiamo
quale sia la via. Da parte mai, sostengo che sia appunto quella di un
ultimo-umanesimo, imparandolo, però, non soltanto dalla tradizione laica europea, ma dal pensiero latino-americano e antillano dal
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loro odierno neo-umanesimo, a noi praticamente sconosciuto, e da
persone transnazionali come il Dalai Lama, Desmond Tutu, ancora
Mandela, i defunti Raimundo Pannikar e Paulo Freire, i popoli indigeni difesi anche da subcomandanti bianchi, i contadini brasiliani e
quelli dell’India, Gloria Anzáldua, defunta e viva nei suoi scritti e
nella sua vita, e a tanti altri. Sono tutti in wikipedia, non sono sconosciuti nel mondo.
Gli scrittori migranti – migranti nel destino, da una vita oppressa
a una vita di ri-nascita, e migranti mentali e morali tra le lingue e le
civiltà diverse di quasi-appartenenza – si oppongono giustamente
all’integrazione nelle nostre società spesso incivili e criminali, ma
perché, e a chi rivolgono il proprio sdegno? Penso da tempo che sia
necessario avviare tra noi una conoscenza e una discussione lunga e
profonda sulle cosmovisioni del mondo attuale e di quelle della liberazione. Gli scrittori della LIMM non si sono accorti che sbandando e inseguendo il breve mito borghese europeo dello “scrittore e
basta”, si sono accodati alla filiera commerciale italiana come scrittori ingenui e passivi.
Per combattere l’integrazione forzata e confusa, in un’Italia che
non riconosce lo ius soli, si ha bisogno di creare, insieme con i “bianchi” volenterosi e non-rapaci, forme di po-etiche solidali. Vale a
dire, forme creole di creatività critica condivise con noi per imporre
una presenza e una proposta civile transculturale e eutopica, per noi
già adesso e non sol per il futuro. I migranti, d’altronde, in quanto
tali e quali, svaniscono per necessità delle cose umane, proprio perché sono migranti e basta, gli unici che hanno fatto il viaggio triste e
tragico, e tuttavia speranzoso. Come quello che fecero i nostri antenati, fin dagli anni '60 dell’Ottocento e fino ad oggi. Oggi, i figli dei
migrati sono considerati dallo Stato italiano come «Alunni [italiani]
con cittadinanza non italiana. Verso l’adolescenza», come suona stonato il titolo del Rapporto nazionale 2010/2011 del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Nel titolo ho introdotto
“clandestinamente” l’aggettivo “italiani” per mettere meglio in chiaro la trappola della confusione civile e dell’assurdità politica delle
istituzioni democratiche del nostro paese. E i vostri figli, la così detta
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“Seconda Generazione”, i Creoli senza identità riconosciuta per legge del suolo di nascita e crescita, sapranno scrivere come Zadie Smith o Hanif Kureishi?
Il “romanzo meticcio”, proposto dalla trinità di Timira, rappresenta un tentativo imprevisto di produrre una creatività critica mutuale
tra scrittori italiani e quasi-stranieri. Prendendo presenza e senso insieme, nella nostra civiltà. Questa forma di mutualità a quattro o sei
mani fu addirittura la formula dell’inizio della LIM, con romanzi autobiografici scritti a quattro mani da scrittori migrati e scrittori badanti italiani, in una incipienza segreta e imperfetta e in una mutualità labile e ingiusta. Da allora le cose sono diversamente mutate. Il
mutare non nacque da dottrine accademiche, o dal verbo bislacco di
vecchi critici dilettanti italiani o dalla saccenza di giovanotti/e addottorati in Postcolonial Studies nelle università USA e nelle loro
colonie anglofone.
La multiautorialità rinasce oggi da una nuova relazione narrativa
tra un meticcio somalo-italiano e uno scrittore italiano famoso. Così
nel Preludio del libro, che avvia da una lettera di Wu Ming II alla
“Cara Isabella”, in data 7 settembre 2011 e perciò posteriore sia alla
morte di Isabella sia alla fine del romanzo:
Otto anni fa, quando tuo figlio si è presentato alla mia porta con
una cartelletta rossa, Twitter non c’era ancora […]. Ho accolto Antar
con la testa tra le nuvole, non l'ho fatto nemmeno entrare, ho preso
la cartelletta e gli ho detto che senz’altro avrei letto i fogli che ci
stavano dentro […]. Ci eravamo conosciuti in una clinica per malattie
mentali. Frequentavamo lo stesso matto: io come amico, lui come
educatore […]. Era la primavera del 2003 e io ci ho messo cinque
anni prima di venirti a trovare col mio registratore in mano per dedicare alla tua storia un mercoledì pomeriggio […]. Ormai da tre anni
me la porto [la cartellina] sempre appresso, nella borsa da lavoro
[…], per non dimenticare da dove è cominciata la nostra amicizia.
Un’amicizia che si sarebbe mutata in complice terzetto e poi in
una comunità. A me piace definire questo patto amicale proposto
da Wu Ming2 con un'espressione di Montaigne, quando chiama la
sua figlia adottiva Marie de Gournay, “fille d’alliance”, dove è utile
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tradurre alliance con spiritualità in comune, o con l’inglese partnership. Così come per Montaigne Marie de Gournay fu la figlia devota
e la filologa naturale e perfetta che dopo la morte del padre curò la
redazione critica degli Essais, che è rimasta canonica, dal 1595 al
XXI secolo, così l’amicizia tra lo scrittore italiano e Antar e IsabellaTimira viene definita come un'alleanza creativa e critica. Leggiamo
ancora, in una lettera del settembre 2011 a Isabella Marincola:
Quindi non devi domandarmi: “Cosa vuoi fare di me?” ma
piuttosto: “Cosa vogliamo fare della nostra amicizia?” E io allora
potrei risponderti: facciamoci un romanzo. Un romanzo che
abbia per protagonista “Isabella Marincola”.
L’intermittenza incrociata di tempi storici, di lettere, fotografie e
reperti di archivio fa da impalcatura e da norma estetica del romanzo. Ho pensato a un certo punto che fosse appunto questa la condizione strutturale voluta dal fattore/hacedor Wu Ming2, che aveva
aperto anche al lettore la porta per poter accedere allo spazio interno e complesso del testo della comune alleanza. E cioè, per il lettore, di potersi riconoscere come compagno e complice nel testo. Possiamo concepire questa accessione simpatetica attraverso due coordinate: quella fornita da Édouard Glissant quando propone di definire la creolizzazione del nostro mondo come “il meticciato più l’imprevedibilità”, e quella fornita dal poeta nordamericano Wallace
Stevens nei due versi ultimi del poema Soliloquio finale dell’Amante
interiore [Final Soliloquy of the Interior Paramour]: «Facciamo un’abitazione nell’aria della sera / Tale che starvi insieme è sufficiente».
Il sito immaginario di questa convivenza è creato qualche verso prima dal poeta: «Entro una sola cosa, un solo scialle / che ci stringiamo intorno, essendo poveri: un calore, / luce, potere, l’influsso prodigioso». Una forma comunitaria vitale, insomma, anche se povera,
ma sufficiente.
Con l’immaginazione ho anche pensato da lettore che questo
patto creativo trinitario-più-uno, centomila, milioni, costituisce una
sorta di allegoria creativa e critica matura ed esemplare di una pos36
sibile nuova alleanza transculturale e generale oggi in Europa. Quale? Quella che si va formando qui tra noi italiani, in via di decolonizzazione e bisognosi di educazione alla transculturazione, e i nostri
scriventi, pensanti e creativi mutuamente italiani che fanno diventare a vicenda loro & noi, creoli e mondani attraverso imprese in compagnia. Così come hanno fatto le poete della “Compagnia delle
Poete”. Un’idea creativa e pluriartistica che demolisce la confusione
e la nullità ansiosa della integrazione.
Penso, da “pensatore senza pensieri conclusivi” (Wallace Stevens) che la potenza degli scrittori della LIMM – un'assoluta e solitaria generazione senza età, ma transtemporale; quanti scrittori migranti arriveranno ancora sui barconi a riscattare gli annegati nel
Mediterraneo nero, infatti? la loro generazione va oltre la cadenza
dei trentanni statistici, è una generazione solitaria e longeva ad infinitum, teoricamente, ma fin da prima era ed è unica – vada rigenerata, insieme con loro, se lo vorranno. Costruendo cellule di cantieri
di lavoro comune e transcivile, leghe di sudest, senza scrittori italiani
che rubano l’autorialità agli scrittori migranti o senza editori italiani
che schiacciano la lingua dei libri migranti attraverso le loro formidabili cucine invisibili di redazione/editing, o, più volgarmente, ma
ormai normalmente, che chiedono soldi per pubblicare.
La “seconda generazione” – così detta secondo una definizione
incongrua rispetto alla necessità esistenziale e alla temporalità del
migrare – ma creola e italiana, ha cominciato a scrivere e a pubblicare nella lingua-patria italiana. Ai suoi scrittori tocca il futuro presente e indefinibile. I migranti vivono una sola volta, come tutti, o
due o tre volte in una sola vita, nei viaggi “nell’intrico del mondo”.
Mortali – in unum, come scrive Orazio – insieme.
Sto con voi, con Orazio con Dante e con Glissant infine, perché
penso e sostengo che siate ognuno di voi i portatori meravigliosi di
un progetto eutopico anche per noi, e che vogliate condividerlo qui
e ora proprio insieme con noi, visto che noi italo-europei non siamo
più capaci di pensare eutopia e nemmeno di immaginarla. Tra i migranti mondiali, siete proprio voi scrittori – e chi altrimenti? – a
esprimere e raccontare questa novella buonissima, anche se ancora
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debolissima. Tutti, infatti, andiamo vagando perplessi nel grande
mercato del mondo, perché non abbiamo ancora imparato ad andare veramente insieme sulla stessa strada. A voi chiediamo di indicarla, alle donne, ai bambini nuovi, e a noi che siamo diventati antenati
attraverso di loro, ai giovani inquieti come sempre e come si deve, e
ancora eutopici.
Forse la mia generazione, quella del ’68, ha prodotto l’ultima illusione di poter far sorgere l’eutopia dell’immaginazione al potere, in
Europa e nel mondo, ma, come scrive Brecht in una poesia del 1938,
intitolata A coloro che verranno, «[...] noi / che abbiamo voluto preparare / il terreno alla gentilezza, / noi non potemmo essere gentili». Adesso la mia generazione si appella a voi, ai vostri figli e ai nostri nipoti, per poterci mettere tutti insieme nello scialle per poter
accendere tra noi quel «conversar cittadino dell'umana compagnia», come scrisse Leopardi nella “lenta e profumata Ginestra”.
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Wu Ming 2
Wu Ming 2 è nato nel gennaio 2000, dopo essere stato Luther Blissett per 5 anni e
molte altre cose per una ventina. Con Einaudi Stile Libero ha pubblicato romanzi
come Q, 54, Guerra agli umani, Altai e la raccolta di racconti Anatra all’arancia
meccanica.
CHIARAMENTE è abbastanza complicato in un contesto come questo parlare di un romanzo che si è scritto perché, come capita spesso
ai narratori, si scrive un romanzo proprio perché determinate cose
non le si saprebbe dire in altro modo, o meglio, perché si ritiene che
raccontare una storia sia il modo migliore per affrontare determinati
argomenti, quindi in qualche modo tutto quello che noi avevamo da
dire lo abbiamo detto dentro al romanzo raccontando la storia di
Isabella Marincola.
Una donna nata nel 1925 in Somalia da un sotto-ufficiale dell'esercito italiano e da una donna somala, arrivata poi in Italia molto piccola – da bambina, a 2 anni; cresciuta in Italia, a Roma: nella Roma
fascista, nella Roma degli anni '30, nella Roma imperiale; diventata
ragazza nel dopoguerra, per sbarcare il lunario prima modella di
nudo per pittori e per scultori, e poi attrice, e infine tornata in Somalia e lì rimasta trent'anni, una donna che ha conosciuto la dittatura di Siadbar e che nel '91, quando la nazione somala è entrata nella
guerra civile che dura tuttora, è rientrata in Italia come una delle ultime italiane sfollate da Mogadiscio e si è trovata profuga nel Paese
di cui era cittadina, costretta a vivere questa contraddizione tra la
cittadinanza e la condizione di profuga.
Allora quel che rimane da raccontare è dire qualcosa di più su
come è nata la relazione che ci ha portato a scrivere questo roman39
zo, proprio perché la relazione lo fonda – è un romanzo che nasce
da un'amicizia e che è meticcio proprio perché in prima istanza è
meticcio l'autore che lo scrive, talmente meticcio che è formato da
tre persone.
Come avete sentito Antar e io ci siamo conosciuti in una clinica
per malattie mentali, in una struttura di quelle nate dopo la legge
Basaglia: in qualche modo il nostro incontro nasce grazie al fatto
che avevamo in comune una relazione di cura, di sostegno, di amicizia nei confronti di un'altra persona, di cui Antar era educatore e io
amico. Quindi la prima persona che avevamo in comune è, come si
usa dire, un matto.
L'altra persona che ci ha fatto incontrare è stata Giorgio Marincola, lo zio di Antar, probabilmente l'unico partigiano italo-somalo che
abbia combattuto nella Resistenza Italiana e che sia morto per la liberazione dell'Italia dal nazi-fascismo – una storia che io non conoscevo, molto poco nota prima che venisse poi raccontata grazie anche all'impegno di Antar e di Isabella – fratello di Isabella, anche lui
nato in Somalia, nel 1923.
E perché ci ha fatti incontrare? Perché Antar è venuto da me per
raccontarmi la storia di suo zio, di cui conservava soltanto una traccia: non la conosceva per filo e per segno, aveva soltanto pochi
frammenti, e perciò si è rivolto a me in cerca di una competenza.
Pensava che io potessi avere una competenza in più rispetto a lui
sulla Resistenza italiana e sul modo di raccontare la storia di un partigiano, e questo perché lo avevo già fatto insieme ai miei soci del
collettivo Wu Ming in un libro che si chiama Asce di guerra.
E viene da me in sostanza perché la sua eredità è incompleta: gli
è stata raccontata la storia di suo zio, ma con dei buchi, in maniera
non completa – questa tra l'altro è una caratteristica che hanno in
comune molti profughi, molti migranti diciamo: non i migranti colonizzatori, perché il migrante colonizzatore va in un altro Paese e si
porta dietro tutto il suo pesante bagaglio, tutto il suo pesante fardello di civiltà, dal momento che ha l'obiettivo di portare la sua civiltà in un altro luogo; ma il migrante profugo, che non si porta dietro
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un bagaglio altrettanto pesante perché non se lo può permettere, e
si porta dietro soltanto tracce.
Tracce da integrare in questo caso con le armi della narrazione e
della ricerca storica che avrei dovuto metterci io; ma questa integrazione intesa come pura somma aritmetica di competenze – la sua
traccia e la mia competenza storico-narrativa – non avviene, perché
in realtà io quella competenza non ce l'avevo, non essendo uno storico e non essendo in grado di fronte alla storia di questo partigiano
di cui appunto Antar conosceva poche cose di andare più a fondo, e
mi limito a constatare che quella di Giorgio è una storia bellissima,
che andrebbe raccontata in quest'Italia, ma non so come fare.
Però come spesso accade questi innesti, questi incontri, invece di
produrre il risultato atteso producono altri risultati, la creolizzazione
di cui parla lo scrittore martinicano francofono Édouard Glissant. La
creolizzazione tra due identità, tra due culture, avviene quando c'è
un elemento di imprevidibilità, a differenza del meticciato che è invece un innesto dal risultato prevedibile: dal punto di vista di Glissant il nostro Timira, che porta il sottotitolo di romanzo meticcio è
un romanzo creolo perché contiene appunto questo elemento di
imprevedibilità.
Antar è venuto a cercare in me qualcosa che io non ho saputo
dargli, ma è nato qualcos'altro: un altro innesto, un'altra relazione.
Tra le righe della storia di Giorgio, di questo giovane partigiano
eroico che combatte fino all'ultimo momento e che muore il 4 maggio del '45 a guerra finita perché sente di dover ancora combattere
nelle valli trentine dove ci sono ancora dei nazisti, emergeva un'altra
storia.
Quella di una donna, sua sorella, Isabella Marincola, madre di Antar, ed emergeva con tratti del tutto particolari, en passant, come il
fatto che avesse recitato in Riso amaro di Giuseppe De Santis, uno
dei capolavori del neorealismo italiano, che io avevo visto almeno
un paio di volte senza accorgermi che ci fosse una mondina con la
pelle scura, abbastanza incongrua tra l'altro nelle campagne del vercellese del 1948 – fatto che tra l'altro ci dice molto su quanto poco
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realista in realtà fosse il neorealismo. Ma come? Una mondina nera
in Riso amaro? Chi è questa donna?
Mi era venuta la voglia di conoscerla, di produrre, di tentare un
altro innesto, però ho aspettato cinque anni per incontrarla perché
nel frattempo due storici italiani si erano messi al lavoro in maniera
assolutamente volontaria, senza nessun fondo, senza nessun contributo, senza nessun assegno, sulla vicenda di Giorgio Marincola: Carlo Costa e Lorenzo Teodorio, che nel 2008 hanno pubblicato Razza
partigiana. Storia di Giorgio Marincola.
È stato allora che ho pensato che forse Isabella potesse essere
pronta a incontrarmi e a raccontarmi qualcosa di sé, ora che finalmente era stato affrontato l'oblio nel quale era finita la storia di suo
fratello, insignito della medaglia d'oro al valore militare ma poi assolutamente dimenticato.
E infatti è stato così, l'ho incontrata e le sono andato incontro con
una traccia, la mondina nera di Riso amaro, per sapere qualcosa in
più su di lei.
All'inizio pensavo che questo incontro si sarebbe risolto in un pomeriggio, invece io e Isabella abbiamo cominciato a frequentarci
tutte le settimane, con me che inizialmente avevo una modalità da
intervistatore, col registratore e le domande.
Ma poi Isabella ha scardinato questo formato – che è un formato
con cui ci si difende un po'. Ha cominciato a intervistarmi a sua volta, a volere e pretendere una reciprocità nel domandare, a intendere: conosciamoci.
Siamo diventati amici nel momento in cui ci siamo concessi l'un
l'altro quello che ancora una volta Édouard Glissant chiama il diritto
all'opacità: a un certo punto ci siamo resi conto che entrambi dovevamo concederci il diritto ad avere aspetti del carattere, della personalità, incomprensibili vicendevolmente.
Tutti noi siamo piuttosto ossessionati da quest'esigenza di capire
quando incontriamo l'altro e soprattutto quando sentiamo l'altro
come parecchio diverso da noi: vogliamo capire, e se non capiamo
sentiamo che non è possibile relazionarsi, non è possibile diventare
amici. Per Glissant è esattamente il contrario: si può entrare in rela42
zione proprio quando ci sia accorda il diritto all'opacità. In fondo è
opaco ciò che ha spessore, e dunque accordarsi il diritto all'opacità
significa accettare che l'altro ha uno spessore, che non è riducibile al
mio concetto di trasparenza, e che quindi devo ammettere che ci
sarà qualcosa che non capisco.
Intanto la nostra amicizia aveva accumulato cinquanta ore di registrazione. Isabella si è fermata e mi ha detto che non sapeva che
altro raccontarmi, e soprattutto mi ha chiesto: che cosa ne facciamo
adesso di queste registrazioni, che cosa ne facciamo della nostra
amicizia? Anzi, inizialmente mi chiedeva che cosa ne vuoi fare di
me?
E la risposta è stata facciamone un romanzo – che è dire tutto e
dire niente: quale romanzo, e soprattutto come lo scriviamo? La soluzione che mi appariva più semplice era quella di sbobinare le registrazioni e metterle in forma narrativa, di costruirci io un romanzo,
da leggere e rivedere poi insieme, ma Antar e Isabella hanno rifiutato. E per fortuna.
Mi sono reso conto grazie a quel rifiuto che quella che avevo proposto automaticamente era la soluzione dettata da un pensiero colonialista da cui mi credevo immune senza esserlo, perché la nostra
mente non è mai completamente decolonizzata e, come insegna
Foucault, noi siamo sempre centrali di micropotere.
E anche quando crediamo di essere immuni, di essere lontani dalla ricerca del potere esercitiamo potere, e di fronte a una donna
nera anziana io, giovane maschio bianco, stavo esercitando decisamente un potere, stavo facendo il colonialista che va nella terra di
un altro, se ne appropria, la fa sua con i suoi strumenti e poi per illu dersi di essere democratico chiede se va bene come ha proceduto.
Per fortuna ho ricevuto un no, perché questa mia proposta derivava dalla paura. Avevo paura di non riuscire a scrivere insieme a
una donna dai gusti e dalle esperienze molto diversi dai miei, nonostante la scrittura collettiva sia invece qualcosa che faccio quotidianamente. In qualche modo l'opacità mi ha spaventato, e in qualche
modo ho cercato una scorciatoia, una scorciatoia colonialista.
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Ma in seguito al no, io e Isabella abbiamo iniziato a lavorare insieme, d'accordo sul fatto di non voler scrivere un diario, un libro di
memorie o un'autobiografia, ma un romanzo.
Ci siamo accordati sulla struttura, su una scaletta, sulla divisione
dei capitoli da scrivere, che non è stata sulla base del contenuto.
Tutto il materiale narrativo che produceva l'uno veniva ripreso dall'altro, appuntato, modificato, in parte riscritto e in parte ritradotto:
una specie di frullatore sempre acceso nel quale amalgamare tutto.
Poi purtroppo il frullatore si è inceppato perché Isabella è morta
alla fine di marzo del 2010, quando avevamo iniziato a scrivere
qualche capitolo. Antar mi ha chiamato nel cuore della notte, e ho
capito allora che l'amicizia c'era davvero.
Qualche settimana dopo i funerali Antar mi ha chiamato di nuovo
dicendomi di provare a finirlo noi questo romanzo iniziato con Isabella, e allora abbiamo dovuto riaccendere il frullatore, io e lui –
parlare di frullatore fa pensare a un processo puramente meccanico,
ma credo che alla base del metodo della scrittura collettiva (che può
essere un processo anche meccanico, se vogliamo) ci debbano essere quei passaggi che ho cercato di descrivere nel raccontare la nascita
di questa amicizia: il diritto all'opacità, la relazione e l'imprevidibilità, la
pazienza, infine la consapevolezza di qualcosa in comune da dire.
Quello che avevamo da dire noi non era la storia di Isabella, né di
Antar né la mia, ma il fatto che quello che stavamo raccontando, la
storia di questa donna, riguardava tutti quanti e in qualche modo
costituiva sia la nostra identità, perché era la storia dell'Italia e della
Somalia e del loro rapporto, sia la storia del nostro esilio: ognuno di
noi di fronte a quella storia era anche profugo, e quindi la doveva
anche guardare dall'esterno, da un altro punto di vista.
Questo ci ha permesso di scrivere il romanzo insieme, di diventare veramente commensali: come ricorda Malcom X, non basta sedersi a tavola, perché a volte c'è qualcuno che mangia e qualcuno
che sta a digiuno e poi deve anche pulire i piatti; noi invece abbiamo cercato di mangiare insieme e di cucinare qualcosa anche per
chi sarebbe passato di lì, avrebbe letto il libro e si sarebbe seduto a
tavola con noi.
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Antar Mohamed
Antar Mohamed Marincola è nato a Mogadiscio nel terzo anniversario
dell’indipendenza somala.Cresciuto sotto il regime di Siad Barre, vive in Italia dal
1983, dove ha studiato, scritto, recitato, mediato conflitti, tradotto e insegnato.
ISABELLA ha vissuto in Somalia dal '61 al '91, anno in cui a causa della guerra civile è rientrata come profuga in Italia. E sebbene avesse
vissuto in Italia le leggi razziali, al suo rientro ha colto un diverso
razzismo, e mi raccontava di come al tempo della conquista dell'Etiopia, col fascismo e Mussolini, l'Italia sentisse di essere un grande
Paese che portava la civiltà nel mondo, e quindi era sicuro di sé,
mentre negli anni Novanta il fenomeno immigratorio cominciava
già ad avere una sua sostanza e quindi il concetto di identità italiana
si stava estremamente inchiodando sul colore della pelle; tutti erano
molto stupiti dal buon italiano che parlava e le chiedevano come
mai lo conoscesse, e di dove fosse, se marocchina o tunisina, mentre
lei era italiana, di padre italiano e madre somala.
Questo atteggiamento la inquietava e perciò le era venuta l'idea
di divulgare la storia di Giorgio, una storia densa d'Italia, che parla
di aspetti importanti del nostro Paese: la resistenza, il colonialismo,
il fascismo... e ancor di più si era convinta della necessità di diffondere la conoscenza di questa storia a vedere un giorno in televisione
un'intervista a un attore italo-somalo, Yonis Bascir, in cui alla domanda che parte non potresti mai fare al cinema? lui aveva risposto
il partigiano.
Quindi si può dire che sia stato Giorgio in realtà a muovere tutto.
All'uscita di Razza partigiana, Isabella era più sollevata, perché la
storia – una storia italiana, italiana e somala – aveva trovato compi45
mento, ed era pronta a far partire, piano piano, con i tempi suoi,
quest'altro progetto con Wu Ming II.
Quelli dal '91 al 2010 sono stati anni molto intensi; in Somalia nel
dicembre 1990 era esplosa una guerra che nessuno avrebbe immaginato poter durare ancora, io all'epoca ero un borsista somalo col
permesso di soggiorno, ho preso la cittadinanza nel 1991 e quando
mia madre è venuta qui ho cominciato a conoscere l'Italia nella sua
pastoia, la burocrazia, gli uffici, le attese e tutte le varie trafile per
un cittadino italiano e profugo allo stesso tempo, e sono stati anni in
cui ho vissuto molto con mia madre, perché io sono consapevolmente figlio di una madre.
Isabella è morta il 31 marzo 2010, ed è morta d'infarto. Quando
una figura affettiva forte muore di malattia ci si prepara, perché
muori anche un po' tu quando muore una persona vicina a te, muore
una parte di te; ma morire d'infarto è uno shock impressionante: una
persona che ieri ti parlava, che ti diceva vieni qua, oggi non c'è più.
Quindi per me è nata la necessità di elaborare il lutto, di ordinare
l'idea che Isabella non c'era più. Come? Ho chiamato Giovanni [Wu
Ming II] e gli ho detto che il libro l'avrei finito io assieme a lui. A
questo punto vorrei fare due precisazioni: per prima cosa io non credo alla letteratura migrante, assolutamente, penso che questa categoria derivi da una pigrizia mentale in parte del mondo accademico
in parte del mondo dei media. La letteratura Italiana è fatta di differenti storie che raccontano il cambiamento; bisogna assumere la
consapevolezza che l'Italia è attraversata dal mondo, è nel mondo, e
quindi parla anche con altre sensibilità, con altri paesaggi, con altre
urgenze.
E poi: cosa racconta in realtà Timira, cosa tira fuori? Tira fuori un
rimosso, tira fuori un rimosso. Persino nei manuali della storia dell'Italia nel secolo XX che si usano per esami all'università, almeno in
quello che ho usato io, in centinaia di pagine capita che non ci siano
cinque righe sul colonialismo italiano, perché l'Italia è fatta di brava
gente, l'Italia non ha mai avuto colonie, le colonie le hanno avute i
francesi, i britannici, i portoghesi, ma non gli italiani. Ecco, Timira
tira fuori questa storia, perché Giorgio e Isabella, nascono in Soma46
lia, rispettivamente nel 1923 e nel 1925, da un sotto-ufficiale che
era un colonizzatore e da una signora somala che era la colonizzata.
E nell'anno della nascita di Giorgio diventa governatore della Somalia Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, uno dei quadriumviri della marcia su Roma: è il passaggio dal colonialismo liberale giolittiano – perché la Somalia era colonia ufficiale dal 1908 – al colonialismo fascista, che vede aumentare le botte e i villaggi incendiati.
Questo racconta, Timira. Racconta una memoria e una responsabilità. Una letteratura post-coloniale in Italia potrà esistere soltanto
quando l'Italia sarà consapevole di essere stata un Paese colonizzatore.
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Dal colonialismo italiano in Eritrea,
all'immigrazione degli eritrei in Italia
Erminia Dell'Oro
Erminia Dell'Oro è nata ad Asmara Eritrea dove suo nonno paterno si stabilì nel
1896. Si è trasferita in Italia a Milano ma ha sempre mantenuto stretti contatti con
il popolo eritreo, scrivendo numerosi reportage, anche come inviata durante la
guerra Eritrea-Etiopia. Ha scritto libri per adulti, ragazzi e bambini, alcuni legati
alle tematiche del colonialismo italiano, della Shoà, delle guerre e delle recenti e
drammatiche immigrazioni. Ha lavorato per quindici anni nella storica Libreria
Einaudi di Milano, ed è stata lettrice per vari editori. Numerosi sono i suoi incontri
con gli studenti delle scuole primarie e secondarie
MIO padre aveva 80 anni ed era nato ad Asmara, figlio di uno dei
primi pionieri o colonizzatori, mio nonno – che non ho mai conosciuto perché è morto abbastanza giovane –, capitato lì direi quasi
per sbaglio, quando comunque l'Eritrea era già colonia Italiana – ci
sono 20 anni di differenza tra la nascita dell'Italia e la nascita dell'Eritrea. Ecco, mio nonno non credo che avesse lo spirito del colonizzatore, semplicemente voleva andare in Congo Belga, muovendosi
da Lecco: lì c'era una piccola colonia di lecchesi.
Dunque parte, all'età di 23-24 anni, se non che la nave su cui è,
dopo un lunghissimo viaggio si ferma a Massaua perché a bordo è
scoppiato un caso di febbre gialla, e allora viene messa in quarantena. Quaranta giorni a bordo di una nave nel porto che un tempo era
chiamato “l'inferno del mar Rosso” (e che poi è diventato “la perla
del Mar Rosso”): dopo un po' mio nonno non ce la fa più e quindi
scende con i suoi bagagli e si dirige verso l'altopiano, perché se lì ci
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sono quaranta gradi, negli altipiani dell'Eritrea e dell'Etiopia si sta
benissimo, è il clima migliore del mondo: non fa mai caldo, non fa
mai freddo, un clima meraviglioso.
Probabilmente è con altre persone. Non c'erano strutture allora,
non c'erano strade, non c'era la ferrovia – i cui lavori sono iniziati
pochi anni dopo e hanno portato alla costruzione di un'opera stupenda –, avranno preso un mulo o un cammello e avranno seguito
un sentiero per almeno tre giorni – noi oggi con la corriera ci mettiamo due o tre ore.
Ecco infine l'altopiano, e Asmara che allora era un villaggio. Gli
eritrei ovviamente non parlavano l'italiano, però lo hanno imparato
subito. l'Eritrea è stata colonizzata, dicono, senza colpo ferire, ma
chiaramente c'erano state battaglie, tra cui quella celebre di Dogali.
Gli italiani sono arrivati: l'Eritrea è nostra, è stata data, concessa,
questa pietraia, perché in fondo non era un Paese da sfruttare, ecco,
non c'era oro, non c'era petrolio, non c'era niente, però ci si poteva
insediare: in questo senso i primi pionieri arrivati su questi altipiani
erano più migranti che colonizzatori, forse. Però si potevano sfruttare gli eritrei, com'è stato fatto, per costruire tutto quello che è stato
costruito, il che si ricollega al mito che ancora non è tramontato degli “italiani brava gente”: io mi sento dire sì noi siamo stati lì nelle
colonie, è vero, però abbiamo costruito i ponti, le scuole, la ferrovia,
la strada; ed è vero, gli italiani hanno costruito cose bellissime,
Asmara è una città meravigliosa, la ferrovia Asmara-Massaua è una
delle più ardite del mondo, ma tutto quello che gli italiani hanno
costruito l'hanno costruito per loro, non per gli eritrei, perché si
pensava che in Eritrea ci si sarebbe rimasti a lungo, anche se poi non
è stato così.
Torniamo però a mio nonno, che arriva ad Asmara e comincia a
lavorare: insieme ad altri costruisce mobili e mette su un mobilificio;
poi nascono mio padre, le mie zie, quella che io considero la nostra
grande famiglia. Io sono nata in Eritrea in una famiglia italiana, ho
studiato in una scuola italiana, ma sentivo l'Italia come un Paese lontano, quasi inesistente, perché mio padre, da vecchio coloniale –
tengo molto a ribadirlo: nato in Eritrea, non uno degli italiani arrivati
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coi fascisti nel '36 per andare a occupare l'Etiopia o per guadagnarsi
il posto al sole –, non aveva nessun attaccamento all'Italia: la sua terra era l'Eritrea. Mio padre ha lavorato moltissimo con indiani, arabi,
ecc., per cui io sono cresciuta in una città piccola ma multietnica e
anche multireligiosa, ma quello che a me e ai bambini della mia generazione è mancato è stata la frequentazione dei nostri coetanei
eritrei. In casa nostra c'erano le donne eritree che lavoravano, donne dal perfetto italiano, perché gli eritrei in pochi anni si sono impadroniti della lingua, mentre gli italiani, a parte i vecchi coloniali, non
facevano alcuno sforzo di apprendere la lingua locale.
Oltretutto il Governatore Ferdinando Martini, uomo di grande
cultura che era stato in Italia Ministro dell'Istruzione, aveva stabilito
che i bambini eritrei non dovevano andare a scuola – il che è abbastanza grave per un Ministro dell'Istruzione –, per cui ai bambini eritrei nei primi tempi della colonia era vietato studiare, mentre in seguito è stato concesso il permesso di frequentare fino alla quarta
elementare perché servivano interpreti. Un'altra delle declinazioni
della discriminazione p legata al servizio militare, ben presto reso
obbligatorio per gli eritrei, che poi diventavano ascari, soldati, e poi
molti di loro sono andati a combattere nella seconda guerra mondiale, e in tanti sono morti: ci sono cimiteri militari importanti ad
Asmara e a Cherene. Su tutte le lapidi c'è scritto ascaro ignoto, mentre ovviamente ci sono tutti i nomi degli italiani, e anche da parte
del governo italiano c'è stata nel corso degli anni pochissima riconoscenza per questi uomini che hanno combattuto al fianco degli italiani – mia madre lavorava in ambasciata ad Asmara e perciò conoscevamo molto bene la condizione di questi vecchi ascari.
Vorrei però raccontare un aneddoto, uno tra i vari spunti sulla
storia dell'Eritrea, sui legami italiani-eritrei e su come gli eritrei poi
ricordavano gli italiani, soprattutto per quello che riguarda la seconda guerra mondiale. Nel 1991, in occasione della fine della guerra
d'indipendenza, giravo l'Eritrea con un fotografo con cui dovevo
realizzare un reportage, e ho incontrato un vecchio musulmano con
la lunga jallabia bianca in un posto dove non c'era proprio nessuno,
un posto molto caldo nel bassopiano in cui io dovevo essere l'unica
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mosca bianca. Mi avvicina e in italiano mi dice: lei è italiana. Io gli rispondo di sì, e lui allora estrae dalla tasca due lire italiane dicendo:
queste me le ha date il mio ufficiale, ho combattuto nella battaglia
di Cheren. Dopo non so quanti anni ecco quest'uomo, ormai molto
vecchio, dire: chi sa dov'è ora il mio ufficiale, come se io avessi potuto rintracciarlo. Mi sono molto commossa: certo, ci sono stati italiani
che hanno legato con i loro soldati, però ci sono anche episodi terribili, così come per quanto riguarda l'aggressione all'Etiopia. Gli ufficiali vietavano ai soldati di seppellire gli ascari: in un passaggio di un
libro di Angelo Del Boca si parla, alla fine di una battaglia, di un
gruppo di ascari che sta seppellendo il compagno morto e viene fermato dall'ufficiale italiano che dice che gli ascari non si seppelliscono, che non c'è tempo da perdere, e si apre un contrasto per cui alla
fine uno degli ascari che stava scavano fugge via. Insomma, in molti
casi gli ascari non avevano diritto nemmeno alla sepoltura, eppure
questo ascaro conservava le due lire dell'ufficiale italiano...
Ma torniamo alla mia Eritrea. L'Eritrea è un piccolo Paese, è grande come la Lombardia, dai 3,5-4 milioni di abitanti di cui molti adesso sparsi per il mondo, molto affascinante, con l'altopiano, il Mar
Rosso. Nove etnie e mai problemi fra le diverse religioni: questo per
me fin da bambina è stato molto importante, sono cresciuta così, fra
tutte queste persone diverse, fra religioni diverse, sentendomi parte
di tutti, ed è per questo che spero che i bambini italiani di oggi siano
molto vicini ai loro compagni che vengono da fuori, che sono cittadini italiani – cittadini del loro Paese, certo, ma anche italiani, e che
possano essere meglio di quello che sono stati i cittadini italiani finora verso tutti i migranti, e anche verso gli eritrei.
E ogni volta che vado ad Asmara quello che mi colpisce è il lessico: nel lessico degli eritrei ci sono molte parole italiane; per esempio gli autisti delle corriere, anche gli autisti che oggi non parlano
italiano – perché oggi i vecchi lo parlano tutti, ma i più giovani no –,
quando risalgono a bordo dopo una sosta dicono andiamo in italiano, mai in tigrina, oppure magari non parlano una parola di italiano
ma dicono pezzi di ricambio – tra l'altro gli eritrei sono diventati dei
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bravissimi meccanici, che poi sono stati anche i più bravi meccanici
in Etiopia, hanno imparato a fare tutti i lavori molto in fretta.
Insomma, il ricordo degli italiani in Eritrea è rimasto, e però bisognerebbe anche far conoscere la storia, perché gli italiani non sanno
di aver avuto colonie: le hanno rimosse, se le dimenticano, e addirittura fino a pochi anni fa non c'era nulla sui libri di storia. Pochi giorni
fa sono andata all'ufficio postale e ho chiesto un francobollo per l'Eritrea, e l'impiegato, un uomo sui trent'anni, italiano, che mi ha chiesto: dov'è l'Eritrea?, e io allora gli ho chiesto un francobollo per l'Africa, perché era inutile che mi fermassi in posta a fargli la storia dell'Eritrea. E così anche quando sono arrivata in Italia, avevo circa vent'anni e viaggiavo molto in treno su consiglio di mio padre, per scoprire un po' del Paese, mi capitava di parlare con altri viaggiatori, e
a volte mi chiedevano da dove venissi; io parlavo un perfetto italiano senza nessuna inflessione – venivo da un Paese in cui c'erano
emiliani, toscani, siciliani, perché in Eritrea sono arrivati un po' tutti:
mangiavamo le lasagne e i cannoli alla siciliana, c'erano tutte le specialità possibili e immaginabili, però nella mia famiglia e a scuola
non c'erano inflessioni – e si stupivano quando rispondevo che vengo dall'Eritrea, mi chiedevano dove fosse e perché fossi bianca e
perché parlassi italiano, e questo mi è capitato in molti viaggi.
Del resto si tratta di diversi anni fa, quando c'era molta più ignoranza, anche se tante cose non mi sembrano ancora funzionare anche oggi che per fortuna vediamo un mondo molto più colorato che
non quello che ho trovato io con molta delusione al mio arrivo in
Italia. Per esempio vorrei ricordare che in agosto è stato inaugurato
a Daffile il mausoleo a Rodolfo Graziani, uno dei peggiori assassini
carnefici sia in Etiopia sia in Libia, con 137mila euro stanziati dalla
Regione Lazio: io spero che si apra un processo per apologia del fascismo, ma intanto questo fatto è passato inosservato, e se non si
fosse mosso un piccolo gruppo che ha manifestato e ha scritto, sarebbe passato completamente sotto silenzio. E io stessa mi sono in
passato dedicata molto allo studio di Graziani e di quel che ha fatto
in Etiopia, e circa tredici anni fa, dopo che avevo già pubblicato con
Einaudi e Feltrinelli, ho scritto un libro e l'ho presentato a tre o quat53
tro editori, e mi è stato rifiutato. Adesso lo tirerò fuori dal cassetto
di nuovo, sperando che i tempi siano un po' migliorati.
Ma vengo alla fine del mio intervento, che voglio dedicare agli
eritrei che arrivano in Italia. Gli eritrei hanno iniziato a venire le
donne come donne di servizio negli anni '60 e '70: venivano qui perché parlavano italiano, erano bravissime cuoche e bravissime bambinaie, sapevano fare tutto, non erano mai stanche; poi sono arrivati
alcuni uomini che hanno aperto ristoranti, e adesso arrivano molti
eritrei. Ovviamente arrivano per trovare una situazione migliore rispetto a quella attuale in Eritrea – davvero pesante, con la leva militare obbligatoria per anni e anni e anni in condizioni indicibili. Quindi vengono qui con il sogno dell'Italia, conoscono l'Italia e l'italiano,
e sanno che l'Italia è stata legata all'Eritrea molto più di quanto lo
sappiano gli italiani. Ecco, io mi auguro che le cose pian piano vadano cambiando, e un segnale sarebbe quello di non parlare più di letteratura migrante, ma di letteratura tout court.
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L'italiano all'ombra del sicomoro
Gabriella Ghermandi
Gabriella Ghermandi è nata ad Addis Abeba nel 1965, e si è trasferita in Italia nel
1979. Da parecchi anni vive a Bologna, città originaria del padre. Nel 1999 ha
vinto il primo premio del concorso per scrittori migranti dell'associazione
Eks&Tra, promosso da Fara Editore, e nel 2001 il terzo. Ha pubblicato racconti in
varie collane e riviste. Seguendo l'arte della metafora tipica della tradizione
culturale etiope, scrive e interpreta spettacoli di narrazione che porta in giro nel
mondo, sia in lingua italiana che in lingua inglese. Conduce laboratori di scrittura
creativa nelle scuole, in Italia e Svizzera, sulla ricerca della "identità unica di
ciascun individuo" da contrapporre alle "identità collettive" come percorso di
pace. E' stata per due anni direttrice artistica di Evocamondi, festival di narrazione
e musiche dal mondo, organizzato dalla rivista El Ghibli, a Bentivoglio, in
provincia di Bologna. Ha creato per il festival "Le strade dell'esodo II edizione" la
performance di lettura, musica e narrazione Terre rosse dei sentieri d'Africa, e per
"Le strade dell'esodo III edizione" la performance lettura Mille sono le vie del
ritorno . E' fondatrice, assieme ad altri scrittori, della rivista online El Ghibli e parte
del comitato editoriale. Ha partecipato come relatrice a vari convegni sia in Italia
che all'estero Nell'Aprile 2007 è uscito il suo primo romanzo R egina di fiori e di
perle per Donzelli Editore, vincitore di vari premi letterari, da cui è stato tratto lo
spettacolo di narrazione omonimo. Il romanzo tratta della storia del colonialismo
italiano in Etiopia, da un punto di vista etiope.
VORREI iniziare il mio intervento con un aneddoto. Che cosa si sa in
Italia del colonialismo Italiano? Un giorno stavo andando in treno
nelle Marche dai miei suoceri e alle mie spalle c'erano due ragazzi
che chiacchieravano, uno in italiano e l'altro in inglese: stavano facendo un gioco, erano due ragazzi che si sono conosciuti sul treno,
quello che parlava un po' in italiano un po' in inglese diceva all'altro
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i numeri in inglese, e l'altro li ripeteva. One. One. Two. Two. Three.
Three. Poi a un certo punto il ragazzo italiano, con un forte accento
napoletano, dice: ma conosci i numeri in altre lingue? E l'altro risponde: yes, arabic. Allora mi incuriosisco, mi volto e vedo che è scuro di pelle, poteva essere un rashaida, etiope o un eritreo, o magari
di una zona del Sudan. Gli dice i numeri in arabo e l'altro gli chiede
se li conosce in un'altra lingua ancora, e lui risponde: tigrina. Mi giro
di scatto. Il ragazzo napoletano gli chiede di dov'è, e lui: Eritrea.
Ma l'Eritrea dov'è? Io sono stato una volta in Africa, in Tunisia. È
vicina alla Tunisia? Il ragazzo eritreo risponde di no, che c'è l'Eritrea
poi c'è il Sudan poi c'è l'Egitto poi c'è la Libia poi c'è la Tunisia, spiegandosi un po' a gesti, però l'altro non riesce ancora a capire, allora
quello prende uno di quei sacchetti delle ferrovie con RFI scritto in
verde, lo apre e con una matita gli disegna una carta geografica un
po' abbozzata. Ma il ragazzo italiano continua ad avere un punto interrogativo molto forte negli occhi, e quello gli dice: prima prima
prima Italia-Eritrea uno, e lui: ma che dici? Questo è quello che la
maggior parte della gente oggi sa.
Come avrete visto, io sono una cantastorie e a me piace raccontare storie; non sono diventata cantastorie per grandi qualità artistiche, ma perché è stata un'esigenza per salvarmi, per essere felice,
perché ho dovuto ricostruirmi e non ho trovato alcun luogo per ricostruire me stessa che la parola. Sono arrivata in Italia quattordicenne
da una ex colonia italiana, con il mito dell'Italia, comune a tutti
quelli che vengono dalla ex colonie. Pensi che nel Paese che ha colonizzato il tuo ci sia tutto ciò che c'è nel tuo più quel che manca,
poi arrivi e ti rendi conto che c'è quel di più ma manca tutto il resto,
ed è per te un grande dolore, una grande sofferenza. Io ho provato
questo grande dolore e questa grande sofferenza, la solitudine del
non essere vista: nessuno che abbia la più pallida idea di chi tu sia,
ognuno cerca di leggerti attraverso una serie di stereotipi che si è
creato e tu vieni letto a seconda di queste lenti, non per quello che
sei o per tutta la ricchezza che è stata la tua vita, che è la tua terra.
Io per questo sono diventata narratrice: per ricostruirmi, ma anche
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per rivendicare il mio diritto a essere me stessa e a non essere letta
attraverso gli stereotipi.
Per di più ero una mosca bianca: una migrante sì, ma che l'italiano l'ha sempre saputo, ha sempre parlato tutte e due le lingue, e negli anni nel lavoro di ricostruzione di me stessa attraverso le storie e
attraverso la narrazione mi sono resa conto che io ho imparato l'italiano da piccola, ma il mio italiano è sempre stato diverso da quello
che si impara in Italia perché è stata quella che io chiamo la mia lingua padre. Io ho avuto una lingua padre, l'italiano, e una lingua madre, l'amarico: ho sempre utilizzato la mia lingua padre per decodificare l'ambiente in cui vivevo, e l'ambiente in cui vivevo non era la
pianura padana, ma era un altopiano coi sicomori, e se io ho utilizzato la lingua per decodificare quest'ambiente, anche l'ambiente avrà
colonizzato la mia lingua – in questo caso uso la parola colonizzare
in un senso positivo: mi fa piacere pensare che l'Etiopia abbia colonizzato il mio italiano, ne sono molto contenta.
E ho sofferto molto del colonialismo. Nonostante sia nata venticinque anni dopo che era finito, nella scuola italiana che ho frequentato da bambina c'era una forte mentalità coloniale, ed essere
meticcia era una cosa terrificante, un po' come essere il figlio del
diavolo – perché solo il diavolo può spingere qualche bianco ad andare verso qualche nero, in qualche modo era questa la mentalità
ancora che girava. E in tanti anni di lavoro su me stessa, quando ho
scritto Regina di fiori e di perle, un romanzo per mettere un sasso su
un piatto della bilancia completamente vuoto, piano piano mi sentivo di essermi ricostruita e di poter guardare al passato e a quegli
anni della mia infanzia e adolescenza che ho vissuto in Etiopia, e e
mi sono chiesta se tutto questo mio avvertire razzismo e mentalità
coloniale non fosse frutto un po' anche della mia fantasia, o se non
fosse qualcosa che esisteva allora ma che nel tempo si è diluito. Torno spesso in Etiopia e ci passo parecchi mesi, ma non ho mai avuto il
coraggio di tornare nel luogo in cui si ritrova la comunità italiana di
allora, il Circolo Juventus Italiano: rimando di anno in anno, e non
riesco a capire perché in qualche modo la mia vita, nonostante ora
sia riuscita a rimettere insieme tutti i pezzi, ha ancora una frattura –
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non ho potuto ancora riallacciare quella mia infanzia Italiana e adolescenza con l'adulta che sono adesso.
Poi mi è successa una cosa che mi ha fatto chiarezza: quest'estate
sono andata a trovare una mia compagna di classe delle medie che
ho fatto in Etiopia, che era in Italia per un periodo di soggiorno, perché attualmente vive in Zimbabwe, una donna che negli anni ha fatto un'autocritica piuttosto severa, riflettendo su che cosa volesse
dire occupazione, colonizzazione, affrancandosi molto da un certo
modo di pensare – ho avuto il coraggio di andarla a trovare anche
perché è stata una delle mie più care amiche. C'era sua madre con
lei. La mia amica mi fa i complimenti per il romanzo, mi dice che ho
fatto un lavoro necessario, e a un certo punto interviene sua madre.
Mi dice: sai, ho iniziato a leggere il tuo romanzo e proprio non mi è
piaciuto, dopo venti pagine l'ho lasciato lì, e per fortuna che non c'è
Nerino [suo marito], che è in ospedale, perché se ci fosse lui tu non
saresti neanche entrata in casa. Io non capisco che cos'è questo continuamente andare a tirar fuori un passato di settant'anni fa. Va
bene, sono stati usati i gas, però è stato fatto anche tanto bene... Ribatto: non sono cose di tanti anni fa perché io ci ho sofferto tanto,
fino ad adesso. Allora lei mi chiede: e perché ci avresti sofferto? E io
inizio a raccontare di mia mamma: mia mamma ha vissuto le leggi
razziali, mia mamma questo, mia mamma quell'altro . Lei, che conosceva mia madre da ragazza, dice: figurati, tua madre era una persona spigliatissima. E comunque non c'è mai stato quel razzismo di cui
parli tu. Protesto: ma io mi ricordo che in Eritrea mia madre mi raccontava che c'erano le reti in autobus, anche oltre la fine dell'occupazione italiana, fino al '52 quando c'è stato il protettorato inglese
sono rimaste in vigore le leggi italiane, c'era una rete che divideva i
bianchi dai neri, e mia mamma per non stare dalla parte dei neri –
perché era cresciuta in un collegio di suore italiane e voleva sentirsi
italiana come le avevano insegnato loro –, per non sentirsi di re di
andare dietro andava a lavorare in biciclett a, e lei mi dice: tua madre sarà stata sfortunata, perché in realtà dietro la rete mettevano i
neri, ma non quelli evoluti come tua madre: gli altri, perché erano
pieni di pidocchi. Mi si drizzano i capelli, e proseguo: e poi uno dei
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grandi dolori del colonialismo italiano si vede nei misti, perché per
tante generazioni i misti hanno continuato a soffrire, sono stati abbandonati, sono stati portati via dalle madri quasi come se le madri
siccome erano etiopi, eritree o somale non avessero sentimenti , e lei
mi dice che non è vero, e allora aggiungo che molti italiani son stati
giù e han fatto figli a destra e a manca e non li hanno riconosciuti, e
lei: cosa vuoi che riconoscessero, le eritree erano sempre in cinta . Al
che mio marito è venuto vicino a me e mi ha detto che era arrivato il
momento di andarcene, ho salutato la mia amica e siamo usciti.
Allora ho capito perché non ce la faccio ad andare in quel posto,
perché è ancora troppo doloroso per me, e quando l'addetto culturale dell'ambasciata di Addis Abeba qualche anno fa mi ha proposto
di fare lo spettacolo Regina di fiori e di perle alcuni italiani di vecchio stampo sono andati a lamentarsi perché secondo loro la mia
opera li avrebbe insultati. Allora io gli ho detto che sarebbe stato
molto difficile tenere il mio spettacolo, di fronte a loro, e lui mi ha
detto: io ti difendo, perché sarà molto difficile ma la storia parla
chiaro, quel che è successo è successo, io voglio che tu faccia lo
spettacolo e voglio starti a fianco. Ho fatto lo spettacolo, non c'erano Italiani a parte quelli delle nuove generazioni.
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Esplorare e conoscere:
Luigi Robecchi Bricchetti in Somalia
Gigliola De Martini-Lorenza Tadini
LE ORIGINI, LA FORMAZIONE, IL PRIMO VIAGGIO
Esploratore pavese di fama internazionale, Luigi Robecchi Bricchetti, è ricordato da tutti come uomo risoluto e coraggioso, raffinato
affabulatore, eccentrico, a tratti irruento. Risulta difficile tracciare
un resoconto esaustivo della sua vita. Gli scritti a lui dedicati fino ai
primi anni settanta del Novecento, si tratti di articoli di giornale, riviste o altro, infatti, sono tutti caratterizzati dallo stesso approccio
critico. Il nostro esploratore, personaggio abbastanza famoso, non
interessa nel suo profilo personale: tutti desiderano, invece, raccontare le sue straordinarie imprese in terra d’Africa. Differisce, almeno
in parte, un unico scritto pubblicato nel 1938 da Erminio Robecchi
Brivio1 che, volendo dare alle stampe una genealogia della propria
famiglia, ne dedica una parte all’esploratore.
La quasi totale mancanza di informazioni personali fornite da Luigi
Robecchi Bricchetti stesso ha reso ancora più difficile la ricostruzione della sua vita, a cominciare dalla data di nascita, forse nascosta
per via di quell'illegittimità nella relazione tra i genitori, che all'epoca ancora era una macchia infamante. Il cognome che riceve alla nascita è Bricchetti, quello della madre, mentre il padre Ercole Robecchi, appartenente a una delle famiglie più in vista di Pavia negò
1
E. ROBECCHI BRIVIO, Una famiglia italiana: i Robecchi, Milano, F.lli Bocca, 1938,
pp. 161-172.
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sempre la sua paternità. […] Nel 1874 venne una sentenza della R.
Corte d’Appello di Milano che […] autorizzava il Luigi ad assumere il
cognome del padre e che si chiamerà, per fortuna e grandezza d’Italia, Luigi Bricchetti Robecchi, o meglio Luigi Robecchi Bricchetti,
com’è più giusto e più vero».2 Malgrado la sentenza, Ercole Robecchi acconsentirà solo molto tardi al riconoscimento del figlio, anche
se mai negò i contributi economici per il raggiungimento della formazione universitaria.
Gli studi probabilmente iniziano a Pavia, proseguono in Svizzera
(Zurigo) e si concludono con l’ottenimento del Diploma, in Germania,3 dove apprende anche le principali lingue europee. Sicuramente il nostro esploratore impara, in questo periodo, anche l’arabo in
maniera approfondita4 tanto che, durante i suoi viaggi quando si
trova a contatto con lingue autoctone (somalo, galla, haranini), lo
usa come base metodologica per studiarne la costruzione logica e
compilare brevi dizionari.5 Robecchi può contare anche su una formazione classica, parallela al suo iter formativo tecnico: tra 1873 e
1874, in effetti, è documentata la sua frequenza a un corso ad indirizzo umanistico presso l’Università di Pavia.
Terminati gli studi universitari il futuro esploratore comincia a lavorare come rappresentante commerciale e, specializzatosi nell’installazione di impianti elettrici, inizia a girare il mondo per diverse
2
E. ROBECCHI BRIVIO, Una famiglia… cit., p. 164.
3
M. MILANI, Luigi Robecchi Bricchetti e il suo tempo… cit., p. 68.
4
«[…] montò a bordo, salutò me congratulandosi che io parlassi arabo […]». L.
ROBECCHI BRICCHETTI, Somalia e Benadir. Viaggio di esplorazione nell’Africa
Orientale. Prima traversata della Somalia compiuta per incarico della
Società Geografica Italiana, Milano, Aliprandi, 1899, p. 59.
5
L. ROBECCHI BRICCHETTI, Un’escursione attraverso il deserto libico all’Oasi di
Siuva (1886). Conferenza tenuta alla Società Geografica Italiana dall’ Ing. L.
Bricchetti-Robecchi, in «Bollettino della Società Geografica Italiana»,
maggio 1889, II, fasc. V, Roma, Tipografia della Società Geografica Italiana,
p. 388.
62
aziende europee. Sembra che nel 1885 intraprenda, con un socio,
un’attività commerciale in proprio e si trasferisca in Egitto («[…] per
affari di mia professione […]»)6 per commerciare con l’esercito inglese in materiale di illuminotecnica.
È lecito pensare che, poco dopo, spinto dal crollo dell’attività
commerciale e supportato dai contatti che in quel periodo ha con la
Société de Géographie del Cairo, abbia deciso di effettuare il suo
primo viaggio da esploratore geografo. Nel 1886, infatti, si reca all’oasi di Giove Ammone o Siuwah.
IL PERIODO DELLE GRANDI ESPLORAZIONI
È dopo questo suo primo viaggio esplorativo che Luigi Robecchi
Bricchetti si tramuta, consapevolmente, da tecnico in cerca di fortune commerciali in esploratore interessato a scoprire e rispettosamente svelare una terra inesplorata. Persona colta, con una formazione eclettica, curiosa, con una certa inquietudine di fondo che
funge da spinta costante alla scoperta, al mettersi alla prova. Preparato a relazionarsi con situazioni e culture diverse dalla propria. Un
uomo di trentatré anni, per alcuni versi stravagante per l’epoca, 7 ma
sicuramente avvezzo alla diplomazia internazionale.
Da questo momento in poi numerosissime sono le testimonianze
che raccontano delle esplorazioni e dei suoi ritrovamenti scientifici
(esemplari botanici, materiale zoologico, minerali, oggetti e reperti
antropologici, ecc…).
6
L. ROBECCHI BRICCHETTI, Sul dialetto del Siuwah: nota dell’ing. Luigi Robecchi
Bricchetti, Roma, Accademia dei Lincei, 1889, pp. 278-291.
7
A testimonianza della peculiarità del carattere del futuro esploratore
Robecchi Brivio afferma: «Né solo gli studi da tavolino lo presero, ma studi
che, alle persone colte, sembrerebbero una stranezza: s’interessò di magia,
dell’arte dei giocolieri e di prestidigitazione […]». E. ROBECCHI BRIVIO, Una
famiglia… cit., p. 169.
63
Nel 1888-1889 si reca nella regione dell’Harari, partendo da Zeila sul golfo di Aden, attraverso il territorio abitato dagli Isa Somali e
dai Galla.
Nel 1890, con l’appoggio della Società Geografica Italiana, organizza la sua prima grande esplorazione della Somalia che lo decreta
uno tra i più importanti esploratori italiani. Questa impresa si svolge
tra Obbia (lungo la costa verso la foce del fiume Nogal, che in parte
risale) e Alula. Parte il 28 maggio 1890 ed attraversa la regione lungo la fascia costiera in poco più di due mesi.
È del 1891 il suo ultimo grande viaggio, condotto nel Benadir con
l’appoggio finanziario della Società Geografica Italiana, il sostegno
del Governo italiano e con un incarico particolare della Società Antischiavista italiana. Questa volta attraversa il Benadir: parte da Mogadiscio per via di terra verso Obbia e arriva al fiume Uebi Scebeli,
ne risale il corso fino a Barri e da qui, costretto a rinunciare al proposito di arrivare ad Harar a causa delle incursioni abissine, raggiunge la costa a Berbera (Golfo di Aden). Con questo viaggio compie,
primo tra gli europei, la traversata della penisola dei somali che da
ora lui stesso, come abbiamo visto, battezza Somalia.
Dal suo diario di viaggio: «Accarezzata dalle onde fosforescenti
dell’Oceano indiano, si protende ardita verso levante, quella parte
del continente africano conosciuta sinora col nome di “paese dei
Somali” e da me denominata “Somalia”».8
Va ricordato che in questo stesso anno e precisamente il 24 marzo, viene stipulata la convenzione anglo-italiana che stabilisce il
confine occidentale della zona del Benadir sottoposta all’influenza
italiana. Il Benadir (dalla foce dello Giuba alla città di Meregh) entra
poi, nella sfera del protettorato italiano con una Convenzione il 12
agosto 1892. Robecchi Bricchetti si trova, quindi, ad effettuare le
sue spedizioni in anni cruciali per la politica coloniale italiana. Ha
8
L. ROBECCHI BRICCHETTI, Somalia e Benadir. Viaggio di esplorazione nell’Africa
Orientale. Prima traversata della Somalia compiuta per incarico della
Società Geografica Italiana, Milano, Aliprandi, 1899, p. 3.
64
contatti personali con tutte le autorità coinvolte direttamente o indirettamente con le vicende africane.
Nel 1903 riparte, un’ultima volta, per la Somalia con un incarico
della Società Antischiavista di Roma.9 Questa, preso ufficialmente
atto delle notizie sulla schiavitù nel Benadir, decide di inviarvi una
persona di propria fiducia per indagare accuratamente sugli avvenimenti denunciati dalla stampa italiana (primo fra tutti il «Secolo» di
Milano).
Durante il viaggio la difficoltà che l’esploratore deve superare è
fondamentalmente quella del rapporto con la madrepatria, perché
il suo rigore e la sua estrema franchezza che sopravanzano, a volte,
le necessità diplomatiche si rivelano 'scomode' sia all’interno della
Società anonima commerciale italiana del Benadir (nata nel 1896 in
sostituzione della Società Filonardi per l’amministrazione del Benadir, si ricordi che Robecchi stesso ne era azionista), sia a livello governativo.
Da puntualizzare come dodici anni dopo il suo primo incarico da
parte della Società antischiavista (Benadir 1891), Robecchi Bricchetti cambia radicalmente opinione sulla schiavitù. Come sottolinea
Bertogli, «complice forse il fatto di avere osservato quella “schiavitù
domestica” […] presente in strutture sociali tradizionali, prevalentemente agricole, in cui lo schiavo era quasi un elemento della famiglia padronale che ne condivideva in tutto e per tutto la vita ed i costumi»10 le sue prime parole al riguardo suonano abbastanza accon-
9
Il primo Comitato Antischiavista italiano si costituisce a Palermo, promosso
dal Cardinale Lavigerie, nel dicembre 1888, «[…] coll’intento di far cessare
quella vergognosa tratta dei negri […]». Attraverso una serie di conferenze
tenute a Napoli, Roma e Milano, il movimento antischiavista si estende sul
territorio nazionale, dove si organizzano altri Comitati locali. Queste
iniziative culminano con la costituzione a Roma, nel 1889, di un Comitato
Nazionale che, prendendo il nome di Società Antischiavista d’Italia, fissa la
sede nella capitale. M. PERROTTA, La Società antischiavista d’Italia, in
«Miscellanea di storia delle esplorazioni», Genova, Bozzi, 1980, p. 230.
10
P. BERTOGLI, Robecchi-Bricchetti ed il problema della schiavitù in Somalia e
65
discendenti: la schiavitù, e soprattutto quella “domestica”, era sicuramente difficile da valutare agli occhi di un viaggiatore europeo
poco avvezzo alla realtà che si trovava di fronte. Scrive Robecchi: «Io
non ho mai visto persone più felici e contente di questi schiavi, tutta
gente quieta e tranquilla, gaudente, in una beatitudine serena, che
fa piacere a vederli […]».11
Nel 1903 invece l’esploratore «vede la schiavitù in tutto il suo
aspetto disumano, crudele e contrario ad ogni eventuale e auspicabile sviluppo del paese».12 Nelle Lettere illustrate alla Società antischiavista d’Italia, infatti, denuncia apertamente la presenza e la vitalità della schiavitù e della tratta degli schiavi in Somalia. Racconta
episodi di violenza, di sfruttamento al limite della tortura, di fughe
spesso fallite, riporta cifre precise della presenza di schiavi ed espone un giudizio negativo sull’operato della Società del Benadir, attribuendo gravi responsabilità anche al Governo italiano: «[che] non
seppe e non volle mai applicare nessuna energica restrizione per
fare, non dico scomparire, ma gradualmente cessare i pubblici abusi
consuetudinari, di cessioni, ipoteche, subaffitti ed ogni genere di
speculazioni sopra schiavi […]».13
Robecchi Bricchetti partecipa all’assemblea generale degli azionisti della Società commerciale del Benadir, tenutasi a Milano il 30
settembre 1903, portando con sé ferri, ceppi e documenti: «Io presi
la parola tuonando forte per mettere le cose sotto la loro vera
luce».14 Come risposta a questa denuncia palese della schiavitù, tra
gli atti deliberati, la Società del Benadir stanzia una notevole somma
Benadir, in Atti del Convegno su Luigi Robecchi Bricchetti e la Somalia:
Pavia, 21 aprile 1979, Pavia, Camera di Commercio Industria Artigianato e
Agricoltura, 1979, pp. 29-30.
11
L. ROBECCHI BRICCHETTI, Nel paese degli aromi: diario di una esplorazione
nell’Africa orientale: da Obbia ad Alula, Milano, Cogliati, 1903, p. 489.
12
P. BERTOGLI, Robecchi-Bricchetti ed il problema della schiavitù… cit., p. 51.
13
L. ROBECCHI BRICCHETTI, Dal Benadir. Lettere illustrate alla Società
antischiavista d’Italia, Milano, La Poligrafica, 1904, p. 64.
66
(27.000 lire) come primo capitale per la creazione di un fondo dedicato all’affrancamento graduale degli schiavi e chiede al Governo
italiano, di provvedere all’inserimento dei liberati in un lavoro retribuito: unico rimedio e unica vera alternativa alla struttura sociale ed
economica di allora.
Viaggiatore appassionato e curioso è anche abile cartografo: è
grazie ai suoi rilievi che si colmano le porzioni ancora in bianco della
carta geografica della Somalia. Il suo interesse per la tecnica si
esprime anche attraverso l’uso, ancora non così scontato ai tempi,
della macchina fotografica.
Sin dal suo primo viaggio, infatti, Robecchi Bricchetti si rende
conto tanto del valore documentario quanto di quello evocativo degli scatti fotografici e non esita a utilizzarli per illustrare tutte le sue
pubblicazioni.
Il fatto che alcune immagini del corpus fotografico conservato
presso i Musei Civici siano ritoccate o scontornate con la biacca, ne
testimonia la dimestichezza con i materiali e, soprattutto, con la potenzialità del mezzo espressivo veicolata ritagliando particolari o
escludendo sfondi. «Risulta anche che Robecchi sviluppasse da se alcune fotografie, affittando le camere oscure che negli anni a cavallo
tra Otto e Novecento alcuni studi fotografici professionali mettevano a disposizione degli amateurs che volessero cimentarsi anche
nella seconda fase della produzione di immagini».15 Il corpus fotografico è estremamente utile anche nel mettere in luce alcuni aspetti narcisistici ed eccentrici del carattere di Robecchi Bricchetti.
Congedatosi definitivamente dall’Africa, infatti, si stabilisce a Pavia. Probabilmente, come fa notare Mino Milani,16 incompreso al-
14
L. ROBECCHI BRICCHETTI, ibidem, p. 282.
15
G. DE MARTINI, Museo “Luigi Robecchi Bricchetti”. Il quartiere Pavia a
Bagnara Calabra. 1909: Luigi Robecchi Bricchetti a Bagnara Calabra , in
«Museo in Rivista. Notiziario dei Musei Civici di Pavia», IV, 2010, n° pag. non
reperibile in via di pubblicazione.
16
M. MILANI, Luigi Robecchi Bricchetti e il suo tempo, in Atti del Convegno su
67
meno ai più che lo avevano conosciuto pochissimo e che lo osservavano nelle sue stravaganti iniziative come quella di piantare una
tenda riportata dalla Somalia sulle rive del Ticino per trascorrervi il
tempo libero in solitaria contemplazione, oppure di passeggiare per
le vie della città portando al guinzaglio una coppia di leopardi.
La vera e grande passione di Robecchi Bricchetti sono lo studio e
l’osservazione di quei popoli e di quelle culture così diverse dalla sua
che incontra nel suo esplorare. Pagine scritte, fotografie, disegni, interi saggi sono dedicati al racconto di usi e costumi, strutture linguistiche e giuridiche, caratteristiche somatiche e di carattere. Certo
tutte le sue produzioni sono impregnate della cultura e dei topoi
europei del tempo.
Come Surdich brillantemente mette in luce: «Se parte di queste
osservazioni erano il frutto di indagini precise e accurate, non mancavano poi le tendenze all’esagerazione, frutto sia di superficialità e
di mancanza di un’adeguata preparazione, sia anche di automatica
ed incondizionata adesione ad un determinato schema ideologico e
di interessato opportunismo, dettati entrambi dall’esigenza di alimentare ad ogni costo presso l’opinione pubblica il mito di una “terra promessa”. […]
Il tratto distintivo di questo esploratore sta nella funzione che più
o meno consapevolmente si dispone ad assolvere e nella “missione”
di cui si sente portatore e simbolo, e quindi anche nelle categorie
concettuali e nelle forme stilistiche con cui poi analizza, interpreta e
filtra ogni momento della sua singolare esperienza. […] Si spiega e si
giustifica quindi la tendenza a ridurre la realtà umana ed ambientale
del mondo africano ad un campionario dei tipi e delle situazioni […]
il tutto reso con un repertorio di immagini stereotipate». 17 Così anche in Robecchi Bricchetti (scritti o fotogrfie che siano) si incontrano
Luigi Robecchi Bricchetti e la Somalia: Pavia, 21 aprile 1979 , Pavia, Camera
di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura, 1979, pp. 24-25.
17
F. SURDICH, L’esplorazione italiana dell’Africa, Milano, Il saggiatore, 1982, p.
14.
68
i cliché del “mal d’Africa”, 18 del “buon selvaggio”,19 della “venere
nera”,20 ecc… Leggendo i suoi scritti si avverte, in parallelo, il tentativo di andare più in profondità.
Nella sua minuziosa (quasi ossessiva) ricostruzione delle genealogie di diverse tribù incontrate o nella stesura di vocabolari di lingue
di tradizione strettamente orale, si avverte in Robecchi Bricchetti il
desiderio di cogliere in tutta la loro originalità e complessità le manifestazioni culturali delle popolazioni africane, il significato e il valore delle loro credenze, lo spessore e la sostanza delle loro tradizioni.21
18
«Addio, Karam! Africa, addio! […] L’Asia è certo il paese delle grandi
memorie, della poesia sublime, la l’Africa, ma la povera ignorata Karam che
nell’ora del distacco me la personifica, mi resterà sempre impressa nel
cuore. Dicono che nella retina degli occhi dei morti si mantenga per qualche
tempo riflessa l’immagine delle ultime cose […]. Karam non aspetterà la mia
morte per esercitare questa influenza […]». L. ROBECCHI BRICCHETTI Nel paese
degli aromi: diario di una esplorazione nell’Africa orientale: da Obbia ad
Alula, Milano, Aliprandi, 1901, pp. 608-609.
19
«Il Somalo è insomma l’uomo felice senza passioni, senza illusioni. Qualche
volta fa in lui capolino qualche pensiero d’ambizione, ma è cosa passeggera,
ed egli si estasia nel suo ozio prediletto che lo assorbe e lo ricrea […]».
L.ROBECCHI BRICCHETTI, La Somalia italiana, Pavia, Tipografia del “Corriere
Ticinese”, 1892, p 10.
20
«Queste donne Auija hanno nei lineamenti e nella persona tutta una grazia
soave e corretta. Il tob (vestito) […] ricopre con fasciatura lenta e molle il
seno turgido erompente e, lasciando scoperto il collo fine scende […]. Al di
sopra della bocca carnosa e dal naso dalle nari sottili, brillavano sguardi
lunghi, profondi che avviluppavano in un incanto di soave morbidezza. […]».
L. ROBECCHI BRICCHETTI, Somalia e Benadir. Viaggio di esplorazione nell’Africa
Orientale. Prima traversata della Somalia compiuta per incarico della
Società Geografica Italiana, Milano, Aliprandi, 1899, p. 175.
21
A titolo esemplificativo: ROBECCHI BRICCHETTI L., Tradizioni storiche dei somali
migiurtini raccolte in Obbia dall’ingegnere L. Robecchi Bricchetti, Roma, tip.
di gabinetto del min. degli affari esteri, 1891; ROBECCHI BRICCHETTI L. Sul
dialetto del Siuwah: nota dell’ing. Luigi Robecchi Bricchetti, Roma,
69
Pochissime notizie si hanno degli ultimi anni trascorsi a Pavia è
certo però, che in questo periodo viene maturando il desiderio e l’aspirazione di mantenere la memoria delle sue imprese non solo attraverso i volumi e le pagine degli scritti pubblicati a stampa, ma anche donando alla sua città i documenti (manoscritti e lettere, quaderni, diari e album di viaggio, mappe, carte personali, diplomi e
onorificenze ecc…) e i reperti che oggi compongono i fondi conservati presso i Civici Istituti (Archivio Storico Civico della Biblioteca
Bonetta, Museo Civico del Castello), compresa quella miscellanea di
oggetti oggi esposti al Museo Robecchi Bricchetti.
Luigi Robecchi Bricchetti muore il 31 maggio 1926, a 71 anni, poche settimane dopo l’inaugurazione del Museo a lui dedicato.
IL MUSEO ROBECCHI BRICCHETTI DI PAVIA
Le collezioni Robecchi Bricchetti presso il Museo Civico di Storia Patria, vengono inaugurate il 21 aprile 1926. Nello Puccioni, emerito
professore di antropologia all’Università di Pavia, è chiamato a pronunciare il discorso inaugurale22 che così si apre: «In questo giorno
di così alta significazione, il Comitato Coloniale Pavese ben a diritto,
ha voluto che si rammentasse l’opera di Luigi Robecchi Bricchetti,
Accademia dei Lincei, 1889; L. B. ROBECCHI, Lingue parlate Somali, Galla e
Harari. Note e studi raccolti e ordinati nell’Harar dall’Ing. L. BricchettiRobecchi, in Bollettino della Società Geografica Italiana, marzo 1890, vol. III,
fasc. III, Roma, Tipografia della Società Geografica Italiana, pp. 257-271; L.
B. ROBECCHI, Lingue parlate Somali, Galla e Harari. Note e studi raccolti e
ordinati nell’Harar dall’Ing. L. Bricchetti-Robecchi , in Bollettino della Società
Geografica Italiana, luglio-agosto 1890, vol. III, fasc. VII-VIII, Roma,
Tipografia della Società Geografica Italiana, pp. 689-708.
22
N. PUCCIONI, Per Luigi Robecchi-Bricchetti (inaugurandosi nel Museo civico
di Pavia le collezioni da lui donate il 21 aprile 1926). Discorso del Prof. Nello
Piccioni, in «Bollettino della Reale Società Geografica Italiana», Roma, Reale
Società geografica italiana, 1926, pp. 503-507.
70
proprio nelle sale dove sono riunite le testimonianze dei viaggi ch’egli, a più riprese, effettuò nell’Africa settentrionale ed orientale
[…]».
La denominazione ufficiale del Museo Robecchi Bricchetti, al
momento dell’inaugurazione nel 1926, sembra essere stata quella di
Museo Coloniale. In realtà, non è chiaro da chi, quando e con quale
modalità questa denominazione sia stata introdotta ne tanto meno
se sia stata ufficializzata in qualche modo. È chiara, però, la finalità
che Luigi Robecchi Bricchetti vuole perseguire nell’allestire e rendere pubbliche le sue raccolte.
Il 19 aprile 1926 infatti, due giorni prima dell’inaugurazione ufficiale, l’esploratore scrive un’ultima lettera al Sindaco di Pavia: «Il
viaggio testè compiuto da S.E. Il Presidente dei Ministri nella Tripolitania, mi richiama alla mente […] il desiderio che la collezione da
me donata costituisse un legame tra la scienza ed il commercio e
desse maggior valore alle nostre colonie che, a dir vero, per lo passato non furono mai sufficientemente apprezzate a trarne quel profitto dalla quale sono suscettibili. […] Dovrebbe interessarsi affinché
il Regio Ministero della Colonia volesse donare alla nostra città quegli oggetti di cui nel predetto Ministero esistono duplicati. […] La
nostra è una provincia eminentemente agricola e quando mai potessimo presentare agli intelligenti nostri agricoltori una raccolta dei
semi dei frutti, dei legumi, e dei prodotti in genere di quei paesi sarebbe di non poco giovamento».23
Una funzione didattica, quindi, basata su “scambi pratici e concreti” di informazioni, di esperienze, di oggetti. L’esploratore, d’altronde, non è un accademico e non è abituato a raccogliere presagendo una qualche forma di esposizione museale.
Nel 1955 le collezioni Robecchi Bricchetti vengono trasferite al
Castello Visconteo.
23
ASCP, Ibidem.
71
Il 4 ottobre 1997 vengono inaugurate le nuove, ed ancora aperte,
sale del Museo del Risorgimento e del Museo Luigi Robecchi Bricchetti.
Questo nuovo ordinamento, come sottolinea il discorso inaugurale del professor Mozzati, pur mantenendo distinte le identità dei
due musei (quello etnologico e quello storico), li vuole legare nel
profondo significato storico: «L’Italia ha un suo percorso particolare:
perché dal Risorgimento alla seconda Guerra Mondiale il nostro
Paese ha sviluppato una costante ed anche crescente politica coloniale, nonostante un agguerrito movimento anticolonialista […]. Gli
uomini del Risorgimento credettero tutti nell’incivilimento coloniale
[…] e sappiamo anche che furono uomini del Risorgimento che diedero l’avvio, una volta raggiunta l’unità d’Italia, alla nostra politica
coloniale. Se vogliamo dunque veramente mettere le mani a fondo
nella questione coloniale intesa nel senso odierno della parola, dobbiamo andare alle radici del problema, una delle quali è proprio il
rapporto con il Risorgimento.
Ecco perché l’accostamento delle sale, spaziale perché contigue,
e temporale perché inaugurate nello stesso giorno di oggi, acquista
un significato particolare […]. Il contatto profondo intervenuto con
le culture altre in epoca coloniale, ha accompagnato la formazione
delle identità nazionali nell’Europa del XIX secolo.
Al punto che possiamo guardare le collezioni etnografiche ( e
perché non quella di Robecchi Bricchetti?) non esclusivamente
come fonte d’informazione sulle culture non occidentali, ma come
archivi della società europea. […] Il Museo di Pavia ha lanciato una
sfida […]».24
24
M. MOZZATI, Attualità del “museo coloniale” Luigi Robecchi Bricchetti , in
«Bollettino della società pavese di Storia patria», Pavia, Tipografia del libro,
1998, pp. 375-378.
72
CONCLUSIONI
Il Museo Luigi Robecchi Bricchetti è dunque un museo complesso
con un forte potenziale comunicativo. Robecchi Bricchetti, infatti,
raccoglie materiali di ogni tipo e genere al fine di fornire, agli scienziati in patria, dei reperti da studiare. Parte di questi materiali non
trovando ubicazione o approvazione da parte delle Società Geografiche o dalle diverse Istituzioni correlate, si sono evidentemente accumulate nel suo studio.
Ne risulta così che al momento della donazione al Comune di Pavia,
il nostro esploratore oltre ai ricordi e agli oggetti personali, ai suoi
scritti ed ai manufatti o immagini a lui più care, lascia anche la parte
residuale di questi accumuli.
Fattore complesso è anche il periodo storico, l’età coloniale italiana tra fine Ottocento e inizi Novecento, in cui Robecchi Bricchetti
vive e compie le sue attività esplorative. Per lo più sconosciuto al
pubblico, questo momento storico porta con sé numerose contraddizioni che, seppur difficili da far emergere in un contesto museale,
potrebbero essere la chiave dell’attualizzazione del Museo Robecchi
Bricchetti e il recupero di una riflessione e di un dialogo con i visitatori/cittadini sui problemi attuali del territorio pavese e nazionale
(confronto, integrazione, pluralismo culturale).
Sarebbe di estrema importanza cogliere l’opportunità di applicare una nuova visione museologica, ancora inespressa, a questo Museo intrinsecamente multiculturale (oggetti africani, donatore pavese di formazione europea) per spiegare, prima di tutto, i rapporti indiretti che lo legano al territorio di Pavia.
Nel raccontare Luigi Robecchi Bricchetti sarebbe poi possibile
mettere in luce le contraddizioni che caratterizzano la sua figura di
esploratore (amore e rispetto per l’Africa e le sue popolazioni con le
istanze coloniali che lo hanno motivato), nonché quelle bizzarrie e
quelle eccentricità personali che lo rendono, ancora oggi, un personaggio con cui potersi confrontare e non un eroe d’altri tempi congelato nella storia.
73
La puntualizzazione delle contraddizioni darebbe anche la possibilità di aprire una riflessione sulla situazione contemporanea attraverso la partecipazione attiva della cittadinanza, anche di quella
africana, a cui parte del materiale del Museo appartiene culturalmente di diritto.
74
La nuova lingua tra amore e timore
nelle opere degli autori migranti
Mara Clementi
Fondazione ISMU, Milano
Mara Clementi lavora presso il Centro Documentazione della Fondazione ISMU
di Milano. Il Centro Documentazione rappresenta la principale struttura
dell'ISMU; non si tratta di una semplice biblioteca, ma di un complesso di servizi
di consulenza nell’individuazione delle fonti di documentazione, nella loro
fruizione, e nella progettazione di iniziative formative e culturali. L’attività è svolta
sia a favore degli utenti che visitano il Centro Documentazione , sia a favore di
coloro che accedono al sito internet della Fondazione o vi si rivolgono attraverso
la posta elettronica. Oltre all’attività di assistenza all’utenza, il Centro
Documentazione realizza il monitoraggio, l’analisi e l’organizzazione delle fonti
statistiche e documentarie per facilitarne la fruizione da parte del pubblico non
esperto, e un’intensa attività editoriale per favorire la divulgazione delle
conoscenze. Nel corso degli anni il Centro Documentazione è andato
consolidandosi nel ruolo di principale centro di documentazione in Italia sui temi
delle migrazioni internazionali e della convivenza interetnica, e ha sviluppato una
serie di rapporti di collaborazione e interscambio coi principali centri risorse
europei. Mara Clementi è la consulente della Sezione Letterature delle
Migrazioni e Letterature Africane.
IL TEMA della relazione e della lingua – lingua come protagonista
degli scritti di moltissimi autori e autrici migranti (in questo caso
dunque più che una lingua parliamo dell'incontro tra due lingue:
quella d'origine e quella del Paese di accoglienza) e non migranti –
è ricorrente in tantissime opere letterarie.
Il mio lavoro è consistito in un lavoro di montaggio, di quello che
nel linguaggio tecnico si chiama cut up: ho selezionato autori e au75
trici di ogni tempo e di ogni luogo e ho assemblato le loro voci, le
loro testimonianze, a volte per analogia, a volte per contrasto, senza
un mio intervento di commento: il mio commento e la mia riflessione sul tema sono affidati proprio al montaggio in sé, tralasciando le
peraltro poche testimonianze degli autori in lingua italiana, perché
sapevo che ci sarebbero stati molti di loro qui pronti a darci la loro
testimonianza su questo tema.
Veniamo dunque al nostro interrogativo: che cosa succede nella
migrazione linguistica e che cosa succede nell'uso di più lingue che
si intrecciano e che si contaminano? Che cosa si perde e che cosa si
acquista, che cosa rimane inespresso tra la vecchia lingua, la lingua
madre, e la nuova lingua?
Mi piace come prima cosa proporvi questa frase così semplice, al
di là di ogni metafora, di un bambino che a scuola chiede alla sua
maestra: maestra, a casa parlo croato, a scuola italiano, cosa son mi
maestra, italiano o croato? È questo l'interrogativo di un bambino
che subito individua nella doppiezza delle due lingue uno sdoppiamento identitario, cui risponde in modo straordinario secondo me
proprio il grande scrittore Ettore Schmitz, che però noi tutti conosciamo come Italo Svevo.
E perché ha voluto darsi questo nome? Per rivendicare una doppia appartenenza, ha voluto nel nome sintetizzare per sempre, codificare, la sua appartenenza italiana e la sua appartenenza alla lingua
germanica chiamata appunto sveva. Questa dunque potrebbe essere la prima risposta al dubbio identitario: la rivendicazione.
La doppiezza delle appartenenze viene immediatamente rivendicata e fatta diventare proprio nome, e così questo nome che noi
pratichiamo in quanto nome di un grande autore di fatto sono due
aggettivi di appartenenza, due aggettivi di identità: essere italo ed
essere svevo allo stesso tempo.
Ma l'interrogativo identitario viene sempre, continuamente, posto, soprattutto fra genitori e figli nelle diverse generazioni. Mamma, dice un bambino, oggi ho visto una signora che parlava la tua
lingua. Ma la mia lingua è anche la tua! No, mamma, io parlo italiano, sono italiano. Ed è vero, aggiunge tristemente la mamma, lui
76
non parla la nostra lingua, non la vuole nemmeno sentire quando io
e mio marito la parliamo in casa, temendo che questo possa comportare che quando sarà grande il bambino non l'accetti più, che si
vergognerà dei genitori – individuando cioè già quella che può essere una grande lontananza tra due generazioni, tra padri e madri e
figli.
Vedovelli, studioso dei fenomeni linguistici, afferma che nei migranti succeda questo:
i migranti si legano a una visione mitica dell'identità linguistica
originaria oppure vi si distaccano con acredine, si annegano
nella nuova lingua o vi resistono a costo del silenzio e
dell'esclusione, vi trovano nuove linee espressive e le riportano
nella comunità lingua d'origine o se ne appropriano
dimenticando quest'ultima, quindi molto molto diverse sono le
emozioni, gli atteggiamenti, i vissuti rispetto al fare proprio la
lingua del paese in cui si è andati a vivere.
Ed ecco una testimonianza di un poeta, di uno scrittore Italiano,
Pasquale Marino, che vive in Germania, e che esprime anch'esso in
modo molto diverso il dramma, il contrasto, l'impossibilità forse di
coniugare due lingue e due culture, e dice semplicemente così:
è stato Amilcare, però, che mi ha distrutto il frutto di tanti
sacrifici, ché quando l'altro l'altro giorno sono andato a
prenderlo all'asilo ed è scappato dagli altri bambini tedeschi e
mi ha guardato con rimprovero e in tedesco puro mi ha detto Ist
es whar, papa? Das ich ein Italiane vin? An spaghetti, so wie du?
[È vero, papà? Anch'io sono un italiano? Uno spaghetti come sei
tu?]
Ecco che il padre che pensa che il suo processo di acquisizione
culturale sia acquisito, che oramai con il figlio parli in tedesco,
quando meno se l'aspetta vede riproporsi con questa domanda tutto
un dramma rispetto in questo caso all'impossibilità di conciliazione
tra due anime, due cuori che vivono e palpitano in due lingue diverse.
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E sempre per fare emergere le ansie, i dubbi, i timori che la lingua come identità pone, ecco questa poesia scritta da una donna
boliviana che vive in Germania e che portando a passeggio il proprio
bambino nella carrozzina si interroga su quale delle lingue sarà la
lingua del figlio, e in questo ritornello quasi ossessivo dice:
in quale lingua ti devo parlare, la sera quando finisce il giorno e
la tua testa sotto il peso dei sogni mi cade tra le braccia, ecco
che dal cuore rifiorisce sulla bocca una ninna nanna nella mia
vecchia lingua, ecco che quando i filtri della ragione o del
dovere comunicativo cadono, ecco che la vecchia lingua, che la
lingua madre riemerge nel momento affettivo di unione, di
comunione con il bambino. In quale lingua ti devo parlare? In
tutti i giorni per strada saluto il vicino, in questa nuova lingua
tedesco, il pane lo porto a casa in questa nuova lingua, e tu sei
nato qui, ma quale delle lingue sarà la tua, in quale delle lingue
ti devo parlare?
E quelli che fra di noi, fra di voi sono insegnanti o hanno a che
fare con tanti genitori stranieri sanno che questo è un dubbio che si
pone molto spesso, che i genitori, le mamme pongono molto spesso
agli insegnanti, è giusto o non è giusto che io parli al mio bambino
nella lingua madre o nella lingua Italiana?
Ecco, questo è un interrogativo che non possiamo sciogliere qui,
perché porterebbe a un dibattito molto forte, ma se seguiamo tutte
le più recenti indicazioni sappiamo che dovremmo consigliare di
parlare nella propria lingua madre.
Un'altra testimonianza ci viene dall'altra parte del mondo, gli
Stati Uniti, da un italiano divenuto uno scrittore molto importante,
Joseph Tusiani, emigrato dalla Puglia negli USA a ventun'anni e ha
conosciuto suo padre soltanto allora, perché il padre era a sua volta
emigrato quando sua madre era incinta, scrittore in tantissime lingue – inglese, francese, latino, e lui aggiunge e anche in dialetto
garganico: anche il suo dialetto di origine delle Puglie è una lingua
per lui di scrittura, è una lingua di comunicazione letteraria.
78
Ecco che lui sintetizza così il distacco che la nuova lingua può
creare fra le generazioni:
ma all'improvviso gli insegnarono a dire mother per mamma, e
per cielo sky; quel giorno ci perdemmo. Ora mi guardi come se
io fossi un po' di più e anche un po' di meno di quello che un
figlio, il tuo bambino, dovrebbe essere, sì, mi hanno insegnato a
tradurre ogni cosa, anche me stesso.
Che cosa si perde? Ritorna quindi questo interrogativo: che cosa
si perde, che cosa si acquista, che cosa rimane di inespresso fra le
due lingue? Per molti autori la lingua nuova ha significato la perdita
di una comunicazione vitale, proprio perché i suoni delle nuove parole sono lontani, echeggiano lontani da quelle che sono le emozioni, perché non hanno avuto un vissuto che le rappresenta.
Ecco che cosa ci dice Eva Hoffmann in un meraviglioso testo, Lost
in translation:
le parole che imparo adesso non rappresentano le cose in quel
modo assoluto caratteristico della mia lingua madre. Fiume in
polacco era un suono vitale, rafforzato dall'essenza del fiume,
dei miei fiumi, di me immersa nelle acque dei fiumi. In inglese
invece è freddo, è una parola senza aura, non ha depositato
associazioni dentro di me e non emana quell'alone luminoso
della connotazione, non mi evoca nulla, le mie parole inglesi non
s'agganciano a niente.
Ovviamente gli scrittori hanno questo potere straordinario di dire
come nessun altro sa dire quello che molti di noi però provano e
hanno provato nella migrazione, e proprio agli insegnanti io vorrei
dire una cosa: ricordiamoci queste parole quando non riusciamo a
capire perché in bocca agli alunni stranieri, ai bambini stranieri, certe parole perdono di significato.
Perché non riescono a dirle, a esprimere? Perché mancano di vissuto, perché sono delle parole fredde, perché prima che una parola
diventi una parola viva c'è bisogno di viverla come esperienza, e
79
quindi la fase dell'acquisizione di una seconda lingua è una fase lunga, assolutamente straordinaria.
Ecco un altro autore che quando scrive poesie si chiama si fa
chiamare Gino Chiellino e che invece si chiama Carmine Chiellino,
un saggista importante che tanto ha scritto proprio sulla lingua e
sull'approccio interculturale o transculturale al bilinguismo, e che
seppur in modo diverso afferma a sua volta questo concetto di una
lingua senza infanzia:
non scrivo in tedesco, la mia lingua qui, la mia lingua qui, la mia
lingua tedesca, non ubbidisce, mi pensa in avanti, senza infanzia,
le riesce farmi avvicinare e farmi prendere la lontananza, mostra
un'altalena, io vorrei scrivere poesie in tedesco ma sento che
questa cosa non è possibile, perché le parole che vorrei scrivere,
che perfettamente conosco perché scrivo saggi sulla lingua, ma
nel momento in cui voglio esprimere poeticamente l'emozione,
questa lingua da altalena mi fa avvicinare, poi immediatamente
mi riporta lontano, proprio perché non ha l'infanzia.
E poi c'è un'altra importantissima scrittrice, Agota Kristof, che
dall'Ungheria nel '56 è costretta a scappare e si ritrova per caso in
Svizzera all'età di ventuno anni in una città in cui si parla francese, e
lì comincia una lotta durissima, accanita, per conquistare questa lingua:
parlo francese da più di 30 anni, ma ancora non lo conosco. Non
riesco a parlarlo senza errori; è per questa ragione che io
definisco il francese una lingua nemica, ma c'è un'altra ragione
più forte, più importante, più grave, per cui io vedo questa
lingua come nemica: è che questa lingua sta uccidendo la mia
lingua materna.
Proprio sulla lingua nuova che non viene scelta ma che viene imposta – la lingua del colonizzatore – un poeta e scrittore haitiano
presentato nella straordinaria antologia della nuova poesia negra di
Senghor di tantissimi anni fa in una poesia che si chiama Traison,
tradimento, scrive così:
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questo cuore ossessivo non aderente alla mia lingua, ai miei
costumi, e sul quale come un rampone mordono sentimenti
fittizi, usanze d'Europa, la sentite la sofferenza e la disperazione
senza uguali, di addomesticare con parole di Francia questo
cuore che mi è venuto dal Senegal?
Ecco qui tutto un grido di disperazione, tutto il dramma della deportazione degli schiavi, perché chi scrive è haitiano ma con lontani
antenati africani.
Ma sempre sulla lingua degli oppressori c'è un'eccezionale testimonianza di Pablo Neruda, che fa della lingua spagnola un mezzo di
straordinaria espressione letteraria, non vivendola come un tradimento o una violenza, ma come un regalo prezioso:
che bella lingua la mia, che buona lingua abbiamo ereditato dai
biechi conquistatori. Andavano a balzi per le tremende
cordigliere, per le Americhe increspate, cercando patate,
salsicce, fagioli, tabacco nero, oro, mais, uova fritte;
trangugiavano tutto con religioni, piramidi, tribù. Ma ai barbari
dagli stivali, dalle barbe, dagli elmi, come pietruzze cadevano le
parole luminose che rimasero qui splendenti, la lingua. Fummo
sconfitti e fummo vincitori, si portarono via l'oro e ci lasciarono
l'oro. Se lo portarono via tutto e ci lasciarono tutto, ci lasciarono
le parole.
E dunque anche rispetto alla lingua dei conquistatori gli atteggiamenti e i vissuti possono essere assolutamente diversi, si può ritorcere contro il conquistatore lo strumento che ci impone, come la
lingua di Calibano, ma può essere proprio invece lingua di unione,
di dialogo, di espressione delle cose più belle e più profonde.
Ecco che invece per Julia Kristeva, che dalla Bulgaria emigra in
Francia, ritorna – in quello straordinario testo che è Stranieri a se
stessi – il dubbio di che cosa voglia dire scrivere in un'altra lingua:
abitare sonorità, logiche separate dalla memoria notturna del
corpo, dal sonno agrodolce dell'infanzia, vi perfezionate in un
altro strumento come ci si esprime con l'algebra o il violino,
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avete l'impressione che la nuova lingua sia la vostra resurrezione,
nuova pelle, nuovo sesso, ma l'illusione si squarcia quando vi
riascoltate su nastro registrato ad esempio, e la melodia della
vostra voce vi ritorna bizzarra, da nessuna parte, più vicina al
borbottio di un tempo che al codice di oggi, così fra due lingue il
vostro elemento è il silenzio.
Che cosa succede dunque nell'uso di più lingue fra loro intrecciate, è possibile la contaminazione? Vediamo che cosa ci dice un altro
poeta che ha fatto della lingua tedesca anche un elemento della sua
espressione, Giuseppe Giambusso, nato in Italia e che ha vissuto e
vive in Germania:
Sul filo intrecciato
delle mie lingue
e vite
vado
palpando die Fremde
In alto
fra spettatori assenti
e pseudopatrie
i miei io
si snodano in un ballo
senza fine.
Questa poesia usa uno strumento straordinario per dimostrarci
l'impossibilità di sintesi fra due diversità, espresse utilizzando il bilinguismo e in un modello così ricco e melodioso e pieno di sfumature come vado / palpando die Fremde. Ma l'utilizzo di questo segmento così straordinario è una trappola, assolutamente voluta e determinata del poeta: sono due impossibilità che si scontrano perché
l'una non è traducibile nell'altra lingua, vado palpando è l'espressione ricchissima del gerundio italiano, di un modo e tempo verbale
che il tedesco non ha: il tedesco ha il participio presente, che esprime semplicemente una funzione modale, mentre il nostro gerundio
esprime la causa, la temporalità, la modalità, e quindi nella tradu82
zione questa complessità si perde, e quindi non si può tradurre. Ma
allo stesso tempo che cosa noi non possiamo tradurre die Fremde,
perché con articoli diversi assume significati assolutamente diversi,
è un concetto assolutamente polivalente che vuol dire straniero ma
che vuol dire anche esilio, estraneità, diversità, estero, e quindi non
è traducibile. Ecco che allora in due versi noi abbiamo racchiusa tutta in questa impossibilità che l'autore vede non soltanto rispetto alla
lingua, ma anche rispetto alla lingua come vissuto, come conciliazione di vite e di modelli culturali diversi che possono intrecciarsi.
Ma non è per tutti così. Per qualcuno la nuova lingua è un amore,
un amore da inseguire, da rincorrere, da conquistare, e che come
tutti gli amori, ci può tradire, si può allontanare – ma rimane sempre
nel nostro vissuto un amore. Quel grandissimo scrittore che è Nabokov dà un'altra chiave di lettura del suo successo mondiale, Lolita:
Lolita è la mia tragedia privata, perché rappresenta la lingua
americana, è la metafora della lingua americana, io ho dovuto
abbandonare la mia lingua russa, così libera, così infinitamente
docile, per l'americano.
Ma di Lolita che lo seduce. il suo vecchio professore è però affascinato, nutre una passione profonda per la giovane amante, passione sempre più forte perché sa di non poterla possedere mai totalmente, e proprio come Lolita la nuova lingua americana è sempre
pronta a ritrarsi, a fuggire, a tradire.
Molti altri scrittori hanno testimoniato questa impossibilità di
possesso della nuova lingua, quando meno te l'aspetti, e questo forse succede anche a noi nel bilinguismo, in certi momenti quando
meno te l'aspetti quella lingua che tu pensi di possedere fino in fondo ti tradisce, si allontana, non c'è, quella parola non viene, quella
cosa non riesci ad esprimerla. Qualcuno ci ammonisce che la nuova
lingua è una sfida. Così la scrittrice e poetessa scoperta attraverso
concorsi letterari in Italia già a partire dagli anni '90, Gladys Basagoitia Dazza, nata in Perù:
sei giunto al paese dei tuoi sogni
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sorridi
non bastano i sorrisi
si chiudono le anime e le porte
accettando la sfida
fai tua l’estranea melodia
attraversi frontiere
conservi la canzone di tua madre
per cantarla ai tuoi figli.
Insomma, la conquista è una sfida che io accetto, ma concentriamoci sull'utilizzo di queste due parole, estranea melodia, assolutamente straordinario: la lingua italiana è qualcosa di molto dolce, melodia con la l e la m è una parola dolce appunto, ma accompagnata da
un aggettivo molto duro, estranea, con la s ,la t, e la r. Quindi quest'estranea melodia che io voglio conquistare mi fa attraversare
frontiere, e io le affronto, però dentro di me conservo la canzone di
mia madre per cantarla ai miei figli, e quindi la lingua madre – ritorniamo a quell'interrogativo che molti si ponevano: non è la lingua
soltanto che io tengo nel mio cuore, nello scrigno dei miei ricordi,
nella cassaforte delle mie cose preziose. No, è qualcosa di vivo che
io voglio trasmettere perché la canto, e la canto ai miei figli.
Un altro poeta straordinario, che dall'Albania è arrivato in Italia,
autore di poesie in albanese e in Italiano, Gëzim Hajdari, scrive:
tu parola mi hai stregato lingua e cervello, per correre dietro di
te ho detto addio alla mia piccola patria, ai miei amori.
Per molti la nuova lingua è un territorio, un luogo in cui si approda, un luogo d'incontro, dove si può dare vita alla scenografia del
doppio, alla costruzione di nuove identità che sono in continuo
cambiamento. Sempre Gëzim Hajdari, in modo più esplicito:
la lingua italiana è il mio Paese ospitante, non si emigra da un
territorio all'altro, ma tra le lingue. Così posso essere albanese
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ma anche italiano, e sentirmi ospite del mondo. Ovunque vado
sono a casa mia.
Ma anche uno scrittore Italiano che non è emigrato, Erri De Luca,
dice:
la mia patria è la lingua italiana. L'ho avuta da mio padre, dai
suoi libri, dalla sua pretesa di parlarla in casa senza accento. È
stato un dono immenso, è stata patria intesa come territorio del
padre. È lingua seconda, messa accanto in sordina rispetto alla
prima voce, il napoletano. L'italiano è una lingua aggiunta, la
amo.
Un autore di lingua araba, Abdelkebir Khatibi, ha scritto tanti
anni fa un libro straordinario che si chiama Amore bilingue, con la
lingua come assoluta protagonista: l'amore fra lui e una donna francese si esprime solo attraverso le sue riflessioni sulla lingua. A un
certo punto Khatibi dice questo:
scrivendo in arabo sento il bisogno di inventare un altro ritmo, di
introdurre un altro immaginario, di rifiutare ciò che è statico e
irrevocabile; scrivendo in francese un'altra sensibilità attraversa
il mio universo metaforico, due memorie si confondono per dire
l'erranza così necessaria ai nostri giorni per conoscere l'altro, per
combattere le frontiere dello spirito umano così spesso
imprigionato in nazionalismi distruttivi, quindi non c'è
contrapposizione, non c'è impossibilità, c'è l'ampliamento di un
orizzonte espressivo.
Io sono due cose diverse e posso esprimermi di più, posso dare di
più, e posso dare ed esprimere l'incontro scrivendo in due lingue,
amando profondamente due lingue, ed è proprio rispetto all'amore
e alla libertà che una nuova lingua può dare che ho scelto alcuni
brani di autrici che ci introducono in un concetto diverso, finora non
trattato.
Liliana Lazar, che viene dalla Romania, testimonia che perdere la
sua lingua madre l'ha resa libera:
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leggere in francese mi ha consentito di schiudere una porta su
nuovi orizzonti.
Scrivere in una lingua che non è la propria offre una libertà che la
lingua materna non sempre consente. Una nuova lingua permette di
liberarsi dalle barriere psicologiche, dall'autocensura che la lingua
madre inevitabilmente agisce. Capita che il cammino che porta alla
scrittura passi attraverso parole che vengono apprese più tardi, parole che ci liberano da quello che non avremmo saputo dire altrimenti. Quanta profonda verità, è vero, la lingua madre ha codificati
delle censure, perché nella lingua madre ho vissuto delle proibizioni, oltre ad aver vissuto le emozioni, e quindi le ho interiorizzate, e
forse certe cose non posso esprimerle. Ovviamente chi dice questo
ha un determinato vissuto, in questo caso il vissuto di tutta la dittatura di Ceauşescu, del divieto assoluto di accedere a letterature
scritte in altre lingue, ossia del divieto di avvicinarsi non soltanto a
una nuova lingua, ma a un altro modo di pensare, un altro modo di
interpretare il mondo, un altro mondo.
Ecco cosa dice lo scrittore afgano Atiq Rahimi parlando del suo libro straordinario che è Pietre di pazienza, vincitore del premio Goncourt nel 2008:
quasi senza volerlo l'ho scritto direttamente in francese. All'inizio
sono rimasto sorpreso perché non mi usciva nessuna parola
persiana, sempre più incuriosito ho continuato a scrivere in
francese sperando di capirne il motivo. La ragione più banale è
che scrivere in francese è per me un modo per sfuggire
all'autocensura. La lingua materna, come vuole il suo nome, è
una lingua sacra, difficile da trasgredire perché è attraverso di
essa che si conosce il mondo, i suoi confini, i suoi tabù. In fondo
scrivere in una lingua diversa dalla propria è come fare l'amore
con un amante o con una amante.
Concludo. Dicevo all'inizio che volutamente poche sono le testimonianze che ho inserito di autori che scrivono in lingua italiana
perché sono anche oggi in mezzo a noi, e allora vi lascio con questa
86
domanda: che cos'è la lingua italiana per gli scrittori e le scrittrici
qui oggi? Per tutti noi che cosa rappresenta? È e può essere davvero
una lingua che apre un viaggio, che ospita un desiderio d'incontro?
È appunto la parola un luogo d'incontro?
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Dal marocchino al rom:
la storia dei nemici immaginari in Italia
Amara Lakhous
Amara Lakhous (Algeri) è uno scrittore, giornalista e traduttore algerino. Vive e
lavora a Roma dal 1995. Si è laureato in filosofia all'Università di Algeri e in
antropologia culturale all'Università La Sapienza di Roma. Ha lavorato sulla prima
generazione dei mussulmani arabi immigrati in Italia. Nel 1994 ha lavorato come
giornalista della radio nazionale algerina. Dal 1995 lavora in Italia nel campo
dell'immigrazione, svolgendo l'attività di mediatore culturale, interprete e
traduttore. Nel 2006 ha vinto il premio Flaiano e il Premio Racalmare-Leonardo
Sciascia.
MI PRESENTO: mi chiamo Amara, vivo in Italia da quasi diciassette
anni, ho vissuto quindici anni a Roma, ho fatto una parentesi vicino a
Roma, a Bracciano, e da un anno mi sono trasferito a San Salvario.
Ho vissuto la prima fase, e quindi dal 1995 al 2004 come rifugiato,
poi dal 2004 al 2008 come immigrato extracomunitario e nel 2008
sono diventato cittadino italiano.
In questi anni ho cercato di essere osservatore della realtà italiana, osservazione che posso anche definire con un concetto molto
bello di Leonardo Sciascia, “l'intelligenza della realtà”.
Cercare di osservare questa realtà, di capirla, di fare domande e
successivamente cercare di narrarla: il mio lavoro di scrittore si inserisce in questo contesto, quindi osservo la realtà italiana dall'interno
e dall'esterno, e i miei romanzi sono frutti di questo approccio.
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Se dovessi definire una domanda fondamentale che attraversa la
mia vita e attraversa la mia scrittura direi che è: come convivere insieme con le nostre diversità? Questa è la chiave fondamentale per
capire i miei due romanzi Italiani, Scontro di civiltà per un ascensore
a Piazza Vittorio e Matrimonio all'islamica a viale Marconi.
Questa domanda me la sono portata in realtà dall'Algeria, da cui
sono scappato nel '95 per motivi non solo politici in realtà, anche sociali, intellettuali, culturali, e dove ho visto coi miei occhi il fallimento di questa convivenza fra algerini.
Me ne sono andato via con questa ossessione e quando sono arrivato in Italia mi sono trovato di fronte a tante diversità, sono andato
a vivere a Piazza Vittorio: come mi piace dire, ho vissuto nel futuro
dell'Italia, nel bene e nel male, e a Piazza Vittorio e a Roma ho avuto
modo di approfondire, anzi, di aumentare quest'ossessione, come
convivere con le nostre diversità.
All'inizio ho cominciato a pensare alla convivenza fra italiani e
immigrati, quella più scontata; poi piano piano mi sono reso conto
che c'è una convivenza da costruire fra gli stessi italiani, e questa è
stata un'intuizione molto interessante in Scontro di civiltà per un
ascensore a Piazza Vittorio, raccontare questo problema meridionale, e adesso questa intuizione mi ha portato a Torino, dove mi sono
trasferito un anno fa per scrivere un romanzo cercando di recuperare quest'emigrazione meridionale che nella memoria italiana è stata
cancellata.
Mi capita a San Salvario di incontrare un signore di una certa età,
insomma, avrà più di settant'anni, che comincia ogni volta a parlarmi
male degli immigrati di oggi: io lo lascio parlare, lui mi dice non si
può più vivere, la notte non si può camminare (io poi la notte esco e
non trovo niente, quindi in realtà è una paura immaginaria, ma tornerò sull'immaginario dopo), io lo lascio parlare, e lui dopo un po'
inizia a raccontarmi della sua immigrazione dalla Calabri, di come è
stato accolto malissimo: non gli affittavano la casa, con i famosi cartelli e gli chiedevano non di integrarsi, ma di sciogliersi con quello
che possiamo dire la cultura piemontese, ecc.
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Allora come convivere con le nostre diversità? Questa domanda
mi ha portato a riflettere molto, e voglio dire subito che non mi piace la parola “integrazione”, la trovo esagerata, la trovo fuori contesto. Faccio prima una parentesi e chiarisco che se sembrerà che parli
male degli italiani, io non perché sono cittadino italiano con passaporto italiano, questo veramente conta poco, ma mi sento italiano
prima di tutto come cittadino della lingua italiana, e questa cittadinanza me la sono proprio sudata, guadagnata, mi sento italiano perché ho degli amici, ho degli affetti italiani, per cui io parlo dell'Italia
perché la amo, e perché non posso essere indifferente.
Detto questo, ecco perché non mi possono chiedere di integrarmi: in quale cosa mi devo integrare? Io voglio integrarmi nell'Italia
di Borsellino, di Falcone, di Saviano, non nell'Italia del bunga bunga,
del disprezzo delle donne, dell'altro, di quello che poi non mi piaceva nella mia cultura di origine – quello che ho raccontato nel mio romanzo d'esordio, Un pirata piccolo piccolo –, quindi io non posso
accettare quello che ho rifiutato. Sono scappato via dall'Algeria pagando un prezzo alto e poi arrivo in Italia e mi integro con quello
che avevo lasciato?
Un'altra cosa, questa può essere una provocazione del prossimo
romanzo: se c'è un'integrazione oggi in Italia che sia perfetta e
straordinaria, è l'integrazione di delinquenti stranieri nella criminalità italiana.
Ecco, quindi io preferisco la parola “convivenza”, cercare di convivere con le nostre diversità. E qui iniziano i problemi: cos'è, mancanza di conoscenza? Ma allora per convivere bisogna conoscersi?
Io dico piuttosto che c'è una pseudo-conoscenza, una falsa conoscenza, fatta di pregiudizi, di stereotipi, luoghi comuni che vengono
scambiati per teorie, assiomi.
Un'altra questione importante è quella dell'immaginario. C'è un
immaginario talmente turbato che rende questa convivenza molto
difficile. Vi leggo in proposito una bellissima citazione di Nietzsche
che parla del ruolo del medico – di come lui come vede il ruolo del
medico: tranquillizzare l'immaginario del malato, che almeno non
abbia a soffrire come accaduto fino ad oggi.
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Se ci pensate, spesso, quando siamo malati, non siamo preoccupati della malattia in sé, ma dei pensieri che ci facciamo sulle malattie, su che cosa ci succederà, e via dicendo.
Questo io l'ho vissuto in Algeria prima di partire, col terrorismo.
Il terrorismo è una malattia, è una malattia dell'immaginario: tu ti
ammazzi da solo, il terrorista forse non sta pensando nemmeno a te,
tu però nella tua mente dici adesso mi uccideranno, mi ucciderà; oltretutto c'è una fertile immaginazione su questo, un'immaginazione
malsana che ti porta a immaginare cose incredibili.
Mi ricordo che in quegli anni, parlo del '93-'94-'95 uno degli argomenti più forti quando ero con un gruppo di amici scrittori era:
sei condannato a morte, ti ammazzeranno prima o poi, però come,
quale morte preferiresti?
Non essere ucciso fra i miei familiari, essere ucciso mentre esco
di casa, mentre torno, mentre non so, vado al lavoro, in quel posto lì,
non nel mio quartiere e via così: questo era il nostro immaginario
malsano, segno che il terrorista ci ha veramente uccisi.
Su questo sto riflettendo da molto tempo e penso che la letteratura sia un mezzo straordinario per esplorare queste paure e questi
timori, per esplorare cosa c'è anche dietro a un terrorista, cosa lo
spinge, perché non si tratta di cattiveria.
Vi racconto una storia a mia volta raccontatami da un'amica psicologa, che trovo molto interessante: una giovane ragazza italiana a
Roma è andata da lei perché soffre di un problema molto forte, è in
crisi. Perché ha litigato con i genitori, perché ha fatto i conti con la
sua infanzia, forse ha subito qualche violenza? No, questa giovane
ragazza è andata dalla psicologa perché è disturbata in maniera incredibile dalla cipolla che sente nel palazzo.
Nel suo palazzo c'è un odore di cipolla spaventoso, e lei sente di
non poter conviverci. Dopo tante sedute si scopre che quest'odore
di cipolla viene da una famiglia indiana che vive al secondo piano, e
approfondendo approfondendo la mia amica psicologa ha scoperto
che il motivo del disturbo è che questa famiglia indiana ha tanti
bambini e la donna che si è rivolta a lei non ne ha. Questo è il discorso della maternità, questi immigrati che fanno tanti figli e lei no.
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Approfondendo ancora si scopre che la donna ha un forte senso
di colpa su un punto molto interessante: lei ha una casa di proprietà,
mentre questa famiglia indiana è in affitto, per di più lavora solo il
marito, mentre lei sta molto bene economicamente, forse ha addirittura due auto... quindi tutto il discorso di questa maternità era legato a dei costi, ai costi della vita, alla vita in sé. Questa storia a mio
parere fa riflettere su come in realtà l'immigrazione sia un grande
specchio.
Io continuo a dirlo: l'immigrazione è un grande specchio, e di
fronte allo specchio abbiamo solo due reazioni. O usiamo questo
specchio per migliorare il nostro aspetto, ci mettiamo allo specchio,
sistemo la cravatta, i capelli, facciamo un sorriso e via, siamo più sereni e più sicuri, oppure ci mettiamo allo specchio e cominciamo a
dire che il nostro naso non va bene, che questi occhi non stanno
bene, che stiamo perdendo i capelli e così via.
L'immigrazione è una sfida per le persone che sono pronte per
coglierla; se invece una persona non è pronta a cogliere una sfida
non la può vincere, e a me pare che sia questo il problema oggi in
Italia.
Un altro discorso importante sempre su questa cosa dell'immaginario è la visibilità degli immigranti, è un dato di fatto. Per esempio
a San Salvario quando cammino vedo che la maggioranza non sono
italiani, però c'è una spiegazione: siccome la società italiana è fatta
soprattutto di anziani, l'anziano sta a casa, magari va a fare la spesa
e torna a casa, invece gli immigrati che sono giovani vivono il quartiere e si vedono di più per le vie.
Ma non si può dire che sono maggioritari, assolutamente, bisogna approfondire questo aspetto.
C'è una storia che Riccardo Staglianò, giornalista di «Repubblica» e del «Venerdì di Repubblica» ha raccontato in un suo libro
uscito tre anni fa per Chiarelettere, s'intitola Grazie. Ecco perché
senza gli immigrati saremmo perduti, un libro fatto di ventiquattro
ore su tutto il territorio italiano, un viaggio in cui ogni ora è dedicata a una città e a una categoria di lavoratori immigrati, un libro con
dei dati oggettivi da cui emerge per esempio che questo luogo co93
mune secondo cui gli immigrati rubano il lavoro non è assolutamente vero.
Dicevo, in questo libro Staglianò racconta un episodio che mi ha
molto molto colpito: in una di queste visite va vicino a Bergamo,
dove ci sono tanti indiani che lavorano nel campo dell'agricoltura.
Parla con il proprietario di una palestra che gli racconta che alla palestra sono iscritte forse 500-600 persone, e un giorno si è presentato da lui un gruppo di bergamaschi, di gente che abita nel luogo, a
lamentarsi di un fatto – quindi si sono messi insieme, hanno fatto un
gruppo –: c'erano troppi indiani nella sua palestra; e allora lui ha
preso l'elenco, li ha contati uno per uno e su tutti gli scritti c'erano 8
indiani. Quindi pare che averli nelle fabbriche vada benissimo, però
vederli nelle strade o al supermercato non vada bene.
Due settimane fa ho incontrato a Padova una signora somala che
vive in Italia da 15 anni e ci siamo messi a parlare. Lei a un certo
punto ha tirato fuori una cosa che le ha creato un grande dolore, un
episodio che ha vissuto non so se due o tre anni fa: lei, col velo indosso, è salita su un autobus; le si è avvicinata una signora italiana
che l'ha guardata e le ha detto testualmente il tuo velo mi dà fastidio, il tuo velo mi dà fastidio, gliel'ha cominciato a ripetere, il tuo
velo mi dà fastidio. Ora, qualcuno mi deve spiegare qual è la differenza tra una donna col velo, e una suora, qual è la differenza? Allora perché questa donna somala dà fastidio, cos'ha fatto? Bisogna andare a indagare.
Ora vorrei darvi altri due esempi, due casi in cui ho avuto modo
di osservare questo immaginario turbato. Piazza Vittorio prima, San
Salvario poi. Quando sono arrivato a Roma nel '95 avevo un amico,
Zuaer, che quando gli chiedevano di dove fosse non diceva mai
sono marocchino, diceva io sono del Marocco. Un giorno alla sua risposta l'interlocutore di turno gli replica: quindi marocchino, e lui:
non sono marocchino; “marocchino” l'avete costruito nel vostro immaginario, io non c'entro in quel marocchino che avete nella vostra
testa, io sono del Marocco.
L'ho trovata una risposta molto interessante, e nel mio romanzo
Divorzio all'islamica in viale Marconi anni dopo ho ripreso questa
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storia, i marocchini che venivano identificati nello stupratore durante la seconda guerra mondiale, perché come sapete ci furono una
serie di stupri nel Lazio, e a qualcuno venne quest'idea brillante di
chiamare queste donne stuprate le “marocchinate”, poi è arrivato
Moravia e ha scritto La ciociara, è arrivato De Sica e ha fatto il film.
Ora, i documenti storici non mentono, prima di tutto questi soldati non erano solo provenienti dal Marocco, c'erano senegalesi e
altri delle colonie; secondariamente, combattevano sotto la bandiera francese, quindi dovevano essere considerati soldati francesi, perché legarli al Marocco? Qui ci sono riflessioni ancora da fare, però
l'immagine di Sofia Loren appena stuprata con la figlia che grida è
rimasta nell'immaginario, e quindi uno quando parla con un marocchino gli fa pagare anche questo.
Nel '97, ero in Italia da due anni, sono andato in Toscana, non ricordo dove esattamente. Sono entrato in un bar, ho ordinato un
cappuccino, mi sono seduto. C'era un giornale locale.
Lo apro, trovo una notizia: per un po' me ne sto lì a ripetere il titolo, penso di non aver ancora imparato l'italiano bene come pensavo, anche se in realtà l'ho imparato subito dopo e insomma in un
paio di mesi ero già a un buon livello, grazie al mio background linguistico berbero arabo e al francese.
Leggo e rileggo, soprattutto il titolo: Un albanese restituisce un
portafoglio.
Un albanese restituisce un portafoglio, titolo grande, in neretto,
peccato non aver rubato quel giornale, quell'articolo poteva essere
proprio un documento.
Perché?
Perché in quel periodo l'albanese andava di moda, dire albanese
equivaleva a dire delinquente, e questo ha creato dei danni enormi
– faccio un esempio che riguarda la letteratura: resto ancora colpito
quando incontro amici o amiche albanesi che scrivono in italiano e
che alla domanda se i loro libri sono tradotti in albanese rispondono
di no, e che non vogliono, addirittura alcuni l'hanno messo nel contratto. Io ho una mia spiegazione in proposito, che in realtà a forza
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di demonizzare gli albanesi abbiamo creato loro un complesso con
la loro lingua e la loro cultura.
Ancora a proposito di albanesi, apro un'altra parentesi, ho incontrato una volta Gian Antonio Stella, autore di un libro importante,
L'orda. Quando gli albanesi eravamo noi.
Stella mi ha detto che il titolo del libro doveva essere in realtà
L'orda. Quando i marocchini eravamo noi, ma siccome in quel periodo andava di moda l'albanese l' hanno cambiato – adesso forse con
un aggiornamento metterebbero rumeno o rom, e del resto in realtà
è uguale, si tratta di pregiudizi o repertori che vale per la cultura di
volta in volta demonizzata: dopo l'11 settembre sono arrivati i musulmani.
E coi musulmani hanno provato a fare come avevano fatto in precedenza con gli albanesi, ma non ci sono riusciti, anche per una questione puramente numerica: l'islam è una religione planetaria, che
non si può mettere in difficoltà. Addirittura nella mia tesi di dottorato ho sviluppato quest'idea pazza, misurare la musulmanità di una
persona.
Sono andato a Regina Coeli a Roma a parlare con detenuti musulmani arabi. Loro mi dicevano: è vero, abbiamo spacciato droga, è
contro l'islam, abbiamo rubato e l'islam dice che non dobbiamo rubare, però siamo musulmani. C'è cioè un'appartenenza forte che
nessuno, neanche dopo l'11 settembre, è riuscito a mettere in crisi.
Mi viene ora in mente anche un articolo che all'epoca – era il
2004 – mi aveva molto colpito, era di Antonio Sorgi. In questo articolo Sorgi analizzava il fenomeno del kamikaze, arrivando a una
conclusione fantastica: i musulmani non sanno cos'è l'amore, non
conoscono l'amore.
Sempre nello stesso periodo mi è arrivato un invito a partecipare
a un festival sulla comicità, in Toscana, il mio intervento doveva riguardare l'islam e la comicità, perché era da poco uscito il mio libro.
Alcune persone che sono intervenute prima di me dicevano che i
musulmani non ridono, per quella questione delle caricature, che
non conoscono l'ironia, non conoscono il comico e via dicendo.
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Questo è un altro punto importante, questa retorica della diversità, questo esasperare la diversità, quando in realtà le diversità non
esistono, ha un aspetto grottesco. Pensate alla diversità fra musulmani cristiani ed ebrei, si direbbe un caso evidente di diversità.
Nel '95 le Nazioni Unite hanno organizzato un summit internazionale sulla famiglia. Nel documento finale, fatto straordinario, gli
osservatori musulmani, i fondamentalisti musulmani, i fondamentalisti cattolici, i fondamentalisti ebrei, erano tutti d'accordo: erano
d'accordo sul matrimonio, erano d'accordo contro l'aborto, erano
d'accordo sulle donne. Dove sono allora queste diversità sulle più
grandi questioni?
La domanda come convivere con la diversità per quanto riguarda
Piazza Vittorio era in realtà come convivere con il cinese, perché
dopo il '99 molti cinesi hanno fatto emigrare i loro capitali, arrivando anche in Italia e cominciando a comprare tutto quello che potevano comprare, pagando profumatamente, e in poco tempo il quartiere di Piazza Vittorio, che era un quartiere dove c'era un fornaio,
un alimentare, e via dicendo, è diventato un bazar.
E adesso quando torno non lo riconosco, non è più lo stesso che
ho vissuto all'inizio, la gente comincia a guardare male i cinesi, ma
perché? Hanno rubato qualcosa?
Sono arrivati, hanno occupato questi negozi, conosco persone
che hanno venduto, magari un alimentare oggi è un negozio cinese
di vestiti, magliette, pantaloni, ma le persone che hanno venduto intanto hanno comprato due case fuori, sistemato i figli, i nipoti, ecc.,
eppure sono le stesse persone che parlano male di Piazza Vittorio e
dei cinesi.
Un'altra cosa importante di Piazza Vittorio è l'incapacità di gestire un territorio – esempio significativo dell'incapacità degli amministratori di pensare, perché se la politica vuol dire anticipare i tempi,
pensare al futuro.
Infatti ci sarebbe da parlare col responsabile che dava le licenze
per i negozi, perché questi cinesi sono andati al Comune e hanno
chiesto le licenze, e qualcuno le ha date, e se qualcuno ha distrutto
quello che era Piazza Vittorio non sono stati i cinesi.
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Peraltro io continuo anche a dire che considerare il cinese il migrante è uno sbaglio, i cinesi devono essere considerati imprenditori: sono arrivati con il loro capitale, hanno portato la loro manodopera – di come la gestiscono possiamo discutere –, fanno business,
proprio come fanno gli imprenditori italiani, francesi o americani
quando vanno in Romania o in Africa, e allora perché per questi imprenditori europei va bene e ai cinesi addirittura si chiede di integrarsi?
Stiamo inoltre parlando di un Paese da 1 miliardo e mezzo, di un
popolo dalla storia incredibile, straordinaria, con dei capisaldi della
cultura, una visione del mondo articolata, cui si chiede di integrarsi
in un Paese di 60 milioni di abitanti colmo di fragilità, e dove tuttora, dopo 150 anni dall'Unità, ci sono molti che ne parlano come di
un errore.
Ma lasciamo indietro Piazza Vittorio e passiamo a San Salvario.
Nel 2005 sono andato a Torino per la prima volta, all'epoca lavoravo
per un'agenzia di stampa, per un convegno. Prendo un taxi per il tragitto dall'aeroporto alla sede del convegno e il taxista comincia a
raccontarmi la sua Torino.
Mi dice: Torino una volta era bellissima, poi sono arrivati i meridionali e hanno portato la criminalità, la prostituzione, la droga .
E a me sembrava che parlasse come sento parlare degli immigrati
di oggi, e mi è venuto da scrivere; poi sono tornato a San Salvario
per per vederlo un po', volevo sistemare alcuni aspetti tecnici, la descrizione del bar, del mercato... e dopo una settimana ho deciso di
andare a vivere lì, quindi mi sono trasferito.
Il quartiere dove abito, San Salvario, è accanto alla stazione,
quindi è un po' come Piazza Vittorio, ha una storia particolare perché negli anni '50-'60 era abitato dai meridionali, che hanno subito
discriminazioni infinite – il che indica anche che questa utopia dell'integrazione è impensabile: se tu dici integrazione allora devi accettare, però se non hai accettato te stesso accettato la tua memoria
come fai ad accettare gli altri?
Ho ambientato il romanzo a San Salvario alla fine del 2006, pochi
mesi dopo l'entrata della Romania nella Comunità Europea – in quel
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periodo i rumeni erano la moda, allora mi è venuta voglia di indagare e sono riuscito a recuperare una storia che tanti italiani non conoscono, che alla fine dell'800 migliaia e migliaia di veneti – non meridionali, veneti – sono immigrati in Romania a fare i muratori, e tuttora in Romania c'è una regione abitata dai discendenti di quegli
italiani.
Da qui l'idea: ne faccio ritornare uno in Italia, per ricordare.
Vengo alla conclusione. Parlavo della convivenza. Io cerco sul
piano letterario, sul piano della scrittura di cui la lingua ovviamente
è la base,di far convivere le mie lingue: scrivo in arabo e in italiano, e
come ho detto spesso arabizzo l'italiano e italianizzo l'arabo.
È questa in realtà la mia grandissima sfida, e mi capita spesso di
definirmi un poligamo linguistico. Io la considero un vantaggio
straordinario, spesso ho sentito e abbiamo sentito anche stamattina
parlare dell'immigrazione, parlare di lingua madre con dolore; credo però che anche su questo ci sia una grande retorica.
In Algeria c'è questa tradizione di chiamare le zie “madri”, per cui
io ho la mia madre biologica che mi ha messo al mondo, ma chiamo
“madri” anche altre due zie che sono le mogli dei miei zii.
E in questo stesso senso per me l'italiano è lingua madre. L'arabo
è lingua madre, l'italiano è lingua madre.
Un altro aspetto, e poi chiudo, che secondo me è forse il motivo,
la base di questo immaginario turbato, è che in Italia si parla dell'immigrazione sempre in senso negativo.
Per esempio, una volta a una presentazione del mio romanzo Divorzio all'islamica in via Marconi una ragazza mi ha chiesto, col libro
in mano, se mi sentissi offeso dal fatto che sulla quarta di copertina
veniva ripetuta due volte la parola “immigrato” riferita a me. Perché
dovrei sentirmi offeso?
L'ultimo passaggio che vorrei leggervi, che sarà anche l'inizio del
mio prossimo romanzo, è una lettera pubblicata sulla «Gazzetta del
Popolo» nel novembre 1959, una lettera indirizzata al direttore:
Signor direttore, Lei fa troppo onore a questi meridionali
occupandosi di loro sul suo antico nobile giornale. Per conto mio
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non c'è una questione dei meridionali a Torino, ma soltanto il
problema di rimandare al loro Paese degli scansafatiche dei
buoni a nulla che vengono al nord non per lavorare ma per
commettere soltanto dei reati. Tornino a casa e basta.
Pensate a quanto lavoro ancora bisogna fare sul tranquillizzare
l'immaginario e tranquillizzare anche le memorie.
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Lei, Loro e gli altri
Kaha Mohamed Aden
Sono nata da una famiglia dove le donne direttamente, nonna Xaawa e Suuban,
oppure indirettamente, vedi nonna Xaliima, intervenivano su quello che avveniva
sotto la quercia, l’albero della discussione. Sono nata da una famiglia dedita per
generazioni allo studio del Corano ma il mio nome non si trova fra le pagine del
Corano. Il mio nome è un omaggio, una strizzata d’occhio a tanta libertà cercata
per l’indipendenza dell’Africa, agli anni sessanta, quando sono nata. Kaaha: la luce
che precede il sole. Il sole forse sono gli Stati indipendenti dell’Africa che
dovevano dare vita ad una storia nuova. Per adesso stiamo sguazzando nelle
guerre…
Autopresentazione, da Fra-intendimenti
PRIMA di tutto sono contenta di essere invitata quindi ringrazio gli
organizzatori di questo convegno. Mi piace il titolo, Storia e storie,
perché in tutti i lavori che ho fatto, quello che ho scritto e quello
che sto scrivendo mi piace mescolare la storia particolare dei personaggi e quella con la s maiuscola, quella collettiva: mi barcameno
sempre tra la storia individuale e la storia collettiva.
Ma inizio subito a leggere. In questo brano la signora, il personaggio è seduto su un divano molto scomodo, il mattino dopo ha interrogazioni a scuola quindi sta studiando a notte fonda e dice:
ho sentito uno sparo, la prima cosa che ho pensato è stata:
sveglio tutti, poi ho cambiato idea. Qual è la prima cosa che si fa
quando si sente un rumore pericoloso nel cortile attorno alla
casa? Risposta: si spengono le luci. Chiunque ci sia là fuori, tu
potrai vederlo mentre lui no. Troppi film gialli, la realtà è
leggermente diversa. A quelli che quella notte avevano violato
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casa mia non importava vedere, sapevano già chi c'era e chi no,
chi eravamo, cosa facevamo e non erano interessati a
nascondersi, anzi, il loro esibizionismo acrobatico doveva
sbalordire come minimo i civili di cui invadevano le case perché
quello era il loro pubblico per eccellenza, la debolezza dei civili
era un punto di forza per i militari.
Più avanti:
il giorno dopo [nel 1982, il periodo era nel 1982, il giorno dopo
di quando sono entrati questi personaggi, dei militari, a invadere
la casa] ci hanno cacciati dalla casa in cui abitavamo e hanno
condannato mio padre a un isolamento totale che è durato sei
anni. Ho aspettato e aspetto che la maggioranza delle persone
che abitavano in quel paese imponesse un cambiamento, anche
piccolo, che mi piacesse, o in qualche modo mi ripagasse, questo
non è accaduto e francamente non mi importava più il motivo
che li aveva indotti a non cambiare le cose, forse ognuno di loro
era isolato e aveva paura, forse reputavano giusto quello che
combinava il nostro fantastico dittatorello, comunque io mi ero
innamorata dell'idea di scappare dalla Somalia, da casa, di
vedere cosa succede negli altri meandri della terra.
Questo racconto parte dall'entrata dei militari a casa mia, con
l'arresto di mio padre che farà sette anni di prigione, di cui sei di isolamento – questa era la mia storia personale individuale e familiare,
ma descrivo anche quali potrebbero essere i mille motivi, la dittatura e la guerra civile, per cui possono andarsene i somali da casa loro,
e perciò era anche una Storia, perché la dittatura era una storia che
riguardava tutti i somali. Io sono poi approdata a Pavia in collegio:
o dio santo, ecco davanti a me il rettore del collegio, ogni volta
che quest'uomo si materializza nella mia strada cambio percorso,
ma questa volta non è possibile, sono in un corridoio che mi
conduce dritto a lui che sta arrivando dall'altra parte con la sua
solita aria compiaciuta, non chiedetemi per che cosa, mi parlerà
e mi toccherà rispondergli, bisogna che mi prepari a immaginare
quella terza persona a cui tutti i verbi devono riferirsi. Di solito
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mi concentro sulla mia vicina di stanza e parlo di lei, lei come
sta? Cosa fa? Ecc ecc, ma la faccenda si complica quando si arriva
ai congiuntivi, questa formula, aggiustare i congiuntivi su
un'amica immaginaria, il più delle volte strappa il vestito
linguistico e non si capisce niente, non funziona.
Da una parte mi si sono chiuse molte porte – con la dittatura, l'arresto di mio padre, ...–, sono arrivata in Italia e sono finita in un collegio. Mi sento un pesce fuor d'acqua, a partire dai termini di buona
educazione come il dare del Lei al rettore, perché in somalo non esiste dare del Lei in questo modo particolare, e quindi mi era sempre
difficile e dovevo immaginarmi la presenza di una terza persona,
una signora, la mia vicina di casa, la studentessa che abitava nell'altra stanza, e parlavo sempre di lei, per evitare di perdere la concentrazione e dare del tu. Addirittura io e mia sorella avevamo inventato un gioco tra di noi: facevamo esercizi quando ci vedevamo o ci
telefonavamo. Abbiamo anche fatto una ricerca per capire chi fosse
questa Lei, e lì ci siamo accorte che si erano chiuse alcune porte, il
mio intero Paese politicamente parlando, ma si era aperta un'altra
strada, un orizzonte, perché questo Lei è la persona, e che cos'è la
persona? A questa domanda si aprono biblioteche intere, si parte
dalla maschera del teatro greco e si arriva al dibattito degli anni '80
e anche attuale se il feto è una persona oppure uno, e quindi si passa
attraverso il cristianesimo, la storia della cultura... La persona apre
tutto un mondo un orizzonte nuovo, è un immaginario nuovo, ovviamente senza dimenticare quel retaggio che tutti gli immigrati si
portano dietro e che viene dalla loro cultura. A me piaceva giocare
con la lingua italiana e coi pronomi e pur stando nel territorio della
lingua italiana, far vedere un altro tipo di immaginario.
Erano fresche fresche dalla scuola d'italiano a Perugia quando
successe un fatto curioso: avevano appena imparato i pronomi,
io tu noi voi loro ecc ecc, avevano una maestra simpatica e alla
fine di ogni lezione dava loro una canzonetta popolare da
canticchiare fino all'incontro successivo. Canticchiavano sapore
di mare, sapore... senza sapere esattamente quello che stavano
103
dicendo, parlavano anche altre lingue, per l'italiano erano nella
fase in cui in una frase si sa cosa vogliono dire le parole una per
una ma non si capisce il senso che scaturisce dalla loro
combinazione, chiunque ha imparato una lingua straniera lo sa
benissimo che il primo livello hai una frase, capisci ogni parola,
lo sai cos'è, ma quando metti insieme dici che diavolo è, cosa
sarà mai, ecco erano in quella fase lì; sono davanti all'atrio di
casa loro mentre canticchiavano insieme a loro nel portone c'è
una signora molto anziana, le cedono il passo, lei con aria
diffidente ringrazia col capo e passa più veloce.
Eccole davanti all'ascensore:
Quattro muri strettissimi e loro tre, tutto qua. La signora, loro
dove vogliono scendere? Loro? Sì, loro, dove vogliono... mi
volete far ripetere, non avete niente di meglio da fare? Vuoi
vedere che questa signora riesce a vedere le entità altre, gli
spiriti? Se no chi saranno mai questi loro a cui si riferisce?
In somalo, quando si dice loro senza specificare può essere che si
stia parlando dei demoni, degli spiriti degli antenati – questo è un
retaggio antichissimo preislamico tra l'altro, perché i somali sono
musulmani, e queste sono superstizioni preislamiche rimaste nella
tradizione, nell'atmosfera, forse quando erano animisti, insomma,
una componente molto antica che è rimasta nella tradizione orale,
però a pezzi, a bocconi, cioè è nell'atmosfera ma mai specificata.
Mi piaceva l'idea di ricorrere a un simile retaggio, e nella finzione
della narrazione ho fatto sì che quest'episodio ricordasse alle protagoniste l'ultima volta in cui avevano scherzato su quest'argomento,
quando era tornato un loro cugino da una prodigiosa e meravigliosa
campagna dell'alfabetizzazione tenuta in Somalia negli anni '70,
nota come il “miracolo somalo”, in cui si cercavano ragazzi scolarizzati del liceo da mandare in tutte le zone della campagna, dai marinai, dai pescatori, dai nomadi, a insegnare come si scrive e come si
legge il somalo imparando intano come era fatto il loro Paese, perché da un lato si supponeva che questi sarebbero diventati la classe
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dirigente, dall'altro si cercava di realizzare la cittadinanza piena di
tutti i somali. Dunque questo cugino torna e racconta un episodio
capitatogli mentre era ospite da una famiglia nomade: lui a un certo
punto ha la febbre va a bere il tè, un tè custodito in maniera particolare; e poi si riposa. La padrona di casa della famiglia nomade si accorge che non sta bene e gli chiede se ha bevuto il té, e lui risponde
di sì, ma quello è il tè per i sacerdoti che devono rabbonire gli spiriti
degli antenati, e per questo secondo la donna lui sta male, e non riesce a convincerla che non sia così – anche questo mi interessava far
notare, come questo processo a ritmo forzato della modernizzazione fatta dal partito socialista scientifico socialista somalo aveva bisogno di tempi più lunghi perché c'era lo scontro delle forze delle
tradizioni e quella modernizzatrice. Allora l'anziana chiama il sacerdote e fanno una specie di esorcismo: loro chi siete? E quando lui
torna in città racconta quest'esorcismo che ha subito e ai ragazzi in
ascensore, al loro della signora, torna in mente questa storia:
Durante il tragitto in ascensore con l'anziana a sentire loro senza
un riferimento preciso hanno pensato agli spiriti, ai demoni che
tanto li avevano divertiti quella sera a Mogadiscio. Dopo un
silenzio
di
qualche
secondo
risposero
in
coro
contemporaneamente: dove vanno loro non lo sappiamo, noi
andiamo al terzo piano. Questi ragazzi sanno esprimersi in
Italiano, pensa l'anziana, ma la loro risposta non è chiara. Sarà
meglio che scenda al primo piano anche se abito al quarto. La
signora si dilegua con un'aria smarrita.
È ovvio che c'è bisogno di tempo, però gli immigrati hanno da
scoprire mondi nuovi attraverso il gioco con i pronomi, attraverso il
lei in questo caso, ma anche gli italiani hanno queste sorprese, qui
rappresentate dal fatto che attraverso il loro si può scoprire un altro
mondo: l'italiano può essere davvero un territorio plastico.
Io parlo spesso di questo rapporto tra le lingue: non credo sia “a
somma zero”, come si dice in matematica, cioè che quando entra
una lingua ne deve uscire un'altra, non ho una visione monogamica,
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io per esempio mi sono innamorata dell'italiano ma non ho lasciato
il somalo.
Infine vorrei spendere due parole su cosa vuol dire per me scrivere in Italiano. Vuol dire tante cose, ma quello che in particolare voglio sottolineare, è il custodire storie negate, nel senso che l'italiano
per me diventa un luogo dove gli interlocutori potrebbero essere
non proprio i somali, ma anche altri. Per questo il mio titolo, Lei,
loro e gli altri, con questi altri potenziali testimoni. In Somalia c'è
una guerra civile che dura da venti anni, con la gente che si ammazza per clan, e allora gli altri, questi altri che sono testimoni esterni,
non coinvolti in questa storia clanica, non coinvolti direttamente
nelle vicende somale, forse si sentono innocenti, ma invece sono
sempre coinvolti, perché il mondo siamo tutti e al mondo apparteniamo tutti.
Questo è il mio “altri”: collegarmi con tutti quelli che non sono
somali – per di più noi somali non abbiamo purtroppo una storia comune attualmente, e con questa guerra abbiamo distrutto una concezione della storia –, vivere l'italiano anche come luogo dove custodire e comunicare a un testimone terzo. Sto cercando di coinvolgere gli altri, proprio perché voglio vivere un mondo cosmopolita., e
scrivo e racconto in italiano per dire agli italiani e a tutti gli italofoni: anche se vi credete assolti, siete per sempre coinvolti .
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Quando i sassi in Eritrea erano pane
Ribka Sibhatu
Ribka Sibhatu è nata ad Asmara, in Eritrea. A causa della dittatura è stata costretta
a lasciare il suo paese e ad andare a vivere in Etiopia. In seguito si è trasferita in
Francia, ma da alcuni anni si è stabilita a Roma. Attualmente è ricercatrice in
Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza ed è
esperta di cultura orale eritrea. Nel 1993 ha pubblicato il testo bilingue Aulò.
Cantopoesia dall’Eritrea, con l’introduzione di Tullio De Mauro, presso la casa
editrice Sinnos di Roma. Nel 1999 è uscito, presso le Edizioni Interculturali di
Roma, il saggio Il cittadino che non c’è, con la prefazione della sociologa Maria
Immacolata Macioti. Alcuni suoi testi sono raccolti nell’antologia Alì e altre storie.
Letteratura e immigrazione, edito dalla RaiEri.
VOGLIO per
prima cosa ringraziare tutti quanti hanno permesso
quest'occasione, ponti di pace vera concreta. Sono molto commossa, amo il mio Paese d'adozione – i miei Paesi d'adozione, anzi, perché io sono cittadina francese e vivo in Italia. Pensate che ai mondiali di calcio c'era Italia-Francia, e mia figlia, che è francese, mi ha
detto: mamma, io ho pensato a chi tifare, ma non so scegliere. Da
una parte metterò la bandiera italiana, dall'altra quella francese. Subito dopo abbiamo sentito al telegiornale un ex ministro italiano
che ha detto che la Francia non avrebbe vinto perché piena di neri, e
allora abbiamo tifato solo Francia.
Questo per dire che l'identità è una cosa un po' scivolosa a volte,
e per approcciarla voglio partire da questa domanda, cos'è la lingua
italiana? Per me è una lingua di un ex colonizzatore, ma soprattutto
una lingua di amore, che inizia da quando ero piccola – il 30% della
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nostra lingua, per quanto riguarda le parole origine straniera, è italiana: la sedia, la bicicletta, il marciapiede...
Mia nonna – che è la donna grazie alla quale ho studiato – quando giocava con noi a braccio di ferro e vinceva ci diceva: ho bevuto
il vino italiano, è imbattibile – ecco quanto era ed è il nostra amore
per questo Paese: io sono venuta in Italia da Lione a Roma per studiare, di mia scelta perché io sono cittadina francese, ma il grande
amore respirato da piccoli mi ha portata qui.
Appena arrivata a Roma vedo le palme, vedo i pini che assomigliano alle acacie: tutto come se fosse già la mia seconda casa – allora come può l'italiano diventare per me straniero? È impensabile.
Ma lo specchio che mi danno dopo mi mostra un lato che non conosco.
Ecco, il venire qui per me è stato un modo di specchiarmi attraverso l'altro e vedere me stessa e quindi crescere, e soprattutto
quando scrivo in italiano e dico quello che penso credo di essere a
mia volta specchio, anche se questo tante volte non viene gestito: a
Roma tanti mi parlano in modo sgrammaticato e se sono stanca non
mi metto a spiegare, mi limito a rispondere a mia volta in modo
sgrammaticato; altre volte invece spiego che anche se siamo stranieri studiamo la lingua.
Io per esempio appena arrivata in Europa parlavo cinque lingue
ma non il francese, ho dovuto cominciare da capo. Allora, mentre
vivo in Francia, nasce mia figlia, e io scopro che portarla alle spalle
le piace tantissimo, ma quando una volta a settimana l'accompagno
all'asilo nido così, sento chi guarda e chi addirittura chiede se non
ho il passeggino – peraltro i neonatologi consigliano alle mamme di
tenere stretto al corpo i bambini perché li fa sentire protetti e crescono sicuri. O ancora, vado dalla pediatra per una visita e lei, sentendomi parlare nella mia lingua madre mi dice di non farlo perché
altrimenti mio marito, bianco francese, non capirà – ma perché non
si sforza un po' a imparare la sua terza lingua, che è la mia lingua
madre?
Veniamo a Roma: carte per la residenza. Dopo essermi dovuta
presentare quattro volte, e aver avuto la meglio sul fatto che si por108
tasse avanti la pratica imponendomi un po' alla quarta, finalmente
l'impiegata si mette a compilare le carte. Nello scrivere i miei dati
anagrafici, senza chiedermi niente, subito mette domestica. Io non
ho protestato perché speravo di accorciare i tempi dell'operazione,
ma quando ha frapposto altre lungaggini e difficoltà chiedo di vedere il responsabile e mi lamento di questa sua impiegata piena di
pregiudizi e poco professionale, che nei miei dati anagrafici, alla
voce professione, aveva istintivamente scritto domestica, mentre io
sono una scrittrice.
In seguito ho lavorato in Comune, all'ufficio informazioni, e capitava che, con me dietro il pc alcuni mi chiedessero se non ci fosse
nessuno, fato che alle mie colleghe bianche non capitava, finché
scopro che il motivo è che a quanto pare gli italiani non sono abituati ad avere gente straniera negli uffici. Ecco poi un altro di questi nostri lavori che sembrano magari sperduti e invece aiutano: ho fatto
intercultura nelle scuole, e mi è successa questa cosa meravigliosa: a
un ragazzo che ho seguito per tre anni, dalla prima alla terza media,
all'esame di stato, per il tema, è uscita una traccia su quale fosse la
cosa più piaciuta nei tre anni di scuola. E lui scrisse che il mio laboratorio era la cosa più bella che ha fatto a scuola. Il dirigente venuto
come presidente di commissione chiese alla direttrice cosa avessi
fatto, perché erano in tre a fare il tema su di lei.
Ma veniamo a noi, a voi: adesso vi porto in Eritrea – e non dimentichiamoci del Sinai, un dramma eritreo e non solo eritreo. Un detto
eritreo sintetizza i tre colonialismi che abbiamo avuto: gli italiani ci
dicevano mangiate e non parlate, gli inglesi parlate ma non mangiate, gli etiopi non mangiate e non parlate – uno peggio dell'altro,
ecco perché anche amiamo l'Italia, perché almeno con gli Italiani si
mangiava.
Ferdinando Martini, primo governatore civile dell'Eritrea dal
1897 al 1907, ex Ministro della Pubblica Istruzione, proibì ai neri di
andare a scuola; in seguito, con un altro governatore, dal 1907 al
1936 o '37 fu reso possibile ma solo fino alla quarta elementare, nel
1938 con le leggi razziali tutte le scuole vengono chiuse. Dopo che
sono arrivati gli etiopi nel '62, in seguito all'averci federato degli in109
glesi, si sono aperti trent'anni di lotta, di una lotta non ancora finita.
Vi dico i numeri, quante scuole erano per i bianchi e quante scuole
per gli indigeni: 25 scuole per i bianchi e 6 scuole per tutti gli eritrei.
Se il colonialismo inglese era basato sul concetto di collaborazione
fra la potenza colonizzatrice e il popolo colonizzato e quella francese sul concetto di assimilazione, non era affatto chiaro su quale concetto fosse basato il colonialismo italiano. In Libia esso assomigliava
a quello francese, ma in Eritrea era identico a quello del Sud Africa.
Che non potesse essere simile a quello inglese era naturale perché
secondo la teoria fascista gli indigeni dell'eritrea non potevano
ascendere al rango di collaboratori di un popolo di razza superiore
tra parentesi ovviamente, essendo stati classificati razza inferiore.
L'insegnamento della principale lingua eritrea, il tigrigna, era completamente ignorato anche in quelle sei scuole. L'eritreo era indotto
a dimenticare la sua lingua, le sue culture e le sue tradizioni, la sua
storia in breve, la sua stessa identità.
Non ho mai visto un italiano in Eritrea dopo tre generazioni che
scrivesse e parlasse il tigrino, mentre gli italiani in Francia hanno dimenticato l'italiano e hanno appreso il francese – ecco quindi gli
stessi Italiani in due continenti diversi il comportamento: eurocentrismo puro. Ecco, da qui possiamo imparare adesso: tornando all'Italia di oggi, mia figlia mi disse a sette anni, mamma, io non capisco,
le mie amiche, beate loro, hanno una lingua e un Paese, io quando
vado in Eritrea so che non si mangiano gli animali che hanno i denti
di sopra e il maiale, qui invece si mangia tutto; in Francia non si parla alzando le mani, non si alza la voce, invece in Italia si può... io vorrei avere solo un Paese. Io risposi: ti piacerebbe mangiare la mattina
la pasta, a pranzo la pasta, a cena la pasta? No, solo a pranzo, mi
dice. Allora tu sei fortunata: avere tre lingue e tre culture vuol dire
diversificare la tua mente, leggere tre libri diversi, mangiare diverse
cose, questo vuol dire, ma adesso sei piccola, da grande lo capirai , e
da grande l'ha capito.
Quindi l'interculturalità, la ricchezza di varie lingue è sicuramente la carta vincente del domani, e peccato che sono pochi gatti a capirlo questo in Italia, perché stiamo perdendo un'opportunità di ri110
voluzionare l'Italia con le cose belle, parlando con le cose non buone della gente noi stiamo perdendo le cose belle che possiamo apprendere dalla diversità, quando tutto il mondo è in Italia adesso,
potremmo rivoluzionare questo Paese con tutte le creatività che
possiamo creare, ovviamente.
Ma il titolo del mio incontro è Quando i sassi erano pane. In Eritrea ci raccontavano le favole dicendoci come premessa c'era una
volta, quando i sassi erano pane..., io da piccola, siccome avevo sempre fame, mi dispiacevo che i sassi adesso non fossero pane ed entravo subito nel mondo del racconto. Quando ho cominciato a raccontare le favole eritree nelle scuole ai bambini quest'espressione
così non faceva né caldo né freddo, perché son sempre sazi, quindi
non li faceva sognare.
Allora ho scelto il sogno di mia figlia, che a sua volta qua in Italia
non soffre la fame: volare; e nelle premesse delle favole eritree che
mi hanno cresciuta mettevo una poesia di Gianni Rodari, e i bambini
si mettevano a volare, ed ecco che li trasportavo nel mio mondo del
racconto.
C'era una volta, quando i sassi erano pane, una iena e un leone
che hanno deciso di vivere insieme, perché ognuno per conto
suo non riuscivano a catturare gli animali. Appena sono stati uniti
infatti sono riusciti a catturare tanti animali e hanno mangiato
mangiato ed è rimasto un robusto bue e una magra magra
mucca. Ehi tu, disse il leone alla iena, senza il mio aiuto non
saresti riuscita a catturare neanche una mosca, perciò il robusto
bue è mio e la magra mucca è per te . Va bene signor leone, visto
che è lei il re degli animali accetto la decisione , e si prende la sua
mucca. Questa mucca la notte partorisce un bel vitellone. Ahi
ahi ahi si disse il leone, ma io non avevo visto che questa in
pancia aveva un animale del genere, allora escogita un piano,
prende il vitello e lo mette nel suo recinto.
L'indomani arriva la iena e chiede spiegazioni, e lui dice ma dai,
come non lo sai?, non sono le mucche a partorire i vitelli, è del
mio bue. Eh no signor leone, se lei deve essere il mio re deve
essere anche giusto, perciò lei mi ha assegnato la mucca e il
vitello è mio, me lo deve consegnare. Niente da fare.
111
Allora la iena sotto un sicomoro millenario convoca tutti i
rappresentanti degli animali della savana. Sono riuniti, espone la
sua causa, ma che fare? Tutti, terrorizzati, dicono che il leone ha
ragione, nei nostri tempi anche un bue può partorire.
A un certo punto arriva un macaco, salta al centro della riunione
e il leone lo sgrida per terrorizzarlo: come mai arrivi in ritardo a
una riunione così importante? E lui furbetto furbetto gli dice:
signor leone ho fatto tardi, tutti riuniti scusatemi, ma io ho fatto
tardi per una buona causa. Il cielo stava cascando addosso a noi,
ho dovuto riparare, è per il bene di tutti che ho fatto questa
cosa, e il leone che non ha capito niente della strategia del
macaco dice: ma quando mai un essere piccolo come te può
riparare un cielo così enorme?
E il macaco, prima di saltare sull'albero per salvarsi a non essere
azzannato, disse: e allora se io non posso riparare il cielo com'è
che il suo bue ha messo al mondo un vitello? E va. E lì allora
l'elefante si arrabbia: ma come, io sono grosso e grasso, non ho
avuto questo coraggio di un minuscolo animale, e incita tutti gli
animali a seguire il coraggio del macaco, e tutti infatti si
ribellarono, e il leone fu costretto a consegnare il vitello alla
madre naturale.
Ogni favola da noi si chiude poi così: se vi dimenticate ciò che
avete ascoltato che vi dimentichi la morte, se vi ricorderete che dio
vi faccia avere la polenta prelibata.
E in Italia mi dicono: allora dimentichiamo questa favola per vivere per sempre. No. In Eritrea vivere sempre condanna, la morte è
uguale alla vita, e qui c'è una bella introduzione sulla visione degli
eritrei e la pace che c'è per l'età, l'ospitalità e il sereno porto verso la
vita e la morte.
Chiudo il mio intervento con una poesia di nostalgia. Io non vado
in Eritrea dal 2004, e questa poesia era stata fatta dal mio primo esilio di cui parlo nel mio primo libro, ma adesso è ancora valida, non
vedo mia mamma di ottantasette anni e mio papà di novantaquattro
dal 2004 per la situazione che c'è lì.
Illusione è il titolo.
112
Sola
seduta sulla panchina romana
mi carezza un'aria calda africana
vedo la savana
il regno della candida luna
sento i leoni
il ritmico ballo dei fiumi
melodiosi canti colorati
dai sonori trilli delle mie madri
la la la la la la la la la
mi alzo versando lacrime calde di solitudine.
113
114
BIBLIOGRAFIE DEI RELATORI
ARMANDO GNISCI
A. Gnisci, La letteratura del mondo, Carucci, Roma 1984
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comparato della letteratura, Carucci, Roma, 1990
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1994)
A. Gnisci, La letteratura del mondo, Sovera, Roma, 1993
A. Gnisci, Franca Sinopoli, Comparare i comparatismi. La
comparatistica letteraria oggi in Europa e nel mondo, Lithos, 1995
A. Gnisci, Ascesi e decolonizzazione, Lithos, Roma 1996
A. Gnisci, Manuale storico di letteratura comparata (in collaborazione
con Franca Sinopoli), Meltemi, Roma, 1997
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A. Gnisci, Nuovo Planetario Italiano, Città aperta, Troina 2006
A. Gnisci, Decolonizzare l'Italia, Bulzoni Editore, Roma 2007
A. Gnisci, La Voie du mouton, Editions PANAFRIKA, Dakar, 2007
A. Gnisci, L'educazione del te, Sinnos, Roma, 2009
A. Gnisci, Sinopoli, Moll, La letteratura del mondo nel XXI secolo ,
Bruno Mondadori 2010
A. Gnisci, Giovanna Cipollari, Una ricerca a prova d'aula , La Meridiana, 2012
WUMING 2
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Q (con il nome Luther Blissett), Einaudi, Torino, 1999
Asce di guerra, Tropea, Milano, 2000
54, Einaudi, Torino, 2002
Manituana, Torino, Einaudi, 2007
Altai, Torino, Einaudi, 2009
116
Romanzi solisti
Wu Ming 2, Guerra agli umani, Torino, Einaudi, 2004
Wu Ming 2 Il sentiero degli dei, Ediciclo, Portogruaro, 2010
,
Wu Ming 2 & Antar Mohamed, Timira. Romanzo meticcio, Einaudi,
Torino, 2012
ERMINIA DELL'ORO
L'abbandono. Una storia eritrea, Einaudi, Torino, 1991
Mamme al vento, Milano, Dalai ,1996
Un merlo parlante in classe, Milano, Emme Edizioni, 1997
Asmara addio, Milano, Dalai, 1997
L'isola dei dinosauri, Milano, Piemme, 2004
Dall'altra parte del mare, Milano, Piemme, 2005
La pianta magica, Milano, Piemme, 2006
Le pagine segrete di Arianna, Trieste, Edizioni EL, 2006
Uno...due...trema! (con Roberto Piumini), Torino, Einaudi, 2006
Lo straordinario incontro con il lupo Hokusai, Milano, Piemme, 2007
La principessa sul cammello, Torino, Einaudi, 2007
La maestra ha perso la pazienza (con Roberto Piumini), Milano,
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La grotta dagli occhi dipinti, Torino, Einaudi, 2009
Grr Grr il piccolo dinosauro, Torino, Einaudi, 2010
Vedere ogni notte le stelle, Lecce, Manni, 2010
117
La scimmietta Gratta Gratta e altre storielle, Torino, Einaudi, 2011
GABRIELLA GHERMANDI
Regina di fiori e di perle, Roma, Donzelli, 2007
MARA CLEMENTI
Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare
alla mondialità, Bologna, EMI, 1997
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AMARA LAKHOUS
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Il numero esatto delle stelle e altre fiabe eritree . Edizione italiano e
tigrino, Roma, Sinnos, 2012
119
120
APPENDICE
121
122
MANIFESTO TRANSCULTURALE
Armando Gnisci
Roma, 16 maggio 2011
La Transculturazione deve sperimentare e promuovere pratiche critiche di azione transculturale tra i saperi contemporanei allo scopo
di produrre una nuova cosmovisione comunitaria attraverso forme
di azione creativa e di salute generale: tra le persone umane, tra generi e tra generazioni, tra le culture; tra le persone umane e le nonumane, tra i viventi e il pianeta abitato da noituttinsieme e il cosmo,
di entrambi i quali siamo partecipi. Noi crediamo, ma non da soli,
che il Multiculturalismo e l’Interculturalità siano due parole-concetti che debbono essere revisionati profondamente nell’Europa occidentale e nell’Unione Europea, dove abitiamo: il Multiculturalismo
attraversa una evidente crisi politica, la Interculturalità, a sua volta,
sembra una barchetta in balìa mediterranea di una crisi di senso. Noi
pensiamo che la crisi politica, di recente annunciata clamorosamente dalla premier germanica Angela Merkel, rappresenti l’ultima conseguenza della persistente e confusa visione eurocentrica della politica unitaria degli europei uniti nel cerchio di stelle. Ma, anche, dal
nostro punto di vista, l’esito della mancata decolonizzazione degli
europei da se stessi, dall’essere stati e tuttora esserlo: coloni e padroni. Una richiesta che fu fatta negli anni 50 del XX secolo agli europei da due grandi intellettuali: uno francese e l’altro francofono,
della Martinica antillana: Jean Paul Sartre e Frantz Fanon. Le paroleconcetti, multiculturalismo e interculturalità, sono state logorate
dalla mancata, ma sempre più urgente, decolonizzazione delle nostre menti ancora coloniali: prima, nei confronti delle civiltà violentate da noi coco [conquistatoricoloni] planetari della modernità, e
poi riadattata in Europa per “accogliere” africani e asiatici, soprat123
tutto, dopo la decolonizzazione incompiuta e fallita dei popoli da
noi devastati, ma soprattutto come reazione alla recente Grande
Migrazione dei “dannati della terra” negli stretti territori già superaffollati della coda peninsulare dell’Eurasia. L’Italia, ad esempio,
conta 60 milioni di abitanti. Per sperare di essere “felici”, dovremmo
diventare la metà, con il 20% di immigrati, in coevoluzione. Ripulendo tutto ciò che ricopre il Bel Paese: dall’immondizia dalle strade e
dai campi, dal cemento e dall’eternit, dalla corruzione e dalla menzogna della vita politica, dalla sventura di essere la nazione europea
unita più ammalata di criminalità, l’unica forma sociale che coevolva
con la società civile anomizzandola, ammazzandola. Gli europei
oggi hanno scoperto di essere razzisti in casa propria. Questa specie
di “neorazzismo nella democrazia” è il sintomo più forte del fallimento della politica del multiculturalismo coatto e della interculturalità astratta che, nel migliore dei casi, possiamo definire: volenterosa e caritatevole. Noi crediamo che la crisi di quei modelli di adattamento sociale stia portando allo scoperto la rimozione nelle menti
europee delle vecchie pretese coloniali (sia nelle antiche colonie
che in casa) delle expotenze imperiali: l’assimilazione, la Francia, e
l’integrazione: l’UK, la Germania e, molto confusamente, l’Italia. È
necessario riconoscere che il nodo della grande relazione interculturale tra noi europei e le persone-moltitudini che vengono da noi,
è distorto e ingiusto. I migranti, infatti, arrivano non per conquistarci
e colonizzarci, ma per vivere con noi una vita più giusta e salutare in
una nuova comunità transculturale da costruire insieme, in Europa.
Invece, continuiamo a rimuovere questa “banale” visione coevolutiva. Perché può diventare minacciosa. Se continuassimo a pensarla
per bene e fino in fondo, infatti, dovremmo arrivare alla presa d’atto
che proprio e solo i migranti hanno la capacità di desiderare questa
“utopia giusta e concreta”. Anzi, che sono loro oggi portatori di sana
umanità e di futuro. Questa scoperta, invece che al panico identitario e alla rabbia razzista, dovrebbe portare gli europei a costruire
una visione più larga della convivenza tra le genti. Come hanno fatto
alcuni piccoli comuni del Sud dell’Italia, quel Meridione senza meridiano, quella terra senza ora, perché mai è stata la sua ora. Un paese
124
devastato dalla povertà, dall’emigrazione e dalla criminalità. I calabresi hanno pregato i migranti arrivati come naufraghi nei barconi
alle sponde del Mare Ionio, di rimanere insieme a loro nei piccoli
paesi della Calabria: Badolato, Riace, Caulonia e altri, per darsi la vicendevole speranza di poter rivivere insieme una vita diversa. Per
avere un’ora migliore. Il regista tedesco Wim Wenders, nel 2010, ha
girato “Il Volo”, un documentario narrativo su questo fenomeno non
tanto di mera “accoglienza” quanto di proposta agli stranieri di ridarsi vita insieme. Ma gli alti europei che governano le vite, di noi e
degli altri e dei futuri, sono capaci solo di difendere i privilegi della
civiltà moderna creata con la violenza e l’usurpazione: affari, in tutti
i modi, e comando, sempre. Le macchine governative europee non
sono capaci di assicurare ai migranti nemmeno un trattamento da
civiltà “borghese e illuminata”: nemmeno una “porca politica”
[come dice la figlia di Barney a Barney] adeguata a prevedere e a rimediare difficoltà e conflitti, leggi di polizia e razzismo, carità e solidarietà. Il che significa che non siamo capaci di pensare alcun futuro e tanto meno di preparare una società transculturale, insieme con
chi la desidera, anche senza saperlo. La Transculturazione è nata e
prospera – come concetto antropologico culturale e come parola
comune anche se di origine colta: transculturación e transculturação – nella parte centrale, in quella antillana e in quella meridionale del Mundus Novus delle Americhe. Come nazioni non povere
ma impoverite e devastate, e non domate, dal colonialismo europeo
e poi da quello nordamericano. La Transculturazione aiuta a riconoscere come evidente la storia propria di ogni cultura a ibridarsi con
altre culture e a generare nuove forme “creole” e imprevedibili. Così
come ci hanno insegnato Fernando Ortiz, Oswaldo de Andrade,
Aimé Césaire, Frantz Fanon, Èdouard Glissant, Walter D. Mignolo,
Roberto Fernández Retamar, Eduardo Galeano, Subcomandante
Marcos, Leonardo Boff e tanti altri. Il pensiero e la prassi transculturali indicano che ciò avviene nella mutualità dello scambio e nella
trasformazione imprevedibile, aldilà della violenza e del comando.
Seguendo il pensiero latinoamericano, vogliamo proporci come coloro che rispondono ad esso dalla parte europea, in contrappunto e
125
in relazione. Noi abbiamo individuato ed articolato l’idea e il progetto della Transculturazione in tre movimenti, non tanto successivi
quanto, invece, contemporanei e coevolutivi: Decolonizzazione,
Creolizzazione e Mondializzazione, tutte mutue. Perché possiamo
salvarci solo l’un l’altro, come scrisse il filosofo epicureo Filodemo di
Gadara. Solo così la nuova poetica dell’Interessere e della Relazione
può sostituire pacificamente, anche se implacabilmente, le marche
metafisiche dell’”antico regime europeo”: l’Essere, l’Identità e l’Universalità. Noi pensiamo che queste categorie filosofiche, diventate
poi ideologiche e ormai solo parole abusate e indegne a dirsi, perché menzognere, siano ancora le potentissime marche delle superstizioni della cosmovisione eurocentrica che tuttora governa retoricamente le guide politiche e grande parte della “gente” europea,
anche se la sua estinzione è già in cammino. La cosmovisione transculturale e la sua missione pratica e formativa, che è l’azione che sta
dentro alla parola transculturaazione e nella nuova intenzione del
fare insieme, servono a noi europei per decolonizzarci, per creolizzarci e per mondializzarci. Il primo passo da fare è proprio la liquefazione e il licenziamento del nucleo di ferro del pensiero eurocentrico della modernità: la pretesa che possiamo fare tutto e sempre
da soli, in quanto portatori della luce della civiltà superiore. Quel
“The White Man’s Burden” dell’Ode di Kipling, del 1898, al quale
opponiamo il motto cannibale di Oswaldo de Andrade, dal suo Manifesto Antropofago del 1928: “Prima che i Portoghesi scoprissero il
Brasile, il Brasile aveva scoperto la felicità.” Dobbiamo imparare ad
educarci e salvarci insieme con i migranti e con tutte le culture del
mondo, che proprio noi abbiamo avviato all’estinzione con la “scoperta”. Tutto ciò non significa affatto la rinuncia all’identità europea, o meglio: la fuga dalla nostra responsabilità storica. Ma significa il nostro voler decidere di rieducarci, per arrivare a vedere e a riconoscere che ci è offerta, nel XXI secolo una straordinaria chance
per creare un Mundus Novus anche in Europa. Noi pensiamo che la
Modernità non potrà finire mai prima che ciò accada o senza che ciò
accada. Come quando l’Europa diventò Europa avendo a che fare
con i Goti della Scandinavi, i magiari delle steppe e con i Mori arabi
126
e africani. La Transculturazione è una via per riconoscere e comprendere per bene (à propos, diceva Montaigne) i fenomeni migratori e sociali del nostro tempo, e per proporre e costruire nuovo statuti del benessere individuale e comunitario. Con le pratiche della
“convivenza nella sana umanità” e della “coevoluzione creativa”, intendiamo fare ricerca e sperimentare una revisione della disposizione e della consistenza dei saperi, dei percorsi formativi della scuola
e delle pratiche comunitarie, della creatività condivisa. Se non ora,
quando? scriveva Primo Levi, uno dei testimoni delle vittime della
folle disumanità europea.
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ALTRO DAL CONVEGNO:
FILM E TEATRO
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LOCANDINA
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PROGRAMMA
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MARE CHIUSO
133
"Abbiamo voluto realizzare questo film - commentano Andrea
Segre e Stefano Liberti - per alzare l'attenzione contro le derive incivili e pericolose delle politiche di contrasto all'immigrazione irregolare. Siamo per questo molto contenti e onorati dell'invito a Venezia da parte del Consiglio d'Europa e della Biennale: rappresenta
sia un riconoscimento prestigioso del ruolo sociale e artistico del
nostro lavoro, sia un'occasione assai rilevante per riconoscere le responsabilità del nostro Paese rispetto a politiche inaccettabili come
quella dei respingimenti, ancora mai ufficialmente ripudiata dal governo Italiano."
Mare Chiuso, prodotto e distribuito da ZALAB con il sostegno di
OPEN SOCIETY FUNDATIONS e la collaborazione di JOLEFILM, raccoglie le testimonianze dei migranti vittime delle operazioni di respingimento nel Mediterraneo: in seguito agli accordi tra Gheddafi
e Berlusconi del 2009, le barche dei migranti intercettate in acque
internazionali nel Mediterraneo sono state sistematicamente ricondotte in territorio libico, dove non esisteva alcun diritto di protezione e la polizia esercitava indisturbata varie forme di abusi e di violenze. Molti dei respinti, circa 2000 persone, erano richiedenti asilo.
Dalle loro storie emergono le pesanti responsabilità dell'Italia, sancite da una storica sentenza della CORTE EUROPEA DEI DIRITTI
DELL' UOMO del 23 febbraio 2012.
Uscito pochi giorni dopo la sentenza, Mare chiuso ha ricevuto il
patrocinio di AMNESTY INTERNATIONAL ITALIA e UNHCR, ha ottenuto immediata visibilità sulla stampa nazionale e internazionale
ed è stato premiato, tra gli altri, al Festival di Cinema Africano, Asia
e America Latina di Milano, al Bif&st di Bari, al Festival Libero Bizzarri e ha ottenuto il Globo d'Oro come miglior documentario. Grazie alla collaborazione tra Parthenos e ZaLab, è stato distribuito in
decine di città italiane con oltre 300 proiezioni in pochi mesi. Il
coinvolgimento della società civile è stato determinante: il 20 giugno l'Italia si è mobilitata aderendo a MAI PIU' RESPINTI! con 100
proiezioni contemporanee di Mare Chiuso per dire no ai respingimenti e per chiedere una nuova politica di accoglienza. Lo stesso
giorno Mare Chiuso è andato in onda sull'emittente SKY-Cielo.
134
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VIAGGI SOSPESI
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"Viaggi sospesi…" è uno spettacolo scritto e interpretato dal
gruppo del Laboratorio Stranità del Teatro dell'Ortica con la collaborazione del laboratorio "L'isola selvaggiastra" di Cairo Montenotte (SV).
Stranità è il nome del laboratorio di teatro sociale che il Teatro
dell'Ortica conduce ormai da quasi 13 anni coinvolgendo alcuni pazienti psichiatrici in collaborazione con la Salute Mentale della ASL3
genovese e con il supporto della Regione Liguria.
L'iniziativa, nata nel territorio genovese, si è estesa a livello regionale con la nascita della "Compagnia dei Viaggiatori Sognanti" di
Sanremo, in collaborazione con la ASL1 Imperiese e con il coinvolgimento di alcuni pazienti e operatori della Comunità Pra Ellera di
Cairo Montenotte (SV).
Con Stranità e con gli altri laboratori regionali il Teatro diventa
luogo di promozione della salute come strumento di conoscenza di
sé. In Laboratorio ci si riappropria di energie e risorse sopite, comunicando con il corpo e con la voce e recuperando il proprio benessere.
Un vero e proprio passaggio dal "teatro sociale" al "teatro di
cura". Ogni anno il laboratorio Stranità, sapientemente condotto da
Anna Solaro, attrice e operatrice pedagogico-teatrale, elabora nel
corso della stagione uno spettacolo che viene portato in scena in
uno dei maggiori teatri genovesi.
Lo spettacolo è stato scritto ed è interpretato dai pazienti psichiatrici di Genova e della comunità della Val Bormida, supportati
da giovani studenti di scienze della Formazione e del Dams, inseriti
nel corso di Formazione per operatore pedagogico teatrale, operatori sociali e persone seguite dalla salute mentale con alcuni attori
del Teatro dell'Ortica condotti da Anna Solaro.
Il tema è quello dei viaggi, del viaggio. I viaggiatori attendono in
una stazione da cui i treni non partono più… Un viaggio sospeso.
L'attesa si trasforma in parola, danza e poesia. L'attesa trasforma la
stazione in un incontro di sguardi e corpi in movimento.
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INDICE
PREMESSA.....................................................................................................p. 3
SALUTI DELLE AUTORITÀ...............................................................................7
INTRODUZIONE di Armando Gnisci.........................................................17
STORIA E STORIE............................................................................................21
Timira ....................................................................................................23
Dal colonialismo italiano in Eritrea all'immigrazione eritrea in Italia .....49
L'italiano all'ombra del sicomoro .........................................................55
Esplorare e conoscere: Luigi Robecchi Bricchetti in Somalia ............ 61
La nuova lingua: amore e timore nelle opere degli autori migranti .......75
Dal marocchino al rom: la storia dei nemici immaginari in Italia ......89
Lei, Loro e gli altri ................................................................................101
Quando i sassi in Eritrea erano pane ............................................107
BIBLIOGRAFIE DEI RELATORI....................................................................115
APPENDICE...................................................................................................121
Manifesto transculturale.................................................................123
Altro dal convegno: film e teatro...................................................129
Locandina e programma........................................................130-131
Mare chiuso.......................................................................................133
Viaggi sospesi...................................................................................135
INDICE...........................................................................................................139
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