Acquario - Libertà Edizioni

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Acquario - Libertà Edizioni
INCIPit sania olms
Mi chiamo Sania Olms
e incanto i pesci suonando l’ocarina.
Quando aggallano ebeti li aspiro
nella cisterna del mio aeroscafo.
Per un tallero al chilo poi li vendo
al Grande Acquario.
EXit sania olms
Mi riconobbe lo squalo magistrale
mentre fissavo il vetro della vasca.
Chiese alla piovra così di sollevarmi
e di portarmi a tiro delle fauci.
Acquario
FANTAPERIODICO FIGURATO
NUMERO 3 - settembre 2011
Di conchiglia in conchiglia,
generazione
dopo
generazione,
la collezione si era
notevolmente ampliata.
Ora un’intera ala
della nave madre era adibita
a museo di storia naturale.
golfo stella
CATRAME
UNA COSA SPIACEVOLE
SUL PIANETA RAMAR
CACCIA A LERCHI
LA SCATOLA D’ACQUA
BAUXITE
LA MERENDA
DELL’ANGELO
URANUS DIGEST
CRAMPAL
FANTAROMANZO A PUNTATE
BAIA
SANIA OLMS
GORI’S COMICS
Libertà Edizioni
CATRAME
“Questo pianeta è pieno di
gente cattiva, come facciamo a
scendere e ad affratellarci a
loro? Avete qualche idea?”
Disse la signora Tredici, il comandante.
Ci fu silenzio. Gli ufficiali siedono intorno al tavolo, in divisa blu. Siamo nella sala
riunioni dell’astronave aliena.
Gli alieni hanno sembianze
umanoidi. Sullo schermo, Catrame.
“Potremmo evitare di scendere.
Potremmo anzi distruggere
questo pianeta per proteggere
il resto dell’Universo dalla malvagità degli umani.” Disse il signor Uno.
“Non mi pare una soluzione all’altezza della nostra civiltà,
anche se in modo innegabile ha
un risvolto pratico seducente.
Altre idee?”
“Potremmo ammazzarli tutti.”
disse la signora Otto.
“Ho detto altre idee, fatela finita con questa storia.”
“Potremmo usare Catrame
come esperimento.” Disse con
aria intelligente il signor Nove.
“Potremmo - proseguì - cercare
una soluzione per far regnare la
pace su Catrame. Che ne dite?
Si accettano scommesse naturalmente.”
“Signor Nove, lei è un inguaribile sognatore. Hanno ogni
sorta di piacere, sono ricchi,
sono liberi, che altro può servir
loro per vivere in pace?”
“Questo è il punto, hanno tutto
e sono inquieti, cattivi, infelici.
Diamo loro una dittatura. Ma
non una dittatura umana, di
quelle che finiscono in distruzioni e sterminio. Una dittatura
aliena, illuminata dall’avanzamento della nostra civiltà. Insegniamo loro a bere ottimo vino,
a leggere bei libri, ad accoppiarsi con dieci femmine senza
volere l’undicesima, a godere
delle proprie ricchezze senza
agitarsi per l’undicesima mac-
china e l’undicesima casa. Laddove non arriveranno ad assimilare i nostri insegnamenti, li
obbligheremo. Secondo me
può funzionare. Per vostra serenità possiamo chiedere un
parere al Consiglio scientificocomportamentale prima di procedere. Potrebbe essere utile
anche somministrare agli
umani un farmaco correttivo.”
La signora Tredici si era ritirata
nella sua stanza. In mutande
stava davanti alla gabbia del
mummulitto, passandogli noccioline attraverso le piccole
sbarre. Il mummulitto era una
scimmia del pianeta Tars,
molto usata per compagnia
specialmente dalle signore. Bastava carezzare la scimmia che
il mummulitto si armava subito
di un’erezione esuberante. Il
membro era di ottime dimensioni, sicuramente sovradimensionato rispetto alla stazza della
scimmietta. La sua natura era
placida ma l’erezione era praticamente sinonimo di desiderio
frenetico di accoppiarsi. Da qui
la necessità di tenere in gabbia
la bestiola. Rimosso il contatto
fisico, la bestiola stava sorniona
a guardare fisso in un punto
oppure mangiava noccioline. Il
comandante doveva prendere
una decisione circa il pianeta
Catrame. Non era il momento
di prendere il piacere dal mummulitto. Distruggere il pianeta
con tutti i suoi malvagi abitanti
oppure indulgere all’esperimento immaginato dal signor
Nove? Chiedere il parere del
Consiglio scientifico? Sì, ma
solo una volta deciso di procedere con l’esperimento. Sovrappensiero aveva tenuto una
mano sulla gabbia del mummulitto, e subito la bestiola l’aveva
toccata. Nel mezzo dei suoi
pensieri si accorse che il mummulitto era in erezione, e che
cominciava a fremere per accoppiarsi. “Amore mio - disse il
comandante - per una volta dovrai far tutto da te.” Tolse la
mano dalla gabbia e si coricò,
sfiorandosi tra le cosce e raccogliendo i pensieri. La gabbia del
mummulitto impazzì per alcuni
minuti, poi schizzò contro la
parete e la bestiola, placida, si
ricompose. Il comandante pensava, pensava.
Il signor Nove carezzava le
cosce di Tamara, la sua creatura. Tamara gli stava sopra e lo
cavalcava placidamente. Tamara era il robot più diffuso
per il piacere maschile e per la
famiglia, ciberneticamente perfetta, programmabile nel comportamento fin nei minimi
dettagli. Molti alieni si divertivano a trattarla come un robot,
fino a insultarla e a percuoterla,
il signor Nove invece ne aveva
rispetto. L’aveva programmata
per essere sua moglie e la sua
geisha. “Il mio padrone è contento della sua Tamara?” diceva
spesso la ragazza nell’intimità.
“Il tuo padrone è molto contento di te - rispondeva lui con
dolcezza - sei il sole della mia
vita.” Anche il signor Nove
pensava. Non avrebbe mai
convinto il comandante. Dura,
autonoma nel giudizio, estremamente competente e dotata
di un innato senso pratico,
avrebbe fatto esattamente la
cosa che in coscienza avesse ri-
tenuto la migliore. L’idea dell’esperimento era ottima, ma
difettava di praticità e avrebbe
rappresentato una digressione
rispetto agli obbiettivi della
missione dell’astronave. Ma
dico io, cos’è la scienza se trova
solo ciò che cerca? Cos’è l’imprevisto se non una straordinaria occasione per cimentarsi
con la grandezza? Ma forse era
per questo che, nonostante l’età
matura, era rimasto ufficiale,
non era stato promosso comandante. “Dove sboccia oggi
la primavera del mio signore?”
disse Tamara con voce suadente e con viso solare, irrompendo nei suoi pensieri.
“Dammi un bacio, amore mio”
disse il signor Nove. “Mio signore, sarà il più bel bacio della
tua vita...” “Sì Tamara, sei tutto
per me...”
I cannoni dell’Evadio Lebe
aprirono il fuoco contro Catrame. Era stata una decisione
difficile, ma alla fine il comandante aveva deciso di distruggere il pianeta. Avevano un
viaggio da fare, e non c’era
tempo da perdere con un pianeta di gente malvagia. Il grido
degli umani sembrò palpitare
nella mente e nel petto di tutti
gli ufficiali, mentre in silenzio
vedevano sullo schermo la fine
di un pianeta, di milioni di vite.
Il signor Nove si alzò ed abbandonò la stanza in segno di
aperto dissenso. Nessuno osò
fermarlo, il comandante non
ebbe una parola che riuscì a
non morire nella sua gola.
Strinse i denti. Quando tutto fu
finito il comandante in seconda
impostò la rotta verso il nuovo
obbiettivo del viaggio. Prossima meta lo spazio profondo.
UNA COSA SPIACEVOLE
SUL PIANETA RAMAR
pensierino
per la signora maestra
Io, il mio papà, la mia mammarobot, mia sorella più grande, il
suo mummulitto e il signor Lagarde con la sua fidanzatarobot siamo andati in ferie sul
pianeta Ramar. Un giorno
siamo andati allo zoo-parco e lì
è successa la cosa spiacevole
che volevo raccontare. Abbiamo visto gli oranghi a tre
occhi, le giraffe bicefale, i dinosauri-robot ispirati alle fiabe
per bambini, le capre con gli
occhi a palla, i gatti senza testa,
le bambine-robot con la testa
rotta utilizzate per i film storici
dell’orrore. Papà mi ha comprato lo zucchero filato, abbiamo pranzato al ristorante
dello zoo e abbiamo scattato
tante foto ricordo. Mentre giocavamo con una rana parlante
alta quasi quanto me due guardiani dello zoo ci hanno chiesto
di seguirli e ci hanno portato
poco lontano dove non c’era
nessuno. Lì uno dei guardiani
ha tirato fuori la pistola e ha
sparato in testa al signor Lagarde. Ci hanno spiegato che il
signor Lagarde non era il signor
Lagarde, ma un efferato criminale ricercato in tutto l’Universo. Papà ha riprogrammato
la fidanzata-robot del signor
Lagarde e mi ha spiegato che
da ora in poi sarebbe stata la
mia zia-robot e anche sarebbe
rimasta a vivere con noi. Era
molto simpatico il signor Lagarde e dopo che le guardie l’hanno ammazzato mi sono
sentita molto triste e non ho
parlato con nessuno per tutto il
giorno. Anche mia sorella era
triste e infatti è stata tutto il
giorno in camera col suo mummulitto e non è mai uscita.
Anche papà era molto triste e
anche lui è stato tutto il giorno
in camera con la mia mammarobot e la zia-robot. A un certo
punto mi volevo impiccare perché ero molto triste e anche
molto sola. Ma invece di impiccarmi sono andata in giardino
e ho ammazzato un sacco di
animaletti. Il giorno dopo l’ho
detto a papà e lui mi ha molto
rimproverato. Mi ha comprato
però un cucciolo di mummulitto tutto per me così ora non
sono più sola e dice il mio papà
che man mano che il cucciolo
cresce mi passerà ogni tristezza
e anzi sarò sempre contenta e
felice.
LERCHI
caccia a lerchi
La polizia è ovunque: ha invaso
il sottosuolo. Ormai lo braccano, sempre più vicini: sanno
dov’è, li sente muoversi oltre la
parete della sua tana. Allora
con un guizzo Lerchi si tuffa
nella pece immonda e nuota
come un delfino, come un siluro nelle fogne di Piccola
Terra. Segue il flusso melmoso
dei liquami fino al canale principale e qui si lascia portar via
dalla corrente mefitica. Corre la
grande fogna, Lerchi, e scivola
via verso un ignoto che spera
salvezza.
Lo sbocco del condotto lo
spara nel vuoto insieme al getto
putrido, sotto un cielo fitto di
stelle, illuminato dalle tre lune
satelliti di Piccola Terra. Lerchi
precipita e cade dentro
un’enorme massa d’acqua. Per
un po’, tramortito, lentamente
si lascia affondare, mentre
forme sinuose e viscide lo sfiorano, occhi gelatinosi lo fissano
per un attimo. Poi prende a risalire verso la superficie, soffiando fuori una miscela atroce
di ossigeno sterco e urina. E
riemerge, sfondando il tetto liquido punteggiato dai fuochi
degli astri. E morde l’aria e affanna e inghiotte l’amaro del
salmastro, il volto bellissimo di
semidio battuto dal vento, battuto dall’acqua nel buio. Non
c’è nessuno, è solo Lerchi, solo
con il fruscìo delle onde, solo
nel mare immenso. E all’improvviso Lerchi ricorda, e urla,
Lerchi, un grido acuto come di
balena, lungo e straziante, mischiato alle lacrime, un grido
che il vento solleva e porta lontano.
LA SCATOLA D’ACQUA
I
Chiusasi nella camera 415
dell’Hotel Mariposa, la dottoressa Sonia Delgado cominciò
a spogliarsi e da ultimo si tolse
il cilicio in silicone, riponendolo con ogni cura nel bauletto
da viaggio. Le prime luci della
sera cominciavano ad accendersi lungo l’arco della baia di
Breviland, oltre la porta-finestra scorrevole aperta. La giornata era stata faticosa:
l’interminabile riunione con i
capi congregazione al sacro
concistoro di Fuis l’aveva annientata ed ora, nella capsula di
quiete mollemente illuminata
dal basso, cominciava a respirare. Tolse dalla valigia l’Uranus
Digest e si stese sul letto nuda,
i capezzoli sensibili alla brezza
che spirava dal mare. Sfogliò la
rivista distrattamente: un breve
trafiletto di cronaca locale attirò la sua attenzione per un attimo. Chiuse gli occhi,
lasciando scivolare il giornale
sulla moquette.
Fu un sonno breve e profondo,
interrotto dopo pochi minuti
dalla musichetta intermittente
che le segnalava che la cena era
servita. Si alzò svogliatamente
premendo uno dei pulsanti sul
comodino e dalla parete di
fronte si squadernò nella stanza
un piccolo tavolo, munito di sedile, con sopra un flaconcino
arancione con tre pillole (una
rosa, una viola, una verde) ed
una bottiglietta rotonda color
pervinca. Mentre consumava la
sua razione le tornarono in
mente le ultime parole del consigliere di stato Marsican:
“Niente si potrà frapporre tra
noi e la Scatola d’Acqua.”
II
Le indagini sulla Karmacoma
Inc. erano a un punto morto.
Priscilla Kenfiss spense la sua
agendina palmare prima di salire sul bombo-taxi che
l’avrebbe portata a Breviland.
A bordo si sistemò il trucco:
una pennellatina di mascara alle
lunghe ciglia finte, un tocco di
rossetto arancio sulle labbra
carnose. L’appuntamento con
Sonia era all’ora di pranzo, un
brivido le risalì la schiena nuda.
La dottoressa Delgado sedeva
su una chaise longue della piscina dell’Hotel Mariposa. Riascoltava con gli auricolari il
discorso che il consigliere di
stato Marsican aveva tenuto il
giorno prima al convegno di
Fuis: “…mentre l’alternativa
più convincente sembrerebbe
la restituzione a Panglass dei
territori occupati in cambio
dell’accesso alla rete dei canali
che conducono…”, spense
l’apparecchio vedendo dirigersi
verso di lei la morbida falcata
da mannequin di Priscilla.
“Cara” le sussurrò mentre lei si
inchinava a baciarla; rialzandosi
i suoi capelli biondi le carezzarono il viso. Dopo pranzo sali-
rono in camera a fare l’amore.
Al loro risveglio un messaggio
in segreteria le avvertiva di recarsi con la massima urgenza
alla sede locale della Karmacoma. Si aiutarono reciprocamente ad allacciarsi il cilicio
sfiorandosi i seni.
III
In una delle celle segrete del
sacro concistoro di Fuis languiva da giorni l’agente speciale
XZ9. Dopo le più sofisticate
torture il consigliere Marsican
lo aveva fatto relegare laggiù
per somministrargli via flebo
dosi progressivamente crescenti di Kardigat, la più prodigiosa evoluzione del Penthotal.
“Sempre che gli regga il cuore”
osservò il dottor Celsius “e il
circuito dei microchip emozionali.”
Da anni in servizio al controspionaggio della Karmacoma,
XZ9 conosceva la password per
accedere al sistema basico dell’industria, la più raffinata nel
settore delle armi batteriologi-
che. Dopo lunghe ricerche la
dottoressa Delgado lo aveva finalmente incastrato, seducendolo con la complicità della sua
assistente ed amante Priscilla
Kenfiss.
Mentre il suo cuore cessava di
battere la Dardo con a bordo le
due donne varcava i cancelli
della Karmacoma Inc. “Teniamolo in vita artificialmente”
comandò al suo tecnico di laboratorio il dottor Celsius. Ora
che la parte attiva della coscienza dell’agente era definitivamente inibita, il biomedico
sperava di poter intervenire direttamente sul sistema elettronico corticale, collegandovisi
come se si trattasse di quello di
un androide, per carpirne i segreti, primo fra tutti la fatidica
parola chiave.
IV
L’esplosione che di lì a poco
sventrò l’edifico centrale della
Karmacoma distrusse, tra le
auto parcheggiate là fuori,
anche la Dardo di Sonia Del-
gado, uccidendo la dottoressa
Kenfiss, trattenutavisi per programmare la pistola ad aghi. La
Delgado invece fu sbalzata indietro e atterrò sopra una cisterna di polietilene che attutì
la caduta.
Quando riprese i sensi si trovava nell’infermeria del reparto
collaudi. Il consigliere Marsican, il volto contratto in una
smorfia, le teneva la mano destra fasciata. Dalla garza affiorava una rosa di sangue.
“La password è KIOSMIR!” urlò
trionfante il dottor Celsius nelle
segrete del concistoro di Fuis
mentre il suo assistente staccava la spina che teneva in vita
l’agente XZ9.
V
Secondo il consiglio di stato
l’attentato alla Karmacoma era
ascrivibile ai ribelli dei territori
occupati di Panglass, dove l’industria conduceva gli esperimenti batteriologici, testando le
armi sulla popolazione inerme.
Probabilmente un operaio kamikaze si era fatto saltare in aria
vicino al deposito carburanti.
Ma alcuni capi congregazione,
tra cui Marsican, sospettavano
che fosse stata la stessa dirigenza della Karmacoma ad armare la mano dell’attentatore
per eliminare la Delgado e la
Kenfiss e così interrompere le
loro indagini relative alla Scatola d’Acqua. Erano infatti
convinti che fosse proprio il
possesso di quella fantomatica
reliquia a rendere imbattibile il
fatturato della società. Sembrava trattarsi dell’unica porzione di acqua potabile rimasta
sul pianeta.
VI
digitò sulla tastiera
del computer il dottor Celsius,
dopo un’elaborata procedura di
accesso al sistema basico della
Karmacoma
Inc.
Sullo
schermo si aprì la mappa che
indicava la collocazione della
Scatola d’Acqua: sembrava trovarsi al centro di un labirintico
sistema di cunicoli dentro la
KIOSMIR
montagna sacra di Lavedo, la
più alta e inaccessibile della catena degli Alchechengi, limitante il confine nord dello stato
di Panglass.
“Mi colleghi con il consigliere
Marsican” ordinò al suo attendente “e allertate l’equipaggio
dello Stilus.”
BAUXITE
L’ultimo ingaggio, poi sarebbe
andato in pensione, giusto per
godersi qualche tallero prima di
finire ai cipressini. Era già stato
imbarcato col capitano Pahab,
uomo taciturno ma comprensivo, gran marinaio, in gioventù
formidabile pescatore di balene
lungo la Via Lattea.
L’ammaraggio su Cresus fu abbastanza facile. Solo il mozzo
Timoteo picchiò la testa contro
l’imbracatura delle ali di riserva
e restò svenuto per circa
mezz’ora. Quando riaprì gli
occhi Pahab gli allungò un sigaro venusiano.
Avvistarono il Monte Purgans
dopo due giorni di navigazione.
Alle sue pendici li attendevano
gli uomini di Smolensk con il
carico di bauxite. Gettate le
sonde in rada, calarono gli aeroscafi e si diressero verso la
spiaggia. Fu allora che dalle livide acque di mercurio spuntarono i lunghi tentacoli di un
calamaro gigante.
LA MERENDA DELL’ANGELO
Il primo angelo del mese lo si
festeggia con tutti i crismi. Luisella Mendorf usciva all’alba
dal concistoro ecumenico di
Kraft e si recava, il cestino
colmo di reliquie, sulla terrazza
naturale del pianoro di Boll.
Qui, distesa sull’erba sintetica la
tovaglia di lino ricamata dalle
consorelle, apparecchiava la
merenda per l’angelo: vera
marmellata di mirtilli terrestri,
ciambelle venusiane col buco
rigonfio di glassa di ortiche, lepidotteri marziani conservati
nello stucco di noce ed altre simili delizie, rare al palato etereo
del diafano pennuto. Quando,
alla fine di un’attesa che a volte
durava molti giorni, il celestiale
messo posava al suolo le piante
palmate dei suoi delicatissimi
piedi, l’angelico banchetto era
finito per intiero nello stomachino provato dai lunghi digiuni della beata Luisella
Mendorf.
URANUS DIGEST
Al museo della meccanica ammirava la linea delle prime utilitarie
a
idrogeno,
i
moto-scooter ad aria compressa.
In quello di storia naturale gli
incroci tra il gatto e il cane, tra
la pecora e il pollo.
Sfogliando vecchie riviste lo divertivano le pubblicità ingenue
degli impianti portatili di trasmissione del pensiero o quelle
degli ingombranti congegni di
teletrasporto.
Nell’estate del '96 venne a fargli
visita il figlio di un androide conosciuto su Marte. Riconobbe
la foto del padre che il ragazzo
gli mostrava chiamandolo signor Spenser. Quel nome non
gli diceva niente. Il giovane stu-
diava Informatica Trascendentale alla Facoltà di Teosofia Cosmica. Sarebbe diventato
diacono spaziale.
Quando Jinx gli chiese di fargli
da testimone alle sue nozze in
differita con una femmina di
Andromeda indossò la divisa di
gala del corpo degli astronauti
di Urano. Le decorazioni in titanio brillavano sulla pettorina.
Pianse seguendo l’ultima partita dell’asso del football Jin
Malaga. Segnò sei punti nel
quarto tempo virtuale della finale interplanetaria contro i
Leoni di Titano.
Aprendo una cassetta metallica
per gli effetti personali utilizzata durante la leva su Plutone
la vide per caso, nascosta tra i
guanti e i calzini: la foto di sua
madre, ancora giovane e sorridente, con un taglio di capelli
buffissimo. Di suo padre invece
ricordava appena i baffi.
crampal
fantaromanzo a puntate
Una madreperla viscosa, una
lacca traslucida e gonfia, perfetta nei suoi confini elastici eppure fermi. Allungò un braccio
ad accendere la lampada sul comodino. L’iride bagnò di colore
quel lago tremolante, rivelando
venature di fluido caramello,
probabilmente il riflesso delle
tende, prima che lei se lo spazzasse via dalla schiena con un
colpo di kleenex.
Eva si alzò per andare in bagno.
Di spalle, i suoi trentacinque
anni belli con fatica ed esercizio
mettevano in soggezione: natiche padronali, un incedere da
cavallo di razza... carne scelta.
Dal bagno gli chiese svogliatamente cosa intendesse fare con
Giorgio.
“Niente, lo sai che ho un debole per quell’uomo.”
“Come no, e vieni a letto con
me in segno di rispetto...”
“In un certo senso.”
“Almeno passagli quella benedetta pratica. Fallo per me, non
per lui. Non ce la faccio più a
vederlo ciondolare in ansia per
la cucina, la sera. Ha persino ripreso a rantolare nel sonno.”
“Vedrò cosa posso fare.”
Mentre lei continuava a parlargli nelle intermittenze della rubinetteria, lui si tratteneva nudo
sul letto, le braccia mollemente
incrociate sulle ginocchia, lo
sguardo fisso davanti a sé sulla
parete.
Presto, i frammenti della voce
di Eva non lo raggiunsero più.
Si concentrò ulteriormente sul
nulla apparente. Rapito, studiava quel suo punto fisso sul
muro. Lei gli diceva adesso di
qualche daffare per l’ora di
pranzo. Ma lui era altrove.
Senza staccare lo sguardo dalla
parete, scivolò via dal letto con
la lentezza di un felino e si accostò per vedere meglio. Un
impercettibile sorriso distese i
suoi lineamenti. Come aveva
pensato: una mosca, un’opale-
scente mosca carnaria, finita lì
chissà come. La palpebra si sollevò a scoprire una pupilla di
fosforo, prima che in un viluppo la lingua risucchiasse la
mosca nel tempio umido delle
sue labbra.
Eva uscì dal bagno già vestita e,
con la stessa indolenza di
prima, gli si fece incontro per
salutarlo con un lungo bacio in
bocca, una mano a serrargli una
natica in una morsa di compiaciuta approvazione. Appena in
tempo, pensò lui, depositando
dietro di sé l’insetto ancora intatto in un angolo del comodino.
“Ci vediamo domani, animale,
ho un mucchio di cose da fare
e devo essere in città per
pranzo.”
“Abbi cura di te... e di tuo marito, vipera.”
Rimasto solo, si guardò per un
attimo attorno, nella stanza
moquettata e disadorna del
motel, e lo prese una vaga fitta
di vuoto. Scostò il velo acrilico
delle tende che lo separavano
dalla tangenziale: dietro il
flusso aritmico del traffico di
metà giornata si stagliava la collina glabra, con la sua terra bruciata e i cartelloni pubblicitari.
Più oltre, il cielo color arancio,
tracciato dai satelliti televisivi e
dai taxi siderali. Trapunto di
stelle metalliche, lasciava indovinare appena, a quell’ora, il biscotto avorio della sua luna,
Galla, filigranato dalla luce del
sole.
Una gemma luminosa si affacciò a un angolo dei suoi occhi
e subito ne fu ringhiottita,
come una goccia nella sabbia.
Si vestì automaticamente, riandando più volte al programma
della giornata. Allo specchio
dell’armadio a muro, finiva di
rimandare a mente punto per
punto sistemandosi distratto
abito e camicia.
Poi, raccolse le sue poche cose
e spense la luce, prima di imboccare il corridoio bruno e silenziato
che
portava
all’ascensore. Entrato in questo,
fece in tempo a vedere che
qualcuno doveva averlo chiamato dal piano terra, risparmiandogli anche quel poco di
fastidio. Chiuse gli occhi e at-
tese paziente di arrivare a destinazione. Al piano terra, chi
aveva chiamato fu accolto dalla
specchiante desolazione di un
ascensore vuoto.
La statale cominciò a decorarsi
di eucalipti e il traffico a diradare, finché non assunse le
sembianze di una secondaria
rurale. La macchia mediterranea lasciò gradatamente il
posto a una vegetazione silvana, quasi non più contesa da
manufatti. Quindi, la strada
prese a piegare lentamente
verso destra e ad addentrarsi, in
lieve pendenza, lungo una
densa pineta. Altissimi e ritti
con una strana perfezione, i
pini silvestri colmavano di
un’ombrosa geometria dei solidi una valle altrimenti votata
all’assolato bidimensionale del
silicio. L’odore era così intenso
che quasi si sentiva venir meno,
ma abbassò ulteriormente il finestrino, aspirando e trattenendo in petto le spore di
quella droga di pece e di pino.
In lontananza, tra le maglie
della fitta pineta, agli estremi
della visione stereoscopica, credette di indovinare un cupo
barbaglio. A un bivio, prese a
destra. I suoni si attutivano, le
ruote percuotevano ora una
strada più piccola, quasi interamente ricoperta da un tappeto
di aghi di pino. Decelerò sensibilmente, un po’ per evitare le
buche un po’ come riconoscendo il posto, finché la macchina non assunse un’andatura
a passo d’uomo.
Il lago stava lì, una lastra di liquido metallo satinato, un turchese chimico, fermo nei
confini delle rive smangiate dall’argilla eppure vivo. L’iride di
un sole filtrato a malapena
macchiava di aquiloni immaginari quello specchio tremolante, rivelando venature di
ciano e olio. Un colpo di portiera trafisse come una fucilata
il silenzio di quel luogo.
Discese di alcuni passi il lieve
pendio che portava a un piccolo molo e a una rimessa, un
cestino per le immondizie, un
mucchietto di pietre brunito
dalle grigliate, qualche barca rovesciata a ridosso della riva. La-
sciò vagare lo sguardo all’orizzonte minerale del lago, ne carezzò idealmente la superficie
vasta e racchiusa, quasi a prenderne le misure. Da un lato
della rimessa, un fusto di poliuretano raccoglieva quel poco
che la canala sovrastante convogliava dal tetto nei rari scrosci di pioggia. Al fondo, un
brodo rugginoso e maleodorante tratteneva su di sé un nugolo frenetico di zanzare.
Soddisfatto, andò a sedersi su
un sedile in legno inchiodato all’impiantito del molo e tirò
fuori il telefonino. “Ho trovato
il posto che fa per noi” scandì
deciso e chiuse subito la comunicazione.
Quindi, tornò a socchiudere gli
occhi e ad aspirare l’umore vegetale del lago, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni,
le gambe allungate sulle assi del
molo. Lunga davanti a sé, la lingua srotolata riposava al sole, livido siluro di fanga e di palude,
evaporando nel particolato
d’oro. Il paradiso, pensò, il paradiso di miele e pece di cui gli
raccontava il padre, quando an-
davano a caccia. Sorrise tra sé,
pronto a lasciarsi portare a
spasso, indifeso, tra la veglia e
il sonno.
D’un tratto, riaprì gli occhi di
scatto e ritrasse le gambe, le
mani irrigidite ancora in tasca.
“Porca puttana” eruppe con
un’eco nel lago un attimo
prima di rialzarsi e raggiungere
svelto la macchina, diretto nuovamente al motel. “Porca puttana, la mosca.”
BAIA
Sulla carta, queste baie portano
nomi come Mortoria, Terramala... nomi che fanno freddo
ai denti. Ma sotto il sole battente, nella feria ordinaria, perdono qualsiasi connotato
infausto. Si inciviliscono, vittima dell’estetica del soggiorno.
Illuminate al calor bianco, in
piena stagione, sono il solito ridente agglomerato di villette
turistiche piantate a semicerchio a ridosso della caletta. Località anonime, senza nome.
In piena notte, però, la loro
vera natura torna a galla. Scomparse le case e i villeggianti,
ferme le bocce e i natanti, rifà
capolino il vecchio vizio. Cessate le parole che le raccontano
con falsa benevolenza, tornano
a essere quel che sono. Una sagoma nera contro un cielo
cupo. Una bocca buia sul nulla
in fermento del mare. Il vento
è un etere caldo, che muove la
vegetazione a ondate, venendo
dalla baia. Eccolo che si avvicina. Che pensavi, dice, mica
sono cambiato. Sono lo stesso
di ieri e l’altroieri, sono sempre
stato. I miei grani sono quelli
che hanno battuto le terga del
Corso prima di essere sorpreso
dal cornuto, sferzato il groppo
a bestie senza aratro, portato il
morbo a riva dalle quarantene.
Giro qui attorno praticamente
da sempre. Sono lo stesso che,
prima di te, ha svegliato altri insonni. Strappati a un sonno rumoroso per portarli qui, nel
loro civile terrazzino, ad affacciarsi sul belniente di cui siamo
fatti. Sulla buca del teatro di
madre natura. Musica per ciechi, nero di seppia mistica.
Frastornato da tanta assenza, il
sopravvissuto si mette indosso
quel che capita e scende svelto
verso la macchina. Butta il
muso nel buio dei tornanti,
corre a capofitto verso il nastro
lontano della provinciale. Un
brivido insano lo percorre
quando il fiotto giallastro dei
fari illumina il cartello blu oltremare col nome della baia. Terramala, Mortoria. Accelera
ancora un po’. Vuole arrivare
vivo, il prima possibile, al
primo bar aperto della zona.
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INCIPit sania olms
Mi chiamo Sania Olms, o almeno credo,
qui tutto è così labile e confuso…
Fui biscazziere in Marte, al Tres Gaffeur,
nell’anno, parmi, dell’Affaire Panglass.
Mi dedicavo ai dadi a mille facce,
alla roulette mimetica di Vars
con risultati ottimi a sentire
il conte Michelovic, il patron.
EXit sania olms
Una sera nefasta fui sorpreso
con certe fiches di pregio nelle tasche
(qualcuno ve le fece scivolare,
forse invidioso Ruben, il cameriere).
Per questo fui cacciato in malo modo
(a scappellotti e calci nel sedere)
e relegato dentro ad una capsula,
dove già fui, orbitante, ricordate?
STAMPATO SU PICCOLA TERRA NEL settembre 2011
IN 100 ESEMPLARI