Acquario - Libertà Edizioni
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Acquario - Libertà Edizioni
INCIPit sania olms Mi chiamo Sania Olms e incanto i pesci suonando l’ocarina. Quando aggallano ebeti li aspiro nella cisterna del mio aeroscafo. Per un tallero al chilo poi li vendo al Grande Acquario. EXit sania olms Mi riconobbe lo squalo magistrale mentre fissavo il vetro della vasca. Chiese alla piovra così di sollevarmi e di portarmi a tiro delle fauci. Acquario FANTAPERIODICO FIGURATO NUMERO 3 - settembre 2011 Di conchiglia in conchiglia, generazione dopo generazione, la collezione si era notevolmente ampliata. Ora un’intera ala della nave madre era adibita a museo di storia naturale. golfo stella CATRAME UNA COSA SPIACEVOLE SUL PIANETA RAMAR CACCIA A LERCHI LA SCATOLA D’ACQUA BAUXITE LA MERENDA DELL’ANGELO URANUS DIGEST CRAMPAL FANTAROMANZO A PUNTATE BAIA SANIA OLMS GORI’S COMICS Libertà Edizioni CATRAME “Questo pianeta è pieno di gente cattiva, come facciamo a scendere e ad affratellarci a loro? Avete qualche idea?” Disse la signora Tredici, il comandante. Ci fu silenzio. Gli ufficiali siedono intorno al tavolo, in divisa blu. Siamo nella sala riunioni dell’astronave aliena. Gli alieni hanno sembianze umanoidi. Sullo schermo, Catrame. “Potremmo evitare di scendere. Potremmo anzi distruggere questo pianeta per proteggere il resto dell’Universo dalla malvagità degli umani.” Disse il signor Uno. “Non mi pare una soluzione all’altezza della nostra civiltà, anche se in modo innegabile ha un risvolto pratico seducente. Altre idee?” “Potremmo ammazzarli tutti.” disse la signora Otto. “Ho detto altre idee, fatela finita con questa storia.” “Potremmo usare Catrame come esperimento.” Disse con aria intelligente il signor Nove. “Potremmo - proseguì - cercare una soluzione per far regnare la pace su Catrame. Che ne dite? Si accettano scommesse naturalmente.” “Signor Nove, lei è un inguaribile sognatore. Hanno ogni sorta di piacere, sono ricchi, sono liberi, che altro può servir loro per vivere in pace?” “Questo è il punto, hanno tutto e sono inquieti, cattivi, infelici. Diamo loro una dittatura. Ma non una dittatura umana, di quelle che finiscono in distruzioni e sterminio. Una dittatura aliena, illuminata dall’avanzamento della nostra civiltà. Insegniamo loro a bere ottimo vino, a leggere bei libri, ad accoppiarsi con dieci femmine senza volere l’undicesima, a godere delle proprie ricchezze senza agitarsi per l’undicesima mac- china e l’undicesima casa. Laddove non arriveranno ad assimilare i nostri insegnamenti, li obbligheremo. Secondo me può funzionare. Per vostra serenità possiamo chiedere un parere al Consiglio scientificocomportamentale prima di procedere. Potrebbe essere utile anche somministrare agli umani un farmaco correttivo.” La signora Tredici si era ritirata nella sua stanza. In mutande stava davanti alla gabbia del mummulitto, passandogli noccioline attraverso le piccole sbarre. Il mummulitto era una scimmia del pianeta Tars, molto usata per compagnia specialmente dalle signore. Bastava carezzare la scimmia che il mummulitto si armava subito di un’erezione esuberante. Il membro era di ottime dimensioni, sicuramente sovradimensionato rispetto alla stazza della scimmietta. La sua natura era placida ma l’erezione era praticamente sinonimo di desiderio frenetico di accoppiarsi. Da qui la necessità di tenere in gabbia la bestiola. Rimosso il contatto fisico, la bestiola stava sorniona a guardare fisso in un punto oppure mangiava noccioline. Il comandante doveva prendere una decisione circa il pianeta Catrame. Non era il momento di prendere il piacere dal mummulitto. Distruggere il pianeta con tutti i suoi malvagi abitanti oppure indulgere all’esperimento immaginato dal signor Nove? Chiedere il parere del Consiglio scientifico? Sì, ma solo una volta deciso di procedere con l’esperimento. Sovrappensiero aveva tenuto una mano sulla gabbia del mummulitto, e subito la bestiola l’aveva toccata. Nel mezzo dei suoi pensieri si accorse che il mummulitto era in erezione, e che cominciava a fremere per accoppiarsi. “Amore mio - disse il comandante - per una volta dovrai far tutto da te.” Tolse la mano dalla gabbia e si coricò, sfiorandosi tra le cosce e raccogliendo i pensieri. La gabbia del mummulitto impazzì per alcuni minuti, poi schizzò contro la parete e la bestiola, placida, si ricompose. Il comandante pensava, pensava. Il signor Nove carezzava le cosce di Tamara, la sua creatura. Tamara gli stava sopra e lo cavalcava placidamente. Tamara era il robot più diffuso per il piacere maschile e per la famiglia, ciberneticamente perfetta, programmabile nel comportamento fin nei minimi dettagli. Molti alieni si divertivano a trattarla come un robot, fino a insultarla e a percuoterla, il signor Nove invece ne aveva rispetto. L’aveva programmata per essere sua moglie e la sua geisha. “Il mio padrone è contento della sua Tamara?” diceva spesso la ragazza nell’intimità. “Il tuo padrone è molto contento di te - rispondeva lui con dolcezza - sei il sole della mia vita.” Anche il signor Nove pensava. Non avrebbe mai convinto il comandante. Dura, autonoma nel giudizio, estremamente competente e dotata di un innato senso pratico, avrebbe fatto esattamente la cosa che in coscienza avesse ri- tenuto la migliore. L’idea dell’esperimento era ottima, ma difettava di praticità e avrebbe rappresentato una digressione rispetto agli obbiettivi della missione dell’astronave. Ma dico io, cos’è la scienza se trova solo ciò che cerca? Cos’è l’imprevisto se non una straordinaria occasione per cimentarsi con la grandezza? Ma forse era per questo che, nonostante l’età matura, era rimasto ufficiale, non era stato promosso comandante. “Dove sboccia oggi la primavera del mio signore?” disse Tamara con voce suadente e con viso solare, irrompendo nei suoi pensieri. “Dammi un bacio, amore mio” disse il signor Nove. “Mio signore, sarà il più bel bacio della tua vita...” “Sì Tamara, sei tutto per me...” I cannoni dell’Evadio Lebe aprirono il fuoco contro Catrame. Era stata una decisione difficile, ma alla fine il comandante aveva deciso di distruggere il pianeta. Avevano un viaggio da fare, e non c’era tempo da perdere con un pianeta di gente malvagia. Il grido degli umani sembrò palpitare nella mente e nel petto di tutti gli ufficiali, mentre in silenzio vedevano sullo schermo la fine di un pianeta, di milioni di vite. Il signor Nove si alzò ed abbandonò la stanza in segno di aperto dissenso. Nessuno osò fermarlo, il comandante non ebbe una parola che riuscì a non morire nella sua gola. Strinse i denti. Quando tutto fu finito il comandante in seconda impostò la rotta verso il nuovo obbiettivo del viaggio. Prossima meta lo spazio profondo. UNA COSA SPIACEVOLE SUL PIANETA RAMAR pensierino per la signora maestra Io, il mio papà, la mia mammarobot, mia sorella più grande, il suo mummulitto e il signor Lagarde con la sua fidanzatarobot siamo andati in ferie sul pianeta Ramar. Un giorno siamo andati allo zoo-parco e lì è successa la cosa spiacevole che volevo raccontare. Abbiamo visto gli oranghi a tre occhi, le giraffe bicefale, i dinosauri-robot ispirati alle fiabe per bambini, le capre con gli occhi a palla, i gatti senza testa, le bambine-robot con la testa rotta utilizzate per i film storici dell’orrore. Papà mi ha comprato lo zucchero filato, abbiamo pranzato al ristorante dello zoo e abbiamo scattato tante foto ricordo. Mentre giocavamo con una rana parlante alta quasi quanto me due guardiani dello zoo ci hanno chiesto di seguirli e ci hanno portato poco lontano dove non c’era nessuno. Lì uno dei guardiani ha tirato fuori la pistola e ha sparato in testa al signor Lagarde. Ci hanno spiegato che il signor Lagarde non era il signor Lagarde, ma un efferato criminale ricercato in tutto l’Universo. Papà ha riprogrammato la fidanzata-robot del signor Lagarde e mi ha spiegato che da ora in poi sarebbe stata la mia zia-robot e anche sarebbe rimasta a vivere con noi. Era molto simpatico il signor Lagarde e dopo che le guardie l’hanno ammazzato mi sono sentita molto triste e non ho parlato con nessuno per tutto il giorno. Anche mia sorella era triste e infatti è stata tutto il giorno in camera col suo mummulitto e non è mai uscita. Anche papà era molto triste e anche lui è stato tutto il giorno in camera con la mia mammarobot e la zia-robot. A un certo punto mi volevo impiccare perché ero molto triste e anche molto sola. Ma invece di impiccarmi sono andata in giardino e ho ammazzato un sacco di animaletti. Il giorno dopo l’ho detto a papà e lui mi ha molto rimproverato. Mi ha comprato però un cucciolo di mummulitto tutto per me così ora non sono più sola e dice il mio papà che man mano che il cucciolo cresce mi passerà ogni tristezza e anzi sarò sempre contenta e felice. LERCHI caccia a lerchi La polizia è ovunque: ha invaso il sottosuolo. Ormai lo braccano, sempre più vicini: sanno dov’è, li sente muoversi oltre la parete della sua tana. Allora con un guizzo Lerchi si tuffa nella pece immonda e nuota come un delfino, come un siluro nelle fogne di Piccola Terra. Segue il flusso melmoso dei liquami fino al canale principale e qui si lascia portar via dalla corrente mefitica. Corre la grande fogna, Lerchi, e scivola via verso un ignoto che spera salvezza. Lo sbocco del condotto lo spara nel vuoto insieme al getto putrido, sotto un cielo fitto di stelle, illuminato dalle tre lune satelliti di Piccola Terra. Lerchi precipita e cade dentro un’enorme massa d’acqua. Per un po’, tramortito, lentamente si lascia affondare, mentre forme sinuose e viscide lo sfiorano, occhi gelatinosi lo fissano per un attimo. Poi prende a risalire verso la superficie, soffiando fuori una miscela atroce di ossigeno sterco e urina. E riemerge, sfondando il tetto liquido punteggiato dai fuochi degli astri. E morde l’aria e affanna e inghiotte l’amaro del salmastro, il volto bellissimo di semidio battuto dal vento, battuto dall’acqua nel buio. Non c’è nessuno, è solo Lerchi, solo con il fruscìo delle onde, solo nel mare immenso. E all’improvviso Lerchi ricorda, e urla, Lerchi, un grido acuto come di balena, lungo e straziante, mischiato alle lacrime, un grido che il vento solleva e porta lontano. LA SCATOLA D’ACQUA I Chiusasi nella camera 415 dell’Hotel Mariposa, la dottoressa Sonia Delgado cominciò a spogliarsi e da ultimo si tolse il cilicio in silicone, riponendolo con ogni cura nel bauletto da viaggio. Le prime luci della sera cominciavano ad accendersi lungo l’arco della baia di Breviland, oltre la porta-finestra scorrevole aperta. La giornata era stata faticosa: l’interminabile riunione con i capi congregazione al sacro concistoro di Fuis l’aveva annientata ed ora, nella capsula di quiete mollemente illuminata dal basso, cominciava a respirare. Tolse dalla valigia l’Uranus Digest e si stese sul letto nuda, i capezzoli sensibili alla brezza che spirava dal mare. Sfogliò la rivista distrattamente: un breve trafiletto di cronaca locale attirò la sua attenzione per un attimo. Chiuse gli occhi, lasciando scivolare il giornale sulla moquette. Fu un sonno breve e profondo, interrotto dopo pochi minuti dalla musichetta intermittente che le segnalava che la cena era servita. Si alzò svogliatamente premendo uno dei pulsanti sul comodino e dalla parete di fronte si squadernò nella stanza un piccolo tavolo, munito di sedile, con sopra un flaconcino arancione con tre pillole (una rosa, una viola, una verde) ed una bottiglietta rotonda color pervinca. Mentre consumava la sua razione le tornarono in mente le ultime parole del consigliere di stato Marsican: “Niente si potrà frapporre tra noi e la Scatola d’Acqua.” II Le indagini sulla Karmacoma Inc. erano a un punto morto. Priscilla Kenfiss spense la sua agendina palmare prima di salire sul bombo-taxi che l’avrebbe portata a Breviland. A bordo si sistemò il trucco: una pennellatina di mascara alle lunghe ciglia finte, un tocco di rossetto arancio sulle labbra carnose. L’appuntamento con Sonia era all’ora di pranzo, un brivido le risalì la schiena nuda. La dottoressa Delgado sedeva su una chaise longue della piscina dell’Hotel Mariposa. Riascoltava con gli auricolari il discorso che il consigliere di stato Marsican aveva tenuto il giorno prima al convegno di Fuis: “…mentre l’alternativa più convincente sembrerebbe la restituzione a Panglass dei territori occupati in cambio dell’accesso alla rete dei canali che conducono…”, spense l’apparecchio vedendo dirigersi verso di lei la morbida falcata da mannequin di Priscilla. “Cara” le sussurrò mentre lei si inchinava a baciarla; rialzandosi i suoi capelli biondi le carezzarono il viso. Dopo pranzo sali- rono in camera a fare l’amore. Al loro risveglio un messaggio in segreteria le avvertiva di recarsi con la massima urgenza alla sede locale della Karmacoma. Si aiutarono reciprocamente ad allacciarsi il cilicio sfiorandosi i seni. III In una delle celle segrete del sacro concistoro di Fuis languiva da giorni l’agente speciale XZ9. Dopo le più sofisticate torture il consigliere Marsican lo aveva fatto relegare laggiù per somministrargli via flebo dosi progressivamente crescenti di Kardigat, la più prodigiosa evoluzione del Penthotal. “Sempre che gli regga il cuore” osservò il dottor Celsius “e il circuito dei microchip emozionali.” Da anni in servizio al controspionaggio della Karmacoma, XZ9 conosceva la password per accedere al sistema basico dell’industria, la più raffinata nel settore delle armi batteriologi- che. Dopo lunghe ricerche la dottoressa Delgado lo aveva finalmente incastrato, seducendolo con la complicità della sua assistente ed amante Priscilla Kenfiss. Mentre il suo cuore cessava di battere la Dardo con a bordo le due donne varcava i cancelli della Karmacoma Inc. “Teniamolo in vita artificialmente” comandò al suo tecnico di laboratorio il dottor Celsius. Ora che la parte attiva della coscienza dell’agente era definitivamente inibita, il biomedico sperava di poter intervenire direttamente sul sistema elettronico corticale, collegandovisi come se si trattasse di quello di un androide, per carpirne i segreti, primo fra tutti la fatidica parola chiave. IV L’esplosione che di lì a poco sventrò l’edifico centrale della Karmacoma distrusse, tra le auto parcheggiate là fuori, anche la Dardo di Sonia Del- gado, uccidendo la dottoressa Kenfiss, trattenutavisi per programmare la pistola ad aghi. La Delgado invece fu sbalzata indietro e atterrò sopra una cisterna di polietilene che attutì la caduta. Quando riprese i sensi si trovava nell’infermeria del reparto collaudi. Il consigliere Marsican, il volto contratto in una smorfia, le teneva la mano destra fasciata. Dalla garza affiorava una rosa di sangue. “La password è KIOSMIR!” urlò trionfante il dottor Celsius nelle segrete del concistoro di Fuis mentre il suo assistente staccava la spina che teneva in vita l’agente XZ9. V Secondo il consiglio di stato l’attentato alla Karmacoma era ascrivibile ai ribelli dei territori occupati di Panglass, dove l’industria conduceva gli esperimenti batteriologici, testando le armi sulla popolazione inerme. Probabilmente un operaio kamikaze si era fatto saltare in aria vicino al deposito carburanti. Ma alcuni capi congregazione, tra cui Marsican, sospettavano che fosse stata la stessa dirigenza della Karmacoma ad armare la mano dell’attentatore per eliminare la Delgado e la Kenfiss e così interrompere le loro indagini relative alla Scatola d’Acqua. Erano infatti convinti che fosse proprio il possesso di quella fantomatica reliquia a rendere imbattibile il fatturato della società. Sembrava trattarsi dell’unica porzione di acqua potabile rimasta sul pianeta. VI digitò sulla tastiera del computer il dottor Celsius, dopo un’elaborata procedura di accesso al sistema basico della Karmacoma Inc. Sullo schermo si aprì la mappa che indicava la collocazione della Scatola d’Acqua: sembrava trovarsi al centro di un labirintico sistema di cunicoli dentro la KIOSMIR montagna sacra di Lavedo, la più alta e inaccessibile della catena degli Alchechengi, limitante il confine nord dello stato di Panglass. “Mi colleghi con il consigliere Marsican” ordinò al suo attendente “e allertate l’equipaggio dello Stilus.” BAUXITE L’ultimo ingaggio, poi sarebbe andato in pensione, giusto per godersi qualche tallero prima di finire ai cipressini. Era già stato imbarcato col capitano Pahab, uomo taciturno ma comprensivo, gran marinaio, in gioventù formidabile pescatore di balene lungo la Via Lattea. L’ammaraggio su Cresus fu abbastanza facile. Solo il mozzo Timoteo picchiò la testa contro l’imbracatura delle ali di riserva e restò svenuto per circa mezz’ora. Quando riaprì gli occhi Pahab gli allungò un sigaro venusiano. Avvistarono il Monte Purgans dopo due giorni di navigazione. Alle sue pendici li attendevano gli uomini di Smolensk con il carico di bauxite. Gettate le sonde in rada, calarono gli aeroscafi e si diressero verso la spiaggia. Fu allora che dalle livide acque di mercurio spuntarono i lunghi tentacoli di un calamaro gigante. LA MERENDA DELL’ANGELO Il primo angelo del mese lo si festeggia con tutti i crismi. Luisella Mendorf usciva all’alba dal concistoro ecumenico di Kraft e si recava, il cestino colmo di reliquie, sulla terrazza naturale del pianoro di Boll. Qui, distesa sull’erba sintetica la tovaglia di lino ricamata dalle consorelle, apparecchiava la merenda per l’angelo: vera marmellata di mirtilli terrestri, ciambelle venusiane col buco rigonfio di glassa di ortiche, lepidotteri marziani conservati nello stucco di noce ed altre simili delizie, rare al palato etereo del diafano pennuto. Quando, alla fine di un’attesa che a volte durava molti giorni, il celestiale messo posava al suolo le piante palmate dei suoi delicatissimi piedi, l’angelico banchetto era finito per intiero nello stomachino provato dai lunghi digiuni della beata Luisella Mendorf. URANUS DIGEST Al museo della meccanica ammirava la linea delle prime utilitarie a idrogeno, i moto-scooter ad aria compressa. In quello di storia naturale gli incroci tra il gatto e il cane, tra la pecora e il pollo. Sfogliando vecchie riviste lo divertivano le pubblicità ingenue degli impianti portatili di trasmissione del pensiero o quelle degli ingombranti congegni di teletrasporto. Nell’estate del '96 venne a fargli visita il figlio di un androide conosciuto su Marte. Riconobbe la foto del padre che il ragazzo gli mostrava chiamandolo signor Spenser. Quel nome non gli diceva niente. Il giovane stu- diava Informatica Trascendentale alla Facoltà di Teosofia Cosmica. Sarebbe diventato diacono spaziale. Quando Jinx gli chiese di fargli da testimone alle sue nozze in differita con una femmina di Andromeda indossò la divisa di gala del corpo degli astronauti di Urano. Le decorazioni in titanio brillavano sulla pettorina. Pianse seguendo l’ultima partita dell’asso del football Jin Malaga. Segnò sei punti nel quarto tempo virtuale della finale interplanetaria contro i Leoni di Titano. Aprendo una cassetta metallica per gli effetti personali utilizzata durante la leva su Plutone la vide per caso, nascosta tra i guanti e i calzini: la foto di sua madre, ancora giovane e sorridente, con un taglio di capelli buffissimo. Di suo padre invece ricordava appena i baffi. crampal fantaromanzo a puntate Una madreperla viscosa, una lacca traslucida e gonfia, perfetta nei suoi confini elastici eppure fermi. Allungò un braccio ad accendere la lampada sul comodino. L’iride bagnò di colore quel lago tremolante, rivelando venature di fluido caramello, probabilmente il riflesso delle tende, prima che lei se lo spazzasse via dalla schiena con un colpo di kleenex. Eva si alzò per andare in bagno. Di spalle, i suoi trentacinque anni belli con fatica ed esercizio mettevano in soggezione: natiche padronali, un incedere da cavallo di razza... carne scelta. Dal bagno gli chiese svogliatamente cosa intendesse fare con Giorgio. “Niente, lo sai che ho un debole per quell’uomo.” “Come no, e vieni a letto con me in segno di rispetto...” “In un certo senso.” “Almeno passagli quella benedetta pratica. Fallo per me, non per lui. Non ce la faccio più a vederlo ciondolare in ansia per la cucina, la sera. Ha persino ripreso a rantolare nel sonno.” “Vedrò cosa posso fare.” Mentre lei continuava a parlargli nelle intermittenze della rubinetteria, lui si tratteneva nudo sul letto, le braccia mollemente incrociate sulle ginocchia, lo sguardo fisso davanti a sé sulla parete. Presto, i frammenti della voce di Eva non lo raggiunsero più. Si concentrò ulteriormente sul nulla apparente. Rapito, studiava quel suo punto fisso sul muro. Lei gli diceva adesso di qualche daffare per l’ora di pranzo. Ma lui era altrove. Senza staccare lo sguardo dalla parete, scivolò via dal letto con la lentezza di un felino e si accostò per vedere meglio. Un impercettibile sorriso distese i suoi lineamenti. Come aveva pensato: una mosca, un’opale- scente mosca carnaria, finita lì chissà come. La palpebra si sollevò a scoprire una pupilla di fosforo, prima che in un viluppo la lingua risucchiasse la mosca nel tempio umido delle sue labbra. Eva uscì dal bagno già vestita e, con la stessa indolenza di prima, gli si fece incontro per salutarlo con un lungo bacio in bocca, una mano a serrargli una natica in una morsa di compiaciuta approvazione. Appena in tempo, pensò lui, depositando dietro di sé l’insetto ancora intatto in un angolo del comodino. “Ci vediamo domani, animale, ho un mucchio di cose da fare e devo essere in città per pranzo.” “Abbi cura di te... e di tuo marito, vipera.” Rimasto solo, si guardò per un attimo attorno, nella stanza moquettata e disadorna del motel, e lo prese una vaga fitta di vuoto. Scostò il velo acrilico delle tende che lo separavano dalla tangenziale: dietro il flusso aritmico del traffico di metà giornata si stagliava la collina glabra, con la sua terra bruciata e i cartelloni pubblicitari. Più oltre, il cielo color arancio, tracciato dai satelliti televisivi e dai taxi siderali. Trapunto di stelle metalliche, lasciava indovinare appena, a quell’ora, il biscotto avorio della sua luna, Galla, filigranato dalla luce del sole. Una gemma luminosa si affacciò a un angolo dei suoi occhi e subito ne fu ringhiottita, come una goccia nella sabbia. Si vestì automaticamente, riandando più volte al programma della giornata. Allo specchio dell’armadio a muro, finiva di rimandare a mente punto per punto sistemandosi distratto abito e camicia. Poi, raccolse le sue poche cose e spense la luce, prima di imboccare il corridoio bruno e silenziato che portava all’ascensore. Entrato in questo, fece in tempo a vedere che qualcuno doveva averlo chiamato dal piano terra, risparmiandogli anche quel poco di fastidio. Chiuse gli occhi e at- tese paziente di arrivare a destinazione. Al piano terra, chi aveva chiamato fu accolto dalla specchiante desolazione di un ascensore vuoto. La statale cominciò a decorarsi di eucalipti e il traffico a diradare, finché non assunse le sembianze di una secondaria rurale. La macchia mediterranea lasciò gradatamente il posto a una vegetazione silvana, quasi non più contesa da manufatti. Quindi, la strada prese a piegare lentamente verso destra e ad addentrarsi, in lieve pendenza, lungo una densa pineta. Altissimi e ritti con una strana perfezione, i pini silvestri colmavano di un’ombrosa geometria dei solidi una valle altrimenti votata all’assolato bidimensionale del silicio. L’odore era così intenso che quasi si sentiva venir meno, ma abbassò ulteriormente il finestrino, aspirando e trattenendo in petto le spore di quella droga di pece e di pino. In lontananza, tra le maglie della fitta pineta, agli estremi della visione stereoscopica, credette di indovinare un cupo barbaglio. A un bivio, prese a destra. I suoni si attutivano, le ruote percuotevano ora una strada più piccola, quasi interamente ricoperta da un tappeto di aghi di pino. Decelerò sensibilmente, un po’ per evitare le buche un po’ come riconoscendo il posto, finché la macchina non assunse un’andatura a passo d’uomo. Il lago stava lì, una lastra di liquido metallo satinato, un turchese chimico, fermo nei confini delle rive smangiate dall’argilla eppure vivo. L’iride di un sole filtrato a malapena macchiava di aquiloni immaginari quello specchio tremolante, rivelando venature di ciano e olio. Un colpo di portiera trafisse come una fucilata il silenzio di quel luogo. Discese di alcuni passi il lieve pendio che portava a un piccolo molo e a una rimessa, un cestino per le immondizie, un mucchietto di pietre brunito dalle grigliate, qualche barca rovesciata a ridosso della riva. La- sciò vagare lo sguardo all’orizzonte minerale del lago, ne carezzò idealmente la superficie vasta e racchiusa, quasi a prenderne le misure. Da un lato della rimessa, un fusto di poliuretano raccoglieva quel poco che la canala sovrastante convogliava dal tetto nei rari scrosci di pioggia. Al fondo, un brodo rugginoso e maleodorante tratteneva su di sé un nugolo frenetico di zanzare. Soddisfatto, andò a sedersi su un sedile in legno inchiodato all’impiantito del molo e tirò fuori il telefonino. “Ho trovato il posto che fa per noi” scandì deciso e chiuse subito la comunicazione. Quindi, tornò a socchiudere gli occhi e ad aspirare l’umore vegetale del lago, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, le gambe allungate sulle assi del molo. Lunga davanti a sé, la lingua srotolata riposava al sole, livido siluro di fanga e di palude, evaporando nel particolato d’oro. Il paradiso, pensò, il paradiso di miele e pece di cui gli raccontava il padre, quando an- davano a caccia. Sorrise tra sé, pronto a lasciarsi portare a spasso, indifeso, tra la veglia e il sonno. D’un tratto, riaprì gli occhi di scatto e ritrasse le gambe, le mani irrigidite ancora in tasca. “Porca puttana” eruppe con un’eco nel lago un attimo prima di rialzarsi e raggiungere svelto la macchina, diretto nuovamente al motel. “Porca puttana, la mosca.” BAIA Sulla carta, queste baie portano nomi come Mortoria, Terramala... nomi che fanno freddo ai denti. Ma sotto il sole battente, nella feria ordinaria, perdono qualsiasi connotato infausto. Si inciviliscono, vittima dell’estetica del soggiorno. Illuminate al calor bianco, in piena stagione, sono il solito ridente agglomerato di villette turistiche piantate a semicerchio a ridosso della caletta. Località anonime, senza nome. In piena notte, però, la loro vera natura torna a galla. Scomparse le case e i villeggianti, ferme le bocce e i natanti, rifà capolino il vecchio vizio. Cessate le parole che le raccontano con falsa benevolenza, tornano a essere quel che sono. Una sagoma nera contro un cielo cupo. Una bocca buia sul nulla in fermento del mare. Il vento è un etere caldo, che muove la vegetazione a ondate, venendo dalla baia. Eccolo che si avvicina. Che pensavi, dice, mica sono cambiato. Sono lo stesso di ieri e l’altroieri, sono sempre stato. I miei grani sono quelli che hanno battuto le terga del Corso prima di essere sorpreso dal cornuto, sferzato il groppo a bestie senza aratro, portato il morbo a riva dalle quarantene. Giro qui attorno praticamente da sempre. Sono lo stesso che, prima di te, ha svegliato altri insonni. Strappati a un sonno rumoroso per portarli qui, nel loro civile terrazzino, ad affacciarsi sul belniente di cui siamo fatti. Sulla buca del teatro di madre natura. Musica per ciechi, nero di seppia mistica. Frastornato da tanta assenza, il sopravvissuto si mette indosso quel che capita e scende svelto verso la macchina. Butta il muso nel buio dei tornanti, corre a capofitto verso il nastro lontano della provinciale. Un brivido insano lo percorre quando il fiotto giallastro dei fari illumina il cartello blu oltremare col nome della baia. Terramala, Mortoria. Accelera ancora un po’. Vuole arrivare vivo, il prima possibile, al primo bar aperto della zona. LE FIGURINE DI ACQUARIO fzk29 filder fzk32 zibril LE FIGURINE DI ACQUARIO qlm12 broderiq qlm24 marsican LE FIGURINE DI ACQUARIO sq416 tipcot sq3 nani LE FIGURINE DI ACQUARIO lp66 jinx lp44 calendula LE FIGURINE DI ACQUARIO wf61 jon wf14 marvin LE FIGURINE DI ACQUARIO ab99 sania olms ab602 sania olms INCIPit sania olms Mi chiamo Sania Olms, o almeno credo, qui tutto è così labile e confuso… Fui biscazziere in Marte, al Tres Gaffeur, nell’anno, parmi, dell’Affaire Panglass. Mi dedicavo ai dadi a mille facce, alla roulette mimetica di Vars con risultati ottimi a sentire il conte Michelovic, il patron. EXit sania olms Una sera nefasta fui sorpreso con certe fiches di pregio nelle tasche (qualcuno ve le fece scivolare, forse invidioso Ruben, il cameriere). Per questo fui cacciato in malo modo (a scappellotti e calci nel sedere) e relegato dentro ad una capsula, dove già fui, orbitante, ricordate? STAMPATO SU PICCOLA TERRA NEL settembre 2011 IN 100 ESEMPLARI