YETI di Gian Giuseppe Filippi

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YETI di Gian Giuseppe Filippi
YETI: MITOLOGIA SCIENTISTA E MITO HIMALAYANO
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
Yeti è un sostantivo notissimo in tutto il pianeta, usato in tutte le lingue per definire ciò che è
noto anche come l’‘Abominevole Uomo delle Nevi’, uno degli ultimi ‘misteri’ naturali che la scienza moderna concede di coltivare all’attuale umanità, seppur con sufficiente scetticismo e con cautele metodologiche. Apparentemente, lo Yeti entra in punta dei piedi -è il caso di dirlo- nella storia contemporanea nel 1899 con il libro Among the Himalayas del maggiore Laurence Austine Waddell. Tra le tante cose che narra, ricorda che dieci anni prima, attraversando un ghiacciaio
all’altitudine di circa 5200 m. sul livello del mare, nell’area adiacente a Darjeeling, egli e i suoi portatori s’imbatterono in una pista di orme gigantesche impresse sulle nevi. I portatori entrarono in
agitazione affermando che quelle impronte erano state prodotte dal passaggio di pelosi uomini
selvaggi,1 o almeno così riporta Waddell. Con incredulità positivista, il maggiore britannico commenta nel suo libro che il villoso uomo selvaggio era degno del medesimo credito del leone bianco
tibetano, il cui ruggito era udibile soltanto durante le tempeste. Egli era invece convinto che si
trattasse delle tracce di un ursus arctus isabellinus, la varietà dell’orso bruno dal pellame più pallido, carnivoro himalayano che spesso attacca gli yak per cibarsene. Certamente la notizia di questo
primo avvistamento è stata riesumata a posteriori per creare una fonte antica alla mitologia che
si sarebbe formata giornalisticamente alcuni decenni più tardi. Earl Denman, infatti, nel suo Alone
to Everest, pubblicato nel 1954, cita la scoperta di Waddell come se si fosse trattato delle impronte
dello Yeti, sottacendo sia l’attribuzione dei portatori all’uomo selvatico2 sia l’opinione
dell’ufficiale inglese che si riferiva all’orso bruno.3
Nel 1903 William Hugh Knight, celebre esploratore del Royal Society Club, dichiarava di aver casualmente incrociato, in un imprecisato tratto dell’Himalaya, un mostruoso uomo-bestia alto circa due metri, dal vello giallastro, che saltava di roccia in roccia con grande agilità, nonostante
avesse i piedi rivolti all’indietro. L’essere mostruoso brandiva nelle sue grosse mani un rozzo arco.
Abbiamo evidenziato in corsivo questi due particolari che risultano interessanti per la soluzione
del problema che presenteremo più avanti, nonostante che tutto il resto sia un clamoroso falso.
Infatti il celebre esploratore è del tutto sconosciuto ai documenti ufficiali dell’India britannica né
è mai stato membro del Royal Society Club e, probabilmente, non è mai esistito. È invece noto
l’esploratore William Henry Knight, che aveva pubblicato nel lontano 1863 il suo Diary of a pedestrian in Cashmere & Tibet, libro nel quale non c’è traccia di alcun incontro prodigioso. È piuttosto
evidente che l’invenzione del personaggio William Hugh Knight utilizza la tecnica di mischiare verità a menzogna, in modo da avere un’apparenza di veridicità. La storia fu costruita con tanta abilità che il preteso “celebre esploratore del Royal Society Club” è citato tra i primi avvistatori dello
Yeti del XX secolo,4 tanto che anche Graffigna ingenuamente lo menziona nel libro su cui spesso
anche noi ci siamo appoggiati per la sua seria compilazione d’informazioni.5
Ma l’avvistamento d’impronte con cui s’inaugura davvero il mito dello Yeti è quello a cui presenziò il tenente colonnello Charles Kenneth Howard-Bury il 22 settembre 1921: davanti a una sequela di impronte di piedi umani impresse nella neve sul passo di Lhakpa a 6800 metri d’altezza, i
suoi portatori nepalesi si prosternarono, affermando che erano state prodotte dal passaggio di un
me-teh kangmi. Per la prima volta un europeo trasmette il termine con cui gli indigeni chiamavano
1
Si noti che il lemma Yeti a quest’epoca non veniva ancora menzionato.
Come si vedrà nel prosieguo, la sostituzione di “uomo selvatico villoso” con Yeti non è affatto innocente.
3
C’è a chiedersi se le teorie sulla formazione dei miti presso le diverse civiltà formulate dalla “Storia delle Religioni” e
dall’Etnologia siano state ispirate ricalcando il comportamento dell’uomo civilizzato nella creazione delle mitologie
moderne.
4
I sostenitori dell’esistenza dello Yeti si rifanno a sporadiche fonti antiche come Plinio il Vecchio, Milarepa (Milaraspa), Johan Schiltberger a Athanasius Kircher, i quali, per la verità non usarono mai il termine Yeti, ma “uomo selvatico” (homo selvaticus).
5
Carlo Graffigna, Yeti. Un mito intramontabile, Torino, Centro Documentazione Alpina, 1999, pp. 15-16.
2
il prodigioso essere, tentando di darne una traduzione in una lingua europea. Letteralmente il significato del binomio è “essere simile all’uomo, abitante delle nevi”. Al suo ritorno a Calcutta,
Howard-Bury rilascia un’intervista al giornalista Henry Newman del The Statesman. Per un errore
di trascrizione, metch 6 kangmi in luogo di me-teh kangmi, Newman divulga la traduzione erronea di
‘Abominevole Uomo delle Nevi’, che tanto successo avrà in seguito.7 Tra le altre cose il giornalista
inglese mescola notizie fedelmente riportate a stravolgimenti più o meno voluti. Tra i particolari
interessanti, la cui interpretazione daremo tra breve, e certamente raccolti dalla bocca dei portatori nepalesi della spedizione, è da citare la villosità dell’uomo selvatico, il cattivo odore che emana e i piedi rivolti all’indietro. Ciò che, invece, non è convincente è la descrizione delle dita prensili dei piedi dell’‘Abominevole’, che già lascia intendere l’inclinazione di Newman a classificare lo
strano essere tra i primati. Più che al libro dello stesso Howard-Bury Mount Everest. The Reconnaisance (1921) è dunque al battage pubblicitario che ebbe inizio con Newman che si deve la grande
fortuna del mito moderno dello Yeti.8 I giornali inglesi, nonostante la disapprovazione della Royal
Geographical Society e lo scetticismo degli ambienti accademici, ancora totalmente positivisti,
scatenarono la curiosità del grosso pubblico, ed è proprio negli anni 1921-22 che si ripescarono le
memorie di Waddell e si creò dal nulla il personaggio di William Hugh Knight, celebre esploratore
del Royal Society Club.9 Questa montatura apparve una sola volta alla pagina 11 del The Times del 3
novembre 1921, in una nota anonima pubblicata tra le lettera all’Editore,10 ma tale mistificazione
farà da modello a tutti i successivi avvistamenti di Yeti da parte di esploratori e scalatori delle
grandi formazioni montuose a nord dell’India, Himalaya, Hindukush, Pamir.
Un avvistamento, questa volta, fece un certo scalpore nel 1925, quando il geologo greco N. A.
Tombazi dichiarò di aver visto camminare un uomo nudo sulla neve ad alta quota in una parte del
Sikkim in cui era impegnato in una raccolta di dati mineralogici. Subito egli fotografò e misurò le
impronte, sicuramente umane, ma di modeste dimensioni.11 Tombazi dichiarò sempre con fermezza, sulla base della sua esperienza di esploratore himalayano, che si trattava di uno yogi, ma la
cronaca s’impadronì dell’evento come prova dell’esistenza dell’‘Abominevole Uomo delle Nevi’.12
Nel 1935 un tale Swami Pranavananda, uno degli esponenti del modernismo indiano travestito
d’arancione, pagando il suo tributo alla scienza occidentale, sosteneva che le tracce trovate da altri sulla neve delle montagne himalayane erano impronte di orso bruno, com’ebbe ad annotare
anche nel suo History of Kailash-Manasarover.13 Tuttavia, una volta che egli stesso s’imbattè in una
6
Metch per la verità non compare in alcuna lingua himalayana, ma fu arbitrariamente tradotto con “abominevole”.
Anche in questo caso Graffigna lascia intendere di esperienze dirette di Newman, quando quest’ultimo si limitò a
intervistare i partecipanti della spedizione Howard-Bury e a sensazionalizzarne i racconti.
8
Per la verità i giornali si guardarono dal citare l’interpretazione delle orme che lo stesso Howard-Bury espresse nel
suo libro, secondo cui le orme “furono probabilmente prodotte da un grande lupo grigio saltellante, che nella neve
soffice aveva formato una doppia scia, somigliante a quella che lascia un uomo a piedi nudi”. Egli aggiunge che per
gli sherpa del suo seguito l’autore delle impronte fu un metOh kang-mi, ch’egli traduce erroneamente come uomo
orso-uomo delle nevi. Ed eccoci dunque all’origine anche dell’altra interpretazione zoologica delle tracce, quella
plantigrada.
9
In questo periodo si rispolverarono anche le testimonianze dei professori Baradiyn e Khakhlov che, inascoltati, avevano ripetutamente parlato all’Imperiale Accademia delle Scienze di Mosca d’un essere simile all’uomo vivente nel
Centro Asia
10
La nota è riportata integralmente in Myra Shackley, Wildmen. Yeti, Sasquatch and Neandewrthal Enigma, London,
Thames & Hudson, 1983, pp. 53-54.
11
Nel luglio del 1930 capitò al capitano Hiniker di fare un’esperienza simile: a 5000 metri s’imbattè in un uomo pressoché ignudo che gli si rivolse in inglese dicendogli: «Buon giorno e buon Natale!» Si trattava d’un pellegrino hindū.
Cfr. Graffigna, cit., p. 43.
12
È ben noto a tutti coloro che hanno esperienza dell’area himalayana che alcuni yogin hindū e vajrayāni praticano una
tecnica per resistere ai rigori del gelo invernale ad altitudini notevoli. Nel 1974 noi stessi incontrammo a Badrinath
uno yogin che avrebbe passato l’inverno da solo all’altezza di 3400 m., mentre tutti gli altri sādhu della valle all’inizio
di novembre migravano verso la pianura.
13
History of Kailash-Manasarover, Calcutta, S. P. League, 1949, p. 69, pubblicato con prefazione del “pandit” Nehru.
7
sequela di quelle impronte, trovandole di foggia circolare e di dimensioni enormi, le attribuì a un
prontamente inventato ‘elefante delle nevi’!14
L’alpinista anglo-singalese Eric Earle Shipton, che ritroveremo più avanti, partecipò a quattro
spedizioni himalayane. Nel 1936, attraversando il ghiacciaio di Rongbuk, osservò una fila
d’impronte di un bipede sconosciuto. I portatori, da lui interrogati, risposero che si trattava delle
orme dello Yeti. Questa è la prima volta che l’‘Abominevole Uomo delle Nevi’ è designato con questo nome, e Shipton evidentemente lo riprodusse storpiando in inglese il termine usato dagli
sherpa. Le fotografie che egli scattò in quell’occasione non risultarono molto nitide. L’anno successivo Shipton incrocia e immortala un’altra pista simile, di cui abbiamo riprodotto una foto.
Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, l’attenzione degli europei si rivolse
all’esplorazione e alla conquista delle più alte vette del Tetto del Mondo, e le menzioni di scoperte
di orme misteriose si moltiplicarono assieme alla raccolta dei racconti degli aiutanti indigeni,
quasi tutti ormai di etnia sherpa.15 Questi, avendo dimostrato la migliore conoscenza delle montagne e la più perfetta adattabilità alle alte quote, da allora monopolizzarono gli incarichi di guide,
interpreti e portatori al servizio dei ‘bianchi’. Frank S. Smythe, allora famoso alpinista ben informato sui miti dei montanari, ma fondamentalmente scettico, nel 1937 s’imbatteva nelle orme che
fotografa, misura e disegna. Tornato a Londra affermerà che l’autore di quelle tracce non poteva
essere che un orso o un panda gigante. Un suo amico e rivale, Bill Tilman, scalatore e avventuriero, nello stesso anno scoperse delle orme su un ghiacciaio del Karakorum. Egli si convinse che non
le si poteva attribuire a un orso o a una scimmia, ma a un essere misterioso. L’anno successivo incontrerà altre impronte che lo confermeranno nella sua interpretazione romantica; e da quel
momento Tilman iniziò una serrata polemica scritta con gli ambienti scientifici, da lui considerati
privi di fantasia.
L’attrazione per l’‘Abominevole’ crebbe a dismisura, però, soltanto dopo la seconda guerra mondiale, in curiosa contemporaneità con il dilagare della psicosi dei ‘dischi volanti’.16 Fu proprio la rinnovata ansia di violare le vette ancora intatte che spinse europei prima, e poi statunitensi, giapponesi e, in seguito all’invasione del Tibet, cinesi a una sfida, spesso mortale, per assicurarsi l’effimera
vittoria.
L’8 novembre 1951 Shipton avvistò nuovamente una nuova pista di orme al passo Melung, a circa 5800 metri. Era in compagnia del Dr. Michael Ward e dello sherpa Sen Tenzing. Quest’ultimo affermò che erano tracce dello Yeti ch’egli aveva già incontrato una volta a distanza ravvicinata. Lo
sherpa fornì a Shipton una descrizione dettagliata del mostro, descrizione che diventerà famosa e
che, tutto sommato, influenza ancora oggi l’immaginario dei sostenitori dello Yeti.
Il 19 aprile 1952 il botanico Albert Zimmermann che partecipava alla spedizione ginevrina WyssDunant, per la prima volta fotografò delle impronte sulla neve di forma simile a quella umana alle
falde di sud-ovest del monte Sagaramāthā o Chomolangma, generalmente più noto con il nome
che gli fu attribuito in onore di George Everest. Erano di notevoli dimensioni: ventinove centimetri di lunghezza, corrispondente a una scarpa n. 46, ma larghe ben dodici centimetri. La regolare
distanza tra un’orma e la seguente era di 50 centimetri. L’osservazione a nostro avviso più interessante, che si trova tra le annotazioni da Zimmermann, è che la pista procedeva in perfetta linea retta, cosa che confermarono quasi tutti coloro che dopo di lui descrissero una simile sequela
di orme. Egli attribuì le orme a un quadrumane, sul quale non si pose a disquisire se fosse di specie nota o sconosciuta. Notò che all’interno di ogni impronta se ne scorgeva un’altra più piccola, il
che gli fece supporre che il quadrumane camminasse a quattro zampe.17
14
Graffigna, cit., pp. 24-25.
Si tratta di un gruppo d’origine tibetano settentrionale, migrato in Nepal durante il XIV secolo sospinto
dall’espansione mongola. Gli sherpa si insediarono nella zona segnata dalle più alte vette della catena himalayana,
tra l’Everest e il Kanchenjanga. Parlano una lingua affine al tibetano.
16
Qualcosa di simile accadde negli anni 1847-49, con la comparsa dei fenomeni spiritici e le prime apparizioni mariane dell’epoca moderna.
17
Graffigna, cit., p. 81.
15
Un altro membro della medesima spedizione, il geologo prof. Augustin Lombard, rilasciava al
quotidiano The Age un’intervista in cui descriveva in termini simili un altro avvistamento, ma discrepando nell’interpretazione: si trattava di una serie di tracce di piedi della misura tra i 25 e i 30
centimetri di lunghezza per 12-15 centimetri di larghezza. Il passo non superava i 35 centimetri e
la scìa delle impronte era perfettamente rettilinea. Esprimendo un’opinione diversa da quella di
Zimmermann, egli aggiungeva anche che le impronte sovrapposte gli davano l’impressione che
una intera famiglia si fosse spostata avendo ciascuno dei suoi membri la cura di porre il piede nelle orme di chi lo precedeva, come “facevano i pellerossa e come fanno gli alpinisti”.18 Curiosamente, sulla medesima pagina del quotidiano australiano, il capo spedizione, il medico Dr. Edouard R.
Wyss-Dunant dava una diversa esposizione del rinvenimento. Egli deludeva immediatamente le
curiosità morbose del giornalista che lo intervistava, negando risolutamente che potesse trattarsi
dell’‘Abominevole Uomo delle Nevi,19 dato che, secondo lui, si trattava di un quadrupede di non
più di 60-80 chili di peso. Un animale, dunque, che vive in gruppo “come gli elefanti e i camosci”.
Il Dr. Wyss-Dunant, inoltre, aggiungeva, non si sa bene in base a quali osservazioni scientifiche,
che probabilmente si trattava di un onnivoro, sebbene, sempre a sua detta, gli indigeni sostenessero che “quell’animale” fosse erbivoro. Queste dichiarazioni così discordanti, in tutta evidenza
furono prodotte non da evidenze obiettive, ma dalle “sovrapposizioni mentali”20 dei dichiaranti.
Nel suo diario, però, Wyss-Dunant confermava quanto rilasciato nell’intervista summenzionata
del prof. Augustin Lombard, aggiungendo che la forma del piede che aveva impresso quelle tracce
aveva un alluce più grosso, privo dei segni dell’unghia, più marcato e distanziato dalle altre dita. E
così concludeva: “Per ora un fatto è certo: sull’Everest vive un animale, scimmia, orso, o, se si vuole, anche un uomo preistorico, che la nostra scienza ancora non conosce.”21 Fuori delle cautele
usate nell’intervista sul giornale, il Dr. Wyss-Dunant, dunque, aveva elencato le tre possibili interpretazioni che da quel momento in poi saranno all’origine di infinite polemiche tra sostenitori
e negatori dell’esistenza dello Yeti. Ovvero se l’‘Abominevole’ fosse un primate, un plantigrado o
un antropoide che rappresentasse l’”anello mancante” secondo i canoni dell’evoluzionismo applicato alla specie umana.
Fig. 1- Piede di papio ursinus
18
Fig. 2 - Orma d’orso
Fig. 3 - Orma di Yeti
The Age, Melbourne, 14 giugno 1952, p. 2.
Ciò non ha impedito a Wyss-Dunant di imporre il nome di Yeti Col al colle da cui provenivano le tracce.
20
Alludiamo qui al bhrama della dottrina vedānta, ovvero la nota mala interpretazione mentale di una percezione sensoriale precisa: chi vede una corda può pensare ingannevolmente che si tratti d’un serpente.
21
Graffigna, cit., p. 83.
19
Ciò non toglie che l’opinione a cui Wyss-Dunant prevalentemente propendeva era quella che si
trattasse di orme d’orso, certamente la meno conforme all’evidenza “scientifica”, dato che gli orsi
non hanno l’alluce distanziato e, invece, lasciano chiaramente i segni degli unghioni.22
In seguito a questi avvenimenti, negli anni che seguirono, furono organizzate alcune spedizioni
all’unico scopo di avvistare, fotografare, uccidere o catturare uno Yeti. La prima fu la Yeti Hunting
Expedition guidata nel 1954 nel distretto di Solu-Khumbu da Ralph Izzard e finanziata dal Daily
Mail, conclusasi con un nulla di fatto.23 Vi fu nel medesimo anno una spedizione giapponese diretta dal Dr. Yaichi Hotta nell’area del Ganesh Himal, che varie voci raccolte descrivevano come habitat naturale dell’ ‘Abominevole’; anche questo tentativo finì in nulla per l’ostilità e gli ostacoli
frapposti dagli indigeni.24
Per un anno intero, dall’autunno del 1957 all’autunno del 1958, la spedizione, Snow Man Expedition, organizzata e finanziata dal magnate petroliero Tom Slick25 battè invano l’area dell’Everest
alla ricerca dello Yeti. Egli tuttavia si consolò dopo che gli fu consentito di vedere e fotografare
una mano scheletrica ritenuta essere appartenuta a uno Yeti, conservata del monastero di Pangboche.26
L’ultima esplorazione importante alla scoperta dello Yeti, altrettanto infruttuosa, fu diretta nel
1960 da sir Edmund Hillary.27 Il celebrato conquistatore dell’Everest, timoroso che l’insuccesso
della sua nuova avventura oscurasse la fama così duramente conquistata in precedenza, ostentò
presto uno scetticismo accanito, che mal si accordava con lo scopo della missione che era stato
incaricato di dirigere.28
Ciò che più colpisce di questa serie d’insuccessi che hanno bruciato inutilmente enormi risorse,
è che tutti i partecipanti, con l’unica eccezione di Hillary, paradossalmente rientrarono entusiasti
alle loro rispettive basi, sempre più convinti dell’esistenza del mostro himalayano. La campagna
pubblicitaria e il supporto giornalistico prima, durante e dopo le diverse spedizioni, che avevano
tenuto con il fiato sospeso l’opinione pubblica mondiale, in attesa della soluzione del grande
enigma, all’improvviso s’interruppe. Le ragioni del crollo di questo mito occidentale non sono affatto chiare, anche se l’invasione armata cinese del Tibet, che rese pericoloso il confine tra la Cina
da una parte, e dall’altra l’India, il Nepal, il Sikkim, e il Bhutan, una certa responsabilità deve
averla avuta. Ciò non vuol dire che dello Yeti non si sentisse più parlare; alcune missioni minori
furono ancora compiute, e i fans dello Yeti a tutt’oggi non sono ancora del tutto scomparsi. Per
esempio il Governo statale del Sikkim organizzò nel 1975 una spedizione fotografica alla ricerca
dello Yeti, allo scopo di attirare del turismo in quello Stato dell’Unione Indiana.29 Si volle un po’
seguire l’esempio del fortunato battage propagandistico nepalese, che aveva attratto numerosi turisti, curiosi, trekkers e altro, accorsi per vedere lo Yeti o, perlomeno, per poter parlare di
22
Ibid., p. 84.
Madan Mohan Gupta & Tribhuvan Nath, On the Yeti Trail. The Search for the Elusive Snowman, New Delhi, UBSPD, 1994,
p. 26.
24
Ibid., p. 27.
25
Inventore della cripto zoologia; nel 1954 Slick fu il primo a diffondere la notizia dell’esistenza di un copricapo tratto
da un scalpo di Yeti. Vedremo poi cosa si può pensare a proposito di tale oggetto.
26
Questa mano in seguito fu rubata: non si sa chi fosse stato il ladro, anche se molti sospettarono lo stesso Slick
d’essere il mandante. Loren Coleman, che scrisse la biografia di Tom Shlick nel 1980, sostenne che a compiere il furto materialmente fosse stato Brian Byrnes, che aveva partecipato alla Snow Man Expedition. Il primatologo William
Charles Osman Hill, prosector della Zoological Society di Londra, che l’analizzò nel 1958, dichiarò che si trattava di
una mano di un ominide, per poi contraddirsi nel 1960 sostenendo che si trattava di un reperto neandertaliano. Infine nel 2011 l’Università di Edimburgo, sulla base della prova del DNA, l’attribuì a un essere umano. “True origins
of a ‘yeti’s finger’“ Science & Environment,27 December 2011, h. 11.00, BBC.
27
Anche Hillary trovò uno scalpo di Yeti a Khumh-Dzhung. Riuscì a portarlo in Gran Bretagna per sottoporlo ad analisi, che diedero come risultato che si trattava in realtà di un falso tratto dalla pelliccia d’una capra selvatica. Shackley, cit. pp. 65-66.
28
Graffigna, cit., pp. 30; 53-54.
29
Ciò accadde pochi mesi dopo il poco chiaro referendum per l’annessione del Regno del Sikkim all’Unione Indiana.
23
quell’essere prodigioso con veri o sedicenti esploratori, alpinisti e sherpa. La spedizione indiana,
invece, fallì sia dal punto di vista della ricerca sia da quello del richiamo turistico.
Tralasceremo di citare le numerose testimonianze individuali di coloro che riportarono di aver
incontrato tracce sulle nevi delle varie formazioni montuose asiatiche in ragione della loro poca
attendibilità. La massima parte di costoro non furono in grado di fornire alcuna prova fotografica
del personaggio in cui si erano imbattuti, e neppure delle orme che sarebbero state lasciate sulla
neve. Citeremo solamente qualche rara dichiarazione che appare in qualche modo in concordanza
con i racconti tradizionali delle popolazioni asiatiche.
Tra le narrazioni sospette, per esempio, c’è quella di Brian Samailovic Ashkenazi, un israelita
americano di origini russe residente a Bombay, che avrebbe avvistato un jangli admi (uomo della
jungla) nelle vicinanze della stazione ferroviaria di Peshawar nel novembre del 1938. Lo descrisse
alto più di tre metri, tutto coperto da un vello nero, il cui volto privo di peli mostrava “fattezze
negroidi”. Ashkenazi rilasciò questa dichiarazione per la prima volta al The Times of India il 6 agosto 1979. L’attesa di quarantun anni per narrare il fatto non è credibile e sembra una dichiarazione rilasciata alla stampa al solo scopo di rinverdire un mito declinante.
Al contrario pare interessante il racconto rilasciato dallo yogi Narahari Nath,30 del suo incontro
con uno shokpa31 nel corso del suo pellegrinaggio al monte Kailash del 1955. Aveva da poco lasciato
il monastero Sarsyu alla testa di un gruppo di pellegrini in direzione del lago Manasarovar, quando vide sulla riva del fiume Ṥivagangā un essere gigantesco e coperto di peli. Essendo il primo della fila, Narahari Nath lo scorse per primo e quindi richiamò l’attenzione dei suoi compagni di
viaggio sulla strana apparizione. Lo shokpa attraversò il cammino su cui essi stavano procedendo e
continuò a dirigersi verso il monte Kailash, per nulla infastidito dalla presenza degli umani.32 Dopo aver vinto lo stupore, lo yogi cercò di scattare una fotografia. La foto però, una volta sviluppata, non rilevò alcuna forma né umana né animale. La descrizione può apparire anodina e generica,
tuttavia nel suo Itihāsa Prakāsa33 egli identificò lo shokpa avvistato l’anno precedente con lo Yeti
(yeh-teh) e propone un’origine etimologica per questo ultimo termine o dal termine yakṣa, o da
yati, entrambi sanscriti. Ciò fa riflettere su cosa in realtà egli avesse visto assieme alla sua compagnia di pellegrini. Yakṣa, infatti definisce un tipo di spirito, mentre yati è un termine per indicare
un asceta o eremita. Ma ritorneremo su questa interpretazione nella seconda parte di questo articolo.
Risparmiamo al lettore ulteriori elenchi di segnalazioni dello Yeti, consapevoli come siamo di
aver raggiunto il suo limite di sopportazione. Sarà dunque necessario fare il punto della situazione di quanto si è esposto finora. In definitiva, nell’ambiente degli esploratori, scienziati e cacciatori di fenomeni prodigiosi, prevalentemente occidentali o occidentalizzati, sono prevalse tre ipotesi sullo Yeti:
I- Lo Yeti è un animale, un orso appartenente al genere ursus o al melursus; oppure è un orso
panda gigante del genere ailuropodus. Si tratta dell’ipotesi più ‘positivista’ e scettica, sostenuta soprattutto da Smythe e Hillary.
II- Lo Yeti è un animale, una scimmia primate, della famiglia hominidæ, di sottofamiglia e genere
non stabilito (pongo? pan? gorilla?). I principali sostenitori di questa seconda ipotesi, ancora scientista, ma con qualche concessione alla fantasia, furono Zimmermann e Shipton.
III- Lo Yeti è un essere vivente la cui natura non è possibile da definire fino a quando non se ne
catturi o uccida un esemplare. Potrebbe essere sia animale sia umano. Questo è il punto di vista
peculiare di Tilman. Tuttavia questa ipotesi ha trovato una posizione più avanzata e generalmente accettata dalla maggioranza di cercatori Yeti: si tratterebbe, in questo caso d’un ominide, di
30
Yogi Narahari Nath, oltre a essere un noto guru della scuola gorkhā che si rifà a Gorakh Nath e che ha sede presso il
Pasupatinath di Kathmandu, è stato uomo di grande erudizione, ottimo sanscritista e studioso d’arte nepalese.
31
Così lo chiamarono i monaci dei due monasteri di Chiu Gompa e Mul Gompa a cui lo yogi chiese lumi
sull’apparizione.
32
Gupta & Nath, cit. pp. 63-64.
33
Yogi Narahari Nath, Itihāsa Prakāsa, Kathmandu, Itihasa Prakash Sangh, 1956, passim.
quel tanto bramato anello mancante tra i primati e l’uomo che, una volta trovato, permetterebbe
all’evoluzionismo di diventare una teoria scientifica, smettendo d’essere un’ipotesi. Sia la romantica credenza di Tilman in un essere misterioso sia l’affannosa ricerca dell’anello mancante da
parte dei seguaci di Darwin hanno assunto negli anni ‘50 e ‘60 caratteristiche fideistiche, visionarie e, sovente, mistificatorie.
Consideriamo rapidamente queste tre ipotesi: la prima può essere d’un certo interesse dal punto
di vista in cui ci porremo quando proporremo la nostra soluzione al problema. Tuttavia deve essere respinta nella sua accezione ‘positivista’ proprio in base alle prove materiali: le impronte
dell’orso non corrispondono in nulla a quelle dello Yeti. E, non essendo state trovate altre prove
materiali, l’ipotesi del plantigrado deve essere scartata.34
Anche la seconda ipotesi, che pur è da respingere, tuttavia, presenta alcuni aspetti per noi interessanti. Ma non è al primate che qui facciamo allusione. Molti sostenitori di questa posizione
hanno fatto notare che il luogo dove più avvistamenti ci sono stati in tutto l’arco himalayano è
quello del gruppo montuoso detto Mahalangur Himal, montagna del grande langur. Per ignoranza
o malafede, hanno tradotto mahālangur con grande scimmia o scimmione. In realtà con mahālangur s’intende il trachypithecus geei, impropriamente detto ‘langur’ dorato.35 Non si tratta affatto
d’uno scimmione, simile a un gorilla con la testa a pera, come quello con cui è raffigurato di fantasia lo Yeti, ma una scimmia elegante, longilinea e dalla lunga coda.
Ora, l’habitat dei primati di montagna è la foresta, dove possono procurarsi cibo, e non i ghiacciai
o i nevai, su cui sono sempre state ritrovate le orme dello Yeti, dove i piedi delle scimmie, non
protetti da peli e da cuscinetti, subirebbero un rapido congelamento. Anche in questo caso le orme dello Yeti smentiscono l’ipotesi per cui sia stato un primate a imprimerle nella neve: infatti i
piedi, o per meglio dire le zampe posteriori delle scimmie hanno la forma di una mano con il pollice opponibile; non per nulla sono ‘quadrumani’. Quindi anche l’ipotesi che l’‘Abominevole’ sia
un primate deve essere respinta, dato che la sua orma dimostra di non avere l’alluce opponibile.36
La terza ipotesi è l’unica che sarebbe in accordo con la prova delle impronte. Un antropoide ‘anello mancante’ potrebbe ben aver lasciato tracce simili a quelle di un piede umano. Ciò che rende difficile condividere questa supposizione è l’atteggiamento di morboso autoconvincimento, quasi si
trattasse d’una fede ‘religiosa’, ben lontano dalla neutralità dell’osservazione scientifica che dovrebbero mostrare coloro che sostengono questa interpretazione. Considerata la notevole dimensione delle impronte, alcune delle quali raggiungono i 43 centimetri, degli scienziati ipotizzarono
che lo Yeti potesse essere un gigantopithecus. Purtroppo di quest’ultimo sono stati rinvenuti soltanto
pochi denti, appiattiti come quelli dei maiali, reperti del tutto insufficienti per determinarne la
stazza; sta di fatto che se alcuni paleo-antropologi hanno avanzato l’ipotesi di una sua statura gigantesca, altri sostengono che potesse essere stato delle modeste proporzioni d’un pongide (orango). Altri scienziati sostennero invece che lo Yeti potesse essere un homo neanderthalensis.37 Tuttavia
in base a recenti studi sul DNA dei reperti neanderthaliani, appare che quegli uomini non erano diversi dall’uomo moderno, ragion per cui sta facendosi largo la teoria che vuole che l’homo neanderthalensis non sia stato altro che una varietà razziale di homo sapiens. L’unica caratteristica che lo dif34
Gli scalpi degli Yeti, tre in tutto, non sono stati mai null’altro i che copricapi dei danzatori che rappresentano lo Yeti nelle celebrazioni festive che periodicamente si tengono davanti ai templi e nei cortili dei gonpa. Sono stati considerati reperti da analizzare soltanto dagli stranieri bramosi di trovare la prova fisica dell’esistenza dello Yeti. Una
volta superata la delusione dell’immancabile smentita da parte delle analisi, s’è scaricata la responsabilità del ‘falso’
ai custodi di questi coni pelosi. In verità gli stessi europei che li videro e che li portarono in occidente per analizzarli, avevano affermato che nessuno dei monaci li considerava reliquie, ma, tutt’al più, dei portafortuna. La mano
scheletrica dello Yeti, quella rubata, per intenderci, era invece una reliquia. E, poiché è stato provato che si tratta di
una mano umana, molto probabilmente si tratta della reliquia di un qualche santo monaco dell’antichità, che i suoi
ladri credettero essere d’uno Yeti prima, poi di un gigantopitecus,e infine di un homo neanderthalensis.
35
Non lo si confonda con il semnopithecus, un pseudo langur che gli inglesi avevano denominato erroneamente hanuman langur. In realtà Hanuman della mitologia hindū è un ‘langur’ dorato.
36
Larry G. Peters, The Yeti. Spirit of Himalayan Forest Shamans, New Delhi, Nirala Pbls., 2004, p. 20.
37
Cfr. il libro già citato di Myra Shackley, che s’arrampica sugli specchi pur di dimostrare questa ipotesi, senza apportare un solo indizio verificabile.
ferenzia è una marcata presenza di artrosi nelle ossa di questo homo, per cui sarebbe alquanto improbabile che egli decidesse di vivere in mezzo alle nevi a 5000 metri di altitudine.
Il motivo che ha spinto sovietici e cinesi a organizzare spedizioni alla ricerca dello Yeti è stato unicamente quello di fornire finalmente all’evoluzionismo una prova dell’esistenza dell’”anello mancante”. La ragione è stata dunque esclusivamente d’interesse ideologico, dal momento che Engels
aveva riconosciuto una identità tra il marxismo e il darwinismo.38 Dimostrando al mondo l’esistenza
dell’ “anello mancante” i regimi socialisti potevano confermare l’evoluzionismo come una legge
biologica, convalidando la scientificità del marxismo.
Il colonnello medico sovietico Vazghen Karapetian visitava nell’autunno del 1941 nel Dagestan un
almas (Yeti)39 che era stato catturato sui monti del Caucaso. Naturalmente nessuno fotografò il prigioniero, nessuno verbalizzò l’avvenuta cattura, nessuno sa che cosa successe alla povera vittima
dell’arresto.40 Nel luglio 1987 sulla Kinsomolskaya Pravda appariva la dichiarazione del Dr. M. Trakhtenberts, dell’Accademia Sovietica delle scienze, che assicurava che negli anni ‘20 del XX secolo
nove Yeti erano stati incarcerati e regolarmente condannati dai tribunali rivoluzionari per ‘occupazione di suolo demaniale’.41
Nel 1988 la dott.ssa Schanna Kofmann42 fondò la “Società di Criptozoologia” dell’Unione Sovietica,
votato alla ricerca dello Yeti e sostenuto del Museo Darwin di Mosca. Vi parteciparono un gruppo
d’una trentina di persone, composto da esponenti del PCUS, da ufficiali dell’Armata Rossa e da accademici, tutti testimoni oculari di avvistamenti dello Yeti. Naturalmente, anche questa volta, non
emerse alcuna fotografia. L’anno successivo, in ottobre, apparve sulla Komsomoloskaja Pravda un articolo che narrava come quattro giovani della regione di Seratov avessero catturato e rinchiuso nel
bagagliaio della loro automobile, uno Yeti sorpreso a rubare mele in un frutteto. I quattro si recarono al posto di polizia, ma trovandolo deserto, si diressero a un grande deposito di frutta e verdura
per rinchiudere il loro prigioniero in un frigorifero. Il guardiano del capannone si rifiutò di detenere lo Yeti. Così i quattro eroici cacciatori attesero l’alba del giorno dopo per decidersi sul da farsi. La
mattina dopo il portellone era stato forzato e lo Yeti si era sfumato.43
Simili testimonianze provenivano anche dalla Cina. In seguito all’occupazione militare del Tibet
cominciò l’opera di annientamento e assimilazione della cultura tibetana. Così i cinesi, che fino a
quel momento storico s’erano disinteressati dell’argomento, scopersero che anche lo Yeti era già
loro noto come yeh jen da almeno tre millenni e che esso era classificato tra gli animali fantastici
nel libro Shan-hai Ching, risalente all’incirca alla dinastia Han.44 Tra le varie amenità c’è da riportare il racconto apparso sulla rivista paleoantropologica Huashi e riferita in occidente dal Sunday Telegraph del 22 aprile 1979, secondo la quale nel 1962 un reparto militare cinese di occupazione in
Tibet avrebbe ucciso e mangiato uno Yeti.45 Tralasciando le ripetitive testimonianze di chi s’è imbattuto in uno Yeti, passiamo direttamente alla più sfacciata esibizione d’evoluzionismo organiz-
38
Al funerale di Marx, il 17 marzo 1883 Friedrich Engels, nella sua orazione funebre, paragona Marx a Darwin: « Come
Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana.» (Lettera di Marx a Lassalle, 16 gennaio 1861). A seguito di tale ferma convinzione di Engels, anche Karl
Kautsky s’impegnò a far coincidere il marxismo con il “darwinismo sociale”, idea che influenzò fortemente la seconda e la terza internazionale, diventando oggetto di culto per i regimi sovietico e cinese e per gli altri di medesima matrice. Per la verità Marx, pur molto interessato all’evoluzionismo, un po’ per gelosia, un po’ per ostilità nei
confronti degli inglesi, riconobbe soltanto l’affinità e non l’identità tra le due tesi.
39
Nome con cui sono chiamati gli Yeti nelle vaste aree ex-sovietiche dal Caucaso alla Mongolia. La dichiarazione di
Karapetian fu rilasciata il 20 novembre 1958, in pieno periodo di euforica ricerca dello Yeti, 17 anni dopo la ‘visita
medica’, testimonianza assai sospetta per il ritardo con cui fu dichiarata.
40
Graffigna, cit., pp. 108-109.
41
Franco Nicoli, Sherpa popolo dell’Est, Paese, Pagus Ed., 1992, pp. 47-48.
42
Sugli strani avvistamenti caucasici privi di prove fotografiche di questa scienziata della URSS Geographic Society v.
Gupta & Nath, cit. pp. 104-106.
43
Nicoli, ibid., pp. 47-50.
44
Graffigna, cit., p. 132.
45
Shackley, cit. p. 77.
zata del governo cinese. Nel 1985 la Società per lo studio dell’uomo selvaggio46 allestì al Parco della
Cultura di Canton la mostra Yeren Exhibition: “... più di 10000 cinesi ammirarono una vasta raccolta
di documenti iconografici sullo yeti e su quello che scherzosamente viene definito il suo «cugino
delle foreste», lo yeren [yeh jen],47 centinaia di testimonianze di persone sicure di aver visto queste
creature mostruose, e poi calchi di gigantesche orme, ciuffi di pelo, modellini di ipotetiche tane e
via dicendo. Perla dell’esposizione era un animale appartenente a una rara famiglia di macachi,
che venne esibito come «esemplare vivente» dello yeti. L’animale, le cui dimensioni non ricordano affatto quelle del ben più famoso «fratello maggiore» (è alto, infatti un metro e pesa poco più
di venti chili), scoperto l’anno prima nel Hunan, aveva fatto gridare al rivoluzionario ritrovamento scientifico.”48
Reinhold Messner molto accortamente osserva: “Oggi, nei paesi industrializzati, più di un miliardo
di persone si è fatta un’idea su misura dello yeti. Per molti si tratta del desiderio di gettare uno
sguardo alle origini, prima delle origini dell’uomo, di sentirsi percorrere da quel brivido che si prova guardando nello specchio della preistoria. In Occidente, pur essendo un argomento capace di far
salire le tirature di giornali e riviste, lo yeti è presto diventato un personaggio di fantasia, una favola
poco credibile. Così, gli sherpa del Nepal e le guide turistiche del Bhutan, dell’India e del Tibet hanno accolto poco a poco nei loro racconti la goffa immagine occidentale, più simile al King Kong hollywoodiano che allo yeti quale se lo figuravano un tempo gli abitanti dell’Himalaya. Ma lo spettro
creato dall’Occidente poteva giungere al Tetto del mondo solo fin dove c’erano strade, antenne e videoregistrazioni.”49
Abbandoniamo dunque quella che abbiamo definito mitologia scientista per dedicarci all’autentico
mito himalayano o, se si preferisce, tralasciamo le fantasie per affrontare la realtà. In questa seconda parte ci appoggeremo principalmente sulle tradizioni delle popolazioni che le hanno tramandate
e sugli scritti di osservatori stranieri che le hanno riferite fedelmente, al di là dei quadri ideologici e
accademici con cui possono, o no, aver svirtuato il senso di quelle testimonianze quando le hanno
rielaborate e interpretate adattandole ai clichets delle loro discipline. Allo stesso modo scarteremo
quelle testimonianze fornite dagli indigeni allo scopo manifesto di compiacere i loro datori di lavoro stranieri.
*
*
*
Riteniamo molto stimolante, per trovare il bandolo della matassa, quanto ha affermato lo yogi Narahari Nath commentando la narrazione del suo avvistamento. Invece di dilungarsi sulla descrizione delle caratteristiche fisiche dello Yeti al fine di definire una collocazione tassonomica, egli,
da buon sanscritista, preferì esprimere quanto aveva visto attribuendogli un nome.50 Se Nath ipotizzò che Yeti potesse derivare dal sanscrito yati, certamente ciò significa che questo sostantivo si
attagliava alla figura che aveva visto attraversare il cammino. Yati è un nome che s’attribuisce a
una peculiare categoria d’asceti che si sottopongono a una vita particolarmente severa;51 la parola deriva da una radice verbale yat, sforzarsi, ed è tradizionalmente applicato ai saṃnyasin śivaiti52
che vivono in condizioni di isolamento, abitando in caverne montane per dedicarsi a duri esercizi
yoga. Generalmente questi asceti risiedono in plaghe nevose completamente nudi, ragion per cui
46
Istituita dal Governo della Repubblica Popolare Cinese a Pechino nel 1981.
Non si tratta in realtà di alcuna cuginanza, dato che yeh jen è esattamente lo Yeti in lingua mandarina.
48
Nicoli, cit., pp. 46-47. The Telegraph, 22 agosto 1985, p. 7.
49
Reinhold Messner, Yeti. Leggenda e verità, Milano, Feltrinelli, 1999 (I ed. Frankfurt, 1998), pp. 12-13.
50
Ricordiamo che il nome, nāma, in sanscrito designa la parte essenziale e qualitativa dell’individuo, mentre la forma,
rūpa, la parte sostanziale e quantitativa. Nāma, perciò determina l’appartenenza alla specie, mentre rūpa specifica un
particolare individuo compreso nella specie. V. Gian Giuseppe Filippi, Discesa agli Inferi. La morte iniziatica nella tradizione
hindū, Aprilia, Quaderni di Indoasiatica, NovaLogos, 2014, p. 242.
51
Muṇḍāka Upaniṣad, III. 1. 5; III. 2. 6.
52
Śiva è spesso definito Mahāyati, il grande asceta.
47
yati è diventato sinonimo di digambara, ‘vestito di spazio’.53 Gli yati usano lasciarsi crescere capelli
e barba a dismisura e la loro parvenza selvaggia intimorisce chi li avvicina. Altrove54 abbiamo
esposto il fatto che i rinuncianti hindū inselvatichiscono il loro aspetto proprio per distinguersi
dai profani, che allora sono denominati con disprezzo paśu, animale addomesticato, mentre essi si
definiscono mṛga, fiere.55 L’aspetto selvaggio e terribile di questi sādhu conferisce loro una fama
persino inquietante e, dato che del seguito di Śiva fanno parte anche spettri, bhūta, vampiri,
vetāla, larve, piśāca e altri spiriti impuri che infestano i campi di cremazione, i deserti e le impervie zone rocciose dei monti dove non cresce l’erba, spesso gli yati sono confusi con gli yātu o yātudhāna, demoni o spiriti erranti.
Fig. 4 – Yati dell’aghora patha
Fig. 5 - Yati sul campo di cremazione
Questo ci conduce a considerare l’altra etimologia proposta dallo yogi Narahari Nath; egli infatti af-
ferma che Yeti potrebbe anche essere la deformazione della parola sanscrita yakṣa. Con questo
nome la mitologia hindū, e poi quella buddhista, indicano una categoria di spiriti o semidivinità
dalla natura alquanto ambigua. L’origine del termine si ritrova nel verbo yakṣ che ha il significato
di muoversi velocemente, perciò yakṣa assume il senso di un’apparizione che cammina svelta e
rapidamente scompare.56 È piuttosto significativo, dunque, che tutti coloro che asseriscono di
aver visto lo Yeti lo abbiano descritto esattamente in questi termini, al punto tale che, sorpresi
dalla sua velocità di spostamento, pur avendo in mano una macchina fotografica o una cinepresa,
non hanno avuto il tempo d’immortalarlo.
53
Per questa ragione yati sono chiamati anche i monaci digambara jainisti che, pur senza dimorare nelle spaventose
solitudini himalayane care agli asceti śivaiti, vivono completamente ignudi dedicandosi a un’ascesi estremamente
austera.
54
Filippi, cit., pp. 120.
55
Filippi, ibid., 145-146.
56
“Denn die Todten reiten schnell”, Gottfried August Bürger, Lenore.
Lo yakṣa, si diceva, è un essere ambiguo. Infatti, può essere favorevole e benigno con gli umani,
ma capricciosamente può all’improvviso cambiare d’atteggiamento e mutarsi in un pericoloso aggressore.57 La yakṣiṇī, ovvero lo spirito femminile corrispondente, è invece una pericolosa seduttrice di uomini, le cui brame erotiche possono volgersi al cannibalismo, arrivando a equivalere alla strega, yātudhāni,58 delle saghe e fiabe presenti nel resto del mondo. Yakṣa e yakṣiṇī costituiscono una categoria di esseri viventi incorporei chiamata anche itarajanaḥ, l’altra gente.59 Un’altra
caratteristica degli yakṣa è la loro capacità di possedere gli esseri umani; chi è in preda alla possessione, yakṣagraha, da parte di uno di questi spiriti, si comporta da folle, soffre di dolori che lo
fanno contorcere come se fosse avvelenato o in preda a una crisi di rabbia, perciò è opportuno invocare lo stesso yakṣa per liberarsene.60 Nella mitologia hindū sono della stirpe dei gandharva61 e
fratelli dei rākṣasa.62 Tutti questi spiriti hanno il potere di possedere gli esseri umani, ma la differenza sta nel risultato della possessione medesima: durante il gandharvagraha essi hanno il potere
di oracolare, perciò la possessione da parte di un gandharva appare fausta.63 Al contrario il posseduto da un rākṣasa è portato al male ed è mosso dallo spirito a una agitazione frenetica,
all’inquietudine, a muoversi velocemente.64 Dal comportamento dei loro posseduti si può dunque
dedurre quale possa essere la rispettiva natura dello spirito che li possiede, ovvero che si tratti di
un gandharva, uno yakṣa o un rākṣasa. Tutti, comunque hanno in comune il potere di scomparire di
repente dalla vista.65 I rākṣasa, in particolare, hanno un aspetto nero fuligginoso, il pelo e gli occhi
rossi66 e amano vivere in caverne.67
Arrivati a questo punto dobbiamo puntualizzare che Yeti è certamente una corruzione anglicizzata del termine yeh teh, il cui senso è ‘uomo delle rocce’, usato dagli sherpa per indicare il monstrum di
cui ci stiamo occupando.68 Non abbiamo affatto inteso sostenere la veridicità delle etimologie proposte dallo yogi Narahari Nath, ma semplicemente intendiamo sostenere che lo yogi a modo suo e
seguendo i canoni logici dall’ambiente da cui proveniva, ci ha lasciato con le sue definizioni la descrizione più precisa possibile di quanto aveva visto. Non un orso, non una scimmia, non un qualsiasi ‘anello mancante’, ma un asceta temibile o uno spirito terrificante. Ci si potrà obiettare che
Narahari Nath era un hindū e, come tale, la sua descrizione di quanto aveva osservato sulle rive
della Ṥivagangā poteva essere condizionata dal suo retroterra culturale, esattamente come si è già
criticato per quanto riguarda la visione dello Yeti che hanno gli occidentali. A questa obiezione
risponderemo: non è così perché lo yogi era un gorkhā nepalese, ossia apparteneva a una casta
guerriera nevārī, presente nel Nepal da tempi protostorici la cui cultura convisse e spesso si mescolò a quella delle etnie più propriamente appartenenti all’area linguistica tibeto-birmana. Come
vedremo subito, anche queste ultime etnie hanno assimilato molti elementi costitutivi della civiltà nevārī, soprattutto di ambito śivaita. D’altra parte in un luogo dell’Asia transhimalayano, molto
distante dal Nepal, abbiamo trovato la testimonianza di un’altra persona aliena alla cultura occi57
Il Mahābhārata (III. 139. 6) li definisce benevoli e al contempo selvaggi e li suddivide in quattro classi: gandharva,
yātudhāna, kiṃpuruṣa e rākṣasa.
58
Ṛg Veda, X. 87. 16-17.
59
Il senso è esattamente quello di ‘piccolo popolo’, usato in passato in Europa per alludere alle presenze invisibili nella natura selvaggia.
60
Surūta Saṃhitā, IV, 8.
61
Rāmāyaṇa, VII. 4. 31. Questo sostantivo significa “coloro che odorano” e l’acuto odore che emettono è di terra. È curioso che il medesimo odore sia attribuito al bigfoot.
62
R, VII. 5. 1; VII. 9. 19. La parola deriva da rakṣ, fare la guardia.
63
Bṛhadarāṇyaka Upaniṣad III. 3. 1; III. 7. 1.
64
B. V. Raman, Prasna Marga, Delhi, Motilal Banarsidass, 1980, pp. 533-534.
65
Mbh VII. 69. 24.
66
Harivaṃśa, XIII. 132.
67
R III. 2. 5.
68
I nepalesi hanno interpretato nella loro lingua il suono della parola pronunciata dagli sherpa, dandone un altro significato, ovvero: “questo [cos’] è?” Nonostante la forzatura, il risultato è interessante, dato che assomiglia molto al
senso delle parole sanscrite kiṃpuruṣa e kiṃnara, che hanno entrambi il significato “è questo un uomo?”, e che sono
usate per definire due categorie di gandharva.
dentale e completamente integrata nella sua civiltà ancestrale, che conferma l’impressione che ne
ebbe yogi Narahari Nath. Si tratta di tale Choijoa, un contadino mongolo torgut proveniente dal
Turkestan cinese (ora Sinchang), impiegato come coltivatore nella provincia di Bulgan, presso la
Stazione sperimentale per la Coltivazione della Frutta, amministrata dalla Accademia Mongola
delle Scienze. Egli ebbe a dichiarare ai suoi superiori di essersi imbattuto in un misterioso corpo
nell’aprile del 1953: “Quella cosa morta non era né un orso, né una scimmia e, allo stesso tempo,
non era nemmeno un uomo come i mongoli, i kazakhi, i cinesi o i russi. I peli che aveva in testa
erano più lunghi di quelli del suo corpo. Il vello delle ascelle e dell’inguine era scuro e crespo come il pelo d’un cammello morto. Ho perlustrato il terreno vicino al corpo e non vi trovai alcun resto d’abiti. La paura m’attanagliava il cuore. Ricordai i vecchi racconti dei vampiri Vetala, e pensai
che stavo vedendo davanti a me uno di quelli. M’affrettai ad andarmene. Tornato a casa, informai
la nostra locale amministrazione e il signor Chimeddorje, amministratore della Stazione per la
Coltivazione della Frutta, ma nessuno mi fece caso.”69 Nell’induismo con vetāla s’intende un demone che suole possedere non esseri viventi, ma cadaveri, in questo modo animandoli e dotandoli
d’una parvenza di vita.70 Per questa ragione il vetāla ricorda con una certa approssimazione il
vampiro dei racconti europei.71 La testimonianza di Choijoa va nella stessa direzione di quella
dell’interpretazione dello yogi Narahari Nath. Infatti se quest’ultimo vide l’apparizione come un
essere vivo e la percepì come uno spirito che possiede gli esseri umani viventi, la testimonianza
dell’agricoltore mongolo attribuisce all’insolito corpo, in cui s’era imbattuto, l’identità di uno spirito che possiede i cadaveri; e gli ykṣasa e i vetāla appartengono infatti alla medesima classe di entità sottili del seguito di Śiva, come i rākṣasa e altri ancora.72 È in questa direzione che abbiamo inteso dirigere la nostra indagine, esattamente all’opposto di quanto aveva fatto Ernst Schäffer “per
sradicare una volta per tutte il flagello della superstizione”, com’è citato da un Messner73 piuttosto propenso a condividere, seppure in una forma mitigata, l’opinione zoologica dello scienziato
tedesco. In definitiva, noi procederemo proprio seguendo le informazioni fornitaci dalla superstizione; quest’ultima non intesa quale un coacervo di fantasticherie create dalla paura dell’ignoto e
dall’ignoranza da parte di ambienti umani emarginati, come si suole fare, mal celando un razzismo alquanto rozzo con l’abusata e pretenziosa critica etno-socio-psicologica. Per noi superstizione assume esclusivamente il senso etimologico di ‘sopravvivenza’ di concezioni appartenenti
ad antiche tradizioni scomparse o in procinto di scomparire. I trasmettitori di queste superstizioni, come l’asino che porta le reliquie, possono anche essere del tutto all’oscuro dei significati di
ciò che comunicano di generazione in generazione, ma ciò non inficia in nulla il loro contenuto. A
maggior ragione nei casi, come quelli che stiamo per trattare, in cui quei dati sono oggetto di operazioni rituali con ricadute determinanti per la vita psichica e comunitaria del villaggio.
Ma andiamo per ordine. Nell’arco montuoso che va dal Caucaso, attraverso l’Hindukush, il Karakoram, il Pamir, fino alle estreme propaggini orientali dell’Himalaya, lo Yeti è conosciuto con più
di cento nomi diversi: tra questi i più noti sono me-go (tib. mi-gö [mi rgod], uomo selvatico), me-teh
kangmi e yeh teh nel dialetto tibetano degli sherpa; Messner usa di preferenza il termine tibetano
tshemo [dred mo] o tshemong [dred mong].74 In mongolo s’usa il nome almas, uomo selvatico, termine
69
Shackley, cit. p. 106-107.
Celeberrimo è il racconto che si trova nel Kathāsaritsāgar di Somadeva, intitolato Vetālapañcaviṃśati, i venticinque
racconti del vampiro.
71
Per quanto riguarda la concezione indiana sul vampirismo e sulla possessione teriantropica, v. G. G. Filippi, “Considerazioni generali per lo studio della teriantropia Indiana”, in Annali di Ca’ Foscari, XLIV, 3 (SO 36), Venezia, 2005, pp.
165-178.
72
Mārkaṇḍeya Purāṇa, VIII. 108-116.
73
Messner, cit. p. 185. L’alpinista altoatesino, che dimostra un’eccellente conoscenza e simpatia per i luoghi e i popoli
himalayani, dimostra a questo proposito un curioso distacco dalla loro mentalità e un inspiegabile attaccamento a
un razionalismo tutto occidentale.
74
Messner, cit., particolarmente alle pp. 227-228. A p. 228 questo autore tirolese aggiunge che a Gilgit lo Yeti è chiamato
ish e rish in urdū. Come vedremo subito, queste due parole sono state trascritte nel modo in cui Messner ricordava di
averle udite. In realtà si tratta di due varianti locali della pronuncia d’un unico termine derivante della radice rakṣ.
70
usato dai russi per definire anche lo yeti caucasico o del Pamir. I tamang nepalesi lo chiamano
rang-shi bonbo (rakṣī bombo). L’ultima parola sta per bonpo, non nel senso letterale che designa i seguaci della tradizione tibetana prebuddhista bon, ma per definire lo sciamano.75 In nepālī, infine, il
nostro Yeti è chiamato indifferentemente rakṣ, rākṣasa o rakṣas.76 E questo ci riconduce
all’interpretazione dello yogi Narahari Nath che ci ha indicato per primo il bandolo per districare
la matassa. È dunque giunto il momento di abbandonare l’interpretazione evoluzionistica che lo
vuole orso o scimmia, per quanto in chiusura riproporremo quest’ultima lezione in una diversa
luce.
Come s’è detto in precedenza, rākṣasa è uno spirito temibile che ha il potere di possedere gli esseri umani, ovvero si tratta di un entità definita grāhin. Esso è anche conosciuto in tutto l’arco subhimalayano dal Nepal all’Arunachal Predesh, con il nome di ban jhẫkri, ‘sciamano selvaggio’.77 Va a
onore di Larry G. Peters aver messo in evidenza per primo l’identità tra lo Yeti e il ban jhẫkri,78 e
alla sua interpretazione ci atterremo, pur con qualche cautela.79 Ma vediamo in che modo procede
questo etnopsichiatra che negli ultimi vent’anni ha compiuto numerose ricerche in Nepal. Anzitutto Peters trova interessante l’accostamento dello Yeti con lo yakṣa, più per le sue caratteristiche ontologiche che per ragioni etimologiche: “In verità, molti studiosi credono che yeti è tematicamente e linguisticamente assimilabile allo yaksa (sanscrito), un selvatico, intelligente semidio
hindu e buddhista, simile a un nano, mezzo uomo e mezzo animale, coperto da lunghi peli, dotato
del potere di apparire e scomparire all’istante, che, si dice, frequenta caverne e altre plaghe sperdute, abitate da yogin.80 D’altra parte le yakshini o yaksi, le loro controparti femminili, sono antiche
feroci dee madri simili81 a Kali, Durga e particolarmente Harati,82 la ‘madre dei demoni’, la ‘capin75
Peters, The Yeti, cit., p. 39. La relazione tra bon e sciamanismo è ben nota ed è stata oggetto d’uno studio specifico da
parte di Martino Nicoletti, “Bon e sciamanismo: studio introduttivo di comparazione dei due fenomeni religiosi” in
Romano Mastromattei (a cura di), Tremore e potere, Milano, Franco Angeli, 1995, pp. 104-164. Anche volendo accettare il termine improprio di ‘religione’ per definire una tradizione orientale, certamente esso non è applicabile allo
sciamanismo; quest’ultimo si riferisce a una caratteristica serie di fenomeni di possessione psichica, che compare in
una fase degenerativa di una determinata tradizione. Proprio a questo si riferiscono i racconti delle lotte sottili sostenute da Padmasaṃbhava contro gli esponenti del bon ridotti a veri e propri sciamani-stregoni. Ciò che si definisce bon riformato rappresenta un raddrizzamento operato dal buddhismo ed è perciò prevalentemente ritualistico.
Il bon non riformato, al contrario, sopravvive appunto sotto il suo aspetto sciamanico.
76
Quest’ultimo è certamente l’uso più antico del sostantivo sanscrito, dato che in questo modo lo si trova menzionato
nel Veda.
77
Jhẫkri, l’irsuto, il villoso, usato senza il prefisso ban, foresta (sscr. vana), indica lo sciamano e deve essere distinto dal
dhāmi, ‘colui che oracola’, che è posseduto preferentemente dagli dèi. Cfr. R. Mastromattei, La Terra reale, Roma, Valerio Levi ed., 1988, p. 25. Nell’induismo si preferisce affermare che chi oràcola è posseduto da un gandharva, piuttosto che da un dio, deva. Il nome dhāmi deriva dal sanscrito dharmin e indica una funzione particolare nell’ambito del
dharma, che lo fa corrispondere al più noto ku-ten (sku rten) del buddhismo tibetano. Cfr. G. G. Filippi, “Oracles and
Shamans in Arunachal Pradesh”, in Central Asiatic Journal, 52 (2008) 1, Harrassowitz Verlag, pp. 11-35.
78
Peters, The Yeti, cit., Delhi, Nirala Pbls., 2004.
79
Le cautele riguardano la pretesa di questo autore d’essere stato accettato come discepolo da un guru sciamano e di
essere diventato uno sciamano lui stesso. In un suo articolo, peraltro interessante, (“The ‘Calling,’ the Yeti and the
Ban Jhakri (‘forest shaman’) in Nepalese Shamanism”, TheJournal of Transpersonal Psycology, 1997, vol. 29, n. 1, p.
55), cita il suo ‘maestro’ di nome Gajendra, e lo identifica come sciamano tamang. Sarebbe stato meglio definire
Gajendra come il suo principale informatore, dato che questo tipo di magistero umano è contrario a tutto quanto si
conosce sullo sciamanismo, com’è d’altronde confermato da Peters stesso nei suoi scritti; ovvero che non si può diventare sciamano senza una chiamata, un rapimento e un insegnamento onirico ricevuto da parte di un ban jhẫkri,
come si descriverà qui di seguito. Uno sciamano umano che agisca da istruttore non può dunque essere mai considerato un guru nel senso stretto del termine. V. G. G. Filippi, Discesa agli Inferi, cit., pp. 23-24. Non si creda per questo
che noi siamo contrari al coinvolgimento personale dello studioso nella sua ricerca, anzi: il distacco agnostico del
ratto di biblioteca dall’oggetto del proprio studio porta necessariamente a una fondamentale incomprensione. Talvolta, pur intravvedendo la corda, costui s’ostina a definirla un serpente per motivi ideologici o di carriera. Tuttavia
il coinvolgimento personale dovrebbe anche essere per lo meno rispettoso delle regole imposte dalla tradizione che
si affronta.
80
Cfr. Gupta & Nath, cit. pp. 63-64; Réné de Nebesky-Wojkovitz, Oracles and demons of Tibet, Kathmandu, PilgrimsBook
House, 1993 (I ed. 1956), p. 42.
81
Sarebbe stato più corretto affermare che si tratta di una categoria di seguaci o aiutanti delle dèe terribili Kālī e Durgā, invece che loro simili. Infatti le yakṣinī non sono divinità, ma possono essere definite piuttosto come semidèe.
Cfr. Guido Zanderigo, Yoginī, il lato in ombra della Dea, S. Marino, Quaderni di Indoasiatica, il Cerchio, 2012, pp. 26-29.
testa delle streghe’ e la ‘rapitrice di bimbi’. Si dice che le yakshini divorino i bambini ed esser rapito da una yakshini può essere parte dell’iniziazione a Kali per un novizio sciamano dell’India
Orientale.83 Così lo yeti e i suoi omologhi sono diffusi su una vasta area dell’Asia meridionale, dalle
pianure indiane all’Himalaya nepalese, tibetano e delle regioni adiacenti, con attribuzioni linguistiche nelle due distinte famiglie tibeto-birmana e indo-europea. Con qualsiasi nome regionale sia
conosciuto, lo yeti è un personaggio leggendario importante in molti dei differenti gruppi culturali, indiani e tibetani, che parlano quelle lingue.”84
La descrizione dello Yeti è qui alquanto coerente con i miti e le leggende himalayane. Mettiamo
in evidenza alcune peculiarità che finora non erano comparse: anzitutto il fatto che questo spirito
appare simile a un nano. È ben noto il rapporto che intercorre tra i nani delle diverse mitologie e
le caverne o le dimore sotterranee. D’altra parte il nano, vamāna o gaṇa, ha la capacità di trasformarsi in gigante, bṛhat, a sua volontà, o, per meglio dire, lo yakṣa padroneggia il potere (siddhi) di
rendersi piccolo, aṇimāsiddhi, o gigantesco, mahimāsiddhi.85 Non per nulla nel racconto tradizionale tibetano intitolato “Footprints in the Snow”,86 lo Yeti è descritto tout court come un gigante.
Anche l’affermazione per cui lo yakṣa appare mezzo uomo e mezzo animale fornisce ulteriori
elementi alla nostra ricerca: “Un testo molto antico, Lalitavistara, fornisce più vividi e elaborati
dettagli sulle numerose deformità dei Māraputra.87 Tra questi Māraputra si trova anche un riferimento esplicito agli Yakṣa. [...] i loro peli erano come quelli degli asini, dei cinghiali, dei capri, dei
gatti, delle scimmie e così via. [...] La descrizione comprende un vasto numero di deformità che
appaiono come tipologie teriantropomorfiche dei Māraputra, che includono anche gli Yakṣa.”88
Gli spiriti sono dunque spesso descritti con forme miste tra l’umano e il belluino, proprio allo scopo di accentuarne la terrificità mostruosa; per questa medesima ragione gli sciamani posseduti da
tali entità tendono a impersonare le fiere della foresta, giungendo al punto di ‘sentirsi’ trasformati in bruti.89 A queste osservazioni di Peters dobbiamo aggiungere altre due caratteristiche attribuite allo Yeti, entrambe di notevole importanza: la prima consiste nel fatto che numerosissime
testimonianze affermano che i suoi piedi sono rivolti all’indietro, e la seconda che procede sempre in linea retta. Per quanto riguarda la prima peculiarità, ricordiamo che gli esseri semidivini,
soprattutto di genere femminile, nella mitologia hindū90 sono descritti esattamente con questa deformazione, che allude all’inversione e specularità del mondo degli spiriti rispetto agli esseri ambulanti nel mondo in forma corporea.91 La seconda caratteristica che contraddistingue gli spiriti è
il loro procedere in linea retta, incapaci come sono di deambulare deviando a loro piacimento.
Questa concezione sta all’origine degli ostacoli o dei labirinti posti a difesa dell’entrata ai luoghi
sacri, barriere facilmente superabili da coloro che vivono dotati di un corpo.92
82
Forma nepalese per Hārītī, semidèa moglie di Pañcika, ovvero Kubera, sovrano degli yakṣa. Tradizionalmente è
identificata a Śītalā, dèa del vaiolo e protettrice delle streghe.
83
Petres ripropone qui la confusione assai diffusa tra iniziazione a una sādhanā e la chiamata sciamanica. V. Filippi,
Discesa agli Inferi, cit., pp. 22-25.
84
Peters, cit., pp. 32-33.
85
Questa capacità è illustrata da diversi miti che riguardano Viṣṇu-vamāna e Varuṇa, ai quali in tal caso s’attribuisce
la qualifica di yakṣa.
86
Clifford Thurlow, Stories from beyond the Clouds. An Anthology of Tibetan Folk Tales, Delhi, Pragati Press, 1975, pp. 1-19.
Nel racconto il gigante è affiancato da un mago umano cieco, che si muove ‘sentendo gli ostacoli’ come un pipistrello, e che mostra tutte le caratteristiche di uno sciamano ‘nero’.
87
Figli della Morte. Comprendono tutte le categorie di spiriti che abbiamo citato in precedenza.
88
Ram Nath Misra, Yakṣa Cult and Iconography, Delhi, Munshiram Manoharlal, 1981. p. 132.
89
Sui rapporti tra sciamanismo malefico, teriantropia e vampirismo v. il nostro “Considerazioni generali”, cit., pp.
165-178.
90
Per la verità questo è un elemento mitico presente un po’ ovunque: anche le anguane delle leggende alpine hanno i
piedi rovesci. Cfr. R. Lionetti, “La popòlas lungias davur las schialas. Nota sul corpo delle Agane e di altri esseri mitici”,
in Metodi e ricerche, n. 2, 1983, pp. 5-11.
91
Filippi, Il mistero della Morte nell’India tradizionale, Bassano-Vicenza, Indoasiatica, Itinera Progetti, 2010, p. 106; 113. In
quel contesto si è affrontato l’argomento della deformità ai piedi come caratteristica degli spettri di donne defunte
di ‘morte cattiva’, chuḍail o chuḍel, paiśācī o māraputrī che siano. Si vedrà in seguito come ciò sia perfettamente in linea con l’argomento trattato in questo contributo.
92
Filippi, “Il culto del Meru a Bali”, in Annali di Ca’ Foscari, XXVIII, 3 (SO 20), Venezia, 1989, pp. 169-178.
Ritornando al brano dell’etnopsichiatra statunitense citato sopra, troviamo notevole anche
l’affermazione che riguarda la convivenza degli Yeti con gli yogin nelle medesime spelonche
montane. In un altro passaggio, Peters aggiunge: “Il grande yeti [l’autore citato allude particolarmente alle nyalmo] ha anche spesso una relazione istruttiva con gli yogi anacoreti, di cui mettono
a prova i poteri di concentrazione, [la fermezza del]lo scopo e la [capacità di] compassione per
mezzo della loro spaventevole apparenza. Gli yeti offrono l’occasione d’avere intuizioni spirituali
ai saggi ch’essi visitano, quando costoro superano le loro paure. [...] In alcuni racconti lo yeti sarebbe una forma assunta da un dio per mettere alla prova lo yogi al fine di guidarlo alla liberazione. Lo yeti appare soltanto a coloro ch’essi reputano degni per le loro nobili qualità umane, per la
loro rettitudine e per la loro innata capacità di comunicare con spiriti e demoni. [...] Sono venerati
per i loro poteri spirituali ma, al tempo stesso, sono temuti come irosi e pericolosi demoni.”93 Peters conclude menzionando che gli yeti sconfitti dagli yogin finiscono per diventare i loro servitori, esattamente come aveva fatto Padmasaṃbhava sottomettendo gli spiriti maligni scatenati contro di lui dagli sciamani bonpo.94 Questa d’altronde, è la medesima concezione che sta alla base della signoria del dio Śiva su tutti gli spiriti e demòni che infestano tutti i luoghi pericolosi, deserti,
foreste, picchi rocciosi e, in primis, i cimiteri e campi di cremazione.
La relazione tra lo yogin e gli yakṣa-yakṣinī di qualunque sottocategoria, elencata in precedenza,
si rapporta al tema della morte iniziatica e della tentazione dell’asceta da parte di Māra-Yama, di
cui abbiamo abbondantemente trattato altrove.95 Accantoniamo dunque il tema dei saggi yogin
che soggiogano gli spiriti, per concludere l’esame della citazione tratta dal libro di Peters dove
s’allude al rapporto che gli yakṣa-yakṣinī intrattengono con esseri umani ordinari. Infatti è molto
interessante l’accostamento ch’egli fa tra la funzione dello Yeti e l’attitudine delle yakṣinī, ma invero anche degli yakṣa, a rapire e divorare bambini. È questa un’allusione alla ‘chiamata’ sciamanica che, come vedremo, si ripete in forma pressoché identica in tutte le culture che hanno
espresso questo fenomeno di possessione. Sinteticamente M.me Hamayon così descrive la chiamata o scelta96 d’un ragazzino da parte degli spiriti: “La prova della scelta si esprime in un comportamento [...] costituito da fughe nella foresta, da sogni e da svenimenti, da rifiuti occasionali
del cibo, da movimenti bizzarri, etc. Tale comportamento viene indicato con il termine [buriato]
xüdxe, «sregolatezza», che non ha però alcuna connotazione patologica...”97 Da questa affermazione dell’antropologa francese estrapoliamo a nostro uso tre passaggi: il primo che corrisponde alla
fuga nella foresta o rapimento; il secondo consiste nei ‘sogni’; il terzo negli svenimenti etc. Questi
passaggi rappresentano in realtà tre fasi della chiamata sciamanica. Gli sciamani potenziali che
passano attraverso la prima fase, necessariamente faranno esperienza successivamente anche
delle altre due fasi. Si verificano però anche casi in cui la chiamata avviene senza fuga o rapimento che dir si voglia. I potenziali sciamani in tal caso potranno ricevere insegnamenti soltanto durante la condizione onirica, oppure potranno subire esclusivamente alterazioni di comportamento, con improvvisi svenimenti e sofferenze non provocate da patologie o traumi.98 Le tre fasi a cui
93
Peters, The Yeti, cit., p. 37. Queste notizie sono confermate anche da Kunzang Choden, Bhutanese Tales of the Yeti,
Bangkok, White Lotus Press, 1997, pp. 53-73; 137.
94
Peters, The Yeti, cit., p. 37-38. Nebesky-Wojkovitz, cit., pp. 3-8.
95
Filippi, Discesa agli Inferi, cit., soprattutto i capitoli VI, VII e VIII.
96
Evitiamo di chiamarla vocazione che, seppur esatta nel significato, richiama troppo l’idea dell’attrazione per la vita
religiosa da parte di un aspirante alla vita ecclesiastica.
97
Roberte Hamayon, “Dall’iniziazione solitaria all’investitura ritualizzata”, in Julien Ries (a cura di) I riti di iniziazione,
Milano, Ed. Jaca Book, 1989, p. 109. Facciamo qualche riserva sull’uso del termine ‘iniziazione’ nel titolo
dell’antropologa francese che, proprio perché solitaria, non può propriamente essere considerata un’iniziazione.
D’altra parte, nonostante il titolo, il libro contiene quattordici saggi d’autori diversi, di cui solamente quello di André Motte sui Misteri eleusini, quello di Yvonne Vernière su Plutarco e di Jean Giblet sull’iniziazione essenica trattano davvero di tematiche iniziatiche.
98
In questo studio siamo interessati soltanto al primo caso, l’unico che ha per protagonista lo Yeti. Coloro che non
subiscono il rapimento e hanno soltanto una chiamata onirica narrano di avere in sogno incontri ‘amorosi’ con bellissime streghe, bokṣī, che insegnano loro la farmacopea delle piante himalayane. Costoro non potranno diventare
jhẫkri, accontentandosi di svolgere le funzioni di curatore-taumaturgo. Invece chi percepisce un segnale di chiamata solamente per mezzo di svenimenti, turbe comportamentali, tremore incontrollato, non otterrà alcun riconoscimento sociale, rimanendo in qualche modo emarginato e compatito. V. più oltre a n. 103.
allude M.me Hamayon, pur rappresentando tre livelli d’efficacia decrescenti, condizionano comunque in modo drammatico la vita dell’aspirante sciamano.
Procedendo per ordine, a proposito delle fughe nella foresta si deve specificare che questo è
quanto può descrivere un osservatore esterno all’esperienza sciamanica. Infatti il fanciullo non
affermerà mai d’essere fuggito, ma piuttosto di essere stato rapito da uno spirito e da questo portato in una spelonca nella foresta, come riporta Mastromattei sull’esperienza infantile di uno
sciamano darai del Nepal: “L’esperienza del rapimento era stata indubbiamente paurosa: il piccolo
Cheta era stato trascinato nella foresta e portato in una caverna da un essere mostruoso ricoperto
di peli. La caverna in compenso era bene illuminata da lampade e profumata di incenso. Il discorso di Cheta cominciò a questo punto a riferirsi a una situazione generale: chiunque venga rapito,
trova la situazione più avanti descritta. Dunque, all’interno di questa caverna si trova una fonte di
acqua potabile, i pasti vengono serviti in piatti di metallo, “specialmente d’oro e d’argento”. La
dieta, abbastanza varia, comprende riso cotto - principe degli alimenti nepalesi oggetto di religioso rispetto - verdura, ma anche bruchi e lombrichi, alimenti impuri e ripugnanti. Questo [ban]
jhẫkri ha una moglie dagli enormi seni penzolanti e una madre, che è una strega e vorrebbe mangiare i bambini. Per questo motivo lo jhẫkri-spirito li tiene chiusi in una gabbia d’oro: egli infatti
non ha figli e desidera “educare la gente”. Tutta la famiglia vive “quasi nuda” nella caverna:
quando marito e moglie vanno a caccia, sono completamente nudi.”99 La narrazione raccolta da
Mastromattei si sofferma in particolare sull’aspetto meraviglioso del luogo in cui è stato tenuto
prigioniero il piccolo Cheta. La caverna gli apparve come fosse un tempio, illuminato e profumato
d’incenso, decorato d’oro e argento. Acqua di sorgente, verdura e riso furono gli alimenti puri con
cui lo Yeti e la sua famiglia lo nutrirono. Cheta si lascia sfuggire che lì ebbe anche a mangiare cibi
ripugnanti, come bruchi e lombrichi, tuttavia nel complesso l’esperienza è raccontata come qualcosa di positivo e favoloso. E questo è il segno che ci fa capire che Cheta, quando ritornò al villaggio e alla vita normale, era diventato uno sciamano compiuto. Come vedremo, non sempre le cose
vanno in questo modo.
Un’altra testimonianza simile compendia le informazioni appena esaminate: “Mi fecero diventare (pande [sciamano nella lingua dei chepang]) gli abitanti della giungla. Il mio guru è un ban jhẫkri.
Fui rapito da lui quando ero un bimbo: mi ha rapito quando avevo tre mesi e mi tenne con lui per
tre notti e tre giorni. Il ban jhẫkri e sua moglie, la ban-boksi,100 mi rapirono. [In seguito,] prima di
diventare un pande ebbi un sogno: stavo camminando lungo un fiume nella giungla e il mio guru
mi stava insegnando ogni cosa. Nel sogno fui indotto a ricordare tutto. Ero stato rapito e tre giorni dopo ero stato riportato al medesimo luogo dov’ero scomparso, ma non lo ricordavo. A lungo
non successe più nulla. Poi, quando avevo dodici anni, cominciai a tremare e, durante un sogno,
un guru m’insegnò come curare malattie e come evocare bir e bāyu.101 Questo non è un compito
per esseri umani: tutto ciò proviene dal potere degli dèi. Non ho bisogno di un guru umano, tutto
mi viene elargito in sogno. Durante il sogno venne a me una figura in forma d’un piccolo bambino
e giocava con me insegnandomi ogni cosa. Era il ban jhẫkri con lunghi capelli scarmigliati e il volto
simile a quello d’un uomo. I suoi piedi erano rivolti all’indietro. Quando ebbi il sogno a dodici anni
scopersi quanto m’era successo quando avevo tre mesi: (vidi) come il ban jhẫkri mi aveva fatto
danzare e m’aveva insegnato a percuotere il tamburo... certe volte se sbagliavo mi picchiava. i
miei genitori mi dissero che quando ero di tre mesi ero scomparso per tre giorni e dicevano che di
notte mi sentivano piangere tra gli alberi, ma non erano capaci di vedermi. Tre giorni dopo fui ri-
99
Mastromattei, La Terra reale, cit. p. 63.
Bokṣī significa strega. È perciò interessante che la ban jhẫkrinī sia anche definita ‘strega silvana’.
101
Vīra e vāyu, denominazioni di due spiriti molto temuti dalle popolazioni himalayane. Vīra letteralmente significa
‘eroe’, e corrisponde nel linguaggio tantrico ad ‘animale selvaggio’, mṛga. Il bir è spesso considerato l’anima in pena
di un brāhmaṇa particolarmente pericoloso, che appare sotto la forma d’un cinghiale furibondo. Vāyu significa aria,
vento, ed è quello che, si pensa, provochi la sensazione di una brezza gelida durante le esperienze di contatto con
esseri sottili.
100
trovato al medesimo posto da cui ero sparito.”102 Questo racconto comprende le prime due fasi
che abbiamo trovato brevemente accennate da M.me Hamayon: prima avvenne il rapimento da
parte del ban jhẫkri, con il conseguente apprendistato di tre giorni; poi, a distanza di dodici anni, il
sogno durante il quale lo Yeti completò l’istruzione dello sciamano, facendogli recuperare prodigiosamente la memoria di quanto aveva sperimentato all’età di tre mesi. Come si può notare questa testimonianza è meno descrittiva e focalizzata più sull’aspetto didattico dell’arte sciamanica
da parte dello spirito. La Riboli fa precedere questa narrazione da una importante osservazione
basata su questa e altre interviste: “Durante il rapimento da parte del ban jhẫkri, i novizi, usualmente bambini piccoli, rischiano di essere divorati dalla ban-boksini, mentre[, al contrario] il marito sebbene sia irresistibilmente attratto dalla carne umana, li mantiene in vita nutrendoli con
gamberi di fiume, lombrichi103 e frutta selvatica,.”104 L’ambiente favoloso in questo caso sfuma in
una esperienza terrificante e disgustosa.105 Tuttavia lo sciamano che narrò la sua esperienza psichica alla ricercatrice italiana diede maggior enfasi all’aspetto della sua istruzione piuttosto che a
quello spiacevole.106
Esistono anche esperienze totalmente negative del rapimento, che si concludono con il rifiuto
da parte dello Yeti di accordare al candidato sciamano il suo insegnamento. Petres ne cita un paio
alquanto interessanti: una tale Giri, di etnia tamang, fu rapita all’età di sette anni. Lo Yeti la portò
nella sua caverna dove la denudò e la violentò. Dopo averla esaminata da capo a piedi, scoperse
che la bimba aveva una cicatrice in volto che la deturpava. Questo fu il motivo per cui il ban jhẫkri
la scartò come non qualificata a ricevere l’istruzione; Giri fu cacciata dalla caverna dopo un giorno di convivenza e per tutta la vita rimase traumatizzata dall’orrore di quella esperienza. Tuttavia, poiché era stata posseduta dallo spirito -questo è il vero significato della violenza subita- Giri
divenne preda di incontrollabili e improvvisi attacchi di tremore e di perdita di coscienza. Non fu
mai riconosciuta come una jhẫkrinī.107 L’altro episodio riguarda un tamang, tale Bhaktabahadur,
che all’età di sette anni fu rapito da un ban jhẫkri. Questi tentò per un giorno intero d’insegnargli
un mantra, senza riuscirci. Alla fine l’esasperato Yeti lo scaraventò fuori dalla grotta. Ammaccato
e ferito, Bhaktabahadur ritornò al villaggio. Anch’egli continuò a tremare nei momenti più inaspettati, senza però mai ottenere alcun insegnamento, visione o dono. Come si vede lo Yeti aveva
scartato come inammissibili al suo insegnamento due individui, l’una per squalifiche fisiche,
l’altro per incapacità mentali. Chi si trova in questa situazione è condannato a ingrossare le fila
“di quei singolari personaggi, tutt’altro che rari in Nepal, che vorrebbero diventare degli sciama-
102
Diana Riboli, Tunsuriban. Shamanism in the Chepang of Southern and Central Nepal, Kathmandu, Mandala Book Point,
2000, pp. 85-86.
103
A quanto pare il cibo che lo Yeti procura ai suoi prigionieri comprende principalmente lombrichi (Peters, Yeti, cit.
p. 69), rane e frutta selvatica (Gupta & Nath, cit. pp. 69-87). Naturalmente tutti coloro che poi riusciranno a diventare sciamani mantengono un ricordo gradevole di questa dieta, come d’altronde della grotta fatata in cui furono sequestrati. Al contrario chi è stato espulso dallo Yeti o chi è riuscito a fuggire, racconta dell’esperienza con ripugnanza e orrore.
104
Riboli, Tunsuriban, cit., p. 85.
105
Appare di grande interesse un racconto che descrive la caverna dello Yeti in due modi contraddittori, che conferma quanto stiamo scrivendo. Uno sherpa,perdutosi nella neve, passa la notte in una caverna gelida, tenebrosa e inospitale. Quando si sveglia ed esce all’aperto, s’imbatte in una Yeti. Sviene dalla paura e rinviene nella medesima caverna che era la dimora della nyalmo. Ma la caverna s’è trasmutata in un rifugio accogliente, caldo e luminoso, in cui
vivrà more uxorio con la sua villosa amante per più d’un anno. Shiva Dhakal, Folk Tales of Sherpa and Yeti, Jaipur-Delhi,
Nirala Pbls.,1991, pp. 88-91.
106
Facciamo notare che in entrambi i racconti qui riportati si accenna a una fonte d’acqua o a un fiume, esattamente
come avvenne nell’apparizione dello shokpa allo yogi Narahari Nath. Esiste infatti una variante allo Yeti cavernicolo
che avrebbe come abitazione il fondo di un corso d’acqua, d’una pozza o d’una fonte, in cui trascina e tiene prigionieri i futuri sciamani. Presso i tamang, per esempio, esso è definito lonai mán, spirito della valle, o chy gepu, vecchio
del fiume. András Höfer, Tamang Ritual Texts I. Preliminary Studies in the Folk- Religion of an Ethnic Minority in Nepal,
Wiesbaden, Beitrage zur Sudasienforschung, F. Steiner Verlag, 1981, pp. 23-24. Dal punto di vista simbolico la caverna e le acque infere hanno il medesimo significato ctonio, per cui la variante risulta puramente formale.
107
Il rifiuto da parte dello Yeti può persino condurre alla morte. Una fanciulla sherpa che era stata posseduta e abbandonata nella neve; dopo una settimana dal suo ritrovamento, entrò in coma e morì nel giro d’un mese. Dhakal, Folk Tales,
cit., pp. 70-76.
ni, assistono a tutti i possibili rituali sciamanici, ma non hanno le doti e capacità sufficienti per
vedere esaudito il proprio desiderio.”108
Come s’è visto, lo Yeti è accompagnato da una paredra femminile, di volta in volta nominata
come ban jhẫkrinī, ban bokṣī o rakṣī bompo.109 Secondo Peters, Gupta e Nath, la moglie, la madre e,
talvolta, persino la nonna del ban jhẫkri che con lui convivono, appartengono a una categoria di
Yeti conosciuta con il nome di nyalmo. Le nyalmo110 sono descritte come gigantesche, alte talora fino a tre metri e mezzo, vagamente somiglianti a dei plantigradi, ricoperte da un vello nerastro
che si fa brizzolato negli esemplari più anziani, capelli lunghi scarmigliati111 e con grossi seni pendenti che spesso la ostacolano nella deambulazione. Per procedere più speditamente le nyalmo se
li gettano dietro alle spalle. Di temperamento iracondo, le femmine dello Yeti sono dominate da
istinti lussuriosi e cannibalici nei confronti dei prigionieri umani maschi.112 Non fosse per
l’intervento protettivo dello Yeti maschio, i bimbi rapiti sarebbero sbranati dalle terribili streghe;
in ogni caso sono queste bokṣinī ad assalire e uccidere gli yak dei pastori himalayani e a terrorizzare con le loro apparizioni anche gli adulti più coraggiosi, i quali, anche se riescono a sottrarsi al
pericolo immediato, possono contrarre degli squilibri così gravi da condurli alla follia e alla morte. Si narra anche che le nyalmo lascino il loro habitat arboreo per raggiungere le rocce montane
più alte alla ricerca d’un sale affiorante dalla pietra di cui sono ghiotte; per far ciò sono disposte
ad attraversare tratti innevati, perciò sarebbero costoro a lasciare le misteriose gigantesche impronte di piedi nella neve.113
Il maschio, detto raksa bombo, miegye o, più generalmente, ban jhẫkri, è di piccola stazza, alto
all’incirca tra il metro e venti centimetri e il metro e mezzo, dal pelo rossiccio e con la conformazione simile a quella del langur dorato. Il suo piede, di forma analoga a quello della nyalmo, lascia
un’impronta di dimensioni più ridotte, come quello d’un adulto umano.114 Notoriamente è vegetariano, tuttavia la sua apparizione non ha nulla di pacifico né tanto meno di benevolo. La sua funzione docente è già stata illustrata, come anche la sua autorevolezza nei confronti delle ‘donne’ di
famiglia.
Gupta e Nath aggiungono un terzo tipo di Yeti, che chiamano ri-mi, che sarebbe d’una statura intermedia tra quelle della nyalmo e del ban jhẫkri e con un vello bruno. Messner, seguendo le bizzarre teorie di Ernst Schäfer,115 con cui intrattenne una corrispondenza e diversi incontri di persona, afferma che lo Yeti o tshemo non altro sarebbe che la varietà tibetana dell’ursus arctos,116 poiché questa varietà mostra un pelliccia fulva da cucciolo, poi crescendo il pelo si scurisce fino a diventar nero da adulto. Secondo lo scalatore di Bressanone, le tre tipologie di Yeti quindi non sa-
108
Mastromattei, Tremore e potere, cit. p. 87. Ricordiamo che il rimpianto amico e collega privatamente usava per definirli il termine di ‘sciamani falliti’.
109
Quest’ultimo termine si trova in Gupta & Nath, cit. p. 101. I lepcha del Sikkim le definiscono chudeh che richiama a
quelle che sono le temute cuḍel dell’India settentrionale.
110
Nyalmo può essere un nome sia maschile sia femminile: lo usiamo qui al femminile in base alla convincente dimostrazione di Peters che si tratti della moglie dello Yeti.
111
I capelli scarmigliati sono segno d’impurità. Ricorderemo che Kālī è raffigurata con i capelli spettinati proprio perché perennemente mestruata. Non è dunque un caso che nyalma sia chiamata ban kali, la Kālī della foresta, dai tibetani e dai tamang che vivono a contatto con gli hindū nevārī
112
Peters opportunamente mette in relazione la nyalmo con la sin-mo [srin mo], che ci fornirà un’argomentazione ulteriore per l’elaborazione della nostra tesi. The Yeti, cit., p. 35. Nebesky-Wojkowitz traduce srin mo con rākṣasī; Oracles,
cit. p. 32.
113
R. von Nebesky-Wojkowitz, Where the Gods are Mountains, New York, Reynal and Co., 1956, pp. 159-160. Da questa
affermazione di Nebesky-Wojkowitz, Graffigna trae argomento del capitolo VI del suo libro intitolato “Sudore di
roccia”, Yeti, cit. pp. 87-99. Il giornalista italiano, infatti, identifica il sale di cui gli Yeti sono ghiotti con lo śilājit, sorta di essudorazione bitumosa delle rocce himalayane, molto usato dalla medicina āyurvedica. Lo śilājit ha un pungente odore di terra umida, cosa che effettivamente può esser messa in relazione con l’odore tipico dei gandharva.
114
Gupta & Nath, cit. p. 101. Non ci sono informazioni se il ban jhẫkri sia provvisto o no della lunga coda dei langur.
115
Autorevole naturalista tedesco, mandato da Himmler in Tibet alla ricerca del luogo d’origine della razza ariana, si
appassionò allo studio della fauna himalayana.
116
Messner, Yeti, cit. pp. 221-223.
rebbero che avvistamenti dell’orso in tre differenti fasi di sviluppo, contraddicendo così la sua
prima impressione ricavata dall’incontro con uno Yeti nel 1986.117
Tralasciando questa teoria, contraddittoria, aggiungeremo che anche Peters, chiaramente seguendo l’esempio di Gupta e Nath, enumera tre diverse tipologie di Yeti, ch’egli denomina nyalmo,
ri-mi o chut-te, e, in terzo luogo il rang shi bönpo oppure, indifferentemente, ban jhẫkri. Tuttavia egli
aggiunge due particolari illuminanti: anche il ri-mi ha una forma scimmiesca ed è sempre messo
in relazione con corsi d’acqua o laghi.118 Possiamo perciò concludere che non di tre tipologie si
tratta, ma di due, ossia, semplicemente, di uno Yeti femmina e di uno Yeti maschio, essendo il rimi una variante del ban jhẫkri. Un’altra obiezione da muovere all’ipotesi che lo Yeti possa essere
un orso scaturisce dalle appena esaminate narrazioni indigene. Infatti, sebbene la nyalmo è sempre descritta di fattezze orsine, il suo corrispettivo maschile è paragonato a una scimmia. E per
quanto si voglia considerare ascientifica la sapienza dei popoli orientali, è difficile dubitare che
essi possano immaginare tassonomicamente possibile una specie animale in cui i maschi siano
primati e le femmine plantigradi, soprattutto considerando che nell’area geografica da loro abitata fioriscono entrambe le specie.
Leggendo attentamente le testimonianze fornite da chi ha fatto l’esperienza del rapimento, si
trae che nella caverna-prigione-tempio lo Yeti e la sua femmina svolgono due funzioni complementari. Tra i due, il ban jhẫkri s’assume un fiero ruolo di docenza, e la nyalmo quello
dell’intimidazione pressante. Alcuni attributi, che certe volte sono applicati a tutte e due le figure,
sono piuttosto espliciti: lo Yeti maschio talora porta una corona aurea di forma conica,119 impugna
uno scettro, un arco o un tamburo, mentre la femmina brandisce un falcetto d’oro e porta al collo
una collana di teschi, assumendo sembianze simili a quelle di Kālī .
Fig. 6 - Immagine moderna del ban jhẫkri e della ban jhẫkrinī.
Banjhankri Falls, Sikkim.
117
Messner, Yeti, cit. pp. 22-24. Le contraddizioni non s’arrestano qui: una volta che alla fine Messner si è convinto che
lo tshemong era soltanto un orso bruno himalayano, egli si premura a informarci che quest’ultimo non era per nulla
il migiö, poiché con questo termine i cinesi indicano l’’uomo selvatico’! Ibid. p. 209.
118
Peters, The Yeti, cit., p. 38.
119
Probabilmente da questo elemento mal compreso deriva la forma conica del cranio dello Yeti, nell’immagine fantasiosa prodotta dalle ricostruzioni occidentali.
Tuttavia, per lo Yeti femmina o maschio si invertono sia la funzione erotica, simbolo della possessione, sia quella intimidatoria, a seconda che abbia rapito un ragazzo o una ragazza. Ed ecco
dunque che nel primo caso la nyalmo diventerà l’amante esigente e minacciosa del prigioniero
maschio, mentre, nel secondo, il ban jhẫkri fungerà da sposo sottile della potenziale sciamana. In
molti racconti rilasciati dai protagonisti quando sono rientrati nell’ordine protettivo del villaggio
nativo, il ragazzo o la ragazza affermano di essere stati sventrati dal ban jhẫkri per poi essere ricomposti dopo la sostituzione di alcuni organi interni più adatti per svolgere la funzione sciamanica: oppure sono stati bolliti. Le interiora asportate erano state divorate dalla famiglia dello Yeti.120 È istruttiva la lettura del brano che narra l’esperienza dello sciamano Gajendra. “Era stato
‘posseduto’ dallo spirito di suo nonno, rispettato sciamano e iniziato dal ban jhẫkri, morto nove
anni prima. [...] Il ban jhẫkri diede da mangiare a Gajendra lombrichi e corteccia d’albero, avvertendolo che altrimenti sarebbe morto. Quando portò quel cibo alla bocca, la ban jhẫkrinī gli afferrò
le mani e gridò: «Lascia che gli tagli la testa.» Faceva ondeggiare la sua spada d’oro minacciosamente. Ma il ban jhẫkri disse di no perché voleva insegnare a Gajendra, dato che lo aveva trovato
puro di cuore. Insegnò a Gajendra di afferrare il cibo con il dorso delle mani121 [...] Dopo di ciò, anche durante le pause tra un insegnamento e l’altro, Gajendra fu protetto dagli attacchi della ban
jhẫkrinī dal ban jhẫkri, ossia da suo nonno, che si frapponeva tra lui e la ban jhẫkrinī, quando questa
tentava d’assalirlo. Gajendra descrisse la ban jhẫkrinī, o nyalmo, com’egli la chiamava in tamang,
come alta, pelosa, bestiale come un orso nero, con grosse zanne e mammelle penzolanti fino al
grembo. Il ban jhẫkri era alto solo un metro, con il vello fulvo e un copricapo a punta. [...] Gajendra
descrisse la sua esperienza come se l’avesse vissuta in sogno.”122
Fig. 7 - Il ban jhẫkri e la nyalmo squartano il loro prigioniero.
Dipinto mongolo su tela del XIX sec.
120
Si paragoni questo pasto antropofagico con i rituali degli yati aghori sul campo di cremazione. V. supra, Fig. 5. Questo soggetto è raffigurato anche nella Fig. 7. Per l’iconografia dello Yeti vedi anche l’interessante immagine proveniente da un thangka riprodotto in Messner, Yeti, cit. p. 117.
121
Anche questo particolare, come i piedi all’indietro, è un’allusione all’inversione delle direzioni spaziali e al rovesciamento di comportamento tipici del mondo dei morti.
122
Peters, The Yeti, cit., pp. 69-70.
Nel brano citato compare per la prima volta un particolare importante che ci avvia alla conclusione di questa nostra esplorazione volta a identificare chi in realtà sia lo Yeti. Vi è detto esplicitamente, infatti, che il ban jhẫkri era il nonno di Gajendra, defunto nove anni prima, e ciò si ricollega ai destini postumi riservati agli sciamani: “Quando i bombo muoiono non si avviano a rinascere come fa la maggior parte degli umani. I bombo che hanno ostacolato gli altri durante il corso della loro vita, diventano ombre;123 i bombo che muoiono di morte violenta o infausta, diventano spiriti maligni;124 la maggior parte di loro diventa lente o spiriti ancestrali dei bombo. I lente
abitano in Elisi nascosti nei recessi nevosi delle cime himalayane. Come le ombre, i lente mantengono un attaccamento per il mondo dei viventi. Mentre le ombre assalgono chiunque, i lente, con
qualche eccezione, affliggono soltanto i loro diretti discendenti sia paterlineari (gyut) sia materlineari (shyang).125 Inoltre, a differenza delle sofferenze provocate dalle ombre che possono essere
curate con un sacrificio esorcistico, gli assalti dei lente possono essere riparati soltanto accettando la vocazione sciamanica. I lente più spesso opprimono i discendenti maschi poiché la maggioranza dei bombo sono uomini; però i lente rapiscono anche donne e anche le donne possono diventare bombo. [...] Coloro che sono catturati da un lente riportano un crescendo di incontrollabili tremori, lunghi periodi di dissociazione e pesante malattia. Un bombo ricordò che stava morendo e che i suoi famigliari stavano preparandogli il sudario. I suoi soffi rientrarono e alla fine si recuperò, dopo mesi di gravi ricadute nel violento tremore. Il solo mezzo rituale per alleviare quei
prolungati assalti fu quello di diventare un bombo e di venerare il lente con regolarità.”126
Questo importantissimo brano, oltre a gettare una luce assai tenebrosa sui destini postumi degli
sciamani in generale, spiega chiaramente perché la massima parte dei ban jhẫkri siano discendenti
di sangue di sciamani del passato.127 Ciò è confermato anche, per quanto riguarda lo sciamanismo
siberiano, da una nota manoscritta di Ksenofontov riportata da Hoppál: “Chi deve diventare sciamano deve subire ancora da adolescente una malattia dell’anima che può durare anche sette anni.
Prima di diventare sciamano, in sogno, vede riunirsi le anime degli sciamani morti, che vengono
da sopra e da sotto, e che sono diventati spiriti cattivi, diavoli (öürdär) e questi spiriti tagliano a
pezzi il corpo del candidato sciamano. Si racconta che lo sciamano dorme per tre giorni interi,
giacendo come un morto.”128
In alcuni nostri studi già pubblicati abbiamo preso approfonditamente in esame il rapporto che
intercorre tra i semidei, che in ambito sciamanico sono meglio definiti come spiriti, e gli spettri,
piśāca,129 e le larve, bhūta, dei trapassati, perciò in questa sede accenneremo soltanto alla questione, invitando il lettore che volesse meglio indagare a rifarsi direttamente ai nostri lavori citati in
nota.130 D’altra parte anche Mastromattei affermava che nella ‘seduta’ sciamanica il suono del
123
Le ombre corrispondono ai bhūta dell’induismo.
Gli spiriti maligni corrispondono ai piśāca dell’induismo.
125
A ulteriore conferma, ecco il racconto di un pande chepang: “Quando avevo due anni fui rapito e persi i sensi. C’era
del buio davanti ai miei occhi. Questa tenebra si mutò in splendore quando arrivai alla casa del ban-jhẫkri. Sembrava
un palazzo. Nel volto del ban-jhẫkri riconobbi le fattezze dei miei genitori, certe volte quelle di mia madre, altre volte quelle di mio padre.” Riboli, Tunsuriban, cit., p. 86.
126
David H. Holmberg, Order in Paradox. Myth, ritual and exchange among Nepal’s Tamang, Delhi, Motilal Banarsidass Pbls.,
1996, pp. 146-147.
127
Durante la nostra spedizione VAIS in Arunachal Pradesh nel 2002 potemmo constatare che anche il jhẫkri Geleg
Choi Jang, che era diventato poi un ku-ten sotto il controllo di un lama buddhista, riconosceva nel ban-jhẫkri lo spirito del suo padre defunto. V. “Oracles and Shamans”, cit., p. 16.
128
J. V. Ksenofontov, 1928, dalla p. 5 del manoscritto, in Miháil Hoppál, Teatro Cosmico. Simboli e miti degli sciamani siberiani, Budapest, International Society for Shamanistic Research, 2002, p. 29.
129
La madre di tutti i piśāca è Kapiśā, la Signora delle scimmie. Cfr., N. N. Bhattacharyya, Indian Demonology.The Inverted
Pantheon, Delhi, Manohar, 2000, p. 167.
130
“On some Aspect of Bhūtas During Birth-Death Passage”, in Bh. Saraswati (ed. by), Prakṛti, the Integral Vision, New
Delhi, DK Printworld, 1995, V vol., pp. 117-121; Mṛtyu: the concept of Death in Indian Traditions, New Delhi, DK Printworld, 1996, pp. 149-198; “Alcune considerazioni sui bhūta come componenti corporee”, in Atti del Settimo Convegno
Nazionale di Studi Sanscriti, Torino, AISS, 1997, pp. 183-190; “The Celestial Ride”, in R. Mastromattei & A. Rigopoulos
(ed. by), Shamanic Cosmos: From India to North Pole Star, New Delhi, DK Printworld, V.A.I.S. Series n.1, 1999, pp. 73-87.;
“Il movimento della Devī: un’epidemia di possessione collettiva”, in Annali di Ca’ Foscari, XLI, 3, SO 33, Editoriale Programma, Venezia, 2002, pp. 191-210; “Considerazioni generali”, cit., pp.; “Oracoli, sciamani, dèi e spiriti
dell’Himalaya orientale”, in Romano Mastromattei (a cura di), Ṛta. Sciamani in Eurasia: il rito che sopravvive, Roma, Un.
124
tamburo attraeva o respingeva “lunghe teorie di spiriti e di altre pericolose creature: bhut [bhūta],
pret [preta], pisāc [piśāca], bir [vīra], masān [śmaśāna, il campo di cremazione, in questa accezione citato come una sua personificazione], vāyu, boksi [bokṣī], dāine [ḍākinī]131, chaudā [chuḍel].”132 Si tratta d’un elenco di entità sottili che equipara gli spiriti dei morti a quegli spiriti della natura mitologicamente definite semidivinità, collocandole tutte nella medesima categoria del ban jhẫkri.133 Lo
Yeti, dunque, si rivela così essere lo spirito del famigliare trapassato, dell’antenato, padre, nonno,
o avo di una ancor più antica generazione e per questo poco caratterizzato individualmente. Con
il prosieguo della pratica, il ban jhẫkri, che è diventato guru e ‘spirito guida’134 dello sciamano, si
spersonalizza diventando l’’antenato’ per antonomasia che si identifica con lo sciamano primordiale, il primo sciamano morto, lo spirito maestro ancestrale. “I lente sono convertiti in alleati;
sono ambiguamente confusi con altri esseri, quali i phamo o [spiriti] guardiani. In tutte le loro nenie i bombo evocano il proprio lente e ogni altro lente con cui possono entrare in relazione, e i
lente dei loro guru o maestri.”135 “I bombo appartengono sempre a una particolare linea o bon. Secondo i racconti sull’origine, cinque (o sei) bombo primordiali comparvero in corrispondenza con
i cinque Buddha primordiali nelle cinque (talvolta sei) direzioni dello spazio, est, ovest, nord, sud,
centro, (spazio intermedio [?]). Ogni bon s’identifica con uno dei bombo primordiali.”136 Prima di
procedere al commento di questa informazione fondamentale, ricorderemo che bombo è il termine in uso presso alcuni gruppi tamang per definire il ban jhẫkri e che rivela una più diretta discendenza dal bon non riformato. Lo spirito che possiede lo sciamano, in base a quanto si legge, necessariamente deve appartenere a una linea d’antenati, anch’essa definita bon. Holmerg ci informa
che per i tamang, queste linee ancestrali sono o cinque, corrispondendo ai cinque ādibuddha, oppure sei. La discrepanza tra il cinque e il sei è facilmente spiegabile come segue: i cinque bon sono
fatti corrispondere ai cinque Buddha primordiali del buddhismo tantrico vajrayāna predominante
nell’Himalaya. Il numero sei perciò si deve riferire alla tradizione prebuddhista bon. Il bon ha tramandato un mito delle origini che cercheremo di riassumere di seguito. All’inizio il mondo era
coperto dalle acque. Gradualmente le acque evaporarono, permettendo lo sviluppo della vita
animale e vegetale. Sulle terre asciutte del Tibet giunse uno scimmione di nome Trehu, che qui si
stabilì per dedicarsi a una vita di meditazione. Prese dimora sul monte Gongori, nei pressi
dell’attuale città di Tsetang, nel sud del Tibet. Nei pressi viveva un démone delle rocce femmina,
Tag Sen-mo, irsuta e terrificante dalla parvenza di un orso. Tag Sen-mo, in preda a incontrollabile
lussuria, s’unì a Trehu, e da questo connubio nacquero sei figli umani, ma con caratteristiche scimmiesche prese dal padre, e plantigrade da parte della madre.137 Da questi sei primi umani discesero
Degli Studi di Roma Tor Vergata ed., 2006, pp. 33-43; “Oracles and Shamans”, cit., pp. 11-35; “Considerazioni generali
sui riti di possessione presso i gruppi etnici della Cina meridionale e dell’Himalaya orientale”, in Mario Nordio (a
cura di), Cina. West of California, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 55-68; Il Mistero della Morte, cit., pp. 101-136; “La morte
nella cultura indiana”, in Storia della definizione di morte, a cura di Francesco Paolo de Ceglia, Milano, FrancoAngeli,
2014, pp. 57-70.
131
Sorta di streghe-fate attendenti della dea Kālī.
132
Mastromattei, La Terra reale, cit., p. 86.
133
È evidente che tutti questi spiriti altro non sono se non le larve che sono il risultato della disgregazione degli residui psichici dei defunti; in altre parole si tratta di quegli elementi sottili che sono stati abbandonati dall’anima al
momento della morte. Non si tratta delle anime, jīvātman, in quanto tali, le quali sono migrate nei cieli o negli inferni in forza dei loro meriti e demeriti accumulati in vita, o addirittura direttamente trasmigrate in altri gradi
d’esistenza; argomento sviluppato nel nostro “La morte nella cultura indiana”, cit., pp. 57-70.
134
La terminologia usata dagli sciamanologi è spesso ricalcata sul linguaggio dello spiritismo ottocentesco, come, per
esempio quello di ‘transe’, ‘seduta’ sciamanica e ‘spirito guida’. Pur essendo un abuso lessicale, si deve bensì ammettere che la fenomenologia sciamanica e quella spiritista, pur culturalmente distanti, non sono poi così lontane per
ciò che concerne la natura delle dinamiche messe in azione. Anche le ‘proiezioni’ delle impronte sulla neve o nel
fango trovano il loro corrispettivo in certi fenomeni di calchi apparse durante alcune sessioni neo-spiritualiste. Al
contrario l’analogia dello sciamanesimo con la negromanzia non è sostenibile per assenza della possessione in questa ultima pratica magica.
135
Holmberg, Order in Paradox, cit., p. 148.
136
Ibid., p. 148, n. 10.
137
Inutile dire che questo mito ha dato adito alle più disparate interpretazioni darwiniste. Pare opportuno invece
considerare l’abbinamento scimmia-orso nella composizione dell’esercito che si mise al servizio di Rāma nella sua
spedizione contro il regno dei rākṣasa.
le sei tribù del popolo tibetano. Il mito, nella sua versione buddhista è meno truculento: la scimmia
di nome Pa Drengen Changchop Simpa, Antenato Scimmia dal Cuore Compassionevole, non sarebbe
stato altro che una manifestazione terrena di Avalokiteśvara, uno dei cinque dhyanibodhisattva, sceso in Tibet per dedicarsi all’ascesi. Un giorno la sua meditazione fu interrotta da un démone femminile che, secondo la tradizione, sarebbe stata la manifestazione della bodhisattva Tara. La démone
invitò la scimmia a unirsi a lei per dare origine al popolo tibetano, minacciando altrimenti di concedersi a un demonio. In questo modo avrebbe concepito un gran numero di mostri che avrebbero distrutto la vita sulla terra. La saggia scimmia accettò e alcuni mesi dopo nacquero sei piccole scimmie.138 Tralasciando la versione buddhista del mito, si comprenderà che i tamang considerano i sei
figli di Tag Sen-mo e Trehu come gli sciamani ancestrali da cui discendono le sei ‘tribù’ sciamaniche
dell’antica tradizione bon-po non riformata.139
Riassumendo quanto abbiamo diffusamente discusso, concluderemo affermando che quello che
è noto in tutto il mondo contemporaneo con il nome di Yeti non appartiene affatto al regno animale, sebbene nelle forme con cui appare agli umani esso possa apparire di volta in volta simile a
un gigantesco orso o a un nano langur dorato. Tanto meno esso è l’ominide che possa dimostrare
una prova concreta dell’evoluzione umana.140 Se si prescinde dalle mitologie scientiste e ci si perita di considerare umilmente gli autentici miti delle popolazioni che li tramandano e li vivono ancor oggi con intense esperienze psichiche, con facilità ci si renderà conto che lo Yeti in realtà è
uno spirito che soltanto gli yogin riescono ad asservire; un démone potente e terribile e, al medesimo tempo, un residuo psichico proveniente dalla corruzione della carne, un antenato primordiale caduto, un incubo che possiede quelle persone che fin dall’infanzia dimostrano di avere delle aperture nei confronti dello psichismo inferiore. Lo Yeti possiede, e lo sciamano posseduto entra nello stato di transe. In questo stato alterato lo sciamano apprende le leggi che regolano il processo dei fenomeni sottili, diventando così discepolo d’un maestro che lo istruisce a manipolare,
per quanto possibile, le forze che li producono. In questo modo contribuisce al benessere della
comunità a cui appartiene, pur restando vittima di questo ‘dono’. Rispettato, temuto al pari del
suo maestro sottile, lo sciamano è comunque evitato ed emarginato dalla comunità.
Certamente lo Yeti esiste. Ma esiste in una dimensione parallela, ed esso può entrare nel nostro
mondo umano attraverso le fessure della muraglia che ci divide e ci protegge, attraverso le aperture psicologiche dell’anima non vigile. Fenditure che possono verificarsi in situazioni di forte
stress corporeo e mentale. Leggendo i resoconti di coloro che casualmente hanno visto lo Yeti ci si
accorge dello stato di estremo sforzo psicosomatico in un ambiente liminare in cui si trovavano.
138
Il prevalere del numero cinque nel mito buddhista è probabilmente dovuto al fatto che gli ādibuddha sono cinque,
come pure i dhyanibuddha e i dhyanibodhisattva.
139
Stein aggiunge una settima tribù tibetana, che invece discenderebbe dagli dèi. Rolf. A. Stein, La civiltà tibetana, Torino, Einaudi, 1986, p. 28.
140
Coloro che si sentissero delusi da questa conclusione potranno sempre consolarsi pensando che se lo Yeti fosse l’
‘anello mancante’ avrebbe messo in crisi un altro dogma evoluzionistico: quello dell’origine africana dell’uomo.
Fig. 9 - Yeti, maschera rituale tibetana.
Non abbiamo voluto occuparci del bigfoot, del sasquatch delle Americhe, dell’homo selvaticus europeo. Certamente queste apparizioni sembrano mostrare una certa continuità e somiglianza con
quelle dello Yeti. Anche in questo caso le due forme da plantigrado e da primate si alternano con
un’insistenza indicativa. Tuttavia nel caso del Nuovo Mondo, a nostra conoscenza, pare che ci siano soltanto fonti e opinioni di uomini ‘civilizzati’, con grave carenza nella raccolta di tradizioni
indigene non alterate da ideologie e pregiudizi ‘scientifici’. Sul versante europeo, la scomparsa secolare di un substrato etnico che aveva fatto da terreno fertile alla tradizione del fauno, del silvano, del mazzariòl, dell’orco, del diavolo e della moglie del diavolo, dell’orso e della sua famiglia,
delle anguane e delle vivane, priva la ricerca della fonte diretta. Le numerose fiabe che descrivono
indiscutibili situazioni di rapimento sciamanico, decrivono la ritrazione di un’antica tradizione di
cui è impossibile determinare l’origine storica o, forse, preistorica. Qui in Europa la superstizione
è stata soffocata per sempre e le informazioni ‘fossili’ che ci sono fin qui pervenute, rimangono
ostinatamente mute.141
141
Come sempre, nel caso di tradizioni morte, si scatenano le più fantasiose teorie interpretative, siano esse semiotiche, formaliste, strutturaliste, trifunzionaliste o altro, in cui si può dire tutto e il contrario di tutto, senza timore di
essere smentiti.
Fig. 9 - Lo Yeti.
Dipinto mongolo su carta del XVIII sec.
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