sartre - Casa editrice Le Lettere
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Gabriella Farina SARTRE Fenomenologia e passioni della crisi Le Lettere II MALAFEDE E AMBIGUITÀ DELL’UOMO Consideriamo questo cameriere. Ha il gesto vivace e pronunciato, un po’ troppo preciso, un po’ troppo rapido, viene verso gli avventori con un passo un po’ troppo vivace, si china con troppa premura, la voce, gli occhi esprimono un interesse un po’ troppo pieno di sollecitudine per il comando del cliente, poi ecco che torna tentando di imitare nell’andatura il rigore inflessibile di una specie di automa, portando il vassoio con una specie di temerarietà da funambolo, in un equilibrio perpetuamente instabile e perpetuamente rotto, che perpetuamente ristabilisce con un movimento leggero del braccio e della mano. Tutta la sua condotta sembra un gioco. Si sforza di concatenare i movimenti come se fossero degli ingranaggi che si comandano l’un l’altro, la mimica e perfino la voce paiono meccanismi; egli assume la prestezza e la rapidità spietata delle cose. Gioca, si diverte. Ma a che cosa gioca?... Gioca a essere cameriere1. La sua malafede è un rifiuto: rifiuto della libertà, del rischio, sempre in agguato, di vedere le proprie imprese fallire e la morte porre fine definitivamente al suo progetto; rifiutando il rischio, gioca per assumere le sembianze di un oggetto. O meglio recita come recitano tutti gli uomini; vorrebbe afferrarsi a un in-sé solido e permanente, ma sente che esso gli sfugge da ogni parte. Essere cameriere è una rappresentazione per gli altri e per-sé; ma nella misura in cui si rappresenta non lo è affatto. Facendo esistere questo ruolo, lo trascende da ogni parte, si costituisce al di là della sua condizione. «Tuttavia, non c’è dubbio che in un certo senso sono cameriere. Ma se lo sono, ciò non può avvenire nel modo dell’essere in sé; lo sono 1 J.-P. SARTRE, L’Être et le Néant, Paris, Gallimard, 1943; trad. it. L’essere e il nulla, Milano, il Saggiatore, 1991, p. 100. 52 CAPITOLO SECONDO nel modo di essere ciò che non sono»2. Dichiara Sartre: «da ogni parte sfuggo all’essere e tuttavia lo sono»3. Altro esempio riferito da Sartre: una donna si reca al primo appuntamento. Sa benissimo le intenzioni che l’uomo che le parla nutre a suo riguardo. Sa anche che le occorrerà prendere, presto o tardi, una decisione. Ma non vuol sentirne l’urgenza; si attacca solo a ciò che di rispettoso e discreto offre l’atteggiamento del compagno. Non percepisce tale comportamento come un tentativo per realizzare quelli che si chiamano “i primi approcci”, non vuol vedere le possibilità di sviluppo nel tempo di tale condotta; circoscrive il comportamento a ciò che è al presente, non vuole leggere nelle frasi indirizzatele altro che il loro senso esplicito; se le si dice “Vi ammiro tanto” disarma la frase dall’intimo fondo sessuale, attribuisce ai discorsi e alla condotta dell’interlocutore significati immediati che considera come qualità oggettive. L’uomo che parla le sembra sincero e rispettoso come il tavolo è rotondo o quadrato, come l’intonaco è celeste o grigio. E le qualità, così attribuite alla persona che ella ascolta, vengono in tal modo a cristallizzarsi in una permanenza di “cose”, cristallizzazione che altro non è se non la proiezione nel flusso del tempo del loro presente. Gli è che ella non è informata esattamente di ciò che brama; è profondamente sensibile al desiderio (fisico) che ispira, ma il desiderio nudo e crudo l’umilierebbe e le farebbe orrore. D’altra parte non troverebbe alcuna attrattiva in un rispetto che fosse soltanto del rispetto. Per soddisfarla, le occorre un sentimento che si rivolga unicamente alla sua persona, cioè alla sua libertà totale, e che sia un riconoscimento di tale libertà. Ma occorre in pari tempo che questo sentimento sia interamente desiderio, cioè si rivolga al corpo, come oggetto. Per ora, dunque, ella rifiuta di percepire il desiderio per quello che è, non gli dà nome, non lo riconosce se non nella misura in cui si trascende nell’ammirazione, stima, rispetto, e si perde interamente nelle forme più elevate da esso prodotte, al punto di non comparirvi più, se non come una specie di calore e di densità. Ma ecco che le si prende la mano. L’atto dell’interlocutore rischia di cambiare la situazione imponendo una decisione immediata; abbandonare la mano alla stretta, è consentire da parte sua al flirt, impegnarsi. Ritirarla, è rompere l’armonia torbida e instabile che fa l’incanto dell’ora. Si tratta di rimandare il più lontano possibile l’ora della decisione. Si sa allora quel 2 3 Ivi, p. 102. Ibidem. MALAFEDE E AMBIGUITÀ DELL’UOMO 53 che succede; la giovane donna abbandona la mano, ma non s’accorge di abbandonarla. Non s’accorge perché, per caso, avviene che ella è, in questo momento, tutta spirito. Trasporta l’interlocutore nelle regioni più elevate della speculazione sentimentale, parla della vita, della sua vita, si mostra sotto l’aspetto essenziale: una persona, una coscienza. E durante questo tempo il divorzio del corpo e dell’anima è completo; la mano riposa inerte tra le calde mani del compagno: né consenziente, né riluttante – una cosa. Diremo che questa donna è in malafede. Fa notare Sartre che essa usa diversi procedimenti per mantenersi in malafede: ha neutralizzato i comportamenti del compagno riducendoli a esistere nel modo dell’in-sé, ma si permette di godere del desiderio nella misura in cui lo percepisce come qualcosa che non è ciò che è. Infine, pur sentendo profondamente la presenza del suo corpo, poiché ne è turbata, si realizza come se non fosse il suo corpo e lo contempla dall’alto come un oggetto passivo. Appare, in tutti questi differenti aspetti della malafede, una certa arte di formare concetti contraddittori che riuniscono in sé un’idea e la negazione di questa idea. Si utilizza la duplice proprietà dell’essere umano, di essere una fattità o presenza a titolo di fatto, e una trascendenza, entrambi suscettibili di valida coordinazione. Ma la malafede non vuole né coordinarli, né superarli in una sintesi. Per essa si tratta di affermare la “fattità” come essente la trascendenza e la trascendenza come essente la “fattità”, così da poter, nell’istante in cui se ne percepisce una, trovarsi bruscamente di fronte all’altra. Il cameriere e la donna al primo appuntamento, sono due esempi di malafede che Sartre osserva così come essi si manifestano comunemente nel vivere umano e due occasioni per riflettere su questo atteggiamento complesso e ambiguo, inscritto nelle strutture intenzionali della coscienza. Alla malafede Sartre ha dedicato uno splendido capitolo de L’essere e il nulla, «una di quelle finissime analisi – come riconosce Sergio Moravia – delle quali nessuna critica ai fondamenti teoretici del suo pensiero potrà annullare il fascino»4. Premettiamo subito che l’indagine di Sartre sulla malafede, che non ha niente a che vedere con una riprovazione moralistica, tende 4 S. MORAVIA (a cura di), Introduzione a Sartre, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 43. 54 CAPITOLO SECONDO piuttosto a fornire alcune decisive indicazioni intorno all’essere dell’uomo, e al suo non essere una passiva e univoca cosa. Per Sartre è la coscienza che si condanna da se stessa alla malafede: è un atteggiamento negativo assunto per mascherare una verità spiacevole che non si vuole riconoscere. Si tratta di una negazione molto particolare e più radicale rispetto al No dell’uomo del risentimento di Scheler, o al più sottile comportamento ironico ove l’uomo «nell’unità del suo stesso atto, annienta ciò che pone, dà a credere per non essere creduto, afferma per negare e nega per affermare»5. La possibilità di malafede, propria della realtà umana, costituisce la tentazione permanente di una libertà ossessionata dal suo desiderio di essere. La malafede è ontologica; il nostro progetto originario costituisce la nostra malafede originaria. L’uomo in malafede gioca con i suoi possibili, poiché se niente lo costringe a essere in malafede, niente gli impedisce di cadere in malafede. Non c’è un solo atto umano che non attesti l’umanità dell’uomo, come non c’è atto umano che non indichi la sua radicale ambiguità: uno studio rivolto alla comprensione dell’uomo, non può prescindere perciò da una riflessione sulla malafede, ovvero su quell’atteggiamento determinato che, «da una parte è essenziale alla realtà umana e, dall’altra, è tale che in esso la coscienza, invece di dirigere la negazione verso l’esterno, la rivolge verso se stessa»6. La tesi, proposta da Sartre, ruota intorno all’idea che «nella malafede è a me stesso che io maschero la verità. Così la dualità dell’ingannante e dell’ingannato non esiste più qui. Al contrario, la malafede implica per essenza l’unità di una coscienza»7. 1. Malafede tra coscienza e inconscio Il fenomeno della malafede è stato ed è tuttora oggetto di studio della psicoanalisi, della neuropsichiatria e dell’indagine scientifica 5 J.-P. SARTRE, L’Essere e il nulla, cit. p. 86. Ibidem. 7 Ivi, p. 88. 6 MALAFEDE E AMBIGUITÀ DELL’UOMO 55 mente-cervello. In Italia8, in particolare, Giovanni Jervis ha dedicato molti studi a «l’autoinganno idealistico naturale», a partire da Presenza e identità del 1984 fino a Pensare dritto, pensare storto del 2007, frutto di rielaborazioni di alcuni aspetti della psicologia dell’identità di Ernesto De Martino: pensatori sui quali, in modo più o meno critico, pesa l’influenza di Sartre e della sua tesi secondo la quale il progetto primitivo della malafede altro non è che l’utilizzazione di un’autodistruzione attuata dalla coscienza. I limiti che la coscienza impone a se stessa, in quanto è suscettibile di malafede, indicano a Sartre una delle alienazioni dell’essere umano, accanto alla reificazione a opera degli altri e della società. A questi risultati Sartre giunge dopo un lungo lavoro sulla negazione che lo ha condotto alla libertà e alla malafede: «La coscienza si condanna da se stessa alla malafede». È in questa prospettiva che l’analisi sartriana, con il suo gioco di rimandi tali da coinvolgere il nulla, la libertà e il nascere del per-sé (coscienza) non può essere ridotta a una analisi psicologica dei comportamenti di malafede, ma ne costituisce il presupposto. Sappiamo che il vero problema per Sartre è sempre stato quello di rintracciare le condizioni di possibilità per fondare ontologicamente la libertà: in questa prospettiva l’ipotesi dell’inconscio freudiano gli è apparsa subito inaccettabile. E infatti numerose sono le critiche che, in questa fase del suo pensiero rivolge all’interpretazione psicoanalitica, pur riconoscendo punti di contatto e alcune idee condivisibili, come quella secondo la quale ogni persona tende a dare di sé, dei propri pensieri e delle proprie azioni, spiegazioni non-veritiere: ci si inganna per non voler sapere e per rifiutare verità spiacevoli: tanto Freud quanto Sartre riconoscono una naturale tendenza all’autoinganno. Ma riguardo all’inconscio, le posizioni sono divergenti. Ricorda Simone De Beauvoir, quanto Sartre si industriasse a forgiare la nozione di malafede: 8 G. JERVIS, Presenza e identità, Milano, Garzanti, 1984; ID., Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, Torino, Bollati Boringhieri, 2007; M. Marraffa, L’io opaco a se stesso, in M. DI FRANCESCO-M. MARRAFFA (a cura di), Il soggetto. Scienze della mente e natura dell’io, Milano, Bruno Mondadori, 2009. 56 CAPITOLO SECONDO In quegli anni, i nostri sforzi miravano a dedurre schemi e a inventarne: era il nostro lavoro quotidiano e credo che ci arricchì più di qualsiasi lezione o di qualsiasi apporto venutoci dall’esterno. Sartre forgiò la nozione di malafede, che spiegava, secondo lui, tutti i fenomeni che gli altri riferiscono all’inconscio. Ci applicavamo a snidarla sotto tutti i suoi aspetti: i trabocchetti del linguaggio, le menzogne della memoria, evasioni, compensazioni, sublimazioni. Ogni volta che scoprivamo una nuova griglia, un nuovo modulo, eravamo felici. Ciò che scandalizzava Sartre e de Beauvoir era l’idea, cara agli psicoanalisti, di scomporre l’uomo, anziché comprenderlo. Si ricorreva allo psicoanalista e lo si consultava sul modo di regolarsi nella propria vita. Racconta l’autrice di L’età forte: Uno, che esitava tra due donne, andò a domandare al D. – noto per aver curato parecchi surrealisti – quale dovesse scegliere: «Bisogna lasciare che i sentimenti si stacchino da sé come foglie morte», rispose il dottore. Quando Colette ci raccontò questa storia, ne fummo indignati: non ammettevamo che la vita fosse una malattia e quando una scelta si imponeva, invece di decidere da sé, si chiedesse la ricetta al medico9. Perché Sartre è molto critico nei confronti dell’inconscio, soprattutto quando a esso si ricorre per spiegare il fenomeno della malafede? La linea di frattura si determina quando la psicoanalisi, in luogo della dualità tra ingannante e ingannato, ha posto la distinzione tra il “ciò” e “l’io”, ovvero l’idea di una menzogna senza mentitore la quale permette di capire «come io possa non mentirmi, ma essere mentito», ponendomi, «in rapporto a me-stesso, nella situazione di altri di fronte a me»10. Per Sartre non si subisce la propria malafede, non si è “affetti” da malafede: essa non è uno stato. Niente può sottrarre l’uomo alla libertà e responsabilità dei suoi atti. «Colui che è affetto da malafede deve avere coscienza (del)la sua malafede poiché l’essere della coscienza è coscienza di essere. Pare dunque che io debba essere in buona fede almeno in questo, che sono cosciente della mia malafede»11. Ma allora 9 S. DE BEAUVOIR, L’età forte, Torino, Einaudi, 1961 e 1995, p. 110. J.-P. SARTRE, L’Essere e il nulla, cit. p. 91. 11 Ibidem. 10 MALAFEDE E AMBIGUITÀ DELL’UOMO 57 non solo si annulla il sistema psichico, ma anche l’idea stessa di inconscio. Se l’esistenza della malafede è molto precaria, se appartiene a un genere di strutture psichiche che si potrebbero chiamare “metastabili”, essa presenta ciò non di meno una fisionomia autonoma e stabile; può perfino costituire l’aspetto normale della vita per un grandissimo numero di persone. Si può vivere in malafede; ciò non vuol dire che non si abbiano dei bruschi risvegli di cinismo o di buona fede, ma che implica uno stato di vita costante e particolare. L’imbarazzo sembra dunque estremo, perché non possiamo né rifiutare, né comprendere la malafede12. Sartre non può ammettere che, per sfuggire a queste difficoltà, si preferisca ricorrere all’inconscio, all’ipotesi di una censura, concepita come una linea di demarcazione per ristabilire la dualità dell’ingannante e dell’ingannato. In effetti Freud con la distinzione del ciò e dell’io, ha diviso in due la massa psichica. Io sono io, ma non sono ciò. Io sono i miei propri fenomeni psichici, in quanto li constato nella loro realtà cosciente. Ma io non sono questi fatti psichici in quanto li ricevo passivamente e sono obbligato a fare delle ipotesi sulla loro origine e sul loro significato13. Ma c’è un’altra questione criticabile per Sartre: come la censura discernerebbe gli impulsi da respingere, senza aver coscienza di discernerli? Si può concepire un sapere che sia ignoranza di sé? Sapere è sapere che si sa, diceva Alain. O piuttosto: ogni sapere è coscienza di sapere. Ma di che tipo può essere la coscienza (di) sé della censura? Deve essere coscienza (di) essere coscienza della tendenza a inibire, ma precisamente per non esserne coscienza. Che cosa vuol dire questo, se non che la censura deve essere in malafede? La psicoanalisi non ci ha fatto guadagnare nulla, poiché, per sopprimere la malafede, ha stabilito tra l’incosciente e la coscienza una coscienza autonoma e in malafede14. 12 Ivi, p. 89. Ivi, p. 90. 14 Ivi, p. 93. 13 58 CAPITOLO SECONDO Essa ha semplicemente localizzato al livello della censura la doppia attività di repulsione e attrazione, ma, si domanda Sartre, quali legami comprensibili ci sono tra due momenti così diversi? Come può la tendenza respinta “travestirsi”, se non involge 1) la coscienza di essere respinta 2) la coscienza d’essere stata rifiutata perché è quello che è, 3) un piano di travestimento? Nessuna teoria meccanica della condensazione o del transfert può spiegare le modificazioni che la tendenza s’infligge da se stessa, perché la descrizione del processo di travestimento implica un ricorso velato alla finalità. E, parimenti, come rendere conto del piacere o dell’angoscia che accompagnano l’appagamento simbolico e cosciente della tendenza, se la coscienza non involge, al di là della censura, una comprensione oscura dello scopo da raggiungere in quanto è simultaneamente desiderato e proibito?15. Sembra che Freud, «per aver respinto l’unità cosciente dello psichico, sia obbligato a sottintendere ovunque un’unità magica che collega i fenomeni a distanza al di sopra degli ostacoli, come la partecipazione primitiva unisce la persona stregata e la figurina di cera foggiata a sua immagine»16. Spiegazione mediante la magia che, oltre alle inferiorità di principio, non sopprime la coesistenza – sul piano inconscio, sul piano della censura e su quello della coscienza – di due strutture contraddittorie e complementari che si implicano e si distruggono reciprocamente. «Si è ipostatizzata la malafede, la si è trasformata in “cosa”, non la si è evitata»17: questa in sintesi la critica di Sartre alla psicoanalisi. Non a caso, lo psichiatra viennese Steckel, che Sartre ammirava per le sue contestazioni all’inconscio freudiano, nel suo lavoro La Femme frigide, affermava: «Ogni volta che ho potuto spingere le investigazioni abbastanza avanti, ho constatato che il nodo della psicoanalisi era cosciente»18. In effetti, i casi che riferisce nella sua opera, testimoniano dell’esistenza di una malafede patologica che il freudismo non può spiegare. Così, nel caso della donna frigida, «ci troviamo proprio di fronte a un fenomeno di malafede, perché gli 15 Ivi, pp. 93-94. Ivi, p. 94. 17 Ibidem. 18 Ibidem. 16 MALAFEDE E AMBIGUITÀ DELL’UOMO 59 sforzi tentati, per non aderire al piacere provato, implicano il riconoscimento che il piacere è provato e precisamente lo implicano per negarlo»19. Ne L’età forte, Simone de Beauvoir ricorda: «Ci appassionammo a La Femme frigide, di Steckel poiché proponeva una psicoanalisi che rifiutava la nozione di inconscio»20. Sartre è ben consapevole di quanto sia complesso il fenomeno della malafede: da una parte la spiegazione mediante l’inconscio, per il fatto che rompe l’unità psichica, non potrebbe rendere conto dei fatti che, a prima vista sembrano dipendere da essa. D’altra parte, esiste un’infinità di comportamenti di malafede che rifiutano esplicitamente questo tipo di spiegazione, perché la loro essenza implica che non possono apparire se non nella trasparenza della coscienza21. Se la malafede è possibile, allora bisogna poter incontrare, in una stessa coscienza, l’unità dell’essere e del non-essere, l’essere-pernon-essere. Ma la malafede è istantanea, per cui dobbiamo domandarci «che cosa deve essere la coscienza, nell’istantaneità del cogito pre-riflessivo, se l’uomo può essere in malafede?»22. 2. Progetto di malafede: essere-per-non-essere Occorre per prima cosa esaminare i comportamenti di malafede per poter fissare con maggior precisione le condizioni che rendono possibile la malafede. L’esempio del cameriere o della donna al primo appuntamento hanno chiarito che uno strumento basilare della malafede è proprio il concetto metastabile “trascendenza – fatticità”, ma a esso se ne affianca in egual modo un altro: la duplicità della realtà umana che Sartre esprime grossolanamente dicendo che «il suo essere-per-sé implica come complemento un essere-per-altri»23. «L’uguale digni- 19 Ivi, p. 95. S. DE BEAUVOIR, L’età forte, cit. p. 248. 21 J.-P. SARTRE, L’Essere e il nulla, cit. p. 95. 22 Ivi, p. 85. 23 Ivi, p. 98. 20 60 CAPITOLO SECONDO tà d’essere del mio essere per altri e del mio essere per me, permette una sintesi perpetuamente disgregativa e un perpetuo gioco di evasione dal per-sé al per-altri e dal per-altri al per-sé»24. In tutti questi concetti si ritrova la medesima struttura: «Si tratta di costituire la realtà umana come un essere che è ciò che non è, e che non è ciò che è»25. In effetti, precisa Sartre, se l’uomo “è ciò che è”, la malafede è assolutamente impossibile, ma io non sono ciò che sono, in quanto ho da essere ciò che sono; «io non sono mai nessuno dei miei atti, dei miei comportamenti»: l’allievo attento «che vuole essere attento, l’occhio fisso al maestro, le orecchie bene aperte in ascolto, si esaurisce a tal punto rappresentando la parte dell’attento, che finisce per non ascoltare più nulla»26. «Da ogni parte sfuggo all’essere e tuttavia sono»27; anche quando dico “io sono triste”. Se fossi triste o vigliacco, alla maniera in cui questo calamaio è calamaio, la possibilità della malafede non potrebbe neppure essere concepita; ma la malafede è possibile a titolo di semplice progetto, in quanto, realmente, non c’è una differenza netta fra essere e non essere, quando si tratta del mio essere. L’essere-triste non è un essere bell’e fatto che io mi do. «Io non sono in grado di assumere l’essere»28. Se mi faccio triste è perché non sono triste: l’essere della tristezza sfugge proprio mediante e nell’atto in cui me l’assumo. Come ha ben visto Husserl, la «coscienza appare originariamente ad altri come un’assenza. È l’oggetto sempre presente come significato di tutti i miei atti e comportamenti – e sempre assente, perché si offre all’intuizione degli altri come una perpetua incertezza, meglio ancora, come una perpetua libertà»29. Quando Pietro mi guarda, so senza dubbio che mi guarda, i suoi occhi – cose del mondo – sono fissati sul mio corpo – cosa del mondo; ecco il fatto oggettivo di cui posso dire: è. Ma è pur sempre un fatto del mondo. Il significato di questo sguardo non c’è, e questo mi disturba; quan- 24 Ivi, p. 99. Ibidem. 26 Ivi, p. 102. 27 Ibidem. 28 Ivi, p. 103. 29 Ibidem. 25 MALAFEDE E AMBIGUITÀ DELL’UOMO 61 tunque faccia sorrisi, promesse, minacce – nulla può strappare l’approvazione, il libero giudizio che desidero, so che è sempre al di là, lo sento nei miei comportamenti stessi che ora non hanno più il carattere produttivo che conservano nei confronti delle cose, che non sono più per me nella proporzione in cui li collego ad altre persone, che delle semplici presentazioni e attendono d’essere qualificate in gradite o sgradite, sincere o insincere ecc, con un’apprensione che è sempre al di là dei miei sforzi di provocarla, che non sarà mai provocata da questi. Così il fatto obbiettivo «dell’essere-in-sé della coscienza d’altri si pone per svanire in negatività e in libertà; la coscienza d’altri è come non fosse: il suo essere in sé “d’ora” e “qui” è di non essere»30. «La coscienza d’altri è ciò che non è»31. D’altra parte la mia propria coscienza è perché si fa, giacché il suo essere è coscienza d’essere. Quindi il fare sostiene l’essere: il che significa che “non è ciò che è ”. La struttura originaria del “non essere ciò che si è” rende anticipatamente impossibile ogni divenire verso l’essere in sé o “essere ciò che si è”: ecco perché anche la sincerità si presenta come un fenomeno di malafede. E questa impossibilità è proprio «il fondo della coscienza, la pena costante che si prova, è l’incapacità stessa a riconoscerci, a organizzarci a essere ciò che siamo, è la necessità che esige che, dopo aver posto noi stessi come un certo essere mediante un giudizio legittimo, fondato sull’esperienza interna, o correttamente dedotto da premesse a priori o empiriche, con questa stessa posizione superiamo noi stessi – e non verso un altro essere: verso il vuoto, verso il niente»32. Se la sincerità ci appare impossibile, allora non possiamo biasimare altri di non essere sinceri, e neppure compiacerci della nostra sincerità. «Infatti quando mi esamino, devo determinare esattamente ciò che sono, per risolvermi a esserlo senza sotterfugi – salvo poi a mettermi in seguito, alla ricerca dei mezzi che potranno cambiarmi»33. Dare un giudizio sul mio carattere, sulla mia natura, non è che un 30 Ibidem. Ivi, p. 104. 32 Ibidem. 33 Ibidem. 31 62 CAPITOLO SECONDO modo per nascondermi, nel medesimo istante che io giudicherò così un passato al quale il presente sfugge per definizione. Lo scopo della sincerità e quello della malafede non sono diversi: nella sincerità si tratta di fare che io mi confessi ciò che sono perché venga a coincidere col mio essere; in una parola fare che io sia nel modo dell’in-sé; nella malafede si tratta di fare che io sia ciò che sono nel modo di “non essere ciò che sono”. «La condizione perché possa tentare uno sforzo di malafede, è che, in certo senso, io non sia quel vigliacco che non voglio essere»; o meglio io debbo insieme essere e non essere vigliacco totalmente e sotto tutti gli aspetti. La malafede esige che io non sia ciò che sono, ma non si limita a rifiutare le qualità che possiedo, a non vedere l’essere che sono. Tenta anche di attribuirmi un essere che non sono. Nella sincerità l’uomo pretende coincidere con il suo essere ed esige che anche gli altri si riconoscano per quello che sono: che l’omosessuale confessi la sua omosessualità, il santo la sua santità, il malvagio la sua malvagità. In altri termini la sincerità esige che l’uomo esista al modo della cosa in sé, mentre egli non è mai ciò che è. Se la malafede è possibile a titolo di semplice progetto ciò deriva dal fatto che non c’è differenza così netta tra essere e non-essere, quando si tratta del mio essere, poiché la realtà umana, a differenza delle cose, non è mai ciò che è. Tuttavia può giocare a esserlo, come la donna al primo appuntamento, il cameriere o l’omosessuale: quest’ultimo non crede di essere omosessuale e considera le sue avventure frutto del caso o della sfortuna. 3. Fede e malafede Esaminata dal punto di vista epistemologico, la malafede riguarda la natura della fede. La malafede è credenza, se «si chiama credenza l’adesione dell’essere al suo oggetto, quando l’oggetto non è dato, o è dato in modo indistinto»34. La coscienza di malafede “decide” di 34 Sartre sa bene che la parola credere è usata indifferentemente in due accezioni diverse: sia per indicare l’incrollabile fermezza della credenza; sia per connotare il suo carattere disarmato e strettamente soggettivo, ed è in quest’ultima accezione che parla di credenza. MALAFEDE E AMBIGUITÀ DELL’UOMO 63 soddisfarsi di una mezza persuasione attraverso il ricorso a un criterio inventato e imperfetto. Come si può credere in malafede ai concetti che vengono forgiati espressamente per persuadere? Se la malafede è fede e se essa implica nel suo primo progetto la propria negazione, allora bisogna presupporre, all’origine, una fede poco convinta di se stessa. Nell’unità di una stessa coscienza non tetica (di) sé, accade che credere sia non credere più, poiché «credere è sapere che si crede e sapere che si crede non è più credere»35. Così la credenza è un essere che si pone in questione nel suo proprio essere, che può realizzarsi soltanto nella sua distruzione, che può manifestarsi a se stesso solo negandosi: è un essere per cui essere è apparire e apparire è negarsi. Allo stesso modo possiamo dire che credere è non credere: «l’essere della coscienza consiste nell’esistere da sé, cioè nel farsi essere e quindi nel superarsi. In questo senso la coscienza è perpetuamente fuga da sé, la credenza diviene non-credenza, l’immediato mediazione, l’assoluto relativo e il relativo assoluto»36. «L’ideale della buona fede (credere ciò che si crede) è, come quello della sincerità (essere ciò che si è), un ideale di essere in-sé. Ogni credenza non è mai abbastanza credenza, non si crede mai a ciò che si crede»37. Credo che l’amico Pietro abbia dell’amicizia per me. Lo credo in buona fede. Lo credo, ma non ne ho l’intuizione accompagnata da evidenza, perché questo tipo di oggetto, per sua natura, non si presta all’intuizione. Lo credo, cioè mi lascio andare a degli impulsi di confidenza, decido di crederci e di tenermi fermo a questa decisione, mi comporto insomma come se ne fossi certo, il tutto nell’unità sintetica di uno stesso atteggiamento38. La credenza è una scienza particolare del senso degli atti di Pietro. Ma «se so che credo, la credenza mi appare come pura determinazione soggettiva, senza correlativo esteriore. È questo che fa della parola “credere” un termine usato indifferentemente per indicare 35 Ivi, p. 112. Ibidem. 37 Ibidem. 38 Ivi, p. 111. 36 64 CAPITOLO SECONDO l’incrollabile fermezza della credenza e il suo carattere disarmato e strettamente soggettivo»39. Ma la natura della coscienza è tale che in essa il mediato e l’immediato sono un solo e medesimo essere. Così la coscienza non tetica (di) credere (che non è sapere, ma che è all’origine di ogni sapere per la sua stessa trasparenza) è distruttrice della credenza. «Ogni credenza non è mai abbastanza credenza, non si crede mai a ciò che si crede. Di conseguenza il progetto primitivo della malafede non è che l’utilizzazione di questa auto-distruzione del fatto di coscienza»40. Credenza impossibile, la malafede è questa accettazione del (fatto di) non credere ciò che crede. Questo piano di fuga rivela alla malafede un’intima disgregazione in seno all’essere, ed essa vuole essere proprio questa disgregazione. «La malafede cerca di sfuggire all’in-sé (riparando) nella disgregazione intima dell’essere. Ma questa disgregazione la nega allo stesso modo, come nega di essere in malafede. La malafede si rinnega come malafede»41. Una volta realizzato questo modo d’essere, è molto difficile uscirne, per il fatto che «la malafede è un tipo di essere nel mondo, come la veglia e il sogno, che tende per se stesso a perpetuarsi, quantunque la sua conformazione sia di tipo metastabile»42. La malafede è fede, la quale implica nel suo primo progetto la propria negazione. Cogliamo alla sua origine questo doppio gioco di rimandi: «la coscienza (di) fede è fede e la fede è coscienza (di) fede. In nessun caso si può dire che la coscienza è coscienza, né che la fede è fede». Ciascun termine rimanda all’altro e passa nell’altro, tuttavia ciascun termine è differente dall’altro. Sartre aveva già individuato che «la fede, il piacere e la gioia non possono esistere prima di essere coscienti, la coscienza è la misura del loro essere; ma non è meno vero che la fede, per il fatto stesso che non può esistere che come turbata, esiste, fin dall’origine come sfuggente a sé, come rompente l’unità di tutti i concetti in cui la si voglia racchiudere»43. 39 Ivi, p. 112. Ibidem. 41 Ivi, p. 113. 42 Ibidem. 43 Ivi, p. 119. 40 MALAFEDE E AMBIGUITÀ DELL’UOMO 65 «Così la coscienza (di) fede e fede sono un solo e medesimo essere, la cui caratteristica è l’immanenza assoluta. Ma quando lo si vuole cogliere, questo essere scivola fra le dita e ci troviamo di fronte a un abbozzo di dualità, a un gioco di riflessi, perché la coscienza è un riflesso»44. Se la malafede è possibile, è perché è una scelta che si crea la propria possibilità. 4. Progetto di malafede: prima alienazione dell’essere umano Qual è la verità della malafede? La malafede, dichiara Sartre è ontologica, o meglio è il nostro progetto originario che costituisce la nostra malafede originaria. È un comportamento immediato, che noi adottiamo di fronte al nostro essere. La malafede ontologica è una fuga dalla libertà o dalla non-coincidenza che noi siamo. Se la malafede è possibile, è perché essa è la minaccia immediata e permanente di ogni progetto dell’essere umano. È evidente che non può essere confusa con la cinica menzogna, né considerata come una sapiente preparazione di concetti ingannatori: il primo atto di malafede è (posto) per fuggire ciò che non si può fuggire, “fuggire ciò che si è”, rivelando in tal modo la tendenza della coscienza a farsi essa stessa altro, in un perpetuo gioco di evasioni, per sottrarsi all’inquietante libertà che genera angoscia. Le analisi di Sartre sulla malafede si incrociano con le sue riflessioni sulla coscienza, in un gioco di rimandi che coinvolgono il nulla, la libertà e il nascere del per sé ed è solo in questa complessa prospettiva che può essere compresa. La malafede, come semplice progetto, è uno dei numerosi ostacoli che incontra la libertà. Ma Sartre aggiunge: c’è malafede perché la coscienza è un essere che ha dei possibili e arriva al mondo attraverso la coscienza che è a se stessa la sua propria possibilità. La malafede quindi rinvia al piano del possibile, colto da Sartre in un’accezione molto particolare; non è un avvenimento del mondo fisico, né una semplice rappresentazione: il possibile nasce con il per-sé nel suo non essere ciò che è: questo «per-sé mancante è il 44 Ivi, p. 120. 66 CAPITOLO SECONDO possibile»45, ovvero un possibile impossibile, proprio come la libertà, sempre sospesa in un progetto di liberazione altrettanto impossibile. La possibilità, caratteristica essenziale e reale della coscienza, è ciò di cui manca il per-sé per essere sé. «Il per-sé, scrive Sartre, si descrive ontologicamente come mancanza d’essere e il possibile appartiene al per-sé come ciò che gli manca»46. Scrive Sartre: «Il nascere del per-sé, come annullamento dell’insé e decompressione d’essere, fa sorgere il possibile come uno degli aspetti di questa decompressione d’essere, cioè come un modo d’essere ciò che si è a distanza da sé»47. La realtà umana è – e insieme non è – le sue possibilità. Il modo d’essere concreto di questa mancanza è la libertà. La realtà umana, in quanto libera, è tormentata dal suo nulla o mancanza d’essere ed è continuamente spinta a fuggire il suo vuoto al fine di divenire qualche cosa. Sartre affronta il tema del possibile in una prospettiva molto diversa dai filosofi del pensiero classico: in effetti si oppone sia alla concezione logica del possibile, elaborata da Leibniz, sia alla tesi di Aristotele che definisce il possibile a partire dall’essere in potenza di una cosa: il per-sé, nel pensiero sartriano, non è mai in potenza, ma sempre in atto. Le sue critiche si muovono anche nei confronti di Leibniz, il quale coglie il possibile come un essere del pensiero che non ha alcuna realtà, poiché precede il mondo reale e la sua conoscenza. «Così definito il possibile è tale solo in rapporto alla conoscenza, poiché non siamo in grado né di affermare, né di negare il possibile considerato»48. Da qui due atteggiamenti di fronte al possibile: o esso è implicato in una serie causale esistente, facendo dell’infinità dei possibili l’oggetto dei pensieri dell’intelletto divino; o esso è posto in rapporto alla nostra ignoranza, come riteneva Spinoza, per cui esso potrebbe svanire, una volta svanita l’ignoranza. In entrambi i contesti il possibile sarebbe solo uno stadio soggettivo nel cammino che 45 Ivi, p. 149. Ivi, p. 678. 47 Ivi, p. 143. 48 Ibidem. 46 MALAFEDE E AMBIGUITÀ DELL’UOMO 67 conduce alla conoscenza perfetta. In altri termini, il possibile perderebbe la sua natura di possibile per riassorbirsi nell’essere soggettivo della rappresentazione e in tal modo finirebbe per distruggere la sua natura di possibile. Per Sartre al contrario «il possibile appare come una proprietà degli esseri»49 ed è proprio lo stato possibile di un certo esistente che sostiene col suo essere la possibilità e il non-essere del suo stato futuro. Sartre non ha dubbi: la possibilità viene al mondo con la realtà umana. E non può, per essenza, coincidere con il puro pensiero di possibilità. Ogni sforzo per stabilire il possibile partendo da una soggettività che sia ciò che è, cioè che si rinchiuda su di sé, è votato per principio al fallimento. Se ammettiamo che il possibile sia un’opzione sull’essere e che esso non possa venire al mondo se non come un essere che sia la propria possibilità, allora la realtà umana deve necessariamente essere il proprio essere sotto forma di opzione sul suo essere. «Il per-sé, in quanto non è sé, è una presenza a sé che manca di una certa presenza a sé, ed è, in quanto manca di quella presenza, che è presenza a sé. “Ogni coscienza manca di… per ”»50. «Il possibile non è, scrive Sartre; il possibile si possibilizza»51: non si può porlo subito, tematicamente, e non lo si può neppure ignorare o relegare nell’inconscio. In questa prospettiva, attraverso la malafede, l’uomo esprime una fondamentale verità: che il per-sé non è l’in-sé, ovvero passiva e univoca cosa; nello stesso tempo rivendica la sua irriducibile peculiarità: di essere una “costante evasione”, un precario trascendimento del proprio essere verso un problematico non-essere. La coscienza si condanna da se stessa alla malafede. È proprio questa fuga da se stessi che Sartre chiama “malafede”. Si tratta di un’esistenza in-autentica che può realizzarsi sia quando il per-sé fugge la contingenza del suo sorgere, identificandosi illusoriamente con un essere fondamento di sé; sia quando fugge la sua libertà fantasticando su di sé come fosse una semi-cosa. Il problema dell’autenticità e dell’inautenticità è ricorrente nel 49 Ivi, pp. 144-145. Ivi, p. 148. 51 Ivi, p. 150. 50 68 CAPITOLO SECONDO pensiero di Sartre, tuttavia, poiché esistono un’infinità di progetti possibili, come un’infinità di uomini possibili, non ritiene sufficiente fermarsi a classificazioni come quella di “progetto autentico” e “progetto in-autentico” così come è stato tematizzato da Heidegger. La vita dell’uomo, per Sartre, non può essere classificata per il fatto stesso che si muove nella costante incertezza tra autenticità ricercata e sempre emergente, e ricaduta nell’inautenticità. Ogni singolo uomo ha la sua storia, il suo modo di viverla e di esserne trasformato: ogni classificazione o concettualizzazione razionale è, per Sartre, solo un’astrazione. Il tentativo di superare o di neutralizzare questa attitudine naturale di malafede non può, d’altra parte, essere offerto dalla buona fede, che coincide con i disegni della malafede. Se l’uomo sarà mai in grado di superare la malafede, rimane un problema non risolto, semmai aperto in direzione di un atto volontario, riflessivo e radicale di conversione all’autenticità, forse irrealizzabile. «Io posso dispormi in malafede nell’apprendere l’angoscia che sono e questa malafede, destinata a riempire il nulla che io sono nel mio rapporto con me stesso, implica precisamente quel nulla che sopprime»52. Si potrebbe dire che noi non possiamo sopprimere la malafede, perché siamo malafede. Il famoso detto «“ho paura di me” è proprio un’angoscia davanti a niente, perché niente permette di prevedere quello che farò, e anche se potessi prevederlo, niente può impedirmi di farlo»53. «Se io sono la mia angoscia per fuggirla, ciò presuppone che io posso decentrarmi in rapporto a ciò che sono, che posso essere l’angoscia in modo da “non-esserla”, che posso disporre di un potere annullatore in seno all’angoscia stessa. Questo potere annullatore annulla l’angoscia in quanto la fuggo, e s’annulla da sé in quanto io la sono per poterla fuggire. È ciò che si chiama malafede»54. La coscienza di malafede, che tenta di mascherare a se stessa la propria libertà è uno degli ostacoli più significativi che la libertà in- 52 Ivi, p. 83. J.-P. SARTRE, Carnets de la drôle de guerre, Paris, Gallimard, 1983; trad. it. Taccuini della strana guerra, Bari, Edizioni Acquaviva, 2002, vol. II, p. 30. 54 ID., L’Essere e il nulla, cit. p. 83. 53 MALAFEDE E AMBIGUITÀ DELL’UOMO 69 contra, non come ostacolo esterno, ma come minaccia immediata e permanente insita in ogni progetto dell’essere umano. Nei Quaderni per una morale, Sartre ribadirà questa tesi: «io posso pensare di sfuggire alla mia libertà solo se sono sul terreno della malafede»55. È nota, a questo proposito la critica di Merleau-Ponty: «Il problema è di sapere se si può dar posto alla libertà e concederle qualcosa senza concederle tutto. L’Essere e il nulla ha posto questo problema che richiede un seguito e che aspetta dall’Autore una teoria della passività»56. Per concludere, un tentativo di comprensione dell’uomo richiede anche una riflessione sulla malafede. Ma perché Sartre si sofferma a indagare queste condotte di malafede? Da dove proviene questa possibilità per l’uomo di mentire a se stesso, di ingannarsi senza volontà o decisione di inganno? Come spiegare l’autodistruzione attuata dalla coscienza? L’analisi della malafede ha indicato a Sartre che la coscienza è negazione in atto, è un’esperienza di non-essere radicale che il soggetto compie nel suo essere e agire concreto, in quanto è libero. Tale libertà si rivela nell’angoscia, o meglio, tale libertà, che si manifesta nell’angoscia, «è caratterizzata da un’esigenza continuamente rinnovata di rifare l’io che costituisce l’essere libero»57. Ma Sartre aggiunge, «nell’angoscia la libertà s’angoscia di fronte a se stessa in quanto non è mai sollecitata, né impedita da niente»58. È tuttavia possibile assumere dei comportamenti di fuga di fronte alla mia angoscia, si cerca rifugio nella credenza del determinismo. «Fuggiamo l’angoscia tentando di coglierci dal di fuori come altro o come una cosa per mascherare l’angoscia che è il vero “dato immediato” della nostra libertà»59. C’è malafede, dichiara Sartre «perché per calmare la mia angoscia e vincere la mia fattità, io mantengo continuamente questa affermazione che io sono un altro e che l’altro non è me»60. La libertà introduce l’imprevedibile. 55 ID., Cahiers pour une morale, Paris, Gallimard, 1990; trad. it. Quaderni per una morale (1947-1948), Roma, Edizioni Associate, 1991, p. 318. 56 M. MERLEAU-PONTY, Senso e non senso, Milano, il Saggiatore, 1967, p. 101. 57 J.-P. SARTRE, L’Essere e il nulla, cit. p. 73. 58 Ivi, p. 74. 59 Ivi, p. 82. 60 J.-P. SARTRE, Quaderni per una morale, cit. p. 251. 70 CAPITOLO SECONDO È proprio questa libertà inquietante che genera nell’uomo l’irresistibile tendenza a fuggire da se stessi in un perpetuo gioco di evasioni per essere ciò che non si è: questo è il rischio permanente di malafede. Non c’è nessun inconscio che possa giustificarla o determinarla poiché in tal modo verrebbero meno la libertà e la responsabilità dell’uomo. Per Sartre l’uomo è sempre responsabile anche quando mente a se stesso. Non c’è nessun doppio fondo freudiano nella coscienza, poiché essa è coscienza da parte a parte, a volte oscura, distruttrice di se stessa, ma sempre rivelatrice di un vissuto ambiguo e inquietante. Ambiguità della malafede che sottende la radicale ambiguità di ogni uomo e del suo progetto di liberazione: libertà difficile proprio in quanto trae origine dal proprio scacco. INDICE GENERALE Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. I. Collera, paura, tristezza, gioia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 11 1. I primi studi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. La psicologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Gli psicologi della forma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. La teoria dell’emozione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.1. Coscienza irriflessa e riflessiva . . . . . . . . . . . . 5. Tra mondo reale e mondo magico . . . . . . . . . . . . . . 5.1. Le condotte magiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6. Emozione tra passività e libertà . . . . . . . . . . . . . . . . » » » » » » » » II. Malafede e ambiguità dell’uomo . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 17 22 25 29 31 35 40 44 » 51 1. Malafede tra coscienza e inconscio . . . . . . . . . . . . . » 54 2. Progetto di malafede: essere-per-non-essere . . . . . . » 59 3. Fede e malafede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 62 4. Progetto di malafede: prima alienazione dell’essere umano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65 III. La vergogna e lo sguardo dell’altro . . . . . . . . . . . . . . . » 71 1. Visages, la visibilità di un volto . . . . . . . . . . . . . . . . » 73 2. Il gioco degli sguardi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 75 3. Vergogna e orgoglio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 78 4. Sguardi infernali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 89 134 INDICE GENERALE IV. Amore Odio Indifferenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 91 1. Il corpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 93 2. L’amore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 101 3. Il desiderio carnale: masochismo, sadismo, indifferenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 105 4. Odio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 115 APPENDICE: L’uomo, attore della propria vita . . . . . . . . . . . » 119 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 129