Sono stata all`inferno

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Sono stata all`inferno
ANDREA C. HOFFMANN
PATIENCE I.
Sono stata all’ inferno
In fuga da Boko Haram assieme a mia figlia
Traduzione di Rachele Salerno
Prologo
Sul pavimento del nostro negozio giace il corpo senza vita
di mio marito. Nell’aria aleggia l’odore metallico del sangue. Lo riconosco perché l’ho sentito in occasione di qualche festa, quando i nostri vicini di casa hanno macellato una
vacca.
Sono venuti sulle moto, gli hanno sparato e un attimo
dopo sono scomparsi. Osservo il sangue zampillare dalla
sua ferita e la macchia allargarsi sul terreno, ma non riesco
a capacitarmi che sia successo davvero. I miliziani islamisti
di Boko Haram hanno assassinato mio marito. Lo hanno
giustiziato solo perché era cristiano.
Non sapevo ancora che la sua morte rapida è stata per
lui una vera fortuna. All’epoca, mentre piangevo la perdita
di mio marito nella nostra capanna, non avrei mai immaginato che presto mi sarei ritrovata a invidiare la sua fine
così veloce. Ignoravo che il dolore che provavo per la sua
scomparsa era solo l’inizio del mio calvario.
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Viaggio verso l’ignoto
Andrea
Non ho rivelato i miei piani quasi a nessuno. Ma ora che il
mio progetto sta diventando sempre più concreto è arrivato
il momento di parlare chiaro, almeno con la mia agenzia di
viaggi.
«Voglio andare a Maiduguri» dico nel tono più neutro
possibile.
«Dove?»
Forse la linea telefonica è un po’ disturbata, quindi ripeto
scandendo bene: «Maiduguri, in Nigeria».
«Stai scherzando, vero?»
Sabine, la proprietaria di una piccola agenzia di viaggi di
Monaco, prenota i miei biglietti aerei da anni e sa bene che
da me può aspettarsi qualsiasi meta. In quanto giornalista
specializzata in terrorismo islamico e violazioni dei diritti
delle donne, viaggio spesso in zone di guerra, o comunque
in aree del pianeta che nessuno sceglierebbe per una vacanza. Sabine ha organizzato tutti i miei viaggi in Afghanistan,
Iraq e in molti Paesi dell’Africa senza mai battere ciglio. Fino a oggi.
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«Ma l’aeroporto di Maiduguri è stato bombardato» mi
comunica. «A quanto ne so, i voli sono stati sospesi.»
«Oh.» Non ne avevo idea.
«Posso arrivarci in autobus?»
«Sei pazza? Da Abuja sono quasi mille chilometri, e
poi…»
«Sì, hai ragione» la interrompo. Non c’è bisogno che
completi la frase. Sarebbe troppo pericoloso spostarsi in
macchina in Nigeria. L’arteria principale che collega le più
grandi città dello Stato del Borno, nel Nord della Nigeria,
è uno dei teatri d’azione di Boko Haram. La strada corre
parallela alla ormai tristemente nota foresta di Sambisa, dove sono tenute prigioniere le studentesse di Chibok, il cui
rapimento, nella primavera del 2014, ha attirato sul gruppo
jihadista l’attenzione del mondo intero. Michelle Obama ha
sostenuto attivamente il movimento Bring Back Our Girls
per chiedere il rilascio delle ragazze rapite.
Devo quindi rinunciare ai miei piani?
«Fammi controllare» dice Sabine. La sento battere sulla
tastiera. «Mmm, forse sei fortunata. Da poco una compagnia nigeriana, la Medview, ha ripreso a volare su Maiduguri, anche se il servizio è piuttosto irregolare. E se dovessero
esserci problemi di sicurezza è possibile che il volo venga
cancellato o spostato con poco preavviso.»
«Ok, fantastico! Puoi prenotarlo da qui?»
«Ci provo.» La sento di nuovo battere sui tasti. «Sembra
che si possa fare» dice Sabine. «Vuoi che proceda con l’acquisto o preferisci che lo prenoti soltanto?»
«Compralo» rispondo decisa. Ormai sono convinta: è
da più di un anno che rifletto su questo viaggio, da quando
Boko Haram ha iniziato a imperversare nel Nord del Pae9
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se, e ancor di più dal rapimento delle studentesse di Chibok. Voglio andare laggiù e intervistare le donne vittime del
gruppo terroristico. In quanto donna bianca occidentale so
di correre un rischio enorme. Nel frattempo, però, sono riuscita a trovare una compagna di viaggio che sa come muoversi in Nigeria: Renate Ellmenreich. Renate è una pastora
protestante. Ora è in pensione, ma ha operato per anni in
Nigeria come missionaria e ha ancora una fitta rete di conoscenze sul posto.
«Sono sicura» confermo a Sabine. «Mi servono due
biglietti.»
Il mio primo incontro con Renate, alla stazione centrale di
Berlino, risale a un mese fa. Fino a quel momento ci eravamo
parlate soltanto al telefono, ma l’ho riconosciuta immediatamente. Indossa una giacca di tweed e degli enormi occhiali da sole con la montatura lilla. La donna, sessantacinque
anni, mi viene incontro a passo deciso, il caschetto fresco di
parrucchiere che si muove al ritmo della sua marcia.
«Sono Renate» si presenta con la voce tonante di chi è
abituato a parlare in pubblico. Ci accomodiamo in un bar e
inizia a raccontarmi della sua vita in Nigeria. Tra la fine dei
Novanta e i primi anni del nuovo secolo fu mandata lì con
suo marito da Basilea. Renate era responsabile della sede di
Gavva, una cittadina ai piedi dei Monti Mandara, settanta
chilometri a sudovest di Maiduguri. A Gunnar, suo marito,
fu affidato lo stesso incarico a Mubi, qualche chilometro più
a sud.
Renate abbozza su un tovagliolino una carta geografica della zona: «Qui c’è Gavva» spiega, facendo un segno
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nell’angolo in alto a sinistra del rettangolo di carta. «E questa è la foresta di Sambisa, in linea d’aria sono meno di venti chilometri.» La vicinanza dei due punti segnati su quella
mappa improvvisata mi spaventa. La patria africana di Renate è nel cuore dell’area in cui gli islamisti spadroneggiano,
terrorizzando la popolazione.
«Non avremmo mai potuto prevedere una cosa simile»
dice Renate, che come missionaria si era impegnata per la
diffusione della fede cristiana. «Anche all’epoca c’era qualche tensione tra cristiani e musulmani, ma non avremmo
mai potuto immaginare un simile dilagare del terrorismo.»
Un rumoroso gruppo di tifosi del Bayern Monaco ci passa accanto vociando e sventolando bandiere biancorosse,
e ci costringe a interrompere momentaneamente la nostra
conversazione. «Il calcio è innocuo» commenta. «Ma attenzione a mettere armi in mano a giovani uomini insoddisfatti. In Nigeria ci sono fin troppi uomini armati, e a farne le
spese sono sempre le donne.»
Renate ha perso suo marito in Nigeria. È morto nel 2004,
stroncato da una febbre causata da un virus tropicale. In
seguito, Renate ha fondato un’organizzazione umanitaria
per le vedove, che al momento si occupa in particolare delle
vittime di Boko Haram. «Dovrei tornare a Maiduguri per
capire di cosa hanno veramente bisogno quelle donne» mi
spiega con aria preoccupata.
«Potremmo viaggiare insieme» propongo. Il fatto che
Renate abbia dei contatti e punti di riferimento concreti sul
posto renderebbe il viaggio più fattibile anche per me. «Possiamo fidarci dei tuoi contatti?»
«Al cento per cento» risponde senza esitare. «Ma prima
devi sapere una cosa. Le chiese e gli ecclesiastici in generale
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sono in cima alla lista degli obiettivi dei terroristi. Subito
dopo ci sono i giornalisti occidentali.»
Sebbene ne fossi già pienamente consapevole, le parole di Renate mi hanno colpito e riecheggiano a lungo nella
mia mente dopo il nostro incontro. Ma non mi scoraggio.
Ormai abbiamo i nostri biglietti aerei e i visti sono pronti.
Renate mi ha fatto un accurato elenco di tutto quello che
devo mettere in valigia: noci, frutta secca, barrette di cereali,
pastiglie multivitaminiche, albume d’uovo, compresse per
purificare l’acqua, crema antizanzare, pillole per il mal di
stomaco, lenzuola, asciugamani, spray disinfettante, un kit
di pronto soccorso, antibiotici, una zanzariera e, soprattutto, il caffè solubile.
Nel nordest della Nigeria il problema dei rifornimenti
è drammatico. Dal 2014 Boko Haram controlla gran parte
del territorio, impedendo ai contadini di coltivare i propri
terreni e causando la perdita dei raccolti. Anche le derrate
alimentari provenienti dal più ricco Sud riescono solo raramente a raggiungere l’area settentrionale del Paese, in parte perché il gruppo terroristico assalta i convogli e in parte
perché a Maiduguri, la metropoli di lamiere, la popolazione
versa in un tale stato di indigenza che non è in grado nemmeno di acquistare il cibo. La città pullula di rifugiati che
sopravvivono grazie all’elemosina del governo.
È il novembre 2015 quando Renate e io ci incontriamo
all’aeroporto di Francoforte. Io sono partita da Berlino e come al solito ho calcolato male i tempi per lo scalo: sono in
ritardo. Arrivo senza fiato alle partenze e mi guardo intorno
in cerca di Renate. La vedo avanzare lentamente verso di
me, appoggiandosi a un paio di stampelle. Il giorno prima
si è procurata una distorsione alla caviglia. «Il gonfiore è già
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diminuito» mi assicura, agitando in aria gioiosamente il suo
sostegno, come per convincermi. «A dire il vero le stampelle
non mi servirebbero nemmeno, ma sono certa che in Nigeria ci sarà qualcuno che ne avrà più bisogno di me.»
Sorrido. Non ho dubbi: non potevo trovare una compagna di viaggio migliore.
In sole sei ore di volo il nostro aereo Lufthansa ci porta
ad Abuja, sede del governo e una delle più popolose città
della Nigeria. Atterriamo alle quattro del pomeriggio. Incredibile pensare che il Terzo mondo sia così vicino, a soltanto un fuso orario dalla Germania.
Quando esco dall’aeromobile vengo assalita da un’ondata di caldo tropicale e umidità. Nella sala per il ritiro dei
bagagli si affannano diversi zelanti facchini che si offrono,
facendo un gran baccano per attirare l’attenzione dei viaggiatori appena sbarcati, di recuperare le nostre cose per
qualche centesimo. Il problema è che una delle valigie di
Renate non è arrivata. Manca proprio quella più grande, riempita all’inverosimile di tutto ciò di cui ha bisogno per avviare il laboratorio per le donne di Maiduguri: gli ingredienti per la produzione del sapone e le teglie per i muffin, tutte
cose che dovrebbero permettere alle donne di guadagnare
qualche soldo. Renate è disperata. «Senza la mia valigia non
posso andare da nessuna parte» dichiara.
Ci mettiamo a compilare una serie di complicati questionari per denunciarne lo smarrimento. Una giovane donna
con una parrucca di capelli lisci si offre di aiutarci. «Forse
la sua valigia arriverà domani, signora» dice, con aria poco
convinta. «Se volete, posso tenere io il vostro reclamo e occuparmi del recupero qui in aeroporto. Mi scriva soltanto il
suo numero di telefono.»
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«Il mio numero?» Renate riflette per un momento.
«D’accordo, certo.» Scrive il cellulare della sua amica tedesca Annegret, che vive in una fattoria non lontano da Abuja.
È lei che ci aspetta agli arrivi ed è da lei che trascorreremo
la notte.
Poco dopo, siamo sedute nella malconcia Fiat di Annegret. Inizia a calare la sera e ben presto si fa buio. La strada che porta alla fattoria è molto trafficata e attraversa una
serie di piccoli insediamenti, dove sorgono bancarelle che
vendono piatti caldi e ogni genere di cianfrusaglie. Compriamo una scheda sim per il cellulare di Renate, poi svoltiamo in una stradina di ghiaia. I centri abitati scompaiono:
ai due lati della strada si estende soltanto una vasta foresta,
utilizzata dai nomadi Fulani come terreno di pascolo.
In Nigeria c’è una miriade di gruppi etnici, che parlano 514 lingue diverse. I Fulani e gli Hausa, che occupano la
parte settentrionale del Paese e rappresentano circa un terzo
della popolazione, sono i gruppi più numerosi e politicamente influenti. Sono di fede islamica. Nell’area meridionale sono insediati invece i due gruppi cristiani degli Yoruba
e degli Igbo, ognuno dei quali costituisce circa il venti per
cento della popolazione complessiva. In Nigeria vivono 180
milioni di persone: circa la metà sono musulmani, il quarantacinque per cento cristiani, mentre il resto pratica culti
tradizionali. In molte zone l’animismo, ancora parecchio
diffuso nel Paese, si combina con elementi derivanti da altre
religioni.
Raggiungiamo un boschetto di palme, superato il quale il
terreno si fa ancora più sconnesso. Annegret evita le buche
con rapide sterzate esperte. Quando finalmente, nella piena
oscurità, ferma l’auto, spalanco la portiera ed esco all’aper14
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to. L’aria è calda e dolce. C’è silenzio. Si sente solo il leggero
fruscio delle palme.
«Benvenute a Hope Eden» annuncia la padrona di casa.
Annegret ci accompagna in una delle capanne che lei e
suo marito Shiekar affittano agli ospiti. È costruita con mattoni rossi fabbricati da loro. Non c’è acqua corrente, ma la
fattoria dispone di una grossa cisterna dalla quale si può attingere l’acqua anche per lo scarico. Una cellula fotovoltaica
sul tetto produce l’energia elettrica necessaria.
Consumiamo la cena nell’edificio principale. La tavolata
è rallegrata dalla presenza di molti bambini. Sono tutti parenti di Shiekar che la coppia ha preso con sé per poter garantire loro un’istruzione, dal momento che i genitori non
potevano permetterselo. Mangiamo tapioca e fagioli coltivati nella fattoria. Annegret chiede a Renate della valigia.
«E avete lasciato la ricevuta a una sconosciuta?» domanda
incredula. «E come farà a chiamarvi? Qui non c’è linea.»
«Oh… E internet?» Se non riceveremo la valigia in tempo, dovrò scrivere un’email a Sabine per chiederle di spostare il nostro volo. Immagino sia più facile farlo dalla Germania che cercare l’ufficio competente qui sul posto.
Annegret scoppia a ridere. «No, niente internet. Dovete andare ad Abuja per avere una connessione, dalla parte
opposta dell’aeroporto rispetto alla fattoria. Ci vuole circa
un’ora per arrivare in centro.»
Renate scrolla le spalle. «Tenteremo la fortuna in
aeroporto.»
Il giorno dopo veniamo svegliate all’alba dai tipici suoni della giungla: ronzii, fischi e cinguettii di ogni tipo. Annegret,
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già intenta a occuparsi dei bambini, ci accoglie con il caffè
appena fatto. Ha un odore fantastico. «Goditelo» mi consiglia Renate. «A Maiduguri non troveremo nulla di simile.»
Partiamo subito dopo colazione. Qui non esiste il trasporto pubblico, e per non disturbare la nostra ospite, affittiamo una macchina con autista nel villaggio più vicino.
«Se dovesse andare male, tornate da me» ci dice Annegret,
salutandoci.
Durante il viaggio Renate prova più volte a contattare
la donna dell’aeroporto, usando il cellulare con la scheda
sim acquistata la sera prima. Nessuna risposta. «Forse non
si è ancora alzata» suggerisco, dopo il quinto vano tentativo.
«Oppure…»
«Oppure ci siamo fatte fregare» conclude Renate cupa.
«Siamo state ingenue. Con quel modulo può ritirare la nostra valigia in modo perfettamente legale. E invece noi non
abbiamo niente in mano. Perché non l’abbiamo chiamata
ieri per controllare che il numero fosse corretto?»
Non so cosa dire. «Forse la troveremo là» provo a dire
per tranquillizzare entrambe.
Quando arriviamo l’aeroporto sembra deserto: di mattina non parte alcun volo, pertanto i terminal internazionali
sono tutti chiusi. E ovviamente non c’è nessuno a cui poter
chiedere notizie della nostra valigia.
Non sappiamo cosa fare. Sfinita, Renate si lascia cadere
su una panchina e sorveglia i nostri bagagli, mentre io provo
a cambiare i biglietti al terminal dei voli nazionali. Lo sportello della Medview è piuttosto affollato. Mi faccio coraggio e mi lancio nella mischia, lottando per avanzare. Vengo
raggiunta da ondate di sudore, miste al pungente odore di
profumo scadente e deodorante.
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«I biglietti!» ordina il tizio della compagnia aerea, quando finalmente riesco a emergere dalla massa di clienti e
attirare la sua attenzione. Per fortuna la lingua ufficiale in
Nigeria è l’inglese, così possiamo comunicare senza troppe
difficoltà.
«Abbiamo i biglietti elettronici» dico, mostrandogli il
cellulare, dove è salvata la ricevuta. Aggrotta la fronte. È
chiaro che avrebbe preferito vedere un pezzo di carta, ma io
non ce l’ho. Passa il mio cellulare al collega dello sportello
accanto. I due si scambiano qualche parola con aria scettica.
«Dove ha fatto la prenotazione?» mi chiede il primo.
«In Germania.»
«Ha già pagato?»
«Sì, certo.»
«Il nostro sistema non riconosce il codice di prenotazione.»
Fantastico, penso tra me e me. E questo cosa vorrebbe
dire? Intende che i biglietti che ho comprato in Germania
non sono validi? «Non può essere» protesto. «Per favore,
controlli di nuovo.»
Il mio cellulare viene passato di mano in mano in tutto l’aeroporto, con me che lo seguo a ruota. Almeno una
dozzina di persone contempla il documento straniero. Passa un sacco di tempo prima di trovare qualcuno in grado
di convertire il codice di prenotazione internazionale in
uno locale, ovviamente dietro lauto compenso. Pago senza
discutere.
Nel frattempo si sono fatte quasi le dieci e mezza. C’è
ancora tempo per spostare il volo a un altro giorno? Sto per
arrischiarmi a chiederlo, quando vedo Renate avanzare verso di me, zoppicante sulle sue stampelle. È raggiante. «È ar17
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rivata la donna del servizio bagagli!» grida. «Hanno trovato
la valigia!»
«Allora non devo cambiare la prenotazione?»
«No, tutto a posto!»
Indica il ragazzo che l’accompagna allo sportello spingendo un carrello carico dei nostri bagagli. Scarica frettolosamente le nostre valigie sulla bilancia e naturalmente ci
chiede di essere pagato. Inoltre ci viene fatta una multa piuttosto salata anche per il bagaglio in eccesso.
Non sono passate nemmeno ventiquattro ore dal nostro
arrivo, ma ho già capito che la Nigeria si merita la fama di
essere uno dei Paesi più corrotti al mondo. Ci sono numerosi problemi e molte persone che provano a offrire soluzioni, naturalmente dietro lauta ricompensa. Tutto ha un
costo: è così che funziona.
Nonostante tutto, però, con le nostre carte di imbarco
per Maiduguri finalmente tra le mani, possiamo tirare un
sospiro di sollievo.
Poco dopo sediamo nell’aereo della Medview. Non mi è
chiaro perché la compagnia abbia scelto un nome che significa «vista sul Mediterraneo». Dal finestrino vedo i grattacieli e le moschee di Abuja, con le cupole che scintillano
in lontananza. Tutto intorno, i sobborghi di case basse che
circondano la metropoli e si estendono fino alla giungla. Più
ci si allontana dal centro, più le abitazioni sembrano umili.
Le povere capanne di chi si è trasferito in città dalle campagne circostanti costituiscono l’anello più esterno.
Una volta superate le capanne, i centri abitati si fanno
sempre più rari. Nei dintorni di Abuja il terreno è ancora
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fertile e si intravedono diversi campi coltivati a mais e tapioca. Più avanziamo verso nord, tuttavia, più la vegetazione si
dirada. Ben presto non si vede che qualche albero spuntare
isolato nel paesaggio arido dove i nomadi Fulani portano al
pascolo le loro mandrie di magri bovini. Il terreno è secco
nonostante la stagione umida con le sue scarse piogge sia
appena terminata. Il paesaggio mi stupisce per la sua tonalità uniforme.
Poi, di colpo, tutto si annebbia. Sembra che qualcuno abbia steso un velo. Inizialmente penso siano nuvole, ma poi
mi accorgo che non scompaiono nemmeno quando l’aereo
si abbassa di quota.
«Che peccato, è già iniziato l’Harmattan» commenta
Renate.
«Il cosa?»
«È un vento del deserto.»
Guardo di nuovo fuori dal finestrino. Dove i miei occhi
europei non vedevano altro che nebbia, c’è in realtà una miriade di minuscole particelle di polvere. Sono così fitte che
nemmeno il sole africano riesce ad attraversarle. «E quanto
dura?»
«Circa un mese. È un fenomeno che interessa tutta l’Africa. Nella stagione secca, il vento solleva la sabbia dal Sahara
e si trasforma in questa specie di nebbia che ricopre ampie
aree del continente. Ha anche i suoi lati positivi, però: è un
ottimo concime.»
L’aereo inizia a vibrare sempre più forte mentre ci avviciniamo al terreno. A lato della pista, un gregge di capre si
dà alla fuga. La pista d’asfalto presenta molte buche, ma il
pilota riesce comunque a far atterrare l’aeromobile con successo. Renate e io ci scambiamo un’occhiata.
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«Ci siamo» dice, raggiante.
Scendiamo dall’aereo, Renate zoppicante s’aiuta con le
stampelle, e ci guardiamo attorno incuriosite. L’edificio
dell’aeroporto è davanti a noi: una struttura in parte annerita dal fuoco, crivellata da fori di proiettile e con i vetri
di qualche finestra infranti. Sono le tracce del passaggio di
Boko Haram: nel dicembre 2013, infatti, il gruppo jihadista ha tentato di conquistare la città. Rimango stupita dalla
furia distruttrice testimoniata dai danni causati all’edificio.
L’aeroporto non è più accessibile e pertanto recuperiamo i
nostri bagagli in un container che è stato allestito accanto al
vecchio edificio principale.
Mentre avanzo a fatica nella calura di mezzogiorno attraverso la pista di atterraggio, mi rendo conto che io e Renate
siamo le uniche passeggere bianche a essersi spinte fin qui.
Per questo siamo le uniche a cui viene chiesto di fermarsi in
una tenda a pochi passi dal container. Due ufficiali dell’esercito nigeriano vogliono controllare i nostri documenti. Con
un’espressione seria, i militari ci chiedono chi siamo e qual
è lo scopo della nostra visita in Nigeria. Renate accenna alla
sua attività umanitaria nella Chiesa dei Fratelli in Nigeria,
fondata dai missionari nel 1923 e che adesso conta 350.000
membri. L’ufficiale più giovane non sembra molto impressionato, ma gli occhi di quello più anziano s’illuminano.
Siamo le benvenute, ci assicura.
Nel Nord a maggioranza musulmana, i cristiani rappresentano soltanto il quindici per cento della popolazione. La
maggior parte di loro ha abbandonato le credenze tradizionali soltanto da qualche generazione. Appartengono tutti a
gruppi etnici minori, che furono scacciati dai più influenti
Kanuri. I Kanuri, il cui regno iniziò nel IX secolo, domi20
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narono il bacino del lago Ciad e la regione settentrionale
dell’attuale Nigeria per quasi un millennio. I devoti emiri,
che dopo l’islamizzazione dell’XI secolo introdussero nel
loro regno preghiere e letture pubbliche del Corano, praticarono un intenso commercio trans-sahariano, utilizzando
come principale merce di scambio uomini appartenenti a
etnie o fedi religiose diverse. Dall’alto della loro presunta
superiorità, i Kanuri li vendevano come schiavi a etnie più
ricche o nel Vicino Oriente. In questo contesto, non fu difficile per i missionari cristiani convincere le popolazioni
vessate ad abbracciare una fede diversa da quella dei loro
persecutori e oppressori. Tuttavia, molti elementi delle credenze tradizionali si sono conservati.
«È sicuramente cristiano» mi sussurra Renate in tedesco,
mentre i nostri nomi vengono annotati a penna su un grosso registro.
Usciamo all’aria aperta. Al di là di una rete metallica ci
aspettano le amiche di Renate e il loro accompagnatore: due
donne con abiti variopinti e un giovane uomo con la camicia bianca e pantaloni di cotone ben stirati. Sono venuti a
prenderci scortati dalla polizia.
La più giovane delle due donne, una trentenne piccolina e rotonda, inizia a chiamare Renate e a sbracciarsi già
da lontano. Scoppia a piangere non appena si accorge delle
stampelle. «Mami! What happened to you? Cosa ti è successo?» grida Rebecca a pieni polmoni.
«Niente di grave, riesco a camminare anche senza stampelle» prova a rassicurarla la pastora. Ma Rebecca, la più
stretta collaboratrice di Renate a Maiduguri, sembra inconsolabile. Dà libero sfogo alle sue emozioni. Mentre carichiamo i nostri bagagli sul furgoncino, continua a singhiozzare
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rumorosamente. Si calma soltanto quando Renate mette via
le stampelle e fa un paio di giri del parcheggio per dimostrare che sta bene. «Le ho portate solo perché pensavo che qui
potessero essere utili» spiega a Rebecca con un sorriso. Sulle
prime Rebecca storce la bocca, poco convinta. Poi sorride a
sua volta.
Prendiamo posto nei sedili posteriori, un’ulteriore misura di sicurezza: i finestrini di dietro sono oscurati, così nessuno potrà vederci dalla strada. Della nostra permanenza a
Maiduguri devono essere informate meno persone possibili. Guardo curiosa fuori, mentre attraversiamo una specie di
arco di cemento ed entriamo in città. welcome to maiduguri, recita un cartello sopra le nostre teste. Solo a una seconda occhiata mi accorgo che è crivellato dai proiettili. Gli
scontri tra l’esercito e Boko Haram, che continuano ancora
oggi, lasciano ovunque le loro tracce.
Per strada c’è poca gente. È sorprendente per una città la
cui popolazione, un tempo inferiore al milione, si è triplicata negli ultimi anni a causa dell’afflusso di profughi. Non
vedo venditori ambulanti e c’è poco traffico, ma scorgo numerosi posti di blocco dell’esercito. Barricati dietro sacchi
di sabbia, i militari osservano attentamente la strada.
Di tanto in tanto fermano una macchina, chiedono i
documenti al conducente e controllano la carrozzeria con
i rilevatori di materiale esplosivo. È un tentativo di limitare gli attentati suicidi. Tuttavia, troppo spesso le misure di
sicurezza non bastano. Qui, sull’ampio viale costruito dagli
inglesi, qualche mese fa gli islamisti si sono aperti la strada
in città a forza di bombe.
A parte questo ampio viale c’è molto poco che ricordi
la dominazione inglese che, all’inizio del XX secolo, aveva
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interessato anche quest’area dopo la vittoria sul califfato di
Sokoto, l’impero che nel XIX secolo aveva islamizzato buona parte del Nord. Ufficialmente, nel 1914 gli inglesi unificarono il protettorato della Nigeria del Nord e di quella del
Sud in un’unica colonia: la Nigeria. Ciononostante, fino al
1946 il Nord e il Sud furono de facto amministrati separatamente. Fu solo negli ultimi anni prima della loro ritirata definitiva, avvenuta nel 1960, che l’amministrazione centrale
iniziò a intervenire con più efficacia nel Nord.
«Boko Haram non è riuscito a tenere Maiduguri a lungo» ci rassicura il ragazzo seduto accanto all’autista con una
radiolina tra le mani. Daniel si sente responsabile per la nostra sicurezza. È un funzionario statale nigeriano che si occupa dei rifugiati provenienti dai villaggi cristiani.
Lasciamo il viale, svoltando in una polverosa strada secondaria. Le abitazioni della classe media sono barricate
dietro alte mura. Un muro è in corso di costruzione anche
intorno a una scuola dove un gruppo di bambini sta giocando a calcio: un tentativo dei genitori di proteggere i loro
figli da potenziali attacchi. Scuole e chiese sono tra i bersagli
preferiti di Boko Haram.
Poco dopo passiamo accanto a una scuola dove però nessuno sembra avere paura. Sotto un albero siedono alcuni
ragazzi con copricapi da preghiera bianchi e vecchie tavole
per la scrittura. Sono studenti della scuola coranica, impegnati a trascrivere e imparare a memoria le sure. Accanto un
maestro in tunica bianca osserva i loro progressi brandendo
un bastone, pronto a passare alle maniere forti in caso di negligenza. I ragazzi sono a piedi nudi, indossano abiti sporchi
e laceri. Molti di loro vengono dalla campagna, da ambienti
estremamente poveri. Sono le famiglie a mandarli nelle ma23
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drase. Le scuole, tuttavia, non offrono alcun sostentamento:
gli studenti devono guadagnarsi da vivere chiedendo l’elemosina. Alcuni di loro sono fermi sul lato della strada e
bloccano i passanti agitando le piccole ciotole di alluminio.
A una prima occhiata sono innocui come ogni altro bambino. Ma è proprio in questo ambiente di Maiduguri che
qualche anno fa si è formato e radicalizzato il movimento
di Boko Haram, che continua qui a godere di grande sostegno. Alcuni di questi giovani con gli abiti laceri, indottrinati dai loro insegnanti o da altri estremisti, si sono già fatti
esplodere nel mercato, uccidendo se stessi e tutti coloro che
li circondavano. La loro povertà li trasforma in docili strumenti nelle mani degli islamisti. I bambini con la ciotola per
le elemosine fissano incuriositi il retro del nostro furgone,
mentre noi continuiamo ad avanzare. Devo ammettere che
sono contenta che i nostri vetri siano oscurati. È importante
che soprattutto qui nessuno sappia del nostro arrivo.
Superiamo una zona residenziale per ufficiali di polizia e attraversiamo un campo di miglio in piena città, dove
sono accumulate montagne di spazzatura. Nella stagione
delle piogge tutta questa zona è completamente sommersa
dall’acqua. Si è conclusa da un paio di settimane, e forse è
per questo che nessuno vi si è ancora trasferito.
Alle spalle del campo inizia la cosiddetta «Gerusalemme», il quartiere cristiano. È un’area povera e in rovina.
Superiamo uno spiazzo polveroso dove diverse famiglie
sono accampate a cielo aperto, protette da un muro imponente. Ci fermiamo prima dello sbarramento. Daniel scambia qualche parola con le guardie, che ci lanciano occhiate
indagatrici. Un uomo controlla la nostra macchina con un
rivelatore di esplosivo, ma per fortuna va tutto bene. Solle24
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va la sbarra per lasciarci passare. Raggiungiamo una piazza
completamente circondata da un muro e al cui centro troneggia un edificio candido con un alto campanile sul lato:
la Chiesa dei Fratelli, la più grande di Maiduguri. Saremo
ospitate in casa del pastore e della sua famiglia. L’edificio
a un solo piano, davanti al quale razzolano polli e tacchini, si trova negli immediati pressi della chiesa. Rebecca ha
sistemato per noi una stanza: l’ha fatta ridipingere e si è
procurata un secondo materasso. Ci dormirò io e lascerò il
letto a Renate. Nel bagno adiacente ci sono un secchio con
un mestolo per lavarsi. Se abbiamo bisogno di acqua calda,
ci spiega la moglie del pastore, non dobbiamo fare altro che
chiedere in cucina.
«Pensate che vi troverete bene qui?» s’informa Rebecca.
«Ma certo» rispondiamo entrambe. All’interno delle
mura della chiesa siamo ventiquattro ore su ventiquattro
sotto il controllo delle guardie e secondo i nostri ospiti dovremmo essere al sicuro da rapimenti. Per questo hanno deciso di ospitarci qui. Siamo felici di essere arrivate. Sfinite,
ci lasciamo cadere sui materassi. Per il momento evitiamo
di pensare che siamo praticamente nell’occhio del ciclone.
La mattina dopo ci svegliamo presto. Subito dopo l’alba
il cortile antistante la chiesa si popola: gli uomini che scaricano le merci si affaccendano a destra e a manca, mentre in
cucina le donne armeggiano con grossi pentoloni di metallo. «Oggi è la festa del raccolto» mi spiega Renate, mentre sistemiamo la nostra stanza. «Si festeggia la fine della stagione
delle piogge.»
Qualcuno bussa alla porta. È Rebecca, che entra un attimo dopo, senza aspettare la risposta. Si è messa in ghingheri, indossa un abito di un arancione brillante. «Buongiorno!
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Viaggio verso l’ignoto
Avete dormito bene?» ci saluta, appoggiando un thermos di
plastica rosa sulla scrivania. «Ecco la colazione» dice aprendo il contenitore, straripante di un fumante liquido bianco
che emana un odore al tempo stesso dolce e acido.
«Oh, grazie!» esclama Renate. «Si chiama kunno, è la colazione tipica del posto» mi spiega. «Lo devi assaggiare.»
«Con cosa è fatto?»
«È una sorta di müsli caldo con burro di arachidi, zucchero e miglio.»
«Mmm.» Devo costringermi a non storcere la bocca
mentre Rebecca mi avvicina il contenitore al naso, fissandomi con aria speranzosa.
Titubante, ne prendo una cucchiaiata. «È buono!»
mento.
«Ti dà forza.»
«Mmm» mugolo, pensando che non ce la farò mai a
mangiarlo tutto.
Renate mi legge nel pensiero. «Mangiane almeno un paio di cucchiaiate» mi esorta. «Rebecca si è svegliata apposta
per prepararcelo.»
Annuisco. Con coraggio mi accingo a consumare la mia
dose di kunno. La mia accompagnatrice, abituata ai sapori
africani, sembra apprezzare la colazione. «Mmm» esclama,
in un tono ben più sincero rispetto al mio di poco fa: pare
proprio che le piaccia davvero quella brodaglia.
A quel punto ci vestiamo. Io indosso un paio di jeans e
una maglietta e mi attiro lo sguardo di disapprovazione di
Rebecca: «Vuoi andare in chiesa vestita così?».
«Di solito si indossa qualcosa di più festivo» spiega Renate. Lei ha un colorato vestito africano che le mette in risalto il décolleté e sottolinea le curve. «Poi, avrai notato che
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Sono stata all’inferno
tutte le donne portano vestiti, qui i pantaloni li mettono solo le prostitute.»
«Che cosa?»
Rebecca scoppia a ridere. «Ti farò cucire un abito africano» propone.
«Ottima idea» concorda Renate. Rovista in una delle sue
monumentali valigie e ne estrae una camicetta marrone
chiaro con gonna abbinata. «Per oggi puoi mettere questi.»
«Sono molto belli, grazie.» Mi infilo i vestiti. Le mie due
spettatrici applaudono soddisfatte.
«Molto africano» sentenzia Rebecca. «Ti manca solo
l’acconciatura.» Mi intreccia i capelli e in men che non si dica mi ritrovo sulla testa una pettinatura che in Germania era
alla moda, forse, agli inizi degli anni Ottanta. Vestite a festa,
siamo pronte per attraversare il cortile ed entrare in chiesa,
da dove fuoriesce musica pop. Il luogo di culto è strapieno.
C’è persino gente seduta davanti all’ingresso.
Alcune donne presenti si ricordano di Renate dai tempi
della sua prima missione qui e le rivolgono cenni di saluto. Evidentemente provengono dai villaggi di cui si era occupata all’epoca. Adesso capisco perché ha scelto proprio
questo posto come base per il suo progetto con le vedove di
Boko Haram. La Chiesa dei Fratelli di Maiduguri è il principale centro di raccolta per i profughi cristiani provenienti
dall’intera regione.
Il rintocco delle campane segna l’inizio della messa. Il
suono sembra ancor più intenso se si pensa alla distesa di
moschee e scuole coraniche che circondano la chiesa. La
cerimonia dura quattro ore, mettendo seriamente alla prova la mia pazienza. Nessun altro membro della comunità
manifesta il minimo segno di stanchezza. Cantano, pregano
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Viaggio verso l’ignoto
e danzano con una gioia tale che non si direbbe che molti
di loro abbiano perso di recente i propri cari e siano stati costretti dai miliziani di Boko Haram ad abbandonare i
villaggi in cui vivevano. Per molti di loro quest’anno non
ci sarà nessun raccolto, eppure tutti sembrano trovare questa festività importantissima. Dopo la messa i membri della
comunità si sparpagliano nel cortile, all’aria aperta. Davanti alle cucine si forma una lunga coda. Riconosco lo stesso
profumo dolciastro che ho sentito questa mattina: le donne
hanno preparato il kunno, che nei giorni di festa viene offerto a tutti. Ognuno riceve un piatto ricolmo del nutriente
alimento. Per molti dei presenti questo sarà l’unico pasto
della giornata.
Poi noto una donna alta e snella, seduta in disparte sui
gradini della chiesa. Mangia lentamente, sembra quasi che
debba costringersi a inghiottire ogni boccone. Indossa un
vestito verde a fiori e un foulard annodato in testa, realizzato con la stessa stoffa. Un bambino dorme appoggiato alla
sua schiena, stretto al suo corpo con un pezzo di stoffa. Rebecca le dice qualcosa nella sua lingua.
«Questa è Patience» dice, presentandoci la giovane madre. «È una profuga, viene dalla mia stessa regione d’origine. Il suo villaggio si chiama Ngoshe, e si trova a un paio di
chilometri da Gavva.»
«Sei fuggita?» chiede Renate.
«Molto peggio, è stata rapita» interviene Rebecca. «Patience ha visto cose orrende.»
La ragazza tiene gli occhi fissi a terra. «No good english»
balbetta in tono di scusa.
«Ma adesso è tutto finito. Le ho detto che deve cercare di
mangiare» continua Rebecca. Fa cenno alle donne in cuci28
Sono stata all’inferno
na di portare una seconda porzione di kunno per Patience.
«Deve nutrirsi, altrimenti non produrrà abbastanza latte
per sua figlia. Qualche settimana fa abbiamo dovuto portarle entrambe in ospedale, erano troppo deboli.»
«Per l’amor del cielo» mi sfugge. «Non ha nessun
parente?»
Rebecca scuote la testa. «No» risponde. «Non ha più nessuno, a parte sua figlia.»
La bambina, ancora attaccata alla schiena della giovane
donna, inizia a ridacchiare. Patience scioglie il fazzoletto e
avvicina a sé la piccola con tenerezza. Due manine affamate
cercano il suo seno, e per la prima volta la vedo sorridere.
In quel momento capisco: Patience è sopravvissuta per
sua figlia. Un’impressione che sarà confermata da quello
che scoprirò nei prossimi giorni. Le chiedo di raccontarmi
la sua storia.