Diversified Alpha Plus Fund Morgan Stanley Investment Funds

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Diversified Alpha Plus Fund Morgan Stanley Investment Funds
Morgan Stanley Investment Funds
Diversified Alpha Plus Fund
COMMENTARY
A USO EXCLUSIVO DEGLI INVESTITORI PROFESSIONALI E DELLE CONTROPARTI AUTORIZZATE.
ANALISI DELLA PERFORMANCE
A Settembre, le azioni di Classe I del comparto hanno realizzato un rendimento del 0.59% (al netto delle
commissioni). Da inizio anno ad oggi, il comparto ha guadagnato il 12,1%. Nel mese in rassegna, l'indice Msci
All-Country World si è apprezzato del 3,8% in valuta locale (2,4% in euro), mentre l'indice JPMorgan Global
Government Bond è salito dello 0,7% (-0,8 in euro). Per quando riguarda le materie prime, l'indice S&P Gsci
Total Return ha ceduto il 3,4% (-5,9% in euro). I principali contributi alla performance di settembre sono giunti
dalle posizioni lunghe detenute nei mercati azionari e obbligazionari europei. A pesare maggiormente sulla
performance, di contro, sono stati i posizionamenti corti nelle valute legate alle materie prime.
A settembre, il miglioramento dei dati economici nell'area euro ha fatto guadagnare quota agli attivi ciclici e
periferici, aiutando il nostro orientamento lungo sull'Eurozona a generare performance positive. Tra i maggiori
apporti figurano la posizione lunga nei bond ellenici, le esposizioni rialziste alle azioni della periferia e
dell'intera area euro rispetto alle azioni statunitensi, il nostro paniere di titoli value di Eurolandia (lungo nel
quintile più economico di titoli dell'Eurozona e corto nel quintile intermedio) e il posizionamento corto nei Bund
decennali rispetto ai Treasury Usa di pari durata.
Le posizioni legate al nostro tema della bolla dei rendimenti non hanno fornito contributi di rilievo alla
performance mensile. Il paniere dividend yield (posizionamento corto nei titoli statunitensi ad alto rendimento e
lungo nelle azioni a basso rendimento) ha generato guadagni modesti, che sono stati annullati dalle perdite subite
dall'orientamento ribassista nei Reit statunitensi e da quello rialzista nei titoli delle compagnie di assicurazione
sulla vita americane (entrambi rispetto al mercato azionario Usa nel suo complesso).
Le rimanenti posizioni corte in portafoglio, legate al nostro tema ribassista sulla Cina, hanno pesato sulla
performance di settembre a fronte del miglioramento segnato dai dati congiunturali dei mercati emergenti;
abbiamo pertanto deciso di liquidare tali esposizioni. Tra i contributi negativi figurano le posizioni corte su
dollaro australiano, dollaro canadese, rublo russo e peso cileno e la posizione ribassista in un paniere di valute
emergenti le cui nazioni presentano ingenti disavanzi di parte corrente.
La nostra posizione lunga di stampo tattico nei Treasury Usa decennali, non associata ad alcun tema in
portafoglio, ha fornito un contributo significativo al risultato di settembre, in quanto l'incombente crisi di
bilancio e l'inattesa decisione della Federal Reserve di non ridurre l'entità del suo programma di allentamento
quantitativo hanno contribuito ad alimentare il rally dei titoli di Stato americani.
RASSEGNA DEL MERCATO
Nel mese in esame i mercati azionari hanno conseguito forti avanzamenti, sospinti dalla solidità dei dati
economici globali e dalla decisione a sorpresa della Federal Reserve di ritardare la riduzione del programma di
acquisti obbligazionari, annunciata in occasione dell'incontro del 18 settembre del Federal Open Market
Committee. Ciò nonostante, le borse statunitensi hanno lievemente sottoperformato quelle globali (S&P 500:
3,1%; Msci Acwi ex-Usa: 4,3%), poiché i dati inferiori alle attese sui nuovi posti di lavoro e l'inesorabile scontro
sul bilancio federale a Washington hanno penalizzato i titoli americani rispetto ad altre regioni. I dati di agosto
sull'occupazione extra-agricola hanno mostrato che i posti di lavoro sono cresciuti di appena 169 mila unità,
mentre le cifre relative ai mesi di giugno e luglio sono state riviste al ribasso di 74 mila unità complessivamente.
A settembre i listini nipponici hanno trainato le performance azionarie mondiali, con l'Msci Japan in rialzo
dell'8,4%. Nel corso del mese, l'inflazione complessiva annua del Giappone è salita sul livello più alto dal 2008 e
il Pil del secondo trimestre è stato rivisto nettamente al rialzo al 3,8% su base trimestrale contro il 2,6%
precedentemente stimato.
L'Eurostoxx 50 si è apprezzato del 6,5%, trainato al rialzo dai paesi periferici: Spagna e Grecia hanno infatti
guadagnato l'11,4% e l'11,3% rispettivamente. Le indagini sulla fiducia dei consumatori e degli investitori, come
pure l'indice Ifo tedesco, sono tutti saliti e i dati relativi all'attività economica hanno mostrato un miglioramento.
L'indice Pmi composito dell'area euro è passato dai 50,5 punti di luglio a 51,5 punti ad agosto.
Nei mercati emergenti, l'indice Msci Em è cresciuto del 4,2%, sostenuto dal miglioramento registrato ad agosto
Settembre 2013
Data di lancio:
Giugno 2008
Gestore:
Cyril Moullé-Berteaux
Sergei Parmenov
Sede:
New York
Valuta di riferimento:
Euro
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dai dati cinesi relativi a produzione industriale, vendite al dettaglio, esportazioni e Pmi del settore manifatturiero,
nonché dalla prospettiva di un proseguimento delle iniezioni di liquidità da parte della Fed.
I Treasury Usa hanno guadagnato quota dopo l'annuncio della banca centrale, con il rendimento del titolo
decennale in discesa di 18 pb al 2,61%. Il dollaro Usa ha perso il 2,3%, registrando le flessioni più consistenti
nei confronti delle valute emergenti e di quelle legate alle commodity, quali il real brasiliano (6,8%), la rupia
indiana (5,5%) e il dollaro australiano (5,0%). Le materie prime hanno invertito il forte trend ascendente di
agosto, con il Brent e l'oro in arretramento del 5% e del 4,8% rispettivamente.
ATTIVITÀ DEL PORTAFOGLIO
A settembre l'esposizione azionaria netta è rimasta moderata attestandosi al 18% a fine mese, leggermente in
ribasso rispetto al 24% di fine agosto.
Abbiamo eliminato le rimanenti posizioni legate al rallentamento in Cina e nei mercati emergenti, avendo
raggiunto le soglie di stop-loss sulle nostre posizioni corte su dollaro australiano, dollaro canadese, rublo russo,
peso cileno e su un paniere di divise di paesi emergenti con pesanti disavanzi di parte corrente. Malgrado il
moderato recupero ciclico dei dati economici e della fiducia degli investitori, rimaniamo strutturalmente cauti
sugli attivi dei mercati emergenti e prevediamo di ristabilire le posizioni legate a questo tema nei prossimi mesi.
Continuiamo ad aspettarci una sottoperformance delle posizioni orientate al rendimento nel medio termine.
Malgrado ciò, la decisione del Fomc di non "stringere il rubinetto" della liquidità a settembre ha trainato al rialzo
alcuni attivi sensibili ai tassi e le nostre posizioni lunghe nei titoli degli assicuratori vita statunitensi rispetto al
mercato azionario americano nel suo complesso hanno raggiunto i limiti stop-loss.
A metà settembre abbiamo avviato una posizione lunga di stampo tattico nei Treasury decennali in vista
dell'annuncio del Fomc, ritenendo che l'eventuale decisione circa la riduzione degli stimoli fosse già stata
inglobata nei prezzi e che le obbligazioni fossero tatticamente ipervendute. Avevamo immaginato che la
dichiarazione della Fed avrebbe assunto toni più accomodanti viste le continue revisioni al ribasso delle
prospettive per la crescita di breve termine degli Stati Uniti. L'impostazione ancor più espansiva del previsto
adottata dalla banca centrale ci ha indotti ad accentuare ulteriormente la posizione. Sul lungo termine, restiamo
dell'idea che i tassi statunitensi tenderanno al rialzo.
STRATEGIA E PROSPETTIVE
Nell'arco dell'ultimo anno e mezzo, una porzione consistente del budget di rischio del portafoglio è stata allocata
al nostro tema della ripresa dell'Eurozona. In aggiunta alle posizioni lunghe nei titoli di Stato dei paesi periferici
europei, abbiamo stabilito posizionamenti rialzisti nelle azioni cicliche dell'area euro, il più delle volte coprendo
tale esposizione con posizioni corte nei listini statunitensi. A nostro avviso, la sovraperformance delle borse di
Eurolandia rispetto a quelle americane è ancora alle prime battute. Di seguito, descriviamo in dettaglio le nostre
opinioni circa entrambi i lati di questa posizione.
È alquanto evidente che le azioni dell'area euro hanno esercitato scarsa attrattiva sugli investitori, soprattutto
rispetto a quelle statunitensi. A partire dal 2008, gli afflussi complessivi nei fondi comuni azionari americani
sono rimasti invariati come percentuale del patrimonio, mentre i deflussi dai fondi comuni azionari dell'area euro
sono stati pari al 23% degli attivi. Analogamente, le azioni dell'area euro sono sottovalutate rispetto a quelle Usa.
In base a parametri valutativi stabili, quali i rapporti prezzo/valore contabile o prezzo/utili tendenziali, le azioni
dell'Eurozona scambiano con sconti del 43% e del 46% rispetto alle azioni statunitensi, ben al disotto degli
sconti medi di lungo termine del 29% e 19%. Perché tale gap valutativo si chiuda, è necessario un ritorno alla
media di matrice fondamentale, cosa che noi riteniamo imminente dato che molte delle forze che hanno sospinto
in avanti le azioni statunitensi stanno perdendo slancio, mentre quelle che gravano sull'Eurozona si stanno
dissipando.
Negli Stati Uniti, la fase rialzista post-crisi è stata supportata da quello che potrebbe essere denominato un
contesto "Riccioli d'oro sintetico", ossia caratterizzato da bassa crescita, bassa inflazione e una politica monetaria
straordinariamente espansiva. Reputiamo altamente probabile che tali condizioni stiano cominciando a invertire
rotta. Tale preoccupazione deriva principalmente dal sospetto che il mercato del lavoro statunitense possa essere
sostanzialmente più rigido di quanto molti operatori di mercato - e a quanto pare molti politici - pensano che sia.
Secondo il Bureau of Labor Statistics americano, la crescita delle retribuzioni medie orarie per i lavoratori con
mansioni produttive e non di supervisione ha toccato il punto minimo a luglio e agosto dello scorso anno
all'1,3% (su base annua). Dall'ottobre 2012, la crescita dei salari è aumentata in maniera relativamente stabile,
raggiungendo il 2,2% lo scorso agosto. Tale accelerazione sta avvenendo con il tasso di disoccupazione su livelli
ben più elevati rispetto ai passati punti d'inversione, salvo per un caso verificatosi nel 1975. A nostro avviso, ciò
suggerisce un mercato del lavoro più rigido di quanto si possa desumere dall'alto tasso di disoccupazione. A
conferma di tale osservazione, in questo ciclo la curva di Beveridge (che mette in rapporto il tasso di
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disoccupazione con i posti di lavoro vacanti) è uscita dalla sua traiettoria storica, e oggi coprire le posizioni
vacanti è tanto difficile quanto lo è stato in passato in presenza di tassi ben più bassi di disoccupazione. Il
dibattito sullo stato di salute del mercato del lavoro statunitense si è perlopiù concentrato sul tasso di
partecipazione alla forza lavoro, che ha subito un forte calo passando da un massimo del 67,3% nel 2000 al
63,2% dello scorso agosto, il livello più basso dal 1978. Ciò ha portato a una diminuzione del tasso di
disoccupazione maggiore di quella desumibile dall'attuale ritmo di espansione dei posti di lavoro.
L'interpretazione ottimistica di tale sviluppo attribuisce una buona fetta del declino del tasso di partecipazione a
fattori ciclici destinati a invertire rotta. A nostro parere, le componenti strutturali della flessione del tasso di
partecipazione sono ben più importanti e spiegano circa metà del calo a partire dal 2007. Tra esse figura
l'invecchiamento della forza lavoro nonché la maggiore dipendenza dalle polizze di invalidità (che può essere
cominciata per ragioni cicliche ma è probabilmente destinata a rimanere strutturale).
Se l'inversione della crescita salariale è stata decisiva ed affonda le sue radici in un mercato del lavoro
strutturalmente più rigido di quanto attualmente percepito, le implicazioni per i mercati finanziari sono
importanti e, a nostro avviso, sottovalutate. Storicamente, le fasi di recupero della crescita salariale hanno
mostrato la tendenza a segnare il picco degli stimoli monetari. In media, gli aumenti dei tassi si sono verificati a
distanza di sette mesi dal punto minimo della crescita salariale. Applicando i paralleli storici alla situazione
attuale si otterrebbe con tutta probabilità non l'avvio del rialzo dei tassi bensì l'inizio della rimozione di altre
misure di stimolo monetario sotto forma di una riduzione o di un azzeramento dell'allentamento quantitativo.
Come già menzionato, il mercato ha ragione a prevedere un aumento dei tassi sull'orizzonte osservabile e dunque
ad aspettarsi che i tassi d'interesse a lungo termine tenderanno al rialzo.
L'ipotesi di consenso è che gli effetti di un aumento dei rendimenti sui Treasury a lungo termine siano benevoli
per le azioni poiché l'impatto negativo di un tasso di sconto più elevato verrà più che compensato
dall'accelerazione della crescita degli utili. Noi nutriamo qualche dubbio al proposito.
Innanzitutto, riteniamo che un'accelerazione della crescita salariale metterebbe a rischio i margini di profitto
delle aziende. Storicamente, le stime di utile hanno cominciato a riflettere un deterioramento a livello dei
margini a quasi un anno di distanza dalla ripresa della crescita salariale. E con i margini su livelli elevati, il
rischio di ribasso è più grande che in passato. Inoltre, i tassi più alti faranno aumentare la spesa per interessi delle
società, col rischio di deprimere ulteriormente i margini. Dopo la crisi, l'abbassamento dei tassi ha contribuito
per circa 50 pb al miglioramento dei margini delle aziende dell'S&P 500.
In secondo luogo, non ci convince l'opinione diffusa secondo la quale il mercato del lavoro non può irrigidirsi
ulteriormente (portando a un'ulteriore crescita dei salari) in assenza di un'accelerazione della crescita economica.
Facciamo notare che a partire dalla Seconda guerra mondiale, la crescita dell'occupazione si è tendenzialmente
attestata su livelli più bassi di quelli desumibili dalla crescita economica di inizio ciclo, per poi superarli più
avanti nel ciclo. Attualmente, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti supera dell'1% il livello suggerito
dall'espansione del Pil, in linea con le fasi avanzate dei precedenti cicli economici. In altre parole, la crescita
dell'occupazione può progredire anche in assenza di un'accelerazione del Pil.
In terzo luogo, a nostro avviso, la crescita economica rimane vulnerabile a un aumento dei tassi d'interesse. È
vero che l'ampliamento del debito superiore alla media non è stato il fattore propulsore dell'attuale ciclo, e di
fatto il processo di deleveraging si è in parte realizzato, con il rapporto debito/Pil statunitense in discesa da più
del 360% del 2009 all'attuale 330%. Tuttavia, sono stati i tassi bassi - più che la riduzione dell'indebitamento - i
principali responsabili dell'abbassamento del peso debitorio e della discesa dell'indice di indebitamento delle
famiglie (uno degli indicatori del servizio del debito delle famiglie americane) ai minimi storici. L'espansione dei
consumi, inoltre, è stata favorita dalla discesa del saggio di risparmio, in parte aiutata dall'aumento dell'effetto
ricchezza, specie nel settore immobiliare, ed è pertanto esposta al rialzo dei tassi. Le case sono diventate
sopravvalutate, come dimostra il rapporto prezzo medio delle abitazioni/reddito delle famiglie di 3,2, al di sopra
della media di lungo termine. A nostro avviso, il rialzo dei tassi dovrebbe interrompere la rivalutazione degli
immobili residenziali a causa della minore accessibilità dei prezzi.
Infine, temiamo che l'economia americana stia affrontando questa fase di risanamento fiscale senza il contestuale
supporto di un allentamento monetario e di una svalutazione della divisa, ma al contrario con la prospettiva di
una stretta monetaria. Secondo uno studio condotto dall'Fmi sulle precedenti fasi di correzione fiscale, l'effetto
integrale dell'inasprimento viene solitamente avvertito sull'arco di tre anni, laddove solo il 50% di tale impatto si
manifesta nel primo anno, il 40% nel secondo e il restante 10% nel terzo. Ipotizzando che l'economia
statunitense segua questo andamento storico, dell'inasprimento del 2,4% come percentuale del Pil programmato
per l'inizio del 2012, quest'anno si saranno realizzati solo 120 pb, e altri 100 pb arriveranno nel 2014. Le
conseguenze effettive sulla crescita economica potrebbero essere maggiori in caso di una riduzione
dell'accomodamento monetario.
Le aspettative di consenso sono di un'accelerazione del Pil statunitense al 2,65% nel 2014 dall'1,60% del 2013, e
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di una crescita degli utili per azione dell'S&P 500 al 10,7% dal 4,4% degli ultimi quattro trimestri conclusisi a
giugno. Riteniamo che entrambi i pronostici siano probabilmente destinati ad andare delusi. Facciamo anche
notare che i titoli azionari statunitensi saranno esposti al rischio di contrazione dei multipli - un fenomeno tipico
quando la politica monetaria comincia infine ad inasprirsi.
A nostro avviso, l'economia dell'Eurozona si trova in una posizione molto diversa e ben più allettante. La regione
è nelle primissime fasi di un nuovo ciclo economico e gli ostacoli strutturali hanno appena cominciato ad
allontanarsi.
A differenza degli Stati Uniti, il cui Pil reale supera del 4,6% il picco raggiunto prima del 2008 e gli utili per
azione dell'S&P 500 riferiti ai 12 mesi precedenti sono dell'11% superiori ai massimi, il Pil e gli utili per azione
dell'Eurozona sono del 3,1% e del 43% inferiori ai rispettivi picchi. Il Pil italiano è di ben il 9% più piccolo
rispetto al 2008. Benché negli Stati Uniti i massicci stimoli fiscali e monetari siano serviti a controbilanciare
quella che sarebbe probabilmente stata una perdita permanente di produzione ben più sostanziosa, tipica
all'indomani di una crisi bancaria, l'area euro è entrata in una fase di inasprimento fiscale e monetario dopo aver
introdotto stimoli meno aggressivi su entrambi i fronti a partire dal 2008. Pertanto, come discusso in precedenza,
mentre gli Stati Uniti devono ora fare i conti con la rimozione delle due principali forze motrici che hanno
sostenuto la sua economia (presumibilmente sopra il suo naturale punto minimo di inversione), l'Europa sta
appena cominciando a sentire gli effetti dell'eliminazione delle forze che hanno depresso la sua economia,
probabilmente al disotto del suo livello "naturale".
Rispetto agli utili Usa, quelli dell'Eurozona sono del 35% al disotto della media di lungo termine, mentre il Pil
dell'area (sia in termini nominali che a valute costanti) rispetto a quello americano è di circa il 13% al disotto del
tendenziale. Le quotazioni azionarie di Eurolandia mostrano un'analoga sottovalutazione rispetto agli Stati Uniti.
Malgrado i perenni timori circa i minori tassi di crescita reale in Europa, dal punto di vista pratico degli
investitori alle prese con le cifre nominali, né gli utili, né il Pil, né i corsi azionari dell'Eurozona hanno la
tendenza di lungo termine a sottoperformare gli Stati Uniti. Benché sia meno rilevante, al momento il Pil reale
dell'area euro rispetto a quello degli Stati Uniti si trova al disotto del suo trend (evidentemente inclinato verso il
basso).
Come abbiamo già avuto modo di scrivere, siamo fiduciosi circa il fatto che l'Eurozona sia destinata a riprendersi
dalle attuali condizioni economiche estremamente depresse. Innanzitutto, il grosso dell'inasprimento fiscale è
stato già implementato quest'anno e il drenaggio fiscale diminuirà dall'1,5% del Pil nel 2012 allo 0,75% nel 2013
e allo 0,2% nel 2014. In secondo luogo, ci eravamo preparati ad accusare l'impatto della rimozione di ciò che a
tutti gli effetti era un forte inasprimento monetario quando i rendimenti dei titoli di Stato e i tassi sui prestiti
commerciali nelle economie che rappresentano un terzo del Pil dell'area si sono mossi al rialzo nel 2011-2012. In
terzo luogo, in termini strutturali, è già stata compiuta una correzione significativa, e le svalutazioni interne
hanno aiutato a ripristinare la competitività in economie quali la Spagna e la Grecia. Attualmente, l'area euro
presenta un saldo delle partite correnti pari al 2% del Pil (con la Spagna e la Grecia prossime a raggiungere un
avanzo rispettivamente del 2% e dell'1% nel 2014), contro il deficit del 2,5% negli Stati Uniti.
Sembra permanere un notevole scetticismo tra gli investitori circa la ripresa dell'Eurozona. L'opinione di
consenso è che il recupero sarà tiepido, a fronte di prospettive deboli per la crescita strutturale. Pur concordando
sul fatto che i tassi di crescita tendenziale saranno probabilmente più bassi in tutti i paesi avanzati, non si capisce
perché il peggioramento dovrebbe essere più pronunciato in Europa rispetto agli Stati Uniti.
È possibile che gli investitori sottovalutino la portata della depressione ciclica nell'area euro e dunque il
potenziale di una rapida ripresa ciclica. Le distanze con gli Stati Uniti sono destinate ad accorciarsi, e pur
prevedendo che la crescita americana si rivelerà in parte deludente, è probabile che una buona fetta del divario
verrà colmata grazie alle sorprese positive provenienti dall'area euro.
Come spesso accade in concomitanza con i punti d'inversione ciclici, il pessimismo viene tenuto in vita
dall'attenzione posta sui valori ancora depressi di alcuni indicatori ritardati dell'attività economica. Uno dei dati
più citati è l'elevato tasso di disoccupazione nell'Eurozona, benché le inversioni di tale indicatore siano state
storicamente sfasate rispetto al Pil di almeno un anno, tanto negli Stati Uniti quanto nell'area euro. Un altro
argomento molto dibattuto è il fatto che gli impieghi bancari continuano a contrarsi. A nostro avviso, tuttavia,
non c'è nulla di anormale nella crescita negativa del credito in questo ciclo: negli Stati Uniti, l'espansione dei
crediti societari è rimasta negativa per un anno e mezzo dopo l'inizio della ripresa. In Europa, malgrado parte del
deleveraging sia già avvenuta nel 2010-2011, i finanziamenti alle aziende non sono mai diminuiti. Flessioni
modeste nell'ordine del 5% come quelle attualmente riscontrabili sono tutt'altro che anormali e non dovrebbero
precludere un'ulteriore ripresa della crescita. L'area euro, inoltre, sta registrando un boom dei collocamenti
obbligazionari societari, che crescono al ritmo dell'8,3% mantenendo l'espansione del debito aziendale
complessivo pressoché ferma, allo 0,7%.
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Gli investitori continuano a essere preoccupati dalla lentezza delle riforme strutturali nell'Eurozona e dunque
dalla sua vulnerabilità in caso di crisi. È vero che, in condizioni di crisi, i rischi sarebbero effettivamente elevati.
Tuttavia, è chiaro che la volontà politica dietro il progetto dell'euro resta forte e che non esiste attualmente una
forza politica credibile nella regione contraria all'unione monetaria. Esemplare è in tal senso la sconfitta di
Alternative für Deutschland: il partito degli euroscettici non è riuscito a raccogliere un numero di voti sufficienti
ad entrare nel Bundestag. Siamo del parere che la politica non ostacolerà il processo di ripresa.
Per concludere, prevediamo un'ulteriore e sostanziale sovraperformance delle azioni dell'area euro rispetto a
quelle statunitensi, e riteniamo che questo sia uno dei temi d'investimento più interessanti nei mercati finanziari
mondiali. I corsi azionari americani sono relativamente costosi e sono stati molto in voga tra gli investitori,
tuttavia i fattori che hanno alimentato la recente fase rialzista del paese stanno invertendo rotta. L'inasprimento
fiscale è in atto, la politica monetaria è destinata a diventare meno accomodante ed entrambi questi fattori sono
suscettibili di incidere negativamente su crescita, margini di profitto e valutazioni azionarie. Di contro, le azioni
dell'Eurozona sono convenienti e poco amate dagli investitori, mentre l'economia dell'area sta uscendo da una
profonda depressione ciclica in un contesto di forte scetticismo da parte dei mercati. Ci aspettiamo che l'area
euro continuerà a recuperare la sua recente sottoperformance e abbiamo pertanto allocato una porzione rilevante
del nostro budget di rischio in questo tema.
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