testo di Marta Moretti
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Marta Moretti Cl. VD 06/05/2015 L’ETA’ AUGUSTEA NELLE FONTI STORICHE, LETTERARIE, ARTISTICHE LA SCALATA AL POTERE DI AUGUSTO Nel 44 a.C., dopo l’uccisione di Cesare e la cacciata dei congiurati che si rifugiarono in Etruria, le redini dello stato romano vennero prese in mano dai due maggiori esponenti del partito cesariano: Marco Emilio Lepido e Marco Antonio, uno dei più fidati luogotenenti di Cesare e suo collega durante il mandato consolare del 44 a.C.. Quest’ultimo, durante i funerali del 18 marzo, in seguito ad una riunione del senato tenutasi il giorno precedente nella quale si stabilì che venivano considerati validi tutti gli atti di Cesare ma che, d’altra parte, veniva concessa l’amnistia ai congiurati, mostrò alla folla attonita e commossa il cadavere di Cesare e ne lesse in pubblico il testamento, nel quale veniva dichiarato figlio adottivo e principale erede il pronipote Gaio Ottavio. Egli aveva quasi diciannove anni ed era arruolato nell’esercito che in quel momento si trovava in Illiria, in vista della campagna militare contro la temuta popolazione bellicosa dei Parti. Quando venne informato in merito alle disposizioni impartite da Cesare, non indugiò a tornare immediatamente in Italia, dove reclutò un esercito privato, rivendicò l’eredità, assolse gli impegni nei confronti della plebe e dichiarò anche di voler onorare pienamente la memoria del padre adottivo e di bramare la vendetta della sua uccisione. Poco dopo, nel 43 a.C., in occasione dell’ostilità creatasi tra Marco Antonio e Decimo Bruto per la gestione della Gallia Cisalpina, riuscì ad essere arruolato dal senato in appoggio a Bruto e a sconfiggere Antonio stesso; poté così approfittare di una situazione di momentanea anarchia per marciare su Roma con il suo esercito, imporre la propria nomina e far revocare l’amnistia agli assassini del padre. Sempre nello stesso anno cambiò campo e decise di accordarsi con Antonio e Lepido, con i quali costituì ed ufficializzò presso Bologna il secondo triumvirato; si mosse poi assieme al solo Antonio contro l’esercito di Bruto e Cassio che, nonostante si fosse assai rafforzato grazie alle risorse delle province orientali, venne duramente sconfitto in Grecia presso Filippi. Al termine della battaglia, mentre Lepido dovette accontentarsi del governatorato della provincia d’Africa, Antonio consolidò la propria posizione in Oriente e Ottaviano rafforzò il proprio potere nelle province occidentali ed in Italia, dove dovette gestire il difficile problema della sistemazione dei veterani di guerra attraverso pesanti espropriazioni di terreno, che causarono violente ribellioni e tumulti, repressi poi con estrema durezza. Non dobbiamo certamente dimenticare che Ottaviano, a causa di questa sua spietata condotta politica, si inimicò i congiunti dello stesso Antonio che assediò a Perugia nel 40 a.C.; tuttavia i contrasti vennero appianati dagli accordi di Brindisi che si conclusero con il matrimonio di Antonio con Ottavia, sorella di Ottaviano. Nel 36 a.C. debellò i pirati di Sesto Pompeo, isolò Lepido e nel 33 a.C. macchinò abilmente la definitiva rottura con Antonio. Quest’ultimo, che si trovava in Egitto come ospite della regina Cleopatra da cui ebbe un figlio, aveva domandato rinforzi militari per i combattimenti ma Ottaviano gli inviò, assieme alla sorella Ottavia, un piccolo contingente che Antonio rifiutò, venendo così accusato di avere respinto la moglie, una donna romana, a favore dell’amante egiziana. A 1 questo punto Ottaviano, dopo aver ottenuto il consenso popolare e un anche se precario appoggio del senato, nel 32 a.C., alla vigilia della battaglia di Azio, compì il suo primo atto da princeps, facendosi tributare dall’Italia e dalle province occidentali un giuramento di fedeltà, ricordato come coniuratio Italiae et provinciarum, con il quale esse si impegnavano a combattere contro la monarchia d’Egitto, in nome dei tradizionali valori della Roma repubblicana. Sconfitte nel 31 a.C. le navi egiziane presso Azio e suicidatisi Antonio e Cleopatra, Ottaviano celebrò nel 29 a.C. un grandioso trionfo per la conquista dell’Egitto che passò a simboleggiare la superiorità dell’Italia e dell’Occidente romano contro una monarchia orientaleggiante che cercava di trasformarne le istituzioni e di sovvertirne i tradizionali valori. L’AFFERMAZIONE DEL PRINCIPATO E LE CARICHE RIVESTITE DA AUGUSTO In questo contesto, l’aristocrazia senatoria si convinse sempre più che la tradizionale costituzione repubblicana, basata sull’equilibrio e sulla collaborazione fra nobiltà senatoria ed assemblee popolari, non poteva rinascere ma che era indispensabile accettare una qualche forma di potere personale. Per di più le famiglie della più alta aristocrazia senatoria non disponevano di personaggi politici così influenti da poter contrastare apertamente Ottaviano; a testimonianza di ciò, in base a quanto riportato dalle fonti pervenuteci e dal materiale in nostro possesso, ricordiamo che durante tutto il principato si verificarono soltanto due tentativi di congiura contro l’imperatore (23 a.C. e 2 d.C.)., non dimentichiamo poi che Roma era stata travolta per quasi un secolo dalle violente guerre civili che avevano stremato la plebe e anche le classi di maggior influenza politica, ora accomunate da un desiderio unanime di pace. Con queste premesse Ottaviano riuscì ad imporre la propria figura su Roma e a detenere un totale controllo sulla vita politica. Questo singolare potere fu dovuto inevitabilmente proprio al sopra citato trionfo su Azio, che gli consentì di tornare nella capitale da conquistatore e di fregiarsi del titolo di imperator, “comandante supremo, imperatore”; questa carica veniva solitamente rivestita dai generali vittoriosi e abbandonata al termine della celebrazione del trionfo, egli invece la mantenne come prenomen fino al termine del suo principato, nella formula onomastica con cui veniva indicato nelle iscrizioni ufficiali . Egli inoltre, a partire dal 32 a.C., esercitò continuativamente la carica di console fino all’anno 23 a.C. ma, poiché questa istituzione non era tale da garantire un totale controllo sullo stato, nel 28 a.C., si fece proclamare princeps senatus ossia “primo fra i senatori”; era dunque il portavoce ufficiale, aveva il diritto di convocare l’assemblea, di presiederla e di votare per primo, influenzando così le votazioni altrui e orientando di fatto le decisioni politiche. Successivamente, in una seduta del 13 gennaio del 27 a.C., quando aveva come collega al consolato Marco Vipsanio Agrippa, con una studiata mossa ad effetto, restituì al senato tutte le cariche ed i poteri straordinari concessigli per far fronte alla guerra civile, mantenendo solo per qualche anno ancora la carica di console; in cambio ottenne un imperio proconsolare della durata di dieci anni per la gestione delle province non ancora pacificate quali Spagna, Gallia, Siria, Cilicia, Cipro ed Egitto, dov’erano stanziate la maggior parte delle legioni. Si tratta quindi di un potere assai rilevante poiché, a partire 2 dalla riforma di Mario, gli eserciti dipendevano direttamente dal loro comandante, che poteva servirsi di essi anche come strumento per l’usurpazione del potere. Non molti giorni dopo, su proposta dell’anziano console Munazio Planco, il senato lo onorò con il titolo di Augustus; questo termine, che deriva dal latino augeo, “innalzo, accresco” e rimanda senza dubbio al benessere e alla prosperità del suo principato, era anche un attributo di Giove, che faceva inevitabilmente riferimento ad un potere non humanus e sanciva il carattere divino del suo potere: la sua personalità era pertanto considerata superiore a qualsiasi altra figura dello stato e le sue decisioni ritenute sacre e venerabili. Anch’egli infatti, all’interno delle Res Gestae, precisò che questa carica non gli conferì tanto la potestas, ossia il potere effettivo, quanto invece l’auctoritas, cioè la capacità di influenzare le scelte e la vita politica, indipendentemente dalla carica rivestita. Alcuni anni dopo, nel 23 a.C., l’imperio proconsolare di cui già godeva divenne maius et infinitum, ossia assoluto, valido per tutte le province dell’impero; in questo modo egli si affermò definitivamente come comandante supremo dell’esercito, coadiuvato da alcuni incaricati che egli stesso eleggeva tra gli ex consoli e gli ex pretori (legati Augusti pro praetore) per facilitare l’amministrazione e il controllo di tutto il territorio romano. Sempre nello stesso anno gli venne conferita la tribunicia potestas, “potestà tribunizia”, che costituì la vera base costituzionale del potere imperiale; essa infatti comportava l’inviolabilità della persona, il potere di convocare i comizi e di far approvare i plebisciti e il diritto di intervenire in tutti i rami della pubblica amministrazione, senza i vincoli repubblicani della collegialità della carica e della sua durata annuale; oltre a ciò, non dobbiamo dimenticare che questa magistratura gli garantì il diritto di porre il veto agli altri tribuni, offrendogli dunque la facoltà di bloccare tempestivamente qualsiasi iniziativa legislativa considerata pericolosa per la sua autorità. E ancora, negli anni a venire, attraverso la carica della commendatio ebbe l’opportunità di proporre i nomi dei candidati alle magistrature e di controllarne l’accesso anche se, di fatto, il ruolo delle assemblee cittadine aveva perso rilievo e il sistema politico, che lo storico Mommsenn definì una diarchia, si basava esclusivamente sull’equilibrio fra il princeps ed il senatus. In aggiunta a ciò, menzioniamo la carica di curator annonae, ossia di “responsabile agli approvvigionamenti”, precedentemente esercitata anche da Pompeo Magno, che gli consentiva di ottenere il consenso popolare per mezzo di elargizioni di terreno e distribuzioni di grano alle classi meno agiate; particolarmente significativo anche il ruolo di censore, con il quale poté effettuare un’accurata revisione delle liste senatorie ed espellere tutti coloro che non presentavano i requisiti necessari a prender parte all’assemblea, restituendo così prestigio a questa magistratura, vertice del potere consultivo. Corre poi l’obbligo di citare il 12 a.C., anno in cui il princeps, alla morte del pontefice massimo Lepido il quale era stato ben accolto da Augusto nel nuovo sistema politico, assunse altresì la somma carica religiosa di pontifex maximus, rappresentando pertanto non solo la massima autorità civile, ma anche quella religiosa e detenendo in questo modo un potere simile a quello dei primi re di Roma. Infine non dimentichiamo che nel 2 a.C. il senato, i cavalieri e il popolo, come omaggio per aver restaurato lo stato e le istituzioni, lo proclamarono pater patriae, padre della patria; con questa carica, che rappresentava il riconoscimento politico dei valori del principato augusteo, si mirava a sacralizzare i rapporti tra il princeps e i suoi sudditi, i quali dovevano comportarsi come 3 dei figli e manifestare sentimenti di pietas e fides. In questo modo i rapporti politici divennero la proiezione di quelli familiari. Dobbiamo però tener presente che nel corso del principato, Augusto, nonostante avesse rivestito un numero rilevante di magistrature, non decise mai di assumere il titolo eccezionale di dictator, come aveva invece fatto Cesare, ma si propose come il restauratore delle istituzioni repubblicane, agì con cautela ed adottò una politica trasformista, evitando in tal modo di entrare in rotta di collisione con l’ordine senatorio, massimo organo consultivo, che doveva assicurargli l’appoggio della più alta aristocrazia dell’impero. Alla luce di ciò possiamo ben comprendere che Augusto, anche se de iure mantenne in vigore tutte le istituzioni repubblicane, de facto, con una parvenza di legalità, accentrò su di sé tutti i poteri e svuotò le magistrature dei loro effetti pratici, dando prova del potere dell’imperium monarchico e della fine della collegialità repubblicana. Proprio la questione del potere repubblicano de iure ma monarchico de facto fu sentita a tal punto che persino lo stesso Augusto, nella sua autobiografia, le Res Gestae Divi Augusti, ribadì la legalità repubblicana del suo potere; egli infatti evidenziò diverse volte il fatto che tutte le onorificenze e i titoli attribuitigli, alcuni dei quali aveva anche rifiutato 1, non erano frutto di una decisione personale bensì derivavano da deliberazioni senatorie e dal consenso universale del popolo; tanto è vero che possiamo chiaramente notare l’uso di locuzioni quali “per autorità del senato”, “per decisione pubblica”. In aggiunta a ciò, particolarmente significativo un passo in cui Ottaviano vuole mettere in luce la sua modestia sostenendo di aver restituito un’ingente somma di denaro inviatagli da municipi e colonie e di aver in seguito rifiutato, al momento del conferimento del titolo di imperator, beni e donativi, nonostante gli fossero stati attribuiti per mera decisione delle colonie e dei municipi stessi2. RES GESTAE DIVI AUGUSTI Le Res Gestae Divi Augusti “Imprese del divino Augusto” di cui abbiamo appena fatto menzione, indicate dagli storici Svetonio e Cassio Dione con il nome di Index rerum a se gestarum, furono redatte proprio dall’imperatore Ottaviano Augusto (63 a.C.-14d.C.); costituiscono un’opera autobiografica e riportano pertanto avvenimenti contemporanei e inerenti all’autore stesso. Riguardo alla datazione, non siamo in grado stabilire con esattezza a quando risalga la stesura dell’opera tuttavia è d’obbligo ricordare che, in due differenti passi del testo, Augusto fornì delle indicazioni cronologiche precise: nel primo passo egli affermò di riportare le sue memorie durante il suo tredicesimo consolato3, nel secondo invece sostenne di avere settantacinque anni4. Tenendo conto del lasso di tempo in cui visse, la prima data corrisponderebbe al 2 a.C. mentre la seconda coinciderebbe con il 13 o il 14 1 “Consul[atum] quoqu]e tum annum e[t perpetuum mihi] dela[tum non recepi].”, Augusto, Res Gestae Divi Augusti, 5 2 “Auri coronari pondo triginta et quinque millia municipiis et colonis Italiae conferentibus ad triumpho[s] meos quintum consul remisi, et postea, quotienscumque imperator a[ppe]llatus sum, aurum coronarium non accepi, decernentibus municipii[s] et colonis aequ[e] beni[g]ne adque antea decreverant.”, Augusto, op. cit., 21 3 “Consul f]ueram terdeciens, cum [scribeb]a[m] haec, [et eram se]p[timum et] tricen[simu]m tribuniciae potestatis.”, Augusto, op. cit., 4 4 “Cum scripsi haec, annus agebam septuagensumum sextum.”, Augusto, op. cit., 35 4 d.C.; in realtà, però, la struttura e la complessità dell’imponente documento augusteo lasciano ben intendere come questo sia frutto di una lunga e matura elaborazione intellettuale, senza dimenticare che, quasi certamente, il princeps pose più volte mano alla stesura del suo testamento politico. Alla luce di tutto ciò, possiamo dunque concludere che le Res Gestae furono terminate proprio nell’imminenza della morte del loro autore. Oltre a ciò, è di fondamentale importanza tener presente che nessuno dei testi pervenutici costituisce l’originale, ma si tratta di copie inviate alle province probabilmente già durante il regno del successore Tiberio. Finora archeologi ed esperti di questo settore sembrano affermare che l’area anatolica, dove Augusto creò la provincia di Galazia, unica annessione orientale da lui operata, rappresenti l’unico deposito dei resti di questo monumentale documento augusteo. Tra le copie pervenuteci, la meglio conservata, il Monumentum Ancyranum, è stata ritrovata, come ci dice il nome stesso, nell’allora capitale dei Galati, Ancyra, l’attuale Ankara, sulle pareti di un tempio edificato in onore della Dea Roma e di Augusto, quando quest’ultimo era quasi certamente ancora vivo. Dell'originario tempio si conservano ora solo il pronao e le due pareti laterali, una delle quali presenta uno squarcio di notevoli dimensioni. All'interno del pronao, a sinistra e a destra, è inciso il testo latino dell'iscrizione, Tempio di Augusto e Roma, Ankara disposto simmetricamente in sei colonne di scrittura, per un'altezza di 2, 70 m e larghezza di 4 m; la traduzione greca si sviluppa invece all'esterno, lungo la parete laterale intatta della cella, ordinata su 19 colonne, alte circa 1, 25 m. Lo stato attuale di tutto lo specchio epigrafico versa in condizioni di assoluto degrado ed il testo greco risulta, a causa di forti escursioni termiche e piogge acide, quasi completamente illeggibile. A tal proposito menzioniamo un grido d’allarme, lanciato nel 1997, affinchè questo importante documento non vada perduto; l'allarme è stato accolto dall’Università degli Studi di Trieste che ha attivato il Progetto Ancyra, finalizzato alla messa in sicurezza del tempio e alla conservazione dell'iscrizione. Per quanto Monumentum Ancyranum, frammento del testo in lingua greca, Ankara 5 concerne invece il testo originale, secondo la volontà del principe, esplicitamente espressa nei documenti di natura testamentaria consegnati alle Vestali un anno prima di morire, l’intero resoconto delle opere e delle imprese compiute durante la sua carriera politica doveva essere inciso su tavolette bronzee, le quali, immediatamente dopo la sua morte, vennero collocate all’ingresso dell’imponente Mausoleo, situato nel Campo Marzio a Roma. Le tavolette, andate in seguito perdute, avevano lo scopo di ricordare a tutto il popolo romano, italico e delle province ed in particolare di tramandare ai posteri il benessere che Augusto aveva procurato all’impero, non solo attraverso tutte le valorose imprese compiute in campo militare, ma anche per mezzo delle molteplici opere di evergetismo come elargizioni di beni a favore del popolo romano e inoltre della straordinaria sistemazione di Roma e del generale clima di pace e prosperità che si era venuto a creare. Dunque, com’è facile comprendere, si tratta di una fonte intenzionale, in quanto prodotta con il fine di essere letta e tramandata, memorialistica, poiché rientra nel genere autobiografico ma anche epigrafica, siccome si tratta di un’iscrizione, nonché indiretta, giacché risultato di una lenta e ponderata gestazione dell’autore. Come già sopra accennato, nel testo, suddiviso per comodità in trentacinque paragrafi dagli editori moderni, il Principe fornisce una minuziosa descrizione del suo cursus honorum e delle cariche e dignità conferitegli, specificando i titoli accettati e quelli rifiutati. Oltre a ciò, per esaltare il proprio operato, egli sottolinea le numerose distribuzioni di denaro, sostenute con risorse attinte esclusivamente dal suo patrimonio privato, l’organizzazione di diversi giochi pubblici e l’ampio programma di rinnovamento urbanistico della città, senza dimenticare poi una sezione dedicata alle conquiste militari, alla sua azione diplomatica ed ai rapporti con le popolazioni vinte. Infine, particolarmente interessanti per la storia della genesi del principato risultano essere gli ultimi due capitoli (34 e 35) in cui vengono testimoniati i momenti chiave della sua carriera politica, culminanti nell’espressione dell’auctoritas, fulcro del suo potere. Quanto allo stile dell’autore, egli si serve di periodi brevi dalla struttura paratattica e dalla coordinazione per asindeto ed adotta un lessico concreto, lasciando così al lettore la possibilità di cogliere immediatamente il contenuto del testo; la prosa, tipicamente attica, risulta scarna e asciutta, priva di abbellimenti e di figure retoriche, ma al contempo solenne, pur conservando una continua sobrietà di fondo. Corre altresì l’obbligo di ricordare che egli, per rimarcare i propri atti, parla di sé in prima persona, facendo delle Res Gestae un unicum della letteratura latina, senza eguali. Tenendo conto di quanto detto, bisogna prestare molta attenzione all’attendibilità del contenuto che, seppur riporti avvenimenti realmente verificati, potrebbe essere stato eccessivamente celebrato ed esaltato da Augusto stesso. ANNALES AB EXCESSU DIVI AUGUSTI: IL CONFRONTO CON LE RES GESTAE Proprio per questa ragione, ideale sarebbe poter confrontare le Res Gestae con altre fonti che riportino contenuto ed avvenimenti relativi al principato augusteo. A tal proposito citiamo pertanto gli Annales ab excessu Divi Augusti, composti da Tacito, uno storico romano vissuto a cavallo tra il I ed il II secolo d.C., dunque successivo agli avvenimenti documentati e non direttamente coinvolto in questi ultimi; la fonte può essere datata 6 all’inizio del II secolo d.C., verso la fine della vita di Tacito, circa un secolo dopo gli avvenimenti descritti. Si tratta di una fonte storiografica, anch’essa indiretta, in quanto gli avvenimenti sono stati soggetti ad una rielaborazione personale dell’autore e chiaramente intenzionale, poiché prodotta per tramandare ai posteri un’analisi attenta del primo periodo imperiale e non, a differenza delle Res Gestae, per elogiare le imprese compiute da Augusto; a conforto di ciò, si può sottolineare che alla locuzione augustea “per decisione del senato” si contrappone il riflessivo “si chiamò…”, seguito dalle cariche rivestite da Augusto o addirittura la formula “contro il volere del senato”. La fonte è per di più indirizzata ad un pubblico colto, che sia in grado di comprendere ed apprezzare la prosa raffinata e complessa di Tacito stesso. L’opera, suddivisa in sedici libri non tutti interamente pervenutici, racconta, come già detto, i regni dei successori di Ottaviano, in particolare di Tiberio e di Nerone, tuttavia non mancano frammenti relativi al principato augusteo. Concetto fondamentale dell’opera è il tramonto definitivo della collegialità repubblicana che Tacito, nostalgico di una Repubblica idealizzata, fa emergere con mera amarezza sostenendo che gli uomini in vita non avevano mai conosciuto la vera Roma repubblicana, giacchè o erano nati nel periodo tumultuoso delle guerre civili oppure addirittura ai tempi del trionfo di Azio sull’Egitto, quando il principato si era già radicalmente affermato. 5 Nella visione dell’autore, però, il passaggio dalla travagliata età repubblicana all’età imperiale rappresentava una necessità storica e politica, atta a superare i drammatici conflitti determinatisi con le guerre civili, indispensabile per il mantenimento della pace e utile per il benessere delle comunità italiche e delle province; era dunque fondamentale accettare qualche forma di potere personale6. Tuttavia, con il nuovo assetto politico, si estinse fatalmente la libertà repubblicana e si spense, a poco a poco, ogni residuo di dignità morale, sia per le nefandezze degli imperatori, che lo storico tratteggia con drammatica forza espressiva in una galleria di tragici profili, sia per la degenerazione dell’aristocrazia senatoriale, che Tacito, pur appartenendovi, giudica moralmente decaduta, corrotta ed asservita ai voleri del sovrano7. Pertanto l’autore, se da un lato celebra Augusto per aver portato benessere e pace allo stato romano, dall’altro rivela la fine della repubblica e mostra gli svantaggi del dominio cesariano, esercitato sempre grazie alla forma debole ed eufemistica del nomen principis8, che può quasi essere definita il “contenitore” entro il quale Ottaviano, con una parvenza di legalità, dominò attraverso la sostanza forte del suo potere, ossia l’imperium. Per chiarire 5 “Bellum ea tempestate nullum nisi aduersus Germanos supererat, abolendae magis infamiae ob amissum cum Quintilio Varo exercitum quam cupidine proferendi imperii aut dignum ob praemium. Domi res tranquillae, eadem magistratuum uocabula; iuniores post Actiacam uictoriam, etiam senes plerique inter bella ciuium nati: quotus quisque reliquus qui rem publicam uidisset?”, Tacito, Annales ab excessu Divi Augusti., I, 3 6 “Postquam hic socordia senuerit, ille per libidines pessum datus sit, non aliud discordantis patriae remedium fuisse quam ut ab uno regeretur”, Tacito, op. cit., I, 9 7 “ubi militem donis, populum annona, cunctos dulcedine otii militem surgere paulatim, munia senatus magistratuum legatum in se traehere, aduersante, cum ferocissimi per acies aut proscriptione cecidissent, ceteri nobilium, quanto quis seruitio promptior, opibus et honoribus extollerentur ac nouis ex rebus aucti tuta et praesentia quam uetera et periculosa mallent”, Tacito, op. cit., I, 2 8 “Non regno tamen neque dictatura sed principis nomine constitutam rem publicam;”, Tacito, op. cit., I, 9 7 meglio, secondo la legge Augusto si trovava in una posizione di primus inter pares, godeva cioè degli stessi poteri dei suoi colleghi, e deteneva soltanto l’auctoritas, autorevolezza morale ma in realtà, egli, legittimando il suo potere con il nomen principis, assommò su di sé tutte le prerogative del senato, delle magistrature e delle leggi. Il passo tacitiano sembra essere dunque anche un commento alquanto critico alla celebre formulazione delle Res Gestae: all’augustea auctoritas corrisponde il nomen principis di Tacito. Impossibile poi non notare che l’autore, scrittore grandissimo, non di rado si arroga il compito, più che di storico delle vicende umane, di censore o di giudice implacabile, severissimo nelle condanne. Lapidario risulta in particolare il profilo della società che egli traccia; a suo parere, tutte le classi, senza eccezioni, nutrono forti passioni politiche e sono dominate da incontrastabili sentimenti di ambizione, bramosia di potere e di prestigio personale, invidia, ipocrisia e spesso anche presunzione. Significativo poi il quadro del principato che emerge dal testo di Tacito, il quale ci riporta e descrive minuziosamente i funerali del princeps e le opinioni che aveva tutto il popolo romano riguardo a lui. In questo contesto possiamo osservare in particolare che, se da una parte diverse personalità autorevoli elogiavano largamente il suo operato e proponevano il conferimento di onoranze funebri grandiose9, dall’altro, numerosi erano quelli che lo criticavano e giudicavano aspramente quanto lui aveva eseguito. Secondo questi ultimi, Augusto non aveva preso in mano le redini dello stato con l’intento di vendicare l’uccisione del padre o perché preoccupato delle condizioni in cui versava lo stato romano, bensì perché dominato, da profondi sentimenti di bramosia di potere e avidità di denaro; aveva conquistato la sua posizione con mera corruzione, concedendo ai veterani e al popolo frequenti donativi ed elargizioni e imponendo poi, contro il volere del senato, la propria nomina alla carica di console.10 Poco dopo aveva stretto un apparente patto di amicizia con Lepido ed Antonio che gli permise l’emanazione di nuove e terribili liste di proscrizione; liberatosi poi di questi ultimi, era iniziato un periodo di pace, determinato però da continue e dure battaglie in territorio straniero. Negativi altresì i giudizi relativi alla vita privata dell’imperatore; Tacito sostiene addirittura che egli abbia sottratto la moglie a Nerone e che abbia beffeggiato i pontefici, domandando loro se gli era permesso sposare Livia nonostante questa fosse incinta. Dal rigidissimo giudizio di Tacito non si salva neppure quest’ultima, criticata fortemente per la sua condotta scandalosa e protagonista degli intrighi legati alla successione al trono che accompagnano tutto il passo tacitiano. 9 “Tum consultatum de honoribus; ex quis qui maxime insignes uisi, ut porta triumphali duceretur funus Gallus Asinius, ut legum latarum tituli uictarum ab eo gentium uocabula anteferrentur L. Arruntius censuere.”, Tacito, op. cit., I, 8 10 “Dicebatur contra: pietatem erga parentem et tempora rei publicae obtentui sumpta: ceterum cupidine dominandi concitos per largitionem ueteranos, paratum ab adulescente priuato exercitum, corruptas consulis legiones, simulatam Pompeianarum gratiam partium; mox ubi decreto patrum fascis et ius praetoris inuaserit, caesis Hirtio et Pansa, siue hostis illos, seu Pansam uenenum uulneri adfusum, sui milites Hirtium et machinator doli Caesar abstulerat, utriusque copias occupauisse; extortum inuito senatu consulatum, armaque quae in Antonium acceperit contra rem publicam uersa;”, Tacito, op. cit., I, 10 8 Per quanto concerne lo stile letterario, appare anch’esso diverso rispetto a quello augusteo. La scrittura di Tacito si rivela infatti intensa e di grande suggestione artistica; la prosa, concisa e allusiva, predilige l’uso della varietas, dissimmetria con mutamenti inaspettati di struttura e nell’ordine delle parole, di ellissi, di metafore “violente”, di audaci personificazioni, senza tralasciare circonlocuzioni creative e dizioni che si estendono fino ai limiti del lessico latino. Possiamo tuttavia notare come lo stile cambi profondamente nel corso della lettura; dal tredicesimo libro in poi, l’autore si serve di un genere più tradizionale e vicino ai canoni dello stile classico e predilige l’uso di espressioni meno ricercate, forse perché anche lo stile letterario dell’età repubblicana, arcaico e solenne, aveva subito profonde trasformazioni nel corso del I secolo. Alla luce di quanto detto finora, tenuto conto dell’intenzionalità della fonte, dello scopo per cui è stata prodotta e soprattutto del coinvolgimento dell’autore, l’opera di Tacito, si può considerare attendibile, se analizzata con una coscienza critica che sia capace di discernere la concretezza dei fatti realmente accaduti dal, seppur involontario, giudizio dell’autore. ROMA, DA CITTA’ DI MATTONI A CITTA’ DI MARMO Al momento dell’ascesa al trono di Augusto, la capitale versava in condizioni di profondo degrado; erano infatti parecchie le aree devastate a causa della scarsa manutenzione, dei repentini incendi e delle frequenti alluvioni del Tevere. Pertanto, poichè risultava chiaramente necessario che la città venisse al più presto ricondotta all’ordine, Ottaviano trasformò questa grande emergenza in un efficace strumento propagandistico; egli si impegnò ben presto in un ampio piano urbanistico di ristrutturazione della capitale e di costruzione di nuovi monumenti, i quali dovevano celebrare non solo la grandezza della città ma anche la figura del principe. In quel tempo inoltre, la causa del disordine e la decadenza dello stato erano comunemente attribuite alla perdita della religione tradizionale, quindi Augusto, per agire in accordo con questo sentimento comune, prestò particolare attenzione alla restaurazione di numerosi templi a Roma e al ripristino di antichi culti che erano stati abbandonati. Tra le opere principali, elencate anche dall’imperatore nel suo modello di auto elogio, ricordiamo innanzitutto nella zona del Campidoglio la restaurazione dell’antico tempio edificato in onore di Vesta e del tempio di Giove Ottimo Massimo, dedicato alla triade capitolina, Giove, Giunone Regina e Minerva, dove terminavano le cerimonie trionfali e si svolgevano le assemblee solenni del Senato, oltre ai sacrifici augurali dei nuovi consoli. In aggiunta a ciò, sul colle Palatino si dedicò all’edificazione di un nuovo tempio dedicato ad Apollo, il dio del Sole di cui si riteneva figlio, accanto al quale fece appositamente porre la sua residenza; non dimentichiamo poi la completa restaurazione del tempio della grande Madre, chiamato anche Lupercale in quanto si tratta del luogo dove, secondo l’antica tradizione, la lupa aveva allattato i due gemelli Romolo e Remo. Numerosi per di più gli interventi attuati nel Foro come la sistemazione della Basilica Emilia e del tempio di Saturno, dove venivano custodite le imposte delle province, le insegne dello stato e una bilancia per la pesatura ufficiale del metallo, senza tralasciare l’aggiunta di una nuova sede per le adunanze del senato e l’ampliamento della piazza stessa con una sezione dedicata ad Augusto. 9 Da non dimenticare, sempre nella zona del Foro, la costruzione del tempio dedicato a Marte Ultore, cioè Vendicatore, a cui Augusto aveva promesso in voto un tempio poco prima della battaglia di Filippi (42 a.C.), nella quale vendicò la morte di Cesare con l’uccisione di Bruto e Cassio. Menzioniamo poi altri interventi rilevanti quali la restaurazione del teatro di Pompeo, primo teatro romano costruito in muratura, la sistemazione di alcuni acquedotti e in particolare dell’Aqua Marcia, ricostruito in seguito ad un incremento di portata, pressoché raddoppiata con la captazione di una nuova sorgente. LA RISISTEMAZIONE DEL CAMPO MARZIO: I MOTIVI DI ORDINE IDEOLOGICO E SIMBOLICO In questo contesto corre altresì l’obbligo di ricordare il Campo Marzio, una vasta area pianeggiante situata tra l’antica via Flaminia e l’ansa del fiume Tevere, in cui si riunivano i soldati armati in occasione dei comizi centuriati. Il Campo Marzio, che rappresenta una delle zone più toccate dal progetto urbanistico augusteo, ci Ricostruzione Campo Marzio, Roma viene minuziosamente tramandato dallo storico greco Strabone il quale, oltre a menzionare i portici, i circhi, le palestre, i teatri, i templi che vi erano stati edificati e l’ampia pianura verdeggiante ombreggiata da boschi sacri che dominava il territorio, pone particolare rilievo alla sacralità del luogo, che egli definisce locus amoenus, dovuta in particolare ai monumenti che vi si trovavano. Partendo da Nord, possiamo osservare in primis l’imponente Mausoleo di Augusto, ossia la tomba che l’imperatore aveva fatto costruire per sé stesso e per i suoi congiunti. La costruzione di questo monumento funerario iniziò nel 28 a.C., subito dopo il ritorno di Augusto dall’oriente, dove quest’ultimo potè ammirare la monumentale tomba che Artemisia aveva fatto costruire nel 353 a.C. ad Alicarnasso in onore del marito Mausolo, opera da cui Ricostruzione Mausoleo di Augusto, Campo Marzio, Roma l’imperatore trasse ispirazione per la costruzione della propria tomba. 10 Il Mausoleo di Augusto è un monumento a pianta circolare, costituito da un basamento in travertino di dodici metri e da sette anelli in calcestruzzo rivestito di marmo o pietra arenaria; tra i gradoni a cerchi concentrici si trovano alberi sempreverdi, soprattutto cipressi, i quali rappresentano un evidente richiamo all’immortalità. Nel portico erano collocate le due colonne su cui era stata incisa l’opera delle Res Gestae Divi Augusti, mentre all’interno si trovava un grande pilastro con una stanzetta quadrata che corrispondeva alla tomba di Augusto. Dopo una passeggiata in un piccolo bosco sacro, poco distante dal Mausoleo troviamo anche l’ustrinum, ossia il luogo adibito alla cremazione del corpo prima che venisse sepolto. Infine, proseguendo verso Sud-Est, un tempo si scorgevano l’Ara Pacis, il cosiddetto “Altare della Pace”, e l’Horologium Augusti, che delimitavano questa area del Campo Marzio a cui l’imperatore volle affidare la sua memoria. La costruzione dell’Ara Pacis fu concordata nel 13 a.C. per volontà dell’ordine senatorio in onore di Augusto, il quale era tornato a Roma vittorioso in seguito alla pacificazione della Gallia e della Spagna; i Ara Pacis, complesso museale dell’Ara Pacis, Roma lavori terminarono definitivamente nel 9 a.C. quando l’altare fu ufficialmente dedicato all’imperatore. L’altare vero e proprio, sul quale venivano compiuti i sacrifici, si innalza su una piattaforma di tre gradini, entro un recinto quadrilatero di 11,63 x 10,625 metri, con due porte che si aprono sui lati corti. Questo recinto, muro marmoreo di 4,50 metri di altezza, interamente coperto di finissime decorazioni sia sui lati esterni sia su quelli interni, forma una cornice di bellezza e ricchezza incomparabili. La decorazione della parte esterna, affidata con tutta probabilità a scultori greci attivi a Roma nel I secolo a.C., è costituita da un fregio figurato nella fascia superiore e da un motivo di girali d’acanto in quella inferiore. Quest’ultimo ornamento a bassorilievo, estremamente fine ed elegante, rappresenta 11 Girali d’acanto che decorano la fascia inferiore del recinto dell’Ara Pacis uno dei più grandi capolavori della scultura classica; i girali celano nel fogliame piccoli animaletti come lucertole, rane, serpenti… e si dipartono in maniera simmetrica da un unico cespo che si trova al centro di ciascun pannello. Impossibile poi non notare che l’intera raffigurazione contiene un evidente aspetto politico-propagandistico e allude allo stato aureo di natura e al ritorno di un’età di pace e tranquillità, sotto la guida del princeps. Per quanto concerne invece la parte superiore, la fascia figurativa sui lati corti, ossia quelli che si volgevano ad est e ad ovest, si divide in quattro pannelli mentre sui lati lunghi, cioè nord e sud, presenta un fregio continuo, che va letto ed interpretato unitariamente come un’unica scena. Partiamo con i due pannelli del lato ovest, il lato principale dal quale si accedeva all’altare. Una delle due formelle, di cui oggi restano pochi frammenti, raffigura l’allattamento dei gemelli Romolo e Remo da parte della lupa presso il Ficus ruminalis,11 tra i resti di piante palustri che caratterizzano lo sfondo; riconoscibili altresì il dio Marte armato, padre dei due gemelli, il pastore Faustolo e altre divinità. Nella formella di destra osserviamo Formella di sinistra lato ovest Ara Pacis: la lupa allatta i gemelli invece Enea, figlio di Venere, che assieme al figlio Julo sacrifica presso un altare una scrofa ai e ai Penati, divinità protettrici della famiglia. In questo modo l’altare mette chiaramente in luce doppia origine divina dei romani e del princeps: dio guerriero i primi, tramite i gemelli Romolo e Remo, e da Venere il secondo, tramite il pius Enea. Lari la dal Formella di destra lato ovest Ara Pacis: sacrificio di Enea ai Penati Proseguiamo poi con il pannello di sinistra del fronte orientale, uno dei meglio conservati e pervenutoci praticamente integro. Su di esso è rappresentata una grande figura matronale, la cosiddetta Saturnia Tellus, seduta con in grembo due putti e alcune primizie; ai lati troviamo poi Formella di sinistra lato est Ara Pacis: Saturnia due ninfe seminude, una seduta su un cigno in Tellus volo, simbolo dell’aria, e l’altra su un drago marino, simbolo dell’acqua. La figura femminile, che potrebbe essere una Venere Genitrice 11 secondo il mito della fondazione di Roma, l'albero di fico selvatico nei pressi del Tevere sotto il quale Romolo e Remo furono allattati dalla lupa 12 oppure la personificazione dell’Italia, è certamente simbolo della terra fertile e dei suoi frutti, rappresentati dai due bimbi che le siedono in grembo; chiaro pertanto il richiamo che rimanda nuovamente alla prosperità e al benessere del principato augusteo. Il pannello di destra del fronte orientale, pervenutoci invece in resti molto scarsi, permette di riconoscere sulla destra solo una personificazione della dea Roma vincitrice, seduta su una catasta d’armi che tacciono e lasciano spazio alla pace. Formella di destra lato est Ara Pacis: dea Roma Sul fronte sud appare poi la scena più importante e meglio conservata, la processione, con personaggi della famiglia imperiale; la successione delle figure ricalca un preciso schema protocollare, legato inevitabilmente al programma dinastico concepito da Augusto attorno al 10-9 a.C.. La processione ha inizio con Processione lato sud Ara Pacis con al centro la raffigurazione lacunosa dei littori, seguiti da Augusto una serie di togati a partire da Augusto col capo velato e coronato di alloro, nella veste di pontifex maximus; chiudono poi il corteo ufficiale alcuni degli ordini sacerdotali maggiori (Diali, Marziali, Quirinali…). A questo punto, dopo un netto stacco, inizia la processione della famiglia imperiale. Per primo si trova Agrippa, amico e principale collaboratore di Augusto, morto nel 12 a.C.; seguono il piccolo Caio Cesare, figlio di Agrippa, e Livia, seconda moglie di Augusto. La dei successione congiunti è così sapientemente Processione lato nord Ara Pacis calcolata che, come è stato notato, tutti gli imperatori romani, fino a Nerone, discendono dai membri della gens Julia qui raffigurati; altri membri della famiglia imperiale, in genere di minore spicco, compaiono sul lato settentrionale del recinto. In ogni caso la scena non va interpretata come un reale corteo, così come potrebbe essere avvenuto nel 13 a.C., poiché Augusto sarebbe diventato pontefice massimo solo nel 12 a.C., né può essere la processione del 9 a.C., perché Agrippa era già morto, Tiberio e Druso si trovavano in campagne militari nell'Illirico e in Germania. Si tratta quindi di una 13 raffigurazione politica ideale, da mettere in relazione con le gravi incertezze di quegli anni legate alla successione, che troveranno una temporanea soluzione nel 6 a.C. con la crisi e l'esilio volontario di Tiberio. Per quanto concerne invece l’interno, la superficie presenta nella parte superiore festoni sorretti da bucrani, cioè crani di buoi con ghirlande, mentre in quella inferiore steccati, un motivo già presente negli altari romani risalenti al VII-VI secolo a.C. Decorazioni parete interna Ara Pacis L’Ara sorgeva un tempo lungo la via Flaminia, esattamente alla distanza di un miglio dal pomerium,12 e presenta, come già detto, delle aperture pronunciate su due dei quattro lati. Essa rappresentava probabilmente un accesso simbolico alla città da settentrione come il tempio di Giano a sud di Roma, anch’esso aperto su due lati e legato alla simbologia del passaggio dalla guerra alla pace, ne costituiva invece l’ingresso meridionale. In secondo luogo è doveroso ricordare che questo monumento, il quale rivolgeva ad occidente la sua apertura principale, si trovava in stretto legame simbolico anche con l’Horologium Augusti, collocato nella zona antistante l’ara stessa. L’orologio era formato da una vasta piazza di circa 160 x 175 metri, pavimentata in travertino e sulla quale erano tracciate, con dei listelli di bronzo, le indicazioni delle ore; utilizzava poi come gnomone un grande obelisco egiziano in granito rosso di circa 30 metri di altezza, che era stato prelevato dalla città di Eliopoli durante lo scontro in Egitto. L’obelisco, che si trova oggi, in seguito a numerosi e talvolta difficili spostamenti in piazza Montecitorio, reca sulla base la seguente dedica che Ottaviano fece incidere in onore di Apollo, il dio Sole, di cui Obelisco Horologium Augusti, piazza Montecitorio, Roma l’imperatore si riteneva figlio. « Imp. Caesar divi fil. / Augustus / pontifex maximus / imp. XII cos XI trib pot XIV / Aegypto in potestatem / populi romani redacta / soli donum dedit. » « L'imperatore Augusto, figlio del divino Cesare, pontefice massimo, proclamato imperatore per la dodicesima volta, console per undici volte, che ha rivestito la potestà tribunizia per quattordici volte, avendo condotto l'Egitto in potere del popolo romano, diede in dono al sole » 12 Confine della città di Roma entro il quale l’esercito non poteva entrare armato 14 Secondo alcuni studi approfonditi e le testimonianze pervenuteci, ogni anniversario dalla nascita di Augusto (23 settembre) questo obelisco gettava la sua ombra al centro dell’altare; tenendo conto invece di altre ipotesi, si può supporre che ci fosse un ulteriore legame simbolico il quale univa in un unico orizzonte visivo tutti tre i monumenti: l’Ara, l’Horologium e il Mausoleo. L’obelisco dell’orologio, simbolo delle conquiste militari, è dedicato ad Apollo, dio Sole e nume tutelare di Augusto; la permanenza dell’astro solare nel cielo diurno inizia a prolungarsi a partire dal solstizio d’inverno, giorno in cui Augusto venne concepito mentre il suo giorno natale, che coincide con l’equinozio d’autunno, segna l’inizio di un’era di pace e prosperità. E’ altresì opportuno ricordare che attraverso alcune simulazioni si è potuto osservare che la sfera solare proiettava la sua ombra al centro dell’obelisco il 9 ottobre, giornata in cui veniva celebrato il tempio di Apollo. BREVE STORIA DEL RITROVAMENTO DELL’ARA PACIS A partire dal II secolo d.C. non si ebbe più notizia dell’Ara Pacis il cui ritrovamento iniziò soltanto nel 1568 quando, in occasione di alcuni restauri presso palazzo Peretti, diversi blocchi di marmo, che si pensava appartenessero ad un arco di trionfo, si dispersero tra la Galleria degli Uffizi, il Museo Vaticano, il Museo del Louvre e la Villa Medici. Dopo questi ritrovamenti non si seppe più nulla riguardo all’altare fino al 1859, quando palazzo Peretti richiese ulteriori lavori di consolidamento durante i quali fu visto il basamento dell’altare e altri frammenti scolpiti. In quella occasione furono recuperati numerosi frammenti del fregio a girali, ma solo nel 1903, a seguito del riconoscimento dell'Ara operato da Friedrich von Duhn, fu inoltrata una richiesta al Ministro della Pubblica Istruzione per la ripresa dello scavo. Nel luglio 1903, iniziati i lavori, fu subito chiaro che le condizioni erano estremamente difficili e che alle lunghe poteva essere compromessa la stabilità del palazzo pertanto, esplorata circa metà del monumento e recuperati cinquantatrè frammenti, lo scavo venne interrotto. Nel febbraio 1937, il Consiglio dei Ministri, in vista del bimillenario della nascita di Augusto, decretò la ripresa dello scavo con l'impiego di tecniche all’avanguardia. Tra il giugno e il settembre 1938, contemporaneamente allo scavo, si svolsero anche i lavori del padiglione che avrebbe ospitato la ricostruzione dell'Ara Pacis sul Lungotevere e il 23 settembre, il giorno stesso di chiusura dell'anno augusteo, Mussolini inaugurò il monumento. Negli anni del conflitto le vetrate del padiglione furono rimosse e il monumento fu protetto da sacchetti di pozzolana, sostituiti in seguito da un muro paraschegge; solamente nel 1970 la teca venne ripristinata. Importante però notare che l’altare, nel periodo in cui venne conservato all’interno di questo padiglione, subì gravi danni a causa del microclima sfavorevole e dell’elevato inquinamento; nel 2000 si decise dunque di smantellare la struttura e il progetto per la costruzione di un nuovo padiglione venne affidato a Richard Meier, studioso statunitense a cui si devono alcuni dei più notevoli musei della seconda metà del Novecento. Per la realizzazione del nuovo Museo sono state impiegate materie prime e realizzati impianti di assoluta qualità; l’illuminazione, sia interna che esterna, notturna e diurna, utilizza riflettori dotati di accessori anti-abbagliamento, filtri per la resa del colore e lenti 15 che circoscrivono e modulano la distribuzione del fascio luminoso in relazione alle caratteristiche delle opere esposte. LA FIGURA DI AUGUSTO: CONTORNI QUASI SACRI Come già emerso dai paragrafi precedenti, la propaganda costituì una caratteristica fondamentale del principato augusteo; quest’ultima non si inserì soltanto nel campo urbanistico con la costruzione di ponti, strade, acquedotti, terme e soprattutto templi ma immise in ogni aspetto culturale, artistico e letterario elementi atti a convincere ed orientare l’opinione pubblica a favore dell’impero. Oltre all’esempio dell’Ara Pacis che abbiamo appena menzionato, numerosi gli oggetti propagandistici come statue, tripodi di bronzo, scudi celebrativi dedicati all’imperatore, il quale, nel tempo, aveva assunto dei contorni quasi sacri. Tra questi ricordiamo in particolare la celebre statua di Augusto, ritrovata nella villa della sua seconda moglie Livia, a Prima Porta, e conservata attualmente nei Musei Vaticani. Si tratta probabilmente di una copia in marmo bianco di una bronzetto risalente al 20 a.C., che celebra la riacquisizione delle insegne militari catturate dai Parti nel 53 a.C., dopo la sconfitta di Crasso a Carre. La statua, conosciuta anche con il nome di Augusto loricato (dalla lorica, la corazza in pelle dei legionari), è alta 2,08 metri, nonostante il princeps fosse alto soltanto 1,70 metri, e ritrae Augusto con le fattezze di un giovane, imitando forse i lineamenti di Alessandro Magno che morì quando aveva trentatrè anni. Augusto viene raffigurato sotto le vesti di imperator, mentre incita l’esercito nell’imminenza della battaglia con il braccio destro alzato e con la mano sinistra che impugna una lancia; la posizione in cui egli si trova è quella del Doriforo di Policleto, perfettamente bilanciato nella disposizione incrociata tra gli arti superiori e quelli inferiori. Importante poi sottolineare che egli non porta calzature, segno del suo status “divino” in quanto le divinità venivano rappresentate sempre a piedi nudi; inoltre, ai piedi della statua, è collocato, a cavallo di un delfino, un piccolo Eros, figlio di Venere, la quale viene Statua di Augusto loricato, Musei Vaticani, Roma richiamata alla mente dell’osservatore poichè considerata la divina progenitrice della famiglia di Augusto, la gens Julia. La figura, come già detto, indossa una corazza in pelle con ricchi decori dal carattere simbolico che fanno riferimento all’ideologia augustea. Partendo dall’alto, visualizziamo una personificazione del Caelum, sotto il quale vola la quadriga del Sol; proseguendo verso destra troviamo invece la Luna quasi completamente coperta dall’Aurora, che tiene in 16 mano un vaso, mentre a sinistra è collocato Apollo sopra ad un carro. Al centro si trova la scena principale, che raffigura il re dei Parti, Fraate IV, mentre restituisce ai Romani le insegne strappate dopo la sconfitta presso Carre del 53 a.C.; è possibile che il generale romano, raffigurato con ai piedi un cane, o più probabilmente un lupo, simbolo di Roma per eccellenza, sia Tiberio, visto che proprio lui partecipò alla campagna partica tuttavia, non è da escludere che si tratti di Augusto o di un semplice legionario romano. In basso, semisdraiata, è raffigurata Madre Terra con un corno colmo di frutta e due neonati che si afferrano alla veste della dea, ai due lati si vedono invece due donne che piangono e rappresentano le province conquistate (Gallia e Spagna). Da notare infine, posizionate sulle spalle della corazza, delle borchie a forma di Sfinge, immagine presente anche sul sigillo di Augusto in ricordo della celebre vittoria egiziana. Un’altra statua di cui risulta doveroso far menzione è l’Augusto di via Labicana che deve il suo nome alla zona dove venne ritrovata. L’Augusto di via Labicana, oggi conservato presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme, è una copia di età tiberiana di un ritratto dell’imperatore eseguito alla fine del I secolo a.C. o agli inizi del I secolo d.C.. Anche questa statua, come la precedente, è alta più di due metri ma, a differenza dell’altra ritrae Augusto nelle sembianze di pontifex maximus. Egli presenta infatti il capo velato ed è avvolto da una tunica drappeggiata; probabilmente nella mano destra, che è stata spezzata, teneva una patera, piatto rituale utilizzato per lo spargimento di vino durante la celebrazione rituale. Dalla descrizione delle due statue possiamo facilmente osservare che Augusto veniva rappresentato in diverse occasioni (nella prima, ad esempio, sotto le vesti di imperator, nella seconda, invece, nelle sembianze di pontifex maximus); questo aspetto risulta essere dunque un’ulteriore testimonianza della somma di potere che quest’ultimo possedeva, paragonabile persino a quella dei primi re romani. Augusto di via Labicana, Museo Nazionale Romano, Roma 17 IL NUOVO COME RESTAURAZIONE DELL’ANTICO: I VALORI TRADIZIONALI DI ROMA NELLE FONTI LETTERARIE Come già detto sopra, la decadenza dello stato era comunemente attribuita all’abbandono delle antiche virtù dei Romani, pertanto, uno dei problemi principali che Augusto dovette affrontare durante il suo principato fu il ripristino dei tradizionali valori che costituivano il mos maiorum romanum, ossia il nucleo della morale della civiltà romana. Tra questi ricordiamo in primo luogo il ritorno alla vita agreste e il lavoro della terra, ideali presentati come sede di pace e di tutte le virtù e promossi da una legge promulgata da Augusto che proibiva l’eccessiva ostentazione del lusso; questo aspetto è chiaramente visibile soprattutto nelle laudes Italiae di Virgilio, in cui si fa riferimento alle ricche messi dei campi e agli alberi ricchi di frutti maturi che occupavano il territorio romano13. In questo passo, confrontando i luoghi esotici, specialmente quelli orientali, con l’Italia, l’autore elogia il proprio Paese, affermando che esso è superiore a tutti gli altri per clima, fertilità della terra, opere realizzate dall’uomo, stirpi gloriose e grandi condottieri, tra i quali l’ultimo è il grande Ottaviano, vincitore dell’Oriente corrotto e dissoluto.14 Un altro valore tradizionale che si intravede dalla lettura delle laudes Italiae e che stava alla base del mos maiorum romanum è sicuramente la contrapposizione delle virtù romane agli eccessi dell’Oriente; questo contrasto con il mondo orientale si evince in particolare da un passo delle Odi di Orazio, in cui si festeggia di fronte all’annuncio appena arrivato del suicidio di Cleopatra.15 In aggiunta a ciò, dobbiamo ricordare che la politica augustea era fortemente incentrata anche sul valore della famiglia, intesa come la cellula base della società romana. Per mantenere integro questo ideale, fra il 18 e il 17 a.C. l’imperatore fece approvare una serie di leggi che miravano a frenare la decadenza dell’istituzione familiare, di cui si notavano le conseguenze nella diffusione smodata degli adulteri e nel calo drastico delle nascite. In particolare, con l’emanazione della Lex Iulia de Adulteriis Coercendis, citata anche nell’Ode oraziana più celebrativa 16, gli adulteri venivano considerati dei crimini e puniti pertanto con l’esilio; di questa legge fece le spese anche la figlia di Augusto, Giulia, che il padre condannò all’esilio nell’isola di Ventotene nel 2 d.C., in seguito a una denuncia per adulterio. Invece, con la promulgazione della Lex Iulia de Maritandis Ordinibus, di cui si fa chiara menzione addirittura nel Carmen Saeculare di Orazio17, tutti i cittadini in età fertile erano obbligati a sposarsi, o a risposarsi se vedovi; inoltre, le famiglie numerose ricevevano un sussidio mentre quelle senza figli venivano multate. 13 “sed grauidae fruges et Bacchi Massicus umor impleuere; tenent oleae armentaque laeta.”, Virgilio, Georgiche, II, vv. 136-176 14 “Haec eadem argenti riuos aerisque metalla ostendit uenis atque auro plurima fluxit. Haec genus acre uirum, Marsos pubemque Sabellam assuetumque malo Ligurem Volscosque uerutos extulit, haec Decios Marios magnosque Camillos, Scipiadas duros bello et te, maxime Caesar, qui nunc extremis Asiae iam uictor in oris imbellem auertis Romanis arcibus Indum.”, Virgilio, Georgiche, II, vv.136-176 15 “Antehac nefas depromere Caecubum cellis auitis, dum Capitolio regina dementis ruinas funus et imperio parabat contaminato cum grege turpium morbo uirorum, quidlibet impotens sperare fortunaque dulci ebria.”, Orazio, Odi, I, 37 16 “Ianum Quirini clausit et ordinem rectum evaganti frena licentia/ iniecit emovitque culpas et veteres evocavit artis”, Orazio, Odi, IV, 15 17 “diva, producas subolem patrumque prosperes decreta super iugandis feminis prolisque novae feraci lege marita,”, Orazio, Carmen Saeculare 18 Infine, il princeps si impegnò altresì nel ripristino di antichi culti e rivendicò sempre la discendenza dagli antenati leggendari Romolo e Remo nonché dalla dea Venere, madre di Enea. Anche questo aspetto emerge dalla lettura di alcuni passi di Orazio e Virgilio; numerosi infatti i richiami alla tradizione romana soprattutto nel I libro dell’Eneide dove si descrive ampiamente la leggenda e si profetizza la potenza di Cesare Augusto18 e nel VI in cui Anchise, sceso negli inferi con il figlio Enea, mostra a quest’ultimo tutti i suoi successori tra cui anche Ottaviano19. Evidenti riferimenti alla tradizione sono ben visibili anche dalla lettura del Carmen Saeculare20 e di un breve passo delle Odi di Orazio21. LA PROPAGANDA AUGUSTEA NELLA LETTERATURA: I TEMI PRINCIPALI DELLE OPERE DI VIRGILIO ED ORAZIO L’idea che con il principato augusteo fosse arrivata un’epoca di pace, che il saeculum augustum fosse una rinnovata età dell’oro e che Roma fosse destinata dagli dei a governare il mondo non era diffusa tra i Romani soltanto attraverso le statue del principe, le monete, i monumentali edifici pubblici, ma anche attraverso le creazioni di grandi poeti che fecero di questi temi lo sfondo principale delle loro opere. Questi ultimi, tra cui ricordiamo in particolare Virgilio, Properzio, Orazio, Tibullo e Livio, si raccolsero ben presto attorno a Mecenate, amico e stretto collaboratore di Augusto. Egli, che aveva facilmente compreso quale rilievo avessero l’arte e la poesia presso l’opinione pubblica, istituì un vero e proprio circolo di intellettuali che protesse, incoraggiò e sostenne nella loro produzione artistica attraverso doni e aiuti finanziari tratti dal suo ingente patrimonio. In cambio, questi autori celebravano nei loro versi lo stesso Mecenate, Augusto e talvolta anche il suo programma politico, tuttavia appare di fondamentale importanza sottolineare che essi mantennero la loro indipendenza personale e non composero mai alcun testo di esplicita ed eclatante esaltazione dell’impero. Il tema principale, che domina soprattutto le opere composte tra l’uccisione di Cesare e l’affermazione del principato, è quello della grande paura delle guerre civili, le quali avevano travolto la repubblica romana per quasi un secolo. Gli autori che vissero in questo periodo turbolento e che si occuparono di questo tema, in particolare Virgilio ed Orazio, fecero emergere il dramma delle guerre civili ma diedero anche altissima forma artistica al desiderio di ricostruzione e pacificazione, contribuendo a plasmare l’idea di un ritorno dell’età dell’oro. In questo contesto corre innanzitutto l’obbligo di citare un passo del I libro delle Georgiche in cui Virgilio, enumerando i parecchi prodigi che sconvolsero la natura alla morte di Cesare, riporta il quadro desolato e realistico dell’attualità di Roma, 18 “nascetur pulchra Troianus origine Caesar, imperium Oceano, famam qui terminet astris, Iulius, a magno demissum nomen Iulo. Hunc tu olim caelo spoliis Orientis onustum accipies secura; vocabitur hic quoque votis. Aspera tum positis mitescent saecula bellis: cana Fides et Vesta, Remo cum fratre Quirinus iura dabunt;”, Virgilio, Eneide, 254-296 19 “Hic Caesar et omnis Iuli progenies magnum caeli uentura sub axem. Hic uir, hic est, tibi quem promitti saepius audis, Augustus Caesar, diui genus, aurea condet saecula qui rursus Latio regnata per arua Saturno quondam, super et Garamantas et Indos proferet imperium; iacet extra sidera tellus, extra anni solisque uias, ubi caelifer Atlas axem umero torquet stellis ardentibus aptum. huius in aduentum iam nunc et Caspia regna responsis horrent diuum et Maeotia tellus, et septemgemini turbant trepida ostia Nili.”, Virgilio, Eneide, VI, vv.781-886 20 “Roma si vestrum est opus Iliaeque litus Etruscum tenuere turmae, iussa pars mutare lares et urbem sospite cursu, cui per ardentem sine fraude Troiam castus Aeneas patriae superstes liberum munivit iter, daturus plura relictis:”, Orazio, Carmen Saeculare 21 “Lydis remixto carmine tibiis Troiamque et Anchisen et almae progeniem Veneris canemus.”, Orazio, Odi, IV, 15 19 incentrandolo sul tema della guerra22. Il confronto più immediato si effettua sicuramente con l’Epodo XVI di Orazio, componimento che riflette ancora una volta lo sconforto dei Romani per il protrarsi e il rinfocolarsi dei conflitti interni; qui Orazio propone ai suoi concittadini, come unica via di uscita, una fuga verso l’isola dei Beati, alla ricerca della tranquillità e della sicurezza23. Altrettanto chiaro il richiamo a questo tema nell’Epodo VII, nel quale Orazio giustifica il delitto della guerra, attribuendolo alla colpa originaria di Roma, ossia il fratricidio, da cui deriverebbe il conflitto24. Alla paura di un nuovo conflitto si contrapponeva però, come già detto, il preannuncio di un’era di pace e prosperità in cui anche gli autori speravano; questo aspetto si ricava chiaramente dalla IV Bucolica di Virgilio, in cui si prevede l’arrivo venturo di un puer (le cui identificazioni sono state molteplici: addirittura Gesù Cristo), portatore di una radicale rivoluzione futura della vita degli uomini, che potranno godere di un periodo straordinario di pace interna e benessere 25; quest’ultimo ideale di tranquillità e antimilitarismo si evince anche in un passo del IV libro delle Odi di Orazio26. Non dimentichiamo poi un ultimo concetto trattato da Virgilio, ossia la forte critica alle espropriazioni effettuate da Augusto nel 37 a.C. per conferire terre ai veterani al momento del congedo. Questo concetto si ricava anche dalla lettura della I Bucolica, nella quale si tiene un dialogo tra due pastori, Melibeo e Titiro: il primo colpito dall’esproprio e costretto all’esilio, mentre il secondo graziato dall’intervento di un giovane, identificato con Ottaviano, che gli ha restituito i possedimenti. Qui l’autore, che fu anch’egli vittima per un breve periodo delle confische e che riottenne i suoi possedimenti solo per intercessione di Asinio Pollione e Cornelio Gallo, si immedesima nel personaggio di Titiro 27. 22 “Denique quid vesper serus vehat, unde serenasventus agat nubes, quid cogitet humidus Auster,sol tibi signa dabit. Solem quis dicere falsumaudeat. Ille etiam caecos instare tumultussaepe monet fraudemque et operta tumescere bella. Ille etiam exstincto miseratus Caesare Romam,cum caput obscura nitidum ferrugine texitinpiaque aeternam timuerunt saecula noctem.”, Virglio, Georgiche, I, vv.463-514 23 “Altera iam teritur bellis civilibus aetas, suis et ipsa Roma viribus ruit. Quam neque finitimi valuerunt perdere Marsi minacis aut Etrusca Porsenae manus, aemula nec virtus Capuae nec Spartacus acer novisque rebus infidelis Allobrox nec fera caerulea domuit Germania pube parentibusque abominatus Hannibal: impia perdemus devoti sanguinis aetas ferisque rursus occupabitur solum: barbarus heu cineres insistet victor et Vrbem eques sonante verberabit ungula, quaeque carent ventis et solibus ossa Quirini, (nefas videre) dissipabit insolens. Forte quid expediat communiter aut melior pars, malis carere quaeritis laboribus; nulla sit hac potior sententia”, Orazio, Epodo 16 24 “Quo, quo scelesti ruitis? Aut cur dexteris Aptantur enses conditi? Parumne campis atque Neptuno super fusum est Latini sanguinis, non ut superbas invidae Carthaginis Romanus arces ureret, intactus aut Britannus ut descenderet sacra catenatus via, sed ut secundum vota Parthorum sua Urbs haec periret dextera?Neque hic lupis mos nec fuit leoni bus umquam nisi in dispar feris. Furorne caecus an rapit vis acrior an culpa? Responsum date. Tacent et albus ora pallor inficit mentesque perculsae stupent. Sic est: acerba fata Romanos agunt scelusque fraternae necis, ut inmerentis fluxit in terram Remi sacer nepotibus cruor.”, Orazio, Epodo 7 25 “Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum desinet fave Lucina: tuus iam regnat Apollo. Teque adeo decus hoc aevi, te consule, inibit, Pollio, et incipient magni procedere menses; te duce, si qua manent sceleris vestigia nostri, inrita perpetua solvent formidine terras.”, Virgilio, Bucoliche, IV 26 “ custode rerum Caesare non furor civilis aut vis exiget otium, non ira, quae procudit ensis et miseras inimicat urbis. Non qui profundum Danuvium bibunt edicta rumpent Iulia, non Getae non Seres infidique Persae, non Tanain prope flumen orti.”, Orazio, Odi IV, 15 27 “O Meliboee, deus nobis haec otia fecit. Namque erit ille mihi semper deus; illius aram saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus. Ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum ludere quae vellem calamo permisit agresti.”, Virgilio, Bucoliche I 20 LA COSTRUZIONE DI UN NUOVO REGIME: CONSIDERAZIONI PERSONALI IN MERITO AL CONCETTO DI “NECESSITA’ DELL’IMPERO” L’affermazione del principato augusteo dopo la vittoria di Azio del 31 a.C. ebbe strada spianata: la repubblica romana era stata travolta per quasi un secolo dal disastro delle guerre civili, la lotta politica, in seguito al tentativo di riforma dei Gracchi, si era radicata nel contrasto politico tra ottimati e popolari all’interno dell’oligarchia senatoria, senza dimenticare che la riforma dell’esercito di Gaio Mario aveva aperto la strada alla presa del potere di capi militari i quali, appoggiandosi all’una o all’altra fazione, costituivano un pericolo in quanto potevano ambire ad usurpare il potere centrale e trasformarlo in un potere dispotico. In aggiunta a ciò, con l’avvento di Giulio Cesare si era manifestato un primo tentativo di istituire un potere monarchico, ma questo aveva suscitato una vivissima opposizione all’interno del senato; ben presto l’uccisione di Cesare aveva scatenato un’ennesima guerra civile nella quale, ancora una volta, il senato si era mostrato incapace di tenere le redini dello stato. Tutto questo si era accompagnato, lungo tre generazioni, ad un’immensa distruzione di ricchezza, all’impoverimento dell’Italia e delle province, che avevano sopportato il terribile sistema della riscossione dei tributi tramite appalto gestito dai publicani, e ad un drammatico spargimento di sangue. Tenendo dunque conto della situazione appena illustrata, risulta facile comprendere che, in assenza di un organo istituzionale concorde che fosse in grado di garantire una corretta gestione dello stato e di ripristinare il clima precedente il tumultuoso periodo delle guerre civili, non essendoci per di più la volontà di apportare modifiche alla “macchina” repubblicana, era inevitabile accettare l’imposizione di una qualche forma di potere personale. In questo quadro così drammatico, essendo inoltre basso il rischio di una nuova guerra e non essendoci all’interno dell’oligarchia senatoria un’altra personalità che fosse in grado di contrastarlo, riuscì a distinguersi Caio Giulio Cesare Ottaviano; egli non aveva il genio della guerra, bensì quello incomparabile e insuperabile della politica: coraggioso, in situazioni particolari temerario e cinico, e determinato nelle decisioni. 21 BIBLIOGRAFIA AA.VV., Storia e geografia, Zanichelli Augusto, Res Gestae Divi Augusti Tacito, Annales ab excessu Divi Augusti Enciclopedia Treccani www.arapacis.it Furio Sampoli, Le grandi donne di Roma antica, Newton & Compton editori s.r.l., 2003 Wikipedia Per il testo in lingua latina: www.ips.it 22