taxi teheran - Parrocchia Santa Maria Segreta

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taxi teheran - Parrocchia Santa Maria Segreta
TAXI TEHERAN
INTERVISTA A JAFAR PANAHI
In quali circostanze è nato il progetto di questo film?
Dopo This is not a film e Closed curtain, avevo bisogno di fare uscire a
tutti i costi la mia videocamera dalle mura di casa. Guardavo Teheran
dalle finestre e cercavo un’alternativa. Filmando in strada avrei messo
in pericolo la troupe e il film sarebbe stato interrotto. Un giorno,
sconfortato, ho preso un taxi per tornare a casa. Due passeggeri
discutevano a voce alta. Ed ecco l’idea: visto che i miei primi film
erano tutti ambientati nella città, a quel punto avrei potuto cercare di
fare entrare la città nel mio taxi
Come ha convinto i protagonisti a partecipare a questo progetto?
Ho fatto diverse corse in taxi ascoltando i racconti dei passeggeri e i
loro problemi quotidiani. Alcuni mi riconoscevano, altri no. A un certo
punto, ho preso il mio cellulare e ho cominciato a filmare. L’atmosfera
è cambiata, un passeggero mi ha anche detto: "Per favore, spegni, così
almeno qui possiamo parlare liberamente". Ho capito che non potevo
fare un documentario senza mettere in pericolo i passeggeri. Il mio
film doveva prendere la forma di una docu-fiction.
Come ha fatto per non attirare troppo l'attenzione?
Ho usato una camera Black Magic; si tiene con una mano e si può
facilmente nascondere in una scatola di fazzoletti di carta. Così ho
potuto documentare l’azione che si svolgeva al di fuori del taxi, senza
rivelare le riprese in atto e salvaguardando la sicurezza della troupe
Le limitazioni tecniche sono state un problema?
Tre videocamere in un taxi lasciano poco spazio: dovevo gestire da
solo l’inquadratura, il suono, la recitazione degli attori, la mia
interpretazione e la guida! Non ho utilizzato niente per l’illuminazione
per non attirare l’attenzione e non compromettere le riprese. Abbiamo
solo costruito un grande tetto apribile per avere la luce.
Quanti giorni sono durate le riprese di "Taxi Teheran"?
Le riprese sono durate quindici giorni. Gli attori sono tutti non
professionisti, conoscenti o amici dei conoscenti. La piccola Hana,
l’avvocatessa Nasrin e Omid, il venditore di dvd, interpretano se stessi.
Lo studente cinefilo è mio nipote. La maestra è la moglie di un mio
amico. Il ladro è l’amico di un amico. Il ferito è uno che viene dalla
provincia
TITOLO ORIGINALE
Taksojuht
REGIA
Jafar Panahi
INTERPRETI
Jafar Panahi
DURATA
82’
ORIGINE
Iran 2015
Filmografia
• Taxi Teheran (2015)
• Closed curtain (2013)
• Questo non è un film (2011)
• Offside (2006)
• Oro rosso (2003)
• Il cerchio (2000)
• Lo specchio (1997)
• Il palloncino bianco (1995)
IL REGISTA
Io non comprendo l'accusa di oscenità
diretta ai classici della storia dei film, né
capisco il crimine di cui sono accusato. Se
queste accuse sono vere, voi non state
mettendo sotto processo solo noi ma il
cinema iraniano socialmente impegnato,
umanistico e artistico, un cinema che
prova a stare aldilà del bene e del male, un
cinema che non giudica, né si arrende al
potere o ai soldi ma prova a riflettere
onestamente un'immagine realistica della società».
Questo è uno stralcio del discorso di difesa processuale di
Jafar Panahi, uno dei più influenti registi della Nouvelle
Vague iraniana, condannato nel 2010 a sei anni di carcere e a
venti di proibizione di dirigere, scrivere e rilasciare ogni
forma di intervista con i media stranieri, nonché il divieto di
lasciare l'Iran.
Nato nel 1960 a Mianeh, in Iran, studia regia all'Università
di Cinema e Televisione di Tehran, lavora come assistente
regista di Abbas Kiarostami. Il suo primo successo è Il
palloncino bianco (1995), vincitore della Golden Camera al
Festival di Cannes. La critica italiana lo indica come un
"piccolo gioiello del neorealismo, una favola calata nel
mondo di tutti i giorni, un apologo sulla potenza del
desiderio".
La seconda prova arriva con Lo specchio (1997), Leopardo
d'Oro a Locarno, con il quale Panahi supera il suo maestro
Kiarostami, raccontando la stessa storia con due tecniche
diverse: quella del cinema di finzione, con attori che
recitano, e quella del cinema-verità, con i protagonisti ripresi
a loro insaputa. Un gioco fra vero e finto, realtà e
ricostruzione, quotidiano di cronaca e immaginato.
Nel 2000, arriva il suo capolavoro: Il cerchio (2000).
Rivolgendosi all'universo femminile, descrive otto
sorprendenti ritratti di donne, otto storie di sopravvivenza
quotidiana con un linguaggio semplice e distaccato, che
rispetta il loro dolore di esistenze ai margini di una società
estremamente rigida e codificata.
Oro rosso (2003), vince il Premio della Giuria nella sezione
Un Certain Regard al Festival di Cannes. Nel 2006, arriva
Offside, vincitore dell'Orso d'Argento al Festival di Berlino,
che mette sotto la lente d'ingrandimento la difficoltà
dell'essere orgogliosi della propria patria e dell'essere donne.
Arrestato nel 2010, per far pesare la sua assenza artistica il
Festival di Cannes lo nomina membro della giuria nel 2010 e
lascia simbolicamente una sedia vuota.
In questi anni dirige due film-simbolo, Questo non è un film
(2011) e Closed curtain (2013).
Lo stile di Panahi è asciutto, dall'andamento simile a una
processione che si svolge in una terra priva di libertà. Le sue
pellicole sono sincere, fragili, profondamente coinvolte da
ciò che racconta. Ma ciò che racconta sembra importargli
molto più della sua stessa vita.
Pattugliato e minacciato dai mastini del regime
fondamentalista fino ai confini dei diritti umani, Panahi non
risparmia la sua voce e urla a pieni polmoni la sua necessità
di viaggiare ancora attraverso il cinema, di continuare il suo
itinerario di lutto e avventura, facendo di se stesso la
rappresentazione di quel fastidio che un ossessivo, cupo,
ottuso e determinato regime vuole togliere di mezzo.
Interrogarsi su immagini e potere
Vero o falso? Riflessioni sulla messa in scena
di Fabio Ferzetti Il messaggero
di Paolo Mereghetti Corriere della sera
E tre. Da quando il tribunale iraniano lo ha condannato a non fare il
regista per almeno vent'anni, sono ormai tre i film che Jafar Panahi ha
realizzato in clandestinità. La novità è che stavolta il grande regista
iraniano è uscito di casa. Anzi si è concesso un lungo giro nelle strade
di Teheran alla guida di un taxi. Ma il bello è che quest'impresa
apparentemente 'tardo-neorealista' - riprendere da un'auto in
movimento tutto ciò che la censura di Stato impedisce di mostrare diventa una riflessione vivacissima e traboccante di idee sui
meccanismi della censura e i dispositivi di messa in scena. Realizzata
da un cineasta che è anche protagonista di questo docu-fiction così
sapiente che tutto sembra incredibilmente vero ma tutto è
probabilmente ricostruito con attori non professionisti (e senza nome
nei titoli, per non metterli nei guai) e con palpitante spontaneità.
Protagonista o meglio spettatore, proprio come noi, dello spettacolo
incessante che si svolge dietro il parabrezza, nelle strade della capitale.
Ma soprattutto dentro il taxi di Panahi, su cui salgono personaggi che
potrebbero nutrire un romanzo anche se hanno solo poche scene a
disposizione. La figura più memorabile è ancora una volta quella di
una ragazzina, nel film la (vera?) nipote del regista, che essendo una
cineasta in erba permette al regista di porsi una serie di interrogativi
morali elementari quanto inquietanti. Come si riconosce, ammesso che
sia possibile, un 'cattivo'? Come si ferma, e come si rappresenta il
male? Perché certi film sono 'indistribuibili', come sentenzia la nipote
saputella, pur mostrando ciò che si vede tutti i giorni? Nei battibecchi
tra zio e nipote, e nelle scene che lei stessa riprende dal vero con la sua
telecamerina, soffrendo perché sa che non le potrà mostrare (che
attrice!), sta il cuore di questo film dall'andatura scanzonata che però
non smette di porre domande scomode. E gela il sangue con un finale
impassibile affidato a un piano sequenza degno di Antonioni. Anche in
piena era digitale insomma si può fare un film che riflette sulle
immagini (sul loro potere, e sul Potere in generale) fino a dare le
vertigini, con mezzi semplicissimi. Malgrado ciò che il film denuncia,
è una buona notizia.
Sono ormai più di cinque anni che il regista iraniano Jafar Panahi vive
sotto la minaccia di un condanna a sei anni di prigione, comminata ma
mai davvero eseguita. Era stato processato nel 2010 per l’appoggio
dato al movimento «verde» che l’anno precedente si era opposto alla
rielezione di Ahmadinejad: sei anni di reclusione più l’interdizione di
lasciare il Paese e concedere interviste oltre all’impossibilità di girare
film.
Ma il movimento d’opinione internazionale che si è schierato in suo
favore ha favorito il rinvio dell’incarcerazione (che però potrebbe
essere eseguita in qualsiasi momento) e gli ha permesso di girare
piccoli film semi-clandestini che hanno preso la strada dei festival
occidentali: il «piccolo» This Is Not a Film (Cannes, 2011), Pardé
(Persiane chiuse, Berlino 2013) e adesso Taxi Teheran premiato con
l’Orso d’oro all’ultimo festival di Berlino.
L’idea alla base di Taxi Teheran è di una semplicità sconcertante: una
piccola telecamera messa sul cruscotto dell’auto permette a Panahi nei
panni di un occasionale tassista di registrare i passeggeri che salgono a
bordo e di registrare i loro discorsi. Che si tratti di un «film» e non di
un «documentario» lo veniamo a sapere quasi subito, quando un
simpatico pusher di dvd riconosce il regista alla guida (gli aveva
procurato in passato C’era una volta in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan e
Midnight in Paris di Woody Allen) e smaschera i due clienti che sono
appena scesi (a Teheran il taxi è un’istituzione collettiva) come attori
che recitavano una parte, quella del forcaiolo qualunquista lui, quella
della democratica progressista lei.
Ma anche lo spacciatore di film proibiti è un attore che recita una
parte, anche se molto credibile e realistica, ed ecco che la distinzione
film/documentario, vero/falso perde il suo significato e Taxi Teheran
diventa un film che riflette su se stesso, sulla propria natura e su quella
della messa in scena.
Tutti i clienti/personaggi che chiedono un passaggio al taxi guidato da
Panahi interpretano un «ruolo», cioè recitano, ma nello stesso tempo
danno vita a una delle tante facce dell’Iran, sono cioè realistici (se non
proprio veri) e molto credibili.
Qualcuno, poi, come l’autentica avvocatessa che arriva quasi alla fine
del film e sembra addirittura sorpresa di incontrare Panahi, gli racconta
il caso reale a cui sta lavorando (quella di Ghoncheh Ghavami, la
ragazza arrestata perché aveva cercato di assistere a una partita di
pallavolo) complicando ancora di più il gioco di rimandi tra vero e
falso. Che è poi quello che sta particolarmente a cuore al regista
iraniano: capire cioè come si può gestire il sottile limite tra finzione e
realtà, limite intorno al quale si sono mossi i suoi film (non a caso
vengono citati sia Oro rosso che Lo specchio che Offside) e il suo
lavoro di cineasta. Il cuore del film diventa allora l’incontro con la
nipotina Hana, che deve girare un filmino come esercitazione
scolastica e per questo chiede aiuto allo zio regista. La lunga scena in
cui Hana legge le regole perché un film sia distribuibile sembra uscito
dalla miglior letteratura surrealista (oltre all’assoluto rispetto per il
velo e la proibizione di ogni contatto tra uomo e donna, «non bisogna
mai usare la cravatta per i personaggi positivi» e «non bisogna usare
nomi persiani per i personaggi positivi, meglio preferire i sacri nomi
dei profeti»). Ma quando prova a mettere in pratica quello che ha
imparato finisce per scontrarsi con una realtà che non può entrare nelle
regole — l’ambulante che non vuole restituire i soldi trovati per terra
al loro proprietario e così manda a monte un possibile film sulla
riconoscenza e l’onestà — e non può che concludere, di fronte a
«realtà che hanno creato loro ma loro non vogliono che vengano
viste», con uno sconsolato (e verissimo): «Continuo a non capire!».
Ne esce un film che interroga lo spettatore, per niente limitata dalla
ristrettezza dei mezzi e dalle costrizioni della censura, e che non può
che terminare sul nero di un futuro, dove la repressione è sempre in
agguato (come i due poliziotti in borghese che rubano la telecamera
sull’auto) ma l’intelligenza e la passione sono sempre sveglissime.
Desiderio di vita e libertà contro i divieti
di Anna Maria Pasetti Il fatto quotidiano
Una lettera d’amore al cinema. Queste le parole del regista americano
Darren Aronofsky quando, in qualità di presidente di giuria, lo celebrò
vincitore dell’Orso d’oro del 65° Festival di Berlino.
Il talento di Panahi è riuscito non solo ad aggirare i divieti ma a farceli
dimenticare. “Sono un cineasta. Il cinema è il mio modo di esprimermi
ed è ciò che dà un senso alla mia vita. Per questo devo continuare a
filmare, a prescindere dalla circostanze: per rispettare quello in cui
credo e per sentirmi vivo”.
E il desiderio di vita, cioè di libertà, è ciò che vibra da quest’opera
potente, originale, sofisticata. E’ evidente l’ingegno cristallino di
Panahi, intatto in Taxi Teheran come lo era nella sua filmografia “da
uomo libero”, dall’esordio “in lungo” nel 1995 Il palloncino bianco
(Camera d’or a Cannes) a Offside del 2006 (Orso d’argento a Berlino)
passando per Lo specchio del 1997 (Pardo d’Oro a Locarno) e
soprattutto per Il cerchio del 2000 (Leone d’oro a Venezia).
Dopo la condanna del 2010 Jafar ha comunque realizzato in gran
segreto due pellicole dai titoli emblematici: This is not a film (2012) e
Closed Curtain (2013). Ma la vera maturità espressiva è raggiunta “in
manette” coincide con l’opera premiata a Berlino. Portandosi “Teheran
dentro a un taxi”, Panahi ha costruito per sé il ruolo di autista
nascondendo la videocamera e lavorando senza troupe, per evitare di
mettere in pericolo altre vite.
Finito di montare le parti giornaliere, il regista nascondeva le copie in
posti (addirittura città) diversi per non essere scoperto. Il film è
arrivato segretamente a Berlino su dispositivo USB.
Dall’abitacolo del suo taxi, il regista ascolta i passeggeri, osserva,
riflette e compie un miracolo di meta-cinema, arrivando quasi a un
“triplice salto visivo” dal punto d’osservazione fisso della videocamera
nell’auto quando filma alcuni reporter in una strada che a loro volta
girano un documentario. Uno straordinario respiro di sguardo e
d’intelligenza per esprimere quella libertà mai abbastanza apprezzata
da chi ce l’ha.