Annalucia Forti Messina LA guerrA spiegAtA ALLe donne

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Annalucia Forti Messina LA guerrA spiegAtA ALLe donne
Ministero per i beni e le attività culturali
Biblioteca di storia moderna e contemporanea
Novecento periodico 5
Annalucia Forti Messina
La guerra spiegata alle donne
L’impresa di Libia nella stampa femminile (1911-1912)
1
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anche a uso interno e didattico
Dicembre 2011
Biblink editori, Roma
2
Indice
Simonetta Buttò
Prefazione
pag.
5
Introduzione
pag.
7
1. Dal guardaroba, alla cucina, alle terre straniere
pag. 15
2. Silenzi e retorica dell’editoria popolare
pag. 43
3. Due riviste di lusso pag. 61
4. Le voci del mondo cattolico
pag. 75
5. Mestieri femminili e missioni di civiltà
pag. 89
6. La politica tra patriottismo e pacifismo
pag. 101
Conclusioni pag. 133
Elenco dei periodici consultati
pag. 139
Appendice antologica dalle collezioni della Biblioteca
di storia moderna e contemporanea
pag. 143
I giornali del gruppo Verri – I periodici del gruppo Treves
Una pacifica indifferenza – Alla morte! – Il bersagliere sul cuscino
Patria, vocabolo santo – Viva Italia, abbasso Allah
“La cronaca d’oro” – “La Donna”
Croce e mezzaluna – Dubbi e contraddizioni
Interesse nazionale e interessi di categoria – Bambini alla guerra
Madri italiane e povere madri arabe – A chi si deve far la guerra
Una fila di fatti gloriosi – Aborriamo la guerra ma benediciamo
i turbamenti di una lunga pace – Sorella guerra?
3
Prefazione
Anniversario per eccellenza, il 2011 è stato, come è giusto, occasione di bilanci storiografici e di molte iniziative – scientifiche,
istituzionali, celebrative – che hanno occupato gli spazi del
dibattito pubblico. E non stupisce che il Centocinquantenario
abbia attirato la massima attenzione e messo in ombra altre
ricorrenze, pur importanti per la storia del nostro Paese, come
il centenario di quella guerra italo-turca che diede all’Italia il
possesso di una consistente porzione della sponda africana del
Mediterraneo.
Nel settembre del 1911 l’Italia entrava in guerra con la Turchia
con l’obiettivo di dare compimento alle ambizioni che da lunga data nutriva sul Nordafrica e di consolidare, in concorrenza
con le altre potenze europee, le proprie posizioni economiche e
commerciali su quelle terre. Nell’arco di un anno, l’Impero ottomano fu sconfitto e il dominio italiano sulla Tripolitania e sulla
Cirenaica ottenuto, e poi definitivamente sancito da un accordo
internazionale. Negli anni Trenta, dopo una sanguinosa repressione della guerriglia e della resistenza indigene, l’Italia attribuiva alla colonia nordafricana l’antico nome romano di Libia.
Il significato prodromico dell’impresa libica – voluta da Giolitti e sostenuta da un folto schieramento di politici e opinion makers, di cui i nazionalisti erano la punta – è evidente, né sfuggì
ai contemporanei: favorevoli o contrari alla guerra, molti compresero o intuirono che le ostilità tra Turchia e Italia nell’area
mediterranea avrebbero attivato un effetto domino sui Balcani
e su tutta l’Europa. L’opinione pubblica venne mobilitata e la
5
stampa periodica giocò un ruolo importante nel sollecitare – nel
Cinquantenario dell’Unità – la partecipazione e il sentimento di
appartenenza degli italiani. E delle italiane, come illustra la ricerca che Annalucia Forti Messina ha condotto sui giornali femminili, che all’inizio del secolo avevano raggiunto uno sviluppo
rigoglioso e una diffusione sul territorio nazionale forse non
uniforme, ma certo consistente nel Nord e nel Centro, grazie
alla presenza di editori che avevano affidato alla stampa seriale
una parte rilevante delle proprie attività e fortune.
Questo volume illustra le strategie e i linguaggi dei periodici
che, scritti da uomini e da donne, a queste si rivolgevano come
pubblico privilegiato, esprimendo – con la sola eccezione dei
fogli socialisti e repubblicani – posizioni interventiste a tratti
non prive di venature razziste. In un orizzonte non troppo lontano si intravedono i contrasti e le lacerazioni che il primo conflitto mondiale porterà nella società italiana, scompaginando il
tessuto politico e associativo e interrompendo il cammino già
faticoso intrapreso dalle donne per l’affermazione dei propri
diritti. L’essenziale scelta antologica che chiude il volume offre un ulteriore saggio delle argomentazioni rivolte al pubblico
femminile pro e contro la mobilitazione.
La collana “Novecento periodico” è stata promossa dalla
Biblioteca di storia moderna e contemporanea con lo scopo di
diffondere la conoscenza del proprio patrimonio librario in sinergia con le risorse digitali messe a disposizione sul sito www.
bsmc.it. Nata per offrire stimoli e suggestioni di ricerca a partire
dalle fonti conservate presso la Biblioteca e giunta al suo quinto
titolo, può raccogliere oggi i primi frutti di quella semina, per
aver incoraggiato e sostenuto rassegne, studi, strumenti e sussidi bibliografici, che erano obiettivo del progetto iniziale.
Simonetta Buttò
Direttore della Biblioteca
di storia moderna e contemporanea
6
Introduzione
Gli avvenimenti drammatici ora in corso in Libia non erano
neppure lontanamente immaginabili quando cominciai a
riflettere sulla storia di quel Paese e di quelle genti che l’Italia
aveva invaso, conquistato e tentato per decenni di domare,
riducendoli a sottomessa colonia. Dell’impresa coloniale,
oggetto di tanti studi e ricerche, mi interessava un aspetto particolare: in qual modo, con quali parole, con quali discorsi o
silenzi, la guerra di Libia al momento del suo svolgersi venne
presentata al pubblico femminile. Il tema finora è stato poco
studiato: alla posizione delle donne, o meglio dei loro giornali,
sulla guerra di Libia è stata data poca attenzione1. La fonte
privilegiata in una ricerca simile era infatti, ovviamente, la
stampa femminile: giornali, riviste, periodici, diretti alle
donne, o alle famiglie ma con l’intenzione di raggiungere
anche e soprattutto le donne. Questo tipo di stampa è stato
molto studiato: esistono utilissimi cataloghi dei periodici femminili dell’Italia liberale, a livello nazionale2, e regionale3. Da
essi ha preso avvio questo lavoro, che mi ha portato a sfogliare
o esaminare al microfilm un gran numero di riviste e giornali
presenti in Italia nei mesi della guerra, 1911 e 1912. La mia
ricerca si è concentrata sui periodici lombardi, e specialmente
di Milano, sede di una fiorente editoria periodica; comunque i
titoli esaminati sono più della metà di quelli censiti per l’epoca
su scala nazionale4, e forse il quadro che ne ho potuto ricavare
non sarà del tutto privo di significato.
Quale segmento del pubblico femminile poteva almeno in
7
teoria essere raggiunto dalla variegata stampa destinata alle
donne? In linea di principio tutte quelle alfabetizzate, in pratica
quelle che potevano permettersi l’acquisto di un periodico,
settimanale, quindicinale o mensile che fosse, ed avevano
tempo e desiderio di leggere, invogliate molto spesso dalle illustrazioni, costituite generalmente da schizzi, bozzetti, disegni a
volte firmati e riprodotti in serie – ingredienti indispensabili
dei molti giornali di moda – oppure, in casi ancora limitati, da
fotografie. I periodici femminili dell’epoca, cioè, erano a metà
strada fra la comunicazione puramente verbale dei giornali
politici, fatti allora solo per essere letti, e i moderni prodotti
della civiltà dell’immagine, fatti prevalentemente per essere
guardati5. Sono in generale le donne della media e piccola borghesia il target principale, ma talora anche quelle di ceto più
elevato, o comunque di maggiori disponibilità economiche; in
qualche caso categorie professionali, circoli politici, associazioni o istituzioni religiose.
La diffusione dei giornali femminili è difficile da quantifica6
re , ma certo è che a partire dall’Unità l’alfabetizzazione aveva
fatto grandi passi7, ed era cresciuta la scolarizzazione anche fra
le donne, specialmente nelle grandi aree urbane del centro e del
nord, così come la partecipazione di tante donne al mondo del
lavoro e alla vita pubblica: insomma, poteva essere in aumento
anche il numero delle lettrici8. Da qui il mio proposito di andare alla ricerca dell’idea che tale stampa per le donne o delle
donne intendeva proporre, o comunque proponeva, della guerra e della sua rilevanza per le lettrici. Chiedeva loro impegni?
Forniva modelli di comportamento? Quali? Si discostava dal
mainstream patriottico o no? Faceva appello al passato risorgimentale o mirava piuttosto a un futuro più o meno indeterminato? Come si poneva nei confronti del femminismo già ben
noto al pubblico che leggeva?
Perché mai, però, voler conoscere come si parlava alle
donne, o dalle donne, di un fatto di rilevanza nazionale, ma ben
poco congruente a prima vista, anzi contrastante col mondo
8
femminile? Perché fin dai primi anni dopo l’Unità, l’Italia che
stava costruendo la sua identità nazionale aveva affidato
all’educazione, cioè alle donne, la formazione degli italiani
nuovi. La tradizionale visione della donna madre ed educatrice, anzitutto tra le mura domestiche, si accordava con la missione nazionale di formare i nuovi cittadini, ma in vista di questo
compito le donne dovevano essere a loro volta educate e istrui­
te. Di fatto i primi giornali o periodici femminili avevano avuto
un carattere predicatorio, esortativo, quasi noioso9, e ancora nel
1911-12 la missione educativa occupava una larga parte delle
pagine di tutta la stampa femminile, che fosse rivista di moda,
di cucina, o d‘intrattenimento10. Ed era pedagogica anche la
stampa femminista, pure tesa a liberare le donne dalla secolare
dipendenza, almeno aggiornandole sulle attività delle associazioni femminili in Italia e all’estero, e discutendo di emancipazione, problemi sociali, istruzione, lavoro, filantropia, asili
d’infanzia, diritti delle donne, suffragio femminile. Penso a un
giornale come “L’alleanza”, che si era posto il compito di una
«alfabetizzazione politica»11 delle donne, e che giunse ad evitare dibattiti e discussioni, nell’intento di tenere assieme tutte le
varie anime del femminismo italiano12, il quale viveva la sua
stagione ascendente proprio in quel primo decennio del
Novecento. Raggiungere quei primi risultati non era stato facile e il cammino non era concluso, ma le associazioni femminili
si erano estese e anche differenziate, intendendo e praticando il
femminismo con diverso stile, e con obbiettivi non sempre
coincidenti.
Precisamente nel 1911 le donne più politicamente attive
puntavano ad ottenere la parità civile e politica, cioè il diritto
di voto. È ormai nozione accettata dalla recente storiografia
che proprio il desiderio di essere riconosciute come parte attiva ed operante della cittadinanza, meritevoli quindi della
promozione a cittadine di pieno diritto13, fece arretrare in
secondo piano una delle aspirazioni del femminismo ottocentesco, che era stato largamente pacifista, nell’assunto che la
9
guerra è cosa dei maschi e che le donne per natura ne rifuggono. Di fronte all’ampiezza della mobilitazione nazionale culminata nella guerra alla Turchia, anche le donne un tempo
pacifiste tacquero o si allinearono, e le voci discordanti furono
minoritarie e additate come antipatriottiche. Tali voci sono
state tuttavia abbastanza studiate, e non è questo comunque
l’oggetto del mio lavoro, che si propone invece di esaminare
quali narrazioni, quali discorsi venivano confezionati e propinati a lettrici comuni, non impegnate politicamente e perciò
permeabili ai discorsi appunto comuni, quelli del mainstream
nazionale, cercandoli specialmente nei periodici apolitici, cioè
conservatori14. Ne risulterà forse un panorama in cui nel parlare (o tacere) della guerra la differenza fra giornali femminili
e giornali femministi è impalpabile. Le voci discordanti esistono, ma sono rare e flebili.
Intanto però le donne leggevano, e se gran parte degli scritti loro proposti erano firmati da uomini, spesso invece erano
loro, le donne, a scrivere per il pubblico femminile: lo vedremo.
Questo conferma che la via maestra per individuare quanto si
voleva ottenere in fatto di educazione della donna è proprio
quella delle riviste femminili15, nell’intreccio dei loro percorsi
che si snodano in quegli anni lungo tutta la penisola16. Evitando
la tentazione di credere che l’immagine di donna presentata
dalle riviste femminili coincida con la realtà di un’epoca, mentre si tratta di un modello da imitare, quello appunto che si
voleva imporre alle lettrici, e che per chi legge oggi è anzitutto
un’informazione preziosa sulla stampa stessa17.
10
Note
Solo S. Franchini, M. Pacini, S. Soldani, Giornali di donne in Toscana:
un catalogo, molte storie (1770-1945), Firenze, 2007, vi accennano nel II volume. Ma il loro catalogo tende a dare di ogni periodico un inquadramento
generale e lo sviluppo lungo gli anni di pubblicazione, mentre il mio lavoro si concentra sul 1911-1912.
1
2 G. Bochicchio, R. De Longis, La stampa periodica femminile in Italia.
Repertorio 1861-2009, Roma, 2010.
3 Come quello di a cura di R. Carrarini e M. Giordano, Bibliografia dei
periodici femminili lombardi 1796-1945, Milano, 1993, e quello indicato sopra
dei periodici toscani. Ricordiamo ancora O. Majolo Molinari, La stampa
periodica romana dal 1900 al 1926, Roma, 1977.
4
Bochicchio e De Longis, fra i più di 1600 periodici censiti, ne elencano ben 70 di varia natura e diffusione, presenti nel 1911-1912: qui si rende
conto di 41, sei dei quali non compaiono in quel catalogo.
5 Come afferma A.C. Quintavalle, La bella addormentata. Morfologia e
struttura del settimanale italiano, Parma, 1972, p. XXV.
6 Non esistono documenti sufficienti sulle tirature o sulle vendite di
quei periodici che possano consentire confronti con studi analoghi su
tempi vicini a noi, per es. con i risultati ottenuti da G. Pezzuoli, La stampa
femminile come ideologia, Milano, 1976, su riviste degli anni Quaranta del
Novecento. Il volume di O. Buonvino, Il giornalismo contemporaneo,
Milano-Palermo-Napoli, 1906, è ricchissimo di dati che giungono fino al
1906, ma della stampa femminile prende in considerazione solo le riviste
di moda, che vede concentrate quasi esclusivamente a Milano, e diminuite di numero, però in aumento di tiratura (p. 436).
7
Il censimento del 1901 aveva registrato come dato nazionale ancora
il 48,5% di analfabetismo (M 42,5% e F 54,4%), mentre il censimento del
1911 registrò circa 11 punti in meno, cioè il 37,6% (M 32,6% e F 42,4): dunque nel primo decennio del secolo l’alfabetizzazione femminile era cresciuta di 12 punti. Inutile dire che le diversità regionali e fra città e campagna erano assai consistenti: in Lombardia si aveva per es. alla stessa
data il 25,9% fra i M e il 29,2% per le F; a Milano il 14,5 % per i M e il 16,4
per le F; percentuali calcolate da chi scrive sulle cifre del Censimento 1911,
vol. II, tav. IV, p. 638.
8
Si veda I. Porciani, Le donne a scuola. L’educazione femminile nell’Italia
11
dell’Ottocento, Firenze, 1987, p. 41: «Alla metà dell’Ottocento la consuetudine della lettura fa ormai parte integrante della vita della fanciulla
dell’aristocrazia e delle classi medie».
9 Come faceva notare Grazia Mancini, citata da R. De Longis, in La
stampa periodica…, cit., p. 12.
10
S. Franchini, “Stampa femminile e stampa di consumo”: dalle definizioni
ai problemi storiografici, in “Passato e presente”, n. 51, 2000, p. 135: «compiti
di formazione civile e culturale […] non vennero meno nei giornali cosiddetti di consumo diretti alle donne, nei primi decenni dopo l’Unità».
11 Si veda in proposito T. Pironi, L’Alleanza e l’educazione della “Donna
nuova” in età giolittiana, p. 33, in Cambiare gli occhi al mondo intero. Donne
nuove ed educazione nelle pagine dell’”Alleanza”. 1906-1911, a cura di A.
Cagnolati, T. Pironi, Milano, 2006.
12 Che invece si scissero dopo il Congresso delle donne a Roma nel
1908. Rimando ad A. Cagnolati, Un giornale con le idee chiare, in Cambiare
gli occhi al mondo intero, cit., p. 47-81 e a C. Frattini, Il primo congresso delle
donne italiane, Roma 1908. Opinione pubblica e femminismo, Roma, 2008.
13 Fa notare A. Rossi-Doria, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, 2007, p. XVII, che non solo in Italia, «al momento
della conquista del voto, sia dopo la prima che dopo la seconda guerra
mondiale, la motivazione politica prevalente nei vari paesi sarà ancora
quella non dei diritti delle singole donne, ma dei servizi da loro resi in
quanto gruppo»: le femministe italiane erano già su queste posizioni nel
1911.
14
Come fa notare E. Marinucci, Prefazione a La stampa periodica delle
donne in Italia. Catalogo 1861-1985, Roma, 1985, p. 11. Cfr. G. Pezzuoli, La
stampa femminile, cit., p. 14.
15 In proposito si può vedere M.A. Manacorda, in L’educazione delle
donne all’indomani dell’Unità. Un problema a molte dimensioni, a cura di S.
Soldani, “Passato e presente”, 1988, n. 12, p. 32.
16
Un esempio di tali percorsi si ricava dalla diffusione geografica
dell’Alleanza, come attestata dagli elenchi delle abbonate: si veda A.
Cagnolati, Un giornale con le idee chiare, cit., p. 54-55. Di percorsi simili
parla G.M. Finaldi, Italian National Identity in the Scramble for Africa: Italy’s
African Wars in the Era of Nation-building (1870-1900), Bern, 2009: percorsi
di parole, canzoni, atteggiamenti, immagini che raggiunsero donne e
12
uomini anche oltre le grandi città, nelle campagne di tutta Italia.
17 «Il presupposto più corretto è che la stampa femminile non rappresenti che se stessa, o meglio la concezione della donna espressa dalla
cultura e dalla società attuali», scrive Milly Buonanno, Naturale come sei.
Indagine sulla stampa femminile in Italia, Firenze, 1975, p. 28.
13
1. Dal guardaroba, alla cucina,
alle terre straniere
I giornali del gruppo Verri
Un cronista per due
Il viaggio tra i periodici femminili italiani degli anni 19111912 parte da uno dei più affermati e longevi, “Il bazar. Rivista
illustrata di mode e lavori per le famiglie”1, perché fu quello
che più estesamente e più a lungo fornì alle lettrici notizie sulla
guerra di Libia, seguendone le vicende con grande partecipazione. Apparteneva al nutrito gruppo di riviste femminili pubblicate dalla tipografia e casa editrice Verri, e dirette da Ottorino
Giussani Bareggi, anzi era allora di quelle la principale e certo
la più costosa2. Nel 1911 vi compariva, tra le notizie di moda e
di costume che occupavano la gran parte del periodico, anche
una rubrica intitolata Da un mese all’altro, ove si davano notizie
internazionali su temi disparati: una micidiale tempesta nel
mar Caspio, i funerali di Leone Tolstoj, un attentato contro
Venizelos, l’anniversario di Francesco Giuseppe, il trafugamento della Gioconda al Louvre3, registrando solo raramente avvenimenti italiani particolari, come la morte di qualche personaggio illustre4. A meno che si trattasse di notizie implicanti i reali,
come l’incontro di Vittorio Emanuele III con il Kaiser, oppure la
visita della regina all’esposizione di Torino, o di ambedue i
sovrani all’inaugurazione della mostra etnografica nell’Esposizione di Roma5. Varie pagine illustrate descrissero nel 1911 le
grandi mostre nelle due Esposizioni: a Roma l’arte e il costume
15
popolare, a Torino l’industria, come simboli dell’avvenuta unificazione6. Doverosa ma stringata l’attenzione prestata al
discorso del re in Campidoglio il 27 marzo per celebrare il cinquantenario dell’Unità d’Italia7, a quello del sindaco Nathan
all’inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele II, e alla
festa dello Statuto8. Pur indirizzato decisamente a un pubblico
femminile, “Il bazar” reputava dunque necessario gettare uno
sguardo al di là del guardaroba e della cucina, dei teatri e della
moda9. Naturale quindi che abbia dato spazio alle notizie sulla
guerra di Libia, a partire dal primo fascicolo di novembre, che
rivela subito la prospettiva patriottica: l’Italia è stata obbligata
alla guerra, i turchi ostacolavano il nostro commercio, le vessazioni agli italiani residenti erano diventate continue e intollerabili; ora alle popolazioni locali si chiede «amore verso l’Italia,
che vuole portar loro opera di civiltà e di progresso, rispettando le loro religioni». Già si accenna agli arabi fanatizzati, che
scacciano i consoli italiani da Bengasi, e poi danno manforte ai
turchi contro gli italiani appena sbarcati. Il racconto dei fatti
segue uno schema che ritornerà in tutte le rubriche successive:
sbarchi, bombardamenti, trincee, assalti respinti, nemici in fuga
che si ritirano con perdite gravi; noi siamo valorosi, essi sono
vili e traditori10. La pace dipende dalla Turchia: essa deve riconoscere Tripolitania e Cirenaica come possesso italiano, dato
che non ha saputo portare la civiltà agli arabi ceda il passo a
una nazione «giovane, ma più forte e più civile», che saprà
certo far prosperare quelle popolazioni11. La narrazione delle
azioni militari e diplomatiche ritorna ogni mese sempre seguendo lo stesso schema, la retorica patriottica è di tono medio, non
troppo lirico, ripetuta è l’accusa di tradimento agli arabi, che
«vilmente si rivoltarono uccidendo alle spalle i nostri avamposti» e nascondono fucili e cartucce anche dopo l’imposizione
della consegna delle armi. Naturalmente che gli arabi stessero
resistendo e combattendo contro un invasore non rientra
nell’ottica nazionale italiana12. Seguono notizie sul tifo e il colera nel campo nemico13, sulle prodezze aviatorie del tenente
16
Gavotti, sulla nave ospedale Menfi, ove la prima crocerossina è
la duchessa d’Aosta, sulla visita dei sovrani ai feriti trasportati
negli ospedali militari di Napoli, Palermo, Taranto; sul decreto
reale di annessione della Tripolitania e Cirenaica all’Italia,
disposta alle trattative di pace se la Turchia è pronta a riconoscere tale annessione. Fin dall’inizio è sull’ostinazione della
Turchia che viene fatta ricadere la responsabilità del protrarsi
di una guerra «che minaccia di divenire cronica per le condizioni dei terreni e per l’avversità degli abitanti arabi, i quali sono
aizzati dai turchi abusanti del loro fanatismo religioso»14. Il
mese dopo compaiono notizie sugli incrociatori italiani spintisi
a bombardare Akaba nel mar Rosso, sulla conquista di Ain
Zara, e anche sulla stampa straniera sfavorevole all’Italia; grande rilievo viene dato dunque al caso di Jean Carrère, il giornalista francese corrispondente da Tripoli del “Temps”, che aveva
invece difeso gli italiani ed era stato pugnalato proditoriamente
da un aggressore ancora sconosciuto.
Intanto il cronista pensa alle prossime feste di fine anno e
invita le gentili lettrici a rivolgere un pensiero «a questi valorosi giovani che combattono per l’avvenire glorioso della nostra
patria»15. Racconterà poi il Natale a Tripoli e a Bengasi, rammaricandosi di dover ancora narrare fatti d’arme, pur gloriosi, e
che la pace sia ancora lontana, dimostrando tuttavia gran fiducia nella diplomazia italiana e un poco anche in quella francese16; ma a marzo già si è convinto che la guerra durerà ancora
a lungo e «che essa deve considerarsi per l’Italia come un’opera
coloniale di lunga lena che non turberà più fino alle basi la vita
abituale della nazione». Continua dunque, «per assecondare il
desiderio delle nostre gentili lettrici», a raccontare i fatti più
salienti, esalta gli aviatori che con le loro ricognizioni forniscono informazioni ai nostri soldati, loda le nostre cannoniere che
intercettano le navi inglesi con rifornimenti per il nemico, ed
esprime il vanto per gli italiani che a Tripoli stanno costruendo
la ferrovia, invano promessa dai turchi17. Insiste specialmente,
col passare dei mesi, sul gran numero di morti e feriti fra gli
17
arabi e turchi negli assalti sempre respinti, mentre la Turchia
s’inventa «paradossali» sconfitte italiane, l’Europa tutta è preoccupata e la pace non arriva per l’ostinazione turca; l’Italia
invece continua le opere di fortificazione e incivilimento, e ha
riportato dalle Tremiti «molti arabi arrestati e confinati» colà
dopo i fatti di Sciara Sciat18.
Nell’attesa della pace il giornale condivide, davanti alla
gestione troppo prudente del conflitto (larvata critica al generale Caneva), l’impazienza di chi ignora le caratteristiche di una
guerra nel deserto e vuole immaginare che forse «l’Italia, stanca
di temporeggiare, si deciderà ad una azione decisiva». Può
intanto rallegrarsi per le azioni navali degli italiani nell’Egeo19,
e gloriarsi per lo sbarco a Rodi e l’occupazione di altre isole utili
a controllare le rotte fra Istanbul e la Siria. Gli italiani espulsi
per ritorsione dai territori dell’impero ottomano sono «colpiti
in modo vile da una nazione cocciuta e retrograda». Il nemico,
insomma, è sempre colpevole: quando «l’oasi orientale di
Tripoli fu perquisita in tutti i punti, furono arrestati molti arabi
vagabondi e sequestrati 120 capi di bestiame, […] furono pure
arrestati molti arabi spioni e traditori». Inoltre «sono state fissate le norme giuridiche per il piano regolatore di Tripoli e
l’espropriazione dei terreni di pubblica utilità. In questo modo
l’Italia dimostra di essere una Potenza altamente civile, perché
sa, parallelamente all’azione guerresca, eseguire opere di civiltà
e di progresso», a differenza dei Turchi…20: come se non fosse
sempre, ancora oggi, abitudine di tutte le potenze occupanti
espropriare quanto vogliono nei territori altrui, col mero diritto
della forza.
L’impresa dei Dardanelli viene annunziata con entusiasmo
alle gentili lettrici che «seguono con amore patriottico le vicende di questa guerra insidiosa», perché «l’audacissima ricognizione torna ad onore della marina Italiana»21. Il giornale non
omette notizie sulle agitazioni nei Balcani e sulle difficoltà
interne al governo turco, che gli pare rendano solo più assurda
l’ostinazione a continuare la guerra con l’Italia per il possesso
18
di una provincia che fu sempre passiva per la Turchia, incapace
di farla prosperare22. Finalmente, nel dare la notizia della pace
firmata a Ouchy, il cronista del “Bazar” mette in rilievo anzitutto la gioia delle madri, che
con ansia sussultata seguivano giorno per giorno le vicende
di questa guerra […] contro un nemico terribile, codardo,
sanguinario, fra popolazioni incivili, accecate dal fanatismo
religioso, in terre insidiosissime ed impraticabili.
E sebbene le madri italiane (sempre madri, mai sorelle o
spose, queste italiane…) siano animate da grande patriottismo,
«nelle madri tutte vi è sempre un naturale sentimento di protezione pei loro figli, sia pure sentimento egoistico». Segue un
«solidale cordoglio» alle madri dei caduti:
Grave fu il loro tributo per questa nuova conquista italiana,
ma è tributo solenne che verrà tramandato alla storia, e le
generazioni future impareranno come la prosperità personale e della propria nazione non si possono compiere che
con sacrifici immensi, abnegativi [sic] ed eroici.
Parole che sembrano uscite a forza dalla penna, così slombate e male accozzate, in poche righe di un articolo insolitamente
lungo. Ciò che interessa veramente al cronista è, infatti, raccontare la vicenda delle trattative, lodare l’opera tenace dei diplomatici italiani e illustrare i punti del trattato di pace. Senza
trascurare gli ultimi fatti d’arme, tra i quali brilla quello del
gruppo di beduini che si erano avvicinati di notte a una ridotta
presso Homs, ma che «furono scoperti e bombardati. Si fece di
essi una strage e gli scampati si dispersero fulmineamente»23.
Notizie dalla Libia, termine usato solo a partire dall’ottobre 1912, compaiono anche nei numeri seguenti, intessute di
continue consegne di armi e atti di sottomissione: i turchi
sono diventati gentili e hanno condotto a colloquio alcuni capi
19
arabi dissidenti. Appare chiaro comunque che, data l’estensione del territorio, «bisogna affidare alla pazienza ed al tempo
il compito agognato della pace completa e del dominio italico
incontaminato nelle terre libiche»24. Il cronista tuttavia registra che i capi arabi fanno pervenire attestati di fedeltà, e
accolgono con gioia i nostri rappresentanti, e le feste arabe del
Bairam vengono celebrate solennemente, con Tripoli e Bengasi
tutte imbandierate25.
Abbastanza minuziosa dunque, dato il tipo di interessi prevalenti nel “Bazar”, la copertura delle notizie, ma anche
alquanto tendenziosa, e priva di un vero interesse per quel
nemico, non solo per i turchi, che si volevano scacciare dalla
Libia, ma per gli arabi, che come indigeni avrebbero dovuto
continuare a vivere in quella terra. Qualche notizia, fra storia e
geografia della Libia, nel novembre 1911 occupa meno di due
colonne; un trafiletto di neppure 20 righe intitolato Il matrimonio a Tripoli inizia così: «la superstizione domina in generale
tutta la popolazione tripolitana. Il vincolo matrimoniale non è
tenuto in alcun concetto», spiegando poi le usanze dei doni e
delle feste26. Più esteso è, qualche numero dopo La vita Araba, a
firma di Emilio Grossi, il quale premette una dichiarazione di
sfiducia sulla possibilità di «incivilimento di questa razza», che
ama vivere troppo isolata ed è restia a mandare i propri figli a
scuola, secondo la testimonianza del padre Rossetti. Tanto incivili, gli arabi, da non saper neppure coltivare la loro terra, che
da sola dà frutti abbondanti: i proprietari si limitano a raccogliere; adoperano i cammelli per girare le macine, non sanno far
progredire il commercio, e dipendono sotto questo aspetto
dagli ebrei; non sanno costruire che casette basse e misere, ma
gli italiani faranno sorgere una nuova Tripoli, linda e moderna.
Insomma, un elenco di stereotipi27. Più istruttivo e, almeno in
apparenza, più attendibile lo scritto siglato A.S. e intitolato
Funerale arabo28, ove la cerimonia funebre è descritta da uno
sguardo meno sprezzante e più attento: soffermandosi sui
rumorosi pianti intesi a impedire alle anime dei trapassati di
20
tornare sui luoghi dei vivi, si spiega che essi sono affidati solo
alle donne, perché per l’uomo arabo piangere la morte del congiunto è peccato. Non piange neppure il generale italiano che,
unico personaggio vivente di un componimento drammatico
intriso di reminiscenze letterarie e di sentimenti patriottici, si
aggira sul campo di battaglia fra i cadaveri dei caduti, a cercare
quello del figlio suo, anzi sfida la Morte e Caronte dichiarando:
«Sono il padre infelice, ma superbo per aver dato un figlio alla
patria». E conclude, pugnace, esortando: «Lasciamo i morti in
pace, ma noi vivi dobbiamo vendicarli!»29.
Pedagogia nazionale diretta alle donne, e non solo, su un
giornale scritto da uomini e dichiaratamente, sebbene con
discrezione, antifemminista. Con discrezione, perché in realtà
di solito si limita a ignorare quel discorso, che però, se compare, è esplicito: dallo scherno sulle suffragiste, donne/demoni,
alla banale conclusione che noi donne saremo molto più utili
alla patria se daremo figli forti e cittadini onesti: «Non reclamiamo i diritti che non abbiamo, ma badiamo ai nostri doveri
e vedrete che il mondo andrà molto meglio!»30. Le informazioni
sulla guerra tuttavia non sono femminilizzate: il discorso è
analogo a quello che si poteva leggere sulla stampa priva di
qualifiche di genere.
Le stesse rubriche di informazione sui fatti di guerra31 l’editore Verri pubblicava contemporaneamente sul settimanale “Il
corriere universale della domenica. Giornale per le famiglie”32,
diretto anch’esso da Ottorino Giussani Bareggi, ed evidentemente rivolto a un pubblico meno abbiente33; in otto pagine, di
cui l’ultima e parte della penultima dedicate alla pubblicità34,
conteneva anche articoli o racconti firmati quasi sempre da
uomini, anche se compariva talvolta una firma femminile. Non
mancava occasionalmente qualche poesia, ma di rado ispirata
a temi guerreschi: ricordiamo però Mio figlio è morto. La canzone
della madre35, di cui diremo più oltre, e Agli avamposti, meno
luttuosa, anzi tendente all’idillico: veglia una sentinella nel
silenzio della notte, mentre
21
Sommessi i canti echeggian gaiamente / sotto l’azzurra
volta scintillante / e cadenze d’un coro hanno languente /
per la lontana patria palpitante.
Improbabile il coro in trincea, come improbabile, in questi
versi raffazzonati, il pensiero del soldato che veglia e «con
orgoglio impresso ha nel pensiero / che la sua vita alla patria è
votata»36. Invece il raccontino, uscito da penna femminile, sul
maestro di villaggio – andato volontario in Libia perché nel
paesetto sui monti si sentiva vegetare più che vivere, e
«quell’esistenza fossile gli era venuta maledettamente a noia
[…] lo stancava il dialetto lento di quei montanari impacciati
nei loro pesanti abiti di velluto» – ha un andamento da feuilleton
strappalacrime: fatalmente la lettera della fanciulla amata (la
bella figlia del medico condotto) alla quale egli solo dal fronte
ha osato finalmente dichiararsi, e che gli risponde ricambiando
il suo amore, gli giunge quando è ormai colpito a morte37.
Passerelle e campi di battaglia
Sebbene il tema di “La gran moda” fosse appunto la moda,
quella grande, cioè parigina, cui il giornale dedicava quasi tutte
le rubriche, non mancano anche qui segni di attenzione ai fatti
nazionali. Anzi, l’educazione delle più che benestanti lettrici38
richiedeva che ne fossero debitamente informate. Tra le commemorazioni del cinquantenario, oltre ai discorsi ufficiali tenuti in Campidoglio, figura per esempio il medaglione di Colomba
Antonietti, un personaggio femminile che «pugnò come un
uomo, anzi come un eroe» nella battaglia di Velletri del 184939.
Un donna che non ripudia la guerra, la fa. E la guerra di Libia
era appena iniziata, che già uno dei racconti intercalati ai figurini di moda raffigura un atroce campo di battaglia, dove fra
cadaveri squarciati e sanguinanti una fanciulla cerca il suo
amato, nella speranza di salvarlo e fuggire incolume con lui
lontano da quella guerra mostruosa, in cui gli uomini nulla
avevano di umano. Invece lo trova esanime, si stende in lacri22
me al suo fianco, finché una cannonata colpisce a morte
anch’essa40. La storia truculenta è immaginaria, ma sembra
voler dire: preparatevi, donne di oggi, a ciò che vi attende.
Invece, quando il conflitto era in corso già da tre mesi, appare
una pagina a firma maschile come la precedente, che, senza
riferimenti precisi, celebra la guerra con toni d’irrazionalismo
futurista, esalta «in noi una mal sopita brama selvaggia di violenza […] un atavico furore bellico che ci richiama indietro
verso la superba bestialità primitiva». E aggiunge: «barbaro sì,
ma fiero e bello è il nostro sogno, o gottosi idolatri del pacifismo e del progresso», noi preferiamo «la sinfonia lacerante
degli shrapnels all’idillico ronzio noiosissimo di tutti i telai e le
turbine pacifiste del mondo». In tal sogno la donna è solo
«docile preda deliziosa del maschio forte e predone», con quel
che segue in fatto di riposo del guerriero e di «superba prole»41.
In un altro raccontino, meno maschilista, affiorano sentimenti
più nobili: protagonista è una ragazza araba, che conoscendo la
nostra lingua parla con un soldato italiano, poi lo protegge dal
revolver con cui il proprio fratello stava per colpirlo, ottenendo
in cambio salva la vita dell’attentatore. Quando però l’arabo
ripete il tentativo, è la sorella stessa a pugnalarlo, per lealtà
verso l‘italiano42. Sono scritti un po’ estremi, ma non mancano
anche componimenti di più banale retorica patriottica, come la
poesia sulla vittoria sempre schiava di Roma43, e la prosa che
celebra i caduti col solito repertorio di italo sangue, terra tolta
alla barbarie dei turchi, eroico sacrificio, bello è morire per la
patria, quindi: «voi, o genitori italiani, non piangete l’eroica
fine dei vostri figlioli caduti […] ma fidate nei grandi destini
della patria»44. Da notare che l’invito a trattenere il pianto non
è rivolto solo alle madri – e tale atteggiamento egualitario mal
si accorda con il sogno barbaresco – ma piuttosto rende evidente l’attenzione che il giornale poneva alla questione dei diritti
delle donne. Riferiva infatti in tono equanime il discorso della
signora Scodnik al Congresso nazionale delle donne, aperto a
Roma il 25 giugno 1911, tutto centrato sulla disparità di diritti
23
fra i due sessi: «la donna, entrata in possesso dei diritti politici,
non diserterà, come si teme, il focolare domestico […] il suo
cuore è restato, attraverso secoli di miserie morali, inalterato e
tale resterà anche se le metterete in mano una scheda
elettorale»45. Insomma questo periodico è difficile da definire:
segue linee varie, come se i diversi autori, tutti maschi, non
fossero veramente d’accordo sul tipo di partecipazione femminile augurabile46.
Poesie e narrazioni patriottiche
Anche il settimanale “La stella e l’aurora”, che si definiva
“Giornale di amena lettura”, era indirizzato evidentemente alle
donne, ma era diretto dall’onnipresente Ottorino Giussani
Bareggi, e scritto in gran parte da uomini. Sono quasi tutti
maschili i contributi scelti per ‘coprire’ l’argomento guerra di
Libia. Non si tratta in questo caso di discorsi politici e neppure
di notizie della guerra, bensì di divagazioni letterarie, tutte tese
a nutrire e rinforzare il sentimento patriottico di chi legge.
Sentimento ovvio, sottinteso, presupposto indiscutibile di qualunque componimento, in prosa o in versi. Vediamo: la madre
di un caduto si augura che suo figlio abbia almeno avuto sepoltura, e «una modesta rozza lignea croce», e il poeta le predica
«....hai torto / di piangere ora che l’Italia esulta!». Tuo figlio è
morto per l’Italia, prega il Signore di accoglierlo presso di sé in
nome di quel sacrificio: «Ei cadde per l’Italia! Italia evviva! /
Voglio trovarlo, o Dio, nel Paradiso…»47. Un’altra composizione in versi dà parola alla madre di un caduto: «Ma, figlio!
Morto a me, nato alla gloria / esulta! In cielo aleggia la
vittoria»48. Questi caduti sono eroi, dice un’altra poesia collocata come quasi tutte le altre in apertura del giornale, essi innalzarono laggiù «un nuovo altare all’eroismo italiano», fecero
rivivere le leggendarie azioni di Camillo, di Regolo, e grazie a
loro l’Italia «or torna la gran donna belligera, d’armi già cinta e
di corone adorna». Il componimento si conclude con un evviva
al nostro esercito49. Sul tema del risveglio, della rinascita del
24
prisco valore, un altro poeta si richiama invece al «prode eroe
di Quarto / nella fiammante sua camicia rossa». È un italiano
che vive a New York, dove il mito di Garibaldi ha ancora dei
cultori, e si augura che il mondo possa finalmente constatare
che l’Italia non è solo la patria di Buonarroti e di Raffaello, ma
«è pur gagliarda in armi!»50.
Niente di originale, e letteralmente condivise con “La gran
moda”51 un certo numero di pagine di argomento libico; ma
infine due testi in prosa apparvero solamente su “La stella e
l’aurora”. Il primo è una esercitazione retorica che immagina il
risveglio dei soldati: si erano addormentati stanchi della rude
vita di guerra, e quando il nemico suona la sveglia «con una
mano si stropicciano gli occhi, con l’altra hanno brandito il
fucile», e via con la sabbia che ha sete di sangue, e con l’opera
assidua della morte52. Il secondo, l’unica pagina sulla guerra
firmata da una donna su questo giornale, è invece più interessante: scritto come un pezzo di colore, racconta la giornata
napoletana di un gruppo di ascari, agili e alti cammellieri, che
passeggiano per la città, osservati amichevolmente dalla gente
che batte loro le mani, non senza qualche Viva l’Italia! e Viva il
re!, attribuiti agli ascari stessi. Un tributo di riconoscenza per
quegli africani che all’Italia si erano legati, volenti o nolenti,
dando un grosso concorso alla guerra di Libia53.
Anche in un altro settimanale del gruppo Verri, “Il trionfo
d’amore”, la guerra di Libia fu vista e trattata in modo simile a
quello che il direttore54 aveva scelto per “La stella e l’aurora”:
con poesie o prose di tono più o meno celebrativo, e nessun
discorso politico, né cronaca degli avvenimenti militari. Il
primo accenno alla guerra, tuttavia, è pieno di letizia e di speranza: in prima pagina una grande illustrazione del ritorno a
casa di un giovane marinaio, abbracciato dai genitori e tutto
sorridente: è stato ferito, ricoverato, guarito, ora è in licenza e
dice: vedete, mi sono fatto onore, come voi mi avevate detto
alla partenza, e come tutte le madri italiane sussurrano ai loro
figli, nel nome santo della patria55. Un altro raccontino mette in
25
scena l’addio romantico fra il giovane che parte per il fronte e
la fanciulla che gli appunta sul petto una coccarda tricolore e lo
attenderà pregando56. Le poesie patriottiche che compaiono tra
gennaio e marzo esprimono i sentimenti di rito, il sentire,
immaginato o reale che fosse, delle italiane che leggono quei
periodici: «O patria mia, o patria mia di gloria / la corona d’alloro che hai sognata / l’avrai dai figli tuoi…», quei prodi «che
la morte / non temono, ma affrontano…», scrive per esempio
quel Raffaele Schiavone che collaborava anche ad altre riviste
del gruppo57. Lo stesso autore celebra poi il valore e l’ardimento dei soldati italiani, appellandosi anch’esso al giudizio di un
personaggio indiscutibile: «L’Eroe dei due mondi, il marinaio /
biondo di Nizza, sorridendo approva»58. E nella Canzone
dell’amore immagina che un soldato scriva alla sua bella che è
vivo, e che continua a compiere il suo dovere, sostenuto
dall’amore di lei, dalla fiducia in Dio e dall’amore di patria:
«Italia, grande Italia, tu ci inviti / alla gloria o alla morte, alta
la testa»59. Insomma, il tono di questi componimenti è meno
tragico, è improntato piuttosto alla speranza che al dolore o alle
lacrime delle madri. Insistenti comunque i temi patriottici
nazionali, nel lirismo convenzionale di oscuri verseggiatori:
Viltade non annida / nell’italico petto e ben lo sanno / l’arabo e il turco. / E le genti del mondo apprenderanno / come
Italia difende / il suo diritto colle armi in pugno. / Muore, ma
non s’arrende / il soldato d’Italia sceso in campo, / muore
gridando: Italia!60.
E, ancora:
Io vi ho veduti, eroi dal grande cuore, / io vi ho veduti
nel mio dolce sogno […] O piccoli figlioli di una grande /
patria che pulsa e freme nell’angoscia, / io sento il vostro
gemito che scroscia / nel furore dell’opre memorande61.
L’ultimo segno di interesse per la guerra che si stava combattendo in Libia è un sonetto Al soldato morente62.
26
Opinion makers
Non stupisce che “Il trionfo della moda”63, un altro settimanale del gruppo Verri, benché esplicitamente dedicato alla moda
– che ovviamente occupava la gran parte delle sue pagine –
abbia affrontato il discorso della guerra, nell’autunno del 1911.
Già si era occupato di questioni morali, di problemi familiari, di
doveri verso la patria, e di condizione femminile. Non che fosse
femminista, anzi, pur parlando di libertà e pari diritti, avversava
l’idea che le donne concorressero alle professioni maschili, e alle
«suffragiste» dedicava un’attenzione se non malevola, ironica,
evitando la sostanza del discorso64. E quale la sua posizione? A
favore della guerra libica fa intervenire Giovanni Pascoli, con
l’appello al sentimento che aveva trascinato l’opinione pubblica,
la liberazione di un grande e fertile Paese dagli oppressori ciechi
e pigri, il vasto campo di lavoro aperto alla redenzione popolare
degli italiani, i soldati nelle caserme che anelano di essere sorteggiati: «se avessi vent’anni di meno, sarei lieto di partire e combattere anch’io! È impresa di civiltà, degna dell’Italia, consona al suo
passato, augurale per il suo avvenire, tutto il mio cuore è a bordo
delle nostre navi»65. Se le lettrici del giornale di mode conoscessero o no il Pascoli poeta, non saprei dire: ma qui il personaggio
si adatta perfettamente al patriottismo medio che quelle pagine
rappresentavano. Dopo il quasi socialista, o ex-socialista poeta
romagnolo, viene presentato nella rubrica Varietà anche l’anarchico Libero Tancredi, che approvò l’impresa tripolina e «non si
dichiarò contrario alla guerra che risveglia le energie dei popoli»,
anzi «proclamò il fallimento della concezione internazionalista
intesa come sconfessione dell’amore per il proprio paese»66. Il
giornale, insomma, sembrava voler allargare l’attenzione delle
lettrici a un più esteso campo d’opinioni. Certamente qualche
nozione di storia e di geografia delle terre libiche pensò di proporre loro col volumetto di Federico Musso, che era in quel
momento considerato un utile riassunto della materia67. Degli
arabi e dei loro costumi parlò poi, senza ironia e in tono da giornalismo d’inchiesta, descrivendo le usanze dei funerali68. Solo
27
occasionalmente dette notizia di qualche fatto importante, come
la presa di Hamidié, «degna risposta alle smargiassate turche»,
deplorando che tuttavia i turchi respingessero ogni proposta di
pace, per mantenersi al potere69: discorso che riflette l’illusione
diffusa in Italia che i turchi avrebbero ceduto alle prime dimostrazioni della forza militare dispiegata dall’esercito italiano70.
Perciò il giornale ritorna di lì a poco a rammaricarsi che la pace
sia ancora lontana, che anzi si stia parlando di inviare in
Tripolitania altri 20.000 uomini71. Non troviamo però né le esortazioni al patriottismo, presenti in altri giornali, né le accuse di
tradimento agli arabi, molto gridate ovunque dopo Sciara Sciat.
Del resto, dopo le poche righe dedicate alle nobili dame partite
con la nave della Croce Rossa verso Tripoli72, nei fascicoli del
1912 le già scarse notizie dalla Libia spariscono del tutto, se non
si considerano un trafiletto che riporta una canzone assai popolare fra i nostri soldati73, e un altro per spiegare che il cannoneggiamento di Derna da parte dei Turchi, durato due mesi senza
produrre altro che qualche danno materiale, non è poi un fatto
strano, se confrontato con simili bombardamenti nella guerra
russo-giapponese74. Insomma, la guerra di Libia è ormai un pallido sfondo che non interessa più.
Tra silenzi e ripetizioni
Affatto assente del resto la guerra su un altro periodico femminile diretto da O. Giussani Bareggi per lo stesso editore, e
dedicato alle donne che si occupavano di sartoria: “La fantasia.
Giornale per le sarte”75. Evidentemente non sembrava necessario parlare di guerra alle artigiane del cucito. Anche “L’emporio
della ricamatrice”, stesso editore e stesso direttore, seguì la
medesima linea: nelle sue pagine l’unico rimando alla guerra in
corso potrebbe ravvisarsi nella storiella dei bersaglieri italiani al
fronte, che mettono in vista fuori delle loro fortificazioni un
fantoccio vestito con la divisa dei militari italiani, e poi si divertono a vedere come esso viene ripetutamente colpito dai nemici,
fra i lazzi e gli insulti degli italiani76. Il divertimento dei bersa28
glieri si alternava ad altre brevi narrazioni ogni tanto inserite fra
disegni di ricami, su temi svariati: Come viveva Carlo Marx a
Londra per esempio, oppure Un’avventura di Edison77. Una linea
intermedia l’instancabile direttore seguì nell’ennesima rivista
femminile della casa Verri, “Il monitore della moda”78, e a metà
del mese di novembre introdusse nelle otto pagine di modelli,
figurini, ricami e descrizioni dei medesimi, solo di rado intervallate da brevi notizie del mondo, qualche cenno alla guerra in
corso, con poca fatica e scarsa fantasia. Ritroviamo infatti, sebbene abbreviati, senza commenti e in tono minore, alcuni pezzi
apparsi (di solito il giorno precedente) nelle pagine del “Trionfo
della moda”, come quello sul libro di Federico Musso79, la
divertita notizia dell’anarchico Tancredi80, la presa del forte di
Hamidié81. Letterale la riproposizione dell’articolo sulle usanze
funebri degli arabi82, ed anche, già apparsa sul “Bazar”, un’inchiesta sulle usanze arabe, in tono di rassegna geografico-antropologica, senza aggiunte di colore patriottico italiano83. Accanto
a questo sguardo serio sul mondo arabo, ed ultimo cenno alla
guerra in corso, troviamo anche una stupida (solo apparentemente?) poesiola d’intento pubblicitario, che tuttavia ci può
dare il senso della ‘normalità’ con cui in certi ambienti si viveva
la guerra, tema buono per tutti gli usi:
Tripolina o trappolona / la questione è sempre viva. / La
politica espansiva / dice: Il nostro Suolo è là! / La cuccagna
par vicina, / ma l’Italia, poveretta, / pare un ciuco, sempre
aspetta, / ma a suo tempo… l’erba avrà! / Già col tempo e
con la paglia / fin la sorba vien matura; / se non vien qualche jattura / Nostra “Tripoli” sarà! / Ma convien tenerla… a
bada, / Il Sultan non è minchion: / se ci punge con la spada,
/ Neppur giova il Tromiaton84.
Insomma, come già il Garbini, di cui fu continuatore, anche
l’editore Verri si proponeva di raggiungere ogni specie di pubblico85. E cercava di immaginarne e seguirne gusti e propensioni.
29
I periodici del gruppo Treves
Pubblicità
Anche l’editore Emilio Treves aveva in catalogo negli anni
della guerra libica alcune riviste indirizzate a un pubblico femminile, conquistato con successo grazie alla collaborazione
della moglie di suo fratello Giuseppe, Virginia Treves Tedeschi,
scrittrice nota con lo pseudonimo di Cordelia, che tali riviste
fondò e diresse. Differenziandosi tra loro anche nel prezzo,
erano rivolte a diversi strati sociali: mentre “L’eleganza” era un
giornale a buon mercato, “Margherita” era una rivista di gran
lusso86. Diversi anche il contenuto e l’atteggiamento rispetto ai
fatti nazionali.
Cominciamo però da “Il corriere delle signore”87. Era un
settimanale che proponeva notizie di moda, consigli medici,
igiene della bellezza, assieme a grandi illustrazioni, disegni
firmati, figurini, ricami, modelli già tagliati, ma anche racconti,
novelle, romanzi a puntate. Faceva pubblicità a prodotti di consumo non troppo popolare, come il Brodo Maggi in dadi, il
Liebig, il sapone Banfi, gli abiti ricamati della ditta Schweizer e
C. di Lucerna, e insieme anche a libri di vario genere, dai racconti di Cordelia, in quegli anni direttrice del settimanale stesso88, alle novelle di Luciano Zuccoli, a quelle di Teresah.
Compariva però anche la pubblicità di opere assai più impegnative, come l’Epistolario inedito di Giuseppe Mazzini (18361864) a cura di Tommaso Palamenghi Crispi; Le memorie della
baronessa Olimpia Savio a cura di Raffaello Ricci; Garibaldi e i suoi
tempi, di Jessie White Mario, e poi opere di Guelfo Civinini, di
Edmondo De Amicis, di Marco Praga, di Tommaso Gallarati
Scotti, Virgilio Brocchi, Grazia Deledda, Carlo Dossi, Sem
Benelli e altri ancora. Se completassimo questo elenco vi apparirebbero tutte le migliori firme di quell’inizio di secolo. Per
questa via, cioè nella pubblicità editoriale, compaiono alla fine
anche la Libia e la guerra di Libia. Inutile dire che la scelta degli
autori non lascia dubbi sulla posizione patriottica del “Corriere
30
delle signore”: Domenico Tumiati, Tripolitania, (n. 38, 23 set.
1911), poi pubblicato anche a dispense89; Enrico Corradini,
L’ora di Tripoli, pubblicizzato anche prima dell’uscita; Scipio
Sighele, Il nazionalismo e i partiti politici, annunciato come imminente (n. 40, 7 ott. 1911); a novembre si segnalano Le sette canzoni della gesta d’oltremare di D’Annunzio; e ancora di Corradini,
nel febbraio 1912, La conquista di Tripoli. Lettere dalla guerra; nel
giugno 1912 si annuncia l’uscita di Italia e Libia, di Gaetano
Mosca, e di L’isola di Rodi e le Sporadi, viaggio di Eugenio
Flandini, avvisando che sulla copertina a colori comparirà il
ritratto del generale Giovanni Ameglio; in luglio è data come
imminente l’uscita di Cirenaica, del prof. Roberto Almagià, con
una carta geografica, e anche L’Italia e l’Islam in Libia, di
Aldobrandino Malvezzi, con prefazione di Pasquale Villari. È
appena il caso di ricordare che si trattava sempre di edizioni
Treves, ma insomma chi manca in questo elenco di studiosi e
pubblicisti? Solo personaggi come Ghisleri, Salvemini e quei
socialisti avversi alla nuova guerra coloniale. D’altra parte, un
discorso diretto sulla guerra, sul suo svolgimento, sui suoi
scopi, non compare mai. Allora rimane da osservare che o le
signore destinatarie di questo settimanale erano pensate come
talmente colte e impegnate a istruirsi sui fatti politici, che non
fosse il caso di tradurre loro in discorsi più semplici e succinti
le idee e le notizie che avrebbero potuto vagliare da sé nelle
letture loro proposte; oppure si riteneva che per quelle lettrici,
al di là della moda e delle storie d’amore, fosse inutile spender
parole, e che quindi la pubblicità editoriale di Treves fosse di
fatto destinata piuttosto agli uomini di casa, cui “Il corriere
delle signore” poteva cadere sotto gli occhi.
Le stesse scelte editoriali caratterizzano anche un’altra rivista edita dai Treves e diretta da Cordelia, e precisamente “L’eco
della moda” che, dopo 24 anni di vita, nel giugno 1912 si fuse
con “Il corriere delle signore”. Nell’“Eco della moda”, proprio
volendo, si potrebbe cogliere una risonanza della guerra libica
in certi scritterelli non firmati, dedicati ai matrimoni arabi, a
31
quelli marocchini, e a quelli tripolini90, che hanno però un tono
tra il divertito e il curioso e niente affatto politico o patriottico.
Neppure “L’eleganza”91 fece mai alcuna menzione della guerra
in corso. Oltre all’attenzione per modelli, ricami, abiti, borse,
cappelli, dava talora notizia di qualche novità, come il cinematografo nei treni di lusso (n. 20, 13 ott. 1911), o di qualche Paese
straniero (sulle donne cinesi, n. 14, 15 lug. 1912), o di nuovi
passatempi, come il bridge (n. 19, 1° ott. 1912), ma la politica
nazionale nei due anni presi in considerazione rimase costantemente fuori dalle sue pagine.
Partecipazione femminile
Invece nella rivista “Margherita”, così denominata dalla
regina d’Italia di cui si ammirava la raffinata eleganza, la direttrice Virginia Treves Tedeschi dedicò una costante attenzione ai
fatti politici e, in quegli stessi anni, anche al femminismo. Dal
1910, pur continuando a riservare la parte preminente dei suoi
spazi alla moda, all’abbigliamento e alla vita di società della
signora di classe, “Margherita” ospita nella rubrica La quindicina di Vita femminile notizie sulle associazioni di donne e sulle
battaglie dei movimenti femminili per l’istruzione, l’inserimento nelle professioni, il diritto di voto. La guerra di Libia non
può quindi passare sotto silenzio, ma su questo punto la rivista
adotta le argomentazioni e il tono patriottico del mainstream,
senza avvertire alcuna contraddizione col femminismo:
Sulle acque del “mar nostro”, l’Italia in una rivincita che
s’imponeva, ha finalmente dato ai popoli lo spettacolo
magnifico della sua forte organizzazione navale; dalle sponde, in uno slancio unanime e pronto i figli d’Italia hanno
risposto concordi […] e le nazioni hanno deposto il velato
sarcasmo di cui troppo sovente ci gratificavano […]. Dentro
i confini il fuoco belligero che tien alto lo spirito delle nazioni, già troppo lungamente soffocato, non diminuito del
tentativo vano e turpe di smorzamento dei demagoghi inco-
32
scienti, ha divampato. […] I partenti tutti spontaneamente si
sono offerti alla patria […] all’opera necessaria di redenzione che ci ridona, per la sovrabbondanza del nostro popolo,
una fertile terra, – già romana, invasa e sacrificata dai barbari – assieme al baluardo che richiede la nostra sicurezza.
Più che rappresentare una realtà, si cerca di costruirla con
l’esortazione, da un punto di vista che non ammette dissenso.
E le donne? Naturalmente «hanno mostrato d’essere pari al
compito che il momento storico a loro affidava. Nessuna madre
ha trattenuto con le lagrime il figlio, nessuna sposa il marito».
E allora, alle donne d’Italia, «rigogliosi e sani virgulti di nostra
stirpe», si suggerisce di unirsi nella preghiera e nella speranza
e nel gridare assieme ai combattenti «viva l’Italia!»92.
Sull’unanimità di tutti gli italiani nell’amore verso la patria
la rivista ritorna, compiacendosi in modo particolare che anche
quei miseri e ignoranti «rozzi figli della gleba», cui «la patria
non ha insegnato nulla, non ha dato nulla», abbiano accettato
«l’ordine di morire per una meta che non sanno, per un’opera
che non comprendono, ma che si compie tra lo sventolare del
tricolore, unico, ma eloquente segnale di raccolta e di vittoria!».
E commenta: «nulla di più commovente di questo affetto tenace
e strano»93. Quasi per indicare alle lettrici come pagare il debito
della patria a chi non ha avuto nulla, riferisce poi che l’‘Associazione Carità e Agricoltura’ si prepara ad accogliere gli orfani
di soldati morti in Tripolitania privi di mezzi di sussistenza; che
per gli stessi orfani il Congresso suffragista recentemente tenutosi a Torino ha promosso una sottoscrizione, inviando «un
saluto reverente alle mogli, alle figlie, alle madri dei prodi
caduti gloriosamente per la patria»; e infine che a beneficio
della Croce Rossa sono state organizzate parecchie serate teatrali94. Della Croce Rossa si riparla a proposito del ritorno in
Italia della prima squadra di infermiere, e con l’intervista a una
di esse, la signorina Roncaldier, che loda la Duchessa d’Aosta e
la marchesa Guiccioli, «sapiente ed ottima guida», ma insiste
33
sullo spirito di sacrificio che tutte le univa come sorelle95.
Di attività femminili si narra in febbraio, parlando delle
signore di Tripoli, che «sino a pochi giorni or sono si tenevano
prudentemente celate nelle loro abitazioni» e ora «riprendono
finalmente parte attiva alla vita della città, diffondendo per
ogni dove la loro gaiezza e ostentando vaghe toilettes», già
primaverili in quel clima così mite. Le signore hanno formato
un Comitato, raccolto denari per una lapide a onore dei caduti
e per una messa in loro suffragio96. Vaghe signore in eleganti
toilettes anche quelle accorse alla riapertura del Parlamento
italiano insieme a una folla varia e composita «dopo tanti mesi
d’aspettativa impaziente». Ancora un’occasione per sottolineare l’unità spirituale degli italiani creata o rivelata dalla guerra:
Sarebbe superfluo parlarvi dell’entusiasmo patriottico che
parve avvolgere come in una nube di gloria quella seduta
inaugurale. Sembravano sfumati tutti i meschini pregiudizi,
svanite le vie [sic] di parte, scomparsi gli astii antichi e velenosi, per non lasciare il campo che ad un solo sentimento,
ad un’unica aspirazione, ad un palpito generale e grande e
solenne […] all’amore di patria97.
L’impresa di Libia dunque non è assente dalle pagine di
“Margherita”, ma non vi compare mai la guerra vera e propria,
solo il contorno ad essa di eventi o iniziative, prevalentemente
di donne, o in cui le donne abbiano uno spazio e una funzione
gratificante. Così l’iniziativa del ‘Pensionato per le impiegate e
professioniste’, che dopo aver fornito ai soldati berretti di lana
contro il freddo notturno, si dedica a preparare delle zanzariere
e suggerisce modelli per chi voglia confezionarle, oppure offerte in danaro per ordinarne la fabbricazione a scuole e collegi98.
Appello al buon cuore e sentimento unanime anche a favore
degli italiani costretti a lasciare la Turchia: «Tutta l’Italia aperse
le braccia ai fratelli espulsi e li accolse con affetto». La rivista si
sofferma su un gruppo di famiglie accolte in un quartiere
34
nuovo, lindo e ridente, apprestato per loro dalla città di Milano,
e specialmente su quelle povere donne che rimpiangono le loro
case: «la nostra bella roba!», mentre i ragazzini giocano allegramente negli spazi comuni. Ad ogni modo «quelle vittime involontarie della guerra […] dimenticano i loro guai, rallegrandosi
d’ogni vittoria delle armi italiane, e desiderando che l’Italia
continui nel suo cammino trionfale»: realtà o immaginazione
tutti questi sentimenti? O piuttosto desiderio e propaganda?99.
Nessun dubbio invece sull’allegro spettacolo della sfilata degli
Ascari a Roma:
Dopo quasi dieci mesi di guerra, potemmo vedere un’intera
popolazione, pazza d’entusiasmo, affollarsi lungo le vie
della città, applaudendo freneticamente alla patria e alla
guerra, come nello scorso autunno, quando partivano per la
Libia i primi reggimenti […] Quei bruni soldati, che salutavano con una serena impassibilità la folla entusiasta, quei
fiori che piovevano dai balconi, quello sventolio di bandiere, quell’agitarsi di fazzoletti e di mani, dava l’idea veramente d’uno stupendo trionfo barbarico100.
A completare il quadro degli echi prodotti dalla guerra italoturca sulle pagine di “Margherita” occorre dire ancora di un
trafiletto non firmato sulla donna araba, di cui vengono descritti il vestiario, il bagno rituale, le cure di bellezza, distinguendo
fra le usanze di donne ebree e di musulmane, di donne ricche e
povere: attenta e curiosa la descrizione, non saprei dire quanto
fedele101.
35
Note
1 Iniziato nel 1865 da Ferdinando Garbini, e dal 1901, come tutti i
periodici da lui pubblicati, passato in proprietà della tipografia poi casa
editrice Verri, che già ne possedeva alcune altre, di cui quattro attive nel
1911-12. Si veda sulla casa editrice Verri, la nota 46, infra. Per un inquadramento generale su “Il bazar” si veda Bibliografia dei periodici femminili
lombardi, a cura di R. Carrarini, M. Giordano, Milano, 1993. Secondo S.
Franchini, Editori, lettrici e stampa di moda, Milano, 2002, p. 314, “Il bazar”
era già diffuso in città e cittadine del Nord, del Centro e persino del Sud
verso la fine degli anni Sessanta.
2 Un numero dell’edizione mensile costava £ 1, un numero dell’edizione quindicinale cent. 80, mentre l’abbonamento annuale costava £ 12.
3 “Il bazar”, 1° gen. 1911, meno l’ultima notizia, che comparve il 1°
ottobre.
4 Per esempio: in data 15 aprile 1911 quella di Giuseppe Missori; il 1°
maggio quelle di Giovanni Pascoli e di Antonio Pacinotti.
5
Rispettivamente in data 1° maggio, 1° giugno e 15 giugno 1911.
6
N. del 1° aprile.
7
N. del 15 maggio.
8
N. del 1° luglio.
9 Anche se all’epoca «si propo[neva] più come momento di svago ed
emporio di lavori femminili che come guida di comportamento», secondo
Filippo Messina, Periodici per la famiglia di F. Garbini, in Donnalombarda. 18601945, a cura di A. Gigli Marchetti, N. Torcellan, Milano, 1992, p. 297. È
passato però il tempo di quell’esclusione totale della cronaca politica invalsa inizialmente nei giornali di moda: cfr. S. Franchini, Editori…, cit., p. 301.
10
Era un ritornello generale: «Il turco assai protetto dall’arabo traditor», scrive nel 1912 nei suoi versi augurali un soldato dalla Tripolitania,
in N. Labanca, Posti al sole. Diari e memorie di vita e di lavoro dalle colonie
d’Africa, Rovereto, 2001, p. 291. E anche chi ammette di «aver assistito a
delle scene che mi fan giudicare il nemico molto coraggioso», attribuisce
tale comportamento «all’istinto selvaggio»: ivi, altra testimonianza del
1911, p. 110. Gli esempi si potrebbero moltiplicare a volontà.
11
La guerra tra l’Italia e la Turchia, 1° nov. 1911, p. 28, riferendo il discor-
36
so del contrammiraglio Borea d’Olmo.
12 Sul rifiuto di riconoscere agli arabi il diritto alla resistenza, atteggiamento dei politici – a cominciare da Giolitti – più ancora che dei militari,
si veda per es. S. Romano, La quarta sponda. La guerra di Libia.1911-1912,
Milano, 1977, p. 114-115.
13
Si tace però che il colera stava diffondendosi anche fra le truppe
italiane: si veda F. Malgeri, La guerra libica 1911-1912, Roma, 1970, p. 165166 e p. 364.
14
N. del 1° dic. 1911.
15
N. del 1° gen. 1912.
16
N. del 1° feb. 1912.
17
È la costruzione di quell’immagine di guerra moderna e tecnologica, che si volle far circolare fra il pubblico italiano, evidente in certe pubblicazioni del tempo, per es. E. Scaglione, Primavera italica. Antologia delle
più belle pagine sulla guerra italo-turca, Napoli, 1913, p. IX, ma assai ridimensionata dalla storiografia recente, per es. da N. Labanca, 1911-1912.
Immagini e realtà di un’occupazione coloniale, in Le tre Italie: dalla presa di
Roma alla settimana rossa (1870-1914), a cura di M. Isnenghi, S. Levis
Sullam, Torino, 2009, p. 654.
18
N. del 1° apr. 1912: si noti che della deportazione di quei libici non
aveva dato alcuna notizia.
19
N. del 1° mag. 1912.
20
N. del 1° giu. 1912. Simili discorsi anche il mese successivo: atto vile
e anticivile, l’espulsione degli italiani, per i quali profughi in Italia si prepara e si auspica un’accoglienza fraterna.
21
N. del 1° ago. 1912.
22
N. del 1° set. 1912.
23
N. del 1° nov. 1912.
24
N. del 1° dic. 1912.
25
N. del 1° gen. 1913.
26
N. del 1° dic. 1911.
27
N. del 1° feb. 1912: l’autore dell’articolo dichiara di averlo tratto
37
«dal confratello “Il pensiero di Sanremo”».
28
N. del 1° mar. 1912.
29
Luigi Preziosi Maccaroni, La guerra, in “Il bazar”, 15 feb. 1912.
30
Severina Ercolani, La donna, i suoi diritti, i suoi doveri, in “Il Bazar”,
1° gen. 1913.
31 Sempre sotto lo stesso titolo Da un mese all’altro. La guerra tra l’Italia
e la Turchia, già visto sul “Bazar”; anche i testi sono letteralmente gli stessi,
solo variano di qualche giorno le date di pubblicazione, a volte la stessa
rubrica compare prima sul “Bazar” e poi sul “Corriere universale”, a volte
il contrario.
32
Durò dal 1903 al 1914, aveva sede in via Manzoni 37.
33
Un numero costava cent. 5, l’abbonamento annuale £ 2,50.
34
Tra queste pubblicità ritornava insistente quella intitolata Tripolina
Tromiaton, per cui vedi oltre, nota 84.
35 Firmata da Renato Schiavone, in “Corriere universale della domenica”, n. 1, 7 gen. 1912, già apparsa pochi giorni prima in “La stella e
l’aurora”: vedi oltre, nota 47.
36 Firmata da Enrico Zecca, in “Corriere universale della domenica”,
n. 28, 14 lug. 1912, p. 7.
37
Dina Sibellini, L’ultimo sorriso, in “Corriere universale della domenica”, n. 46, 17 nov. 1912.
38
Come le definisce la Bibliografia dei periodici femminili lombardi, cit.,
p. 183, “La gran moda” era stata iniziata da Garbini nel 1887.
39 Al seguito del marito, tenente Luigi Porzio. Una eroina della Terza
Italia, n. 23, 1° dic. 1910.
40 Crepuscolo di sangue, una fantasia di guerra firmata da Pietro Bianco,
n. 20, 15 ott. 1910.
41
Cesco Battistessa, Canto barbaro e barbaresco, n. 1, 1° gen. 1912.
42
Rodolfo Savariano, Episodio tripolitano, n. 24, 15 dic. 1911.
43 Pietro Mignosi, A la Vittoria italiana, n. 24, 15 dic. 1911. Di tono più
elevato, naturalmente, L’opinione di Pascoli sulla guerra attuale, n. 20, 15 ott.
1911.
38
44
Savino Bencini, Ai caduti d’Italia, n. 2, 15 gen. 1912.
45
Il Congresso Nazionale delle donne. La seduta inaugurale, n. 14, 15 lug.
1911, non firmato.
46 Quanto al direttore, O. Giussani Bareggi forse non era personalmente uno scrittore, ma un appassionato di industria grafica: tale la possibile
continuità fra la direzione di questi giornali di moda negli anni 1911-12 e
l’approdo nel 1921 alla presidenza dell’Unione industriali grafici e cartotecnici della provincia di Milano: cfr. Francesco Oppi, L’Unione fa la forza.
Oltre un secolo di impegno dell’Industria grafica e cartotecnica per la cultura e la
comunicazione in Lombardia e a Milano, Milano, 2009. Nel 1911 Giussani
Bareggi dirigeva tutti i periodici Verri, e di alcuni era direttore proprietario
(“Trionfo d’amore”, “Trionfo della moda”, “Monitore della moda”, “La
stella e l’aurora”). Sulla Guida Savallo di Milano del 1911, l’elenco alfabetico dei cittadini nominati a vario titolo comprende 11 Verri (dal ferramenta al calzolaio), ma nessuno di essi è registrato come editore. Fra i libraieditori figura la Casa ed. Verri, via S. Simpliciano 5, direttore O.G.B; allo stesso
indirizzo figura la tipografia Giussani Filippo, di O.G.B. Nel 1902 la medesima Guida registrava una tipografia Giussani-Manzoni, in via S.Simpliciano 5,
la medesima che nella guida 1899 è detta Tipografia. Giussani-Manzoni, già
Verri; arretrando ancora, nel 1895 troviamo elencata una tipografia Verri, di
G. Bolaffi. Dunque il nome Verri era una semplice etichetta commerciale,
non il nome di un proprietario: in conclusione la casa editrice Verri era
interamente l’impresa, se non proprietà, di Giussani Bareggi.
47
Raffaele Schiavone, Mio figlio è morto. La canzone della madre, da
Salerno, in “La stella e l’aurora”, 31 dic. 1911. Ripubblicata, come s’è detto,
nel “Corriere universale della domenica”, il 7 gen. 1912.
48
1912.
Rosolino Davi-Gabrielli, La madre dell’eroe, da Palermo, 18 ago.
49
Nino Brandilotti, Gli eroi, da Milano, 7 gen. 1912.
50
Luigi Preziosi Maccarone, Risveglio d’Italia, da New York, 21 apr.
1912.
51 Pietro Mignosi, A la Vittoria italiana, 3 dic. 1911; Rodolfo Savariano,
Episodio Tripolitano, 3 dic. 1911, apparvero anche su “La gran moda” del 15
dic. 1911; Savino Bencini, Ai caduti d’Italia, 14 gen. 1912, apparve sulla
stessa “Gran moda” a un giorno di distanza.
52
Alfonso Janni, Alba di guerra, da Milano, 7 gen. 1912.
39
53
Amelia Capolongo, Ricordi di guerra, da Napoli, 13 ott. 1912.
54
Ottorino Giussani Bareggi è qui indicato come direttore proprietario.
55
Il ritorno da Tripoli, non firmato, n. 738, 24 dic. 1911, p. 2.
56
Osvaldo Tellini, La patria, da Pisa, n. 744, 4 feb. 1912, p. 2.
57
Raffaele Schiavone, Al sole d’Italia. La canzone del soldato, da Salerno,
n. 740, 7 gen. 1912, p. 2.
58
p. 3.
Raffaele Schiavone, Avanti, o prodi, da Salerno, n. 742, 21 gen. 1912,
59 Raffaele Schiavone, Son vivo ancora. La canzone dell’amore, da
Salerno, n. 749, 10 mar. 1912, p. 2.
60 A. Covezzi, Ai soldati italiani, da Sampierdarena, n. 747, 25 feb. 1912,
p. 3. Corsivo mio.
61
Demetrio Micozzi, Ai fratelli, da Roma, n. 748, 3 mar. 1912, p. 3.
62
Silvio Folgore, Al soldato morente, da Torino, n. 749, 10 mar. 1912. p. 2.
63 Settimanale, si pubblicò a Milano fra il luglio 1899 e il dicembre
1915, dall’editore Verri, anche questo sotto la direzione del proprietario
Ottorino Giussani Bareggi. Per un inquadramento si veda la citata
Bibliografia dei periodici femminili lombardi.
64
Il successo entusiastico di duecento Suffragiste, n. 1, 7 gen. 1912. Cfr. Le
nuove professioni femminili, n. 25, 3 giu. 1912.
65
L’opinione del Pascoli sulla guerra attuale, n. 42, 15 ott. 1911.
66
Un anarchico favorevole alla conquista tripolina, n. 47, 19 nov. 1911. Si
veda in proposito M. Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di
Libia, Roma, 1976, p. 102 sgg.
67
Tripolitania e Cirenaica, n. 46, 12 nov. 1911.
68
A.S., Funerale arabo, n. 9, 3 mag. 1912.
69
La presa di Hamidié, n. 48, 26 nov. 1911.
70 Sulle conseguenze militari e politiche di tale convinzione, si veda, fra
tutti, N. Labanca, Una nuova Italia? La guerra di Libia, in Le tre Italie, cit.
71
La pace è lontana, n. 50, 10 dic. 1911.
72
Donne italiane a Tripoli, n. 49, 3 dic. 1911.
40
73 La nuova canzone militare, ripresa dalla “Rivista Militare Italiana”, n.
13, 31 mar. 1912.
74
Varietà, scritto senza titolo, n. 51, 22 dic. 1912.
75 Pubblicato prima da Garbini, passò all’editore Verri nel 1901, e
cessò nel dicembre 1914: era un mensile, di sole 4 pagine, che offriva l’abbonamento annuale a £ 11 e un numero a £ 1, ma nel 1911 dovette abbassare i prezzi, a £ 7 e cent. 70.
76 “L’emporio della ricamatrice e lavori di biancheria”: Il Soldato di
paglia, dic. 1911, p. 4.
77
Ivi, feb. 1911.
78
«Forse tra i più rappresentativi giornali di moda dell’Italia liberale», secondo F. Messina, Periodici per la famiglia di F. Garbini, cit., p. 298.
79 Tripolitania e Cirenaica, in “Il monitore della moda”, n. 46, 13 nov.
1911, p. 6.
80 Un anarchico favorevole alla conquista tripolina, ivi, n. 47, 20 nov.
1911, p. 7.
81
La presa di Hamidié, ivi, n. 48, 27 nov. 1911, p. 6.
82
A.S., Funerale Arabo, ivi, n. 10, 4 mar. 1912, p. 3.
83 Emilio Grossi, La vita araba, ivi, n. 5, 29 gen. 1912, p. 4-5, già visto
sul “Bazar”, cfr. nota 27.
84 Jack, La questione tripolina, ivi, n. 2, 8 gen. 1912, p. 7. Il Tromiaton era
un disinfettante contro le punture degli insetti e le ferite da taglio, si spiegava in nota. La stessa pubblicità apparve prima o poi anche nelle altre
riviste del gruppo.
85 R. Carrarini, La stampa di moda dall’Unità ad oggi, in Storia d’Italia,
Annali XIX, La moda, a cura di C. Belfanti, F. Giusberti, Torino, 2003, p.
801.
86
Si veda N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli editori italiani, RomaBari, 2000, p. 83.
87
Fu pubblicata dalla casa editrice dei fratelli Treves dal 1897 al 1922.
88
Solo dopo la morte di lei, nel 1916, la direzione passò ad Amelia
Brizzi Ramazzotti.
41
89 Treves aveva già pubblicato nel 1905 D. Tumiati, Tripolitania.
Nell’Africa romana, 1° ed. in 16° senza fotografie, e 2° ed. in 8° con fotografie, da attribuirsi al Tumiati stesso secondo L. Goglia, Africa, colonialismo,
fotografia: il caso italiano (1885-1940), in Ministero per i beni culturali e
ambientali, Fonti e problemi della politica coloniale italiana, vol. II, Roma,
1996, p. 847.
90 “Eco della moda”, I matrimoni tripolini, n. 20, 19 mag. 1912, p. 318.
Vi si distingue fra gli usi e costumi arabi e quelli israeliti.
91
Durò dal 1878 al 1923, quindicinale, poi mensile.
92
Ornella, Donne d’Italia, n. 21, 1° nov. 1911, p. 327.
93 Marchesa di Villalba, Le chiacchiere della Marchesa, n. 23, 1° dic. 1911,
p. 361.
94
Ivi, p. 362 e 363.
95
R., La Croce Rossa a Tripoli, n. 1, 1° gen. 1912, p. 14.
96
R., Femminismo tripolitano, n. 3, 1° feb. 1912.
97
Marchesa di Villalba, Le chiacchiere della marchesa, n. 5, 1° mar. 1912.
98 R., Una nuova iniziativa milanese per i combattenti in Libia, n. 13,
1° lug. 1912.
99
100
Vanda, Per gli espulsi dalla Turchia, n. 14, 15 lug. 1912, p. 222.
Marchesa di Villalba, Le chiacchiere della Marchesa, n. 14, 15 lug. 1912.
101
La donna araba, n. 13, 1° lug. 1912. Da notare che qui si dice araba
per dire libica.
42
2. Silenzi e retorica dell’editoria popolare
Una pacifica indifferenza
L’editore Sonzogno pubblicava in quegli anni quattro periodici destinati per il loro contenuto a un pubblico prevalentemente femminile, individuato tra quella piccola borghesia cui
indirizzava anche il resto della sua editoria popolare1: “La
novità”, “La cucina moderna illustrata”, “La moda illustrata”,
“Il ricamo”.
“La novità”, famoso «giornale illustrato delle mode e dei
lavori femminili», il cui successo indiscutibile è attestato dalla
lunga durata2, era diretto alle donne e anche compilato da una
redazione tutta femminile. Non che fosse femminista: sebbene
sostenesse per le donne il diritto allo studio, al lavoro e alla
parità di retribuzione, negava loro i diritti politici, considerando
la politica come affatto estranea agli interessi femminili. Si occupava dunque di mode, di biancheria, di lavori di cucito, di problemi domestici. Mentre nel 1915 la nuova direttrice, Adele della
Porta3, accoglierà con entusiasmo l’ingresso dell’Italia nella
Grande Guerra, all’impresa libica nelle annate 1911 e 1912 non
comparve alcun accenno. Solamente nella pagina dedicata agli
abbonamenti si offriva, tra le altre pubblicazioni della casa editrice Sonzogno, Tripoli e la Cirenaica, rassegna della guerra contro
la Turchia, in due dispense settimanali4. Ed anche, in dispense,
L’arabo parlato senza maestro, metodo pratico per l’Italiano in
Tripolitania, opera diretta dal professor Eugenio Levi5. Neppure
nelle pagine di “La cucina moderna illustrata, rivista quindici43
nale di cucina ed economia domestica”, si ritenne necessario
introdurre informazioni, notizie o discussioni sulla guerra degli
italiani in Libia, e si continuò a suggerire ricette di ogni genere e
a disquisire sull’alimentazione, solo proponendo con più esteso
e convincente discorso gli stessi fascicoli settimanali di Sonzogno
reclamizzati da “La novità”. Così Tripolitania e Cirenaica. L’Azione
italiana, è detta opera storica, intesa a raccogliere
ben selezionati, i fatti che abbiano avuto ufficiale conferma,
e insieme illustrare, con la scorta di dati positivi, quelle che
sono le condizioni reali della Tripolitania e Cirenaica dal
punto di vista militare, politico, diplomatico, industriale
etnografico ecc. ecc., mettere così insieme con criterio di
obbiettività, gli elementi e i dati per la futura storia della
nostra azione militare in quelle lontane regioni, di cui tutti
parlano e sulle quali è, nell’ora presente, rivolta l’attenzione
di tutta l’Europa6.
Insomma un’opera di documentazione critica, e insieme
«ispirata ai sensi del più sereno patriottismo»7. Anche in questo
caso8 viene da chiedersi se l’editore Sonzogno puntasse sugli
interessi culturali delle sue lettrici, oltre che sulle loro attitudini
domestiche in cucina e in guardaroba, oppure se immaginava
che le pagine delle sue riviste cadessero sotto occhi maschili.
Quanto poi a “La moda illustrata”, ancor più scarsa attenzione
dedicò in un primo tempo alla guerra di Libia; anche la pubblicità delle dispense su Tripolitania e Cirenaica in questo settimanale era più saltuaria, come del resto quella dei libri; le sole
allusioni agli avvenimenti in corso potrebbero vedersi in un
trafiletto ironico sulla sottomissione consigliata alle spose arabe9, e in una più seria descrizione delle usanze matrimoniali in
Tripolitania, che rivela fin dall’inizio l’atteggiamento ‘orientalista’, piuttosto che quello coloniale:
La superstizione domina in generale tutta la popolazione
44
della Tripolitania. Il vincolo matrimoniale non è tenuto in
alcun conto, giacché il Corano autorizza a prendere diverse
mogli. I matrimoni vengono celebrati solennemente, lo
sposo invia alla promessa sposa ogni sorta di doni, che vengono portati alla casa di lei su dei somarelli…10.
Infine però fra i figurini compare un raccontino patriottico,
giocato sul contrasto fra le gioiose canzoni degli italiani esultanti nel sentirsi ormai degni d’un grande passato, e la desolata
disperazione della madre di un caduto, rimasta sola nella sua
indigente vecchiaia11.
Alla morte!
Più interessato all’impresa libica fin dall’inizio fu l’altro settimanale di Sonzogno, “Il ricamo”, diretto da Amelia Brizzi
Ramazzotti, che si pubblicava ogni domenica e offriva per 10
centesimi otto pagine grandi su carta sottile occupate da disegni di ricami d’ogni specie e relativa spiegazione, da eseguire
su vestiti, camicie, fazzoletti, scialli, berretti, centrini, tovaglie,
tappeti. Conteneva però sempre poesie e racconti di varia
estensione, firmati spesso anche da donne12. Fu proprio un
nome femminile, Angelina, a firmare il primo scritto sulla guerra, a fine ottobre 191113. È una prosa veemente che cerca (invano) di seguire un filo logico: favorevole alla «andata a Tripoli»,
sostiene, non è solo chi non ha fratelli chiamati alle armi: esiste
una fratellanza universale,
...la legge di Cristo, che è la mia, non affratella tutti, non è
legge di carità e d’amore? [E tuttavia] La Patria nostra oggi
vuole un tributo dai suoi figli; […] invoca da noi protezione,
aiuto. Chi può resistere alla sua chiamata? I nostri padri non
combatterono anch’essi per questo caro suolo, per la sua
indipendenza, perché questo giardino d’Europa fosse libe-
45
ro? E le nostre madri, non erano esse che spingevano i propri figli alla pugna […]? I tempi sono cambiati, è vero,
all’entusiasmo patriottico d’allora è successa una pacifica
indifferenza. Ma se tutto ci condanna e meschini sentiamo
di essere, siamo sempre italiani, e da tali abbiamo il cuore
[…]. Risorgiamo, l’Italia ci chiama, chiniamo la fronte da
sudditi fedeli al volere del nostro Re e andiamo fiduciosi
verso Tripoli. Dio che tutto sorregge, assisterà e aiuterà
ancor noi. Perché piangi, o donna? […] Essi ritorneranno e,
se non ritorneranno, il tuo sacrificio li avrà resi prodi.
Ai soldati in partenza per la guerra si grida: «Accorrete fiduciosi verso le regioni turche, accorrete col cuore […] e pensate
che qui nella vostra patria […] si prega per voi».
Una mescolanza quasi blasfema di temi religiosi e menzogne patriottiche: non si stava combattendo, infatti, per la libertà
e l’indipendenza della patria, ma per privarne un altro popolo,
invadendo una terra straniera: non sarà forse, questa offesa alla
verità, responsabile della lamentata «pacifica indifferenza»?
Invece la redazione insiste sul tema del dovere non solo patriottico, e tornerà di lì a poco a mescolare perentorie asserzioni e
ambigui ragionamenti14. Ancora Angelina chiede alla donna
italiana di dimostrare la vera carità, dedicandosi ad assistere i
tanti soldati ritornati dalla guerra mutilati e inabili al lavoro.
Anche qui l’autrice si appella alla nazione: «È sangue italiano
che al sangue italiano chiede aiuto!», e alla religione: «La carità
è legge suprema che affratella i popoli, che ci rende grandi
innanzi a Dio e agli uomini, e che dona grandi soddisfazioni»15.
Sulla stessa linea, per consolare la madre di un caduto: «Oh,
religione divina, oh, gloria immortale! Siete pur Dee grandi e
possenti, se al vostro ricordo si mitiga il dolore di una madre!»,
scrive ispirata forse la medesima autrice16, che dimostra chiaramente le aporie inevitabili da chi vuole tenere insieme fede
religiosa e giustificazione della guerra. Senza problemi invece
si esalta un’altra penna patriottica, ma laica:
46
A te Italia, invincibile e grande che onori i tuoi figli latini
[…] e fai scorgere i lampi della tua gloria, a te divina nutrice
di prodi […] il mio modesto saluto… i tuoi figli hanno versato il loro sangue, stramazzando col petto squarciato dalle
mitraglie, entusiasmati dalla loro morte, con le mani rattrappite e gli occhi al cielo, invocando la tua vittoria […] e
cacciando i vili stranieri17.
Retorica di bassa lega, e menzogna politica, anche in questo
passo. Che ricompare nel trafiletto ove una voce femminile
ripete che quei giovani in guerra sono «tutti miei fratelli», a
cominciare dai «valorosi bersaglieri che furono i primi a rimanere vittime del tradimento dei vili africani». L’antitesi è netta:
di là «quegli assassini, quei selvaggi», di qua, gli italiani a compiere il loro dovere, servire la patria, la madre di tutti. E ancora
una volta si grida: madri, non piangete. L’esaltazione retorica
giunge al massimo: «anch’io vorrei correre là a combattere, ad
aiutare la patria […] Andiamo anche noi, compagne!», seguito
dal più ragionevole proposito di combattere col pensiero, indirizzando ai nostri soldati «l’augurio fraterno, fervido di un
cuore italiano!»18.
Va detto che alle lettrici del “Ricamo”, oltre a questa prosa
parenetica, era dedicata sul tema guerra di Libia anche qualche
altra scrittura più distensiva, come l’articolo sulla donna araba,
in cui si faceva distinzione fra l’ebrea e la musulmana, evidentemente intendendo araba nel senso di libica19, o quello sulle
babbucce all’ottomana, «che oggi sono diventate di rigore nella
grande società», perché fanno furore nella moda parigina20;
oppure le divagazioni letterarie a base di eroica visione di un
soldato di sentinella che non trema di fronte al nemico21, o di
un marinaio che durante la navigazione si vede dinanzi la sua
amata emergere dalle acque del mare22. In effetti, dopo queste
poco brillanti pagine estive, la guerra sul “Ricamo” non compare più: e anche lo spazio dedicato alla pubblicità delle edizioni
Sonzogno, come L’arabo parlato senza maestro e le dispense setti-
47
manali su Tripolitania e Cirenaica si restringe, specie dopo la
sospensione di tre settimane, per uno sciopero dei tipografi23.
Il bersagliere sul cuscino
Se qualche lettrice voleva esser sicura di non dover leggere
discorsi sulla guerra, poteva affidarsi a un giornale come “La
moda universale Butterick”, che era praticamente la voce della
ditta Martinelli, importatrice e distributrice dei modelli della
casa Butterick di Londra e New York24. Niente da leggere, o
quasi, anche su “La ricamatrice novella”25, curioso periodico
che offriva due volte al mese un grande foglio ripiegato coperto da disegni di ricami da eseguire su abiti, tende, camicette,
lenzuola e altri oggetti disparati, come portaspazzole, cuscini,
stendardi. Eppure il direttore proprietario della ditta Jacobacci,
che fabbricava a richiesta tutti quegli oggetti e capi di cui sul
giornale forniva i disegni, volle a suo modo partecipare all’ethos
guerriero nazionale; ecco dunque il modello di un cuscino che
rappresenta una scena guerresca: un bersagliere difende fiero
una bandiera tricolore dalla presa di un arabo abbattuto a terra,
altri italiani sparano ad arabi fuggitivi, mentre da presso una
tigre giganteggia, ma arretrando, e un leone osserva guardingo26. Anche la sposa inconsolabile del caduto per la patria
diventa il tema di un ricamo di soggetto mortuario: tomba di
pietra, croce, fiaccola, corona d’alloro e bandiera immancabile
formano un disegno francamente di pessimo gusto, ma di sentimenti nazionali27. Un altro foglio propone di ricamare una
nave da guerra imbandierata, che sta avvicinandosi alla costa
di un paesaggio di fantasia, dove una donna con due bimbi
attende angosciata: la scena è commentata in un cartiglio da M.
Jacobacci con zoppicanti ma patriottici decasillabi:
Oltre il mar sulle libiche arene / dove schiere inaudite e
selvagge / d’Islamiti e Feticci [sic] hanno sede / depredan-
48
do degli altrui il tesor; / dove il Turco l’impero vi tiene / e
il pirata trascorre sue piagge, / dove il bimbo o la donna si
cede / come merce di poco valor28.
È l’unica allusione verbale alla guerra di Libia, insieme alla
raffigurazione visiva dei modelli. Del resto anche un editore
come Hoepli, con interessi letterari e scientifici, nel suo “Il giornale illustrato della biancheria” non ritiene necessario dare
notizie o commenti sulla guerra di Libia. La rivista, diretta da
Giuseppe Piazza, vuole istruire le lettrici sulla confezione della
biancheria affinché diventino «buone massaie», e può spingersi
fino a trattare il funzionamento della macchina per cucire, la
pulizia dei tappeti, o la lucidatura dell’argento. L’unica notizia
che esce dall’ambito strettamente domestico è nel 1912 quella
della morte di Giovanni Pascoli, commemorato tuttavia pubblicando alcune strofe de La canzone della granata: una poesia che
riporta immediatamente proprio a quell’ambito. Solo alla fine
dello stesso anno si ritiene di dover finalmente introdurre in
qualche modo il discorso sulla nuova colonia29 – considerata
ormai acquisita e aperta all’emigrazione italiana – invitando a
conoscerla attraverso la lettura di un libro appena pubblicato:
Ora che a prezzo di tante lotte e di tanto sacrificio di sangue,
sopra una parte dell’Africa settentrionale sventola alfine la
nostra bandiera, è più che mai interessante lo studio di quelle terre che offrono tante particolarità speciali, e non solo
per colui che sarà destinato a soggiornarvi, ma ancora per
quanti vogliono conoscere il giudizio autorevole di uno
scienziato spassionato, quale è quello del prof. Vinassa de
Regny, chiaro vanto della R. Università di Parma30.
La rivista offre qualche esempio delle informazioni ricavabili dalla lettura di quel volume, che non nasconde i problemi e
le difficoltà, ma descrive anche le «immense risorse» racchiuse
in quelle regioni. È poco per dedurne un atteggiamento preciso
49
nei confronti dell’impresa militare italiana: ora che la guerra è
in qualche modo conclusa, guardare avanti è necessario, e ciò
non implica un’esplicita approvazione. Sarà invece nel 1915 che
la biancheria verrà messa da parte e il giornale diventerà acceso
interventista e sostenitore della guerra patriottica, «poiché
l’ineluttabilità di un’ora sacra è suonata per la patria, poiché gli
orrori della guerra, oggi, non possono ancor dirsi banditi dal
mondo»31.
Patria, vocabolo santo
Intanto però la guerra di Libia non lascia indifferenti molte
altre riviste indirizzate alle donne. All’epoca anche la Tipografia
della Società editoriale milanese32 ha in circolazione pubblicazioni che per tono e contenuti autorizzano la collocazione nella
stampa femminile: “Rosa d’amore”, che non oltrepasserà il
1911, “Il capriccio”, e “L’amore illustrato”, destinato invece a
lunga vita33, pensate per lettrici di media cultura, ma vendute
a prezzo popolare, sì che è arduo pensare che la Società potesse
coprirne le spese, fotografie comprese.
“Rosa d’amore. Giornale illustrato, letterario, artistico, mondano”, che esce ogni domenica, è rivolto a un pubblico decisamente popolare34. Invita lettori e lettrici a contribuire con propri scritti in prosa o in versi, racconti, novelle, poesie, che il
gerente Pompeo Ferrari manda alla stampa: il che produce
risultati letterariamente di livello mediocre, come già è stato
osservato35. Neppure questo settimanale ignora la guerra di
Libia, ma invece di soffermarsi sulle vicende belliche si limita a
un’opera di esortazione patriottica, mirante più che altro al
sentimento. A firma femminile il primo scritto, un bozzetto sul
soldato che parte, straziato nei suoi affetti familiari, ma spronato dalla voce della patria: «La madre comune, la terra, che ci ha
dato la vita, reclama il mio braccio e il mio sangue, perché son
suoi, perché è dovere di cittadino il posporre [sic] il suo ad ogni
50
altro affetto…»36. Ancora più concitato nella sua esaltazione il
trafiletto che sgrana una serie di esclamazioni: «patria! vocabolo santo, talismano potente, musica divina!» e simili lirismi,
probabilmente di dubbia efficacia anche all’epoca37. Dello stesso livello una illustrazione che sotto il titolo Civiltà vittoriosa
raffigura un’Italia improbabile, col viso di una madonna di El
Greco, in piedi su una imbarcazione, col braccio alzato verso il
cielo e una raggiera intorno al capo: di fronte a lei alcuni uomini, uno armato, ma incerto, e altri inginocchiati a terra, con
l’aspetto più di pellirosse che di arabi, e quel titolo superbo38.
Leggibile, invece, il raccontino che imbastisce dialoghi fra soldati sulla possibile destinazione della nave in cui sono imbarcati, fino all’esplosione della loro gioia, all’annuncio della
destinazione: Tripoli!39. È l’ultimo accenno alla guerra in corso:
con il 1912 il periodico si fonderà con “Il capriccio”.
Viva Italia, abbasso Allah
Come “Il bazar”, anche “Il capriccio. Giornale illustrato del
pubblico italiano”40 segue abbastanza attentamente la cronaca
dell’impresa libica. Comincia a parlarne a metà ottobre 1911,
affermando di non voler «dare giudizi e fare prognostici», ma
proporre un sunto storico per spiegare come Tripoli fosse passata all’impero turco, e concludere che dalla decadenza dell’impero romano quella regione non aveva più avuto «un giorno
felice, un governo umano»41. Notizie della guerra compaiono
nei numeri seguenti, di solito come didascalie di grandi illustrazioni di copertina, con il linguaggio patriottico di rito:
espressioni come «le orde traditrici, la falsità degli arabi non
ossequienti allo spontaneo convenuto di guerra» evocano i fatti
di Sciara Sciat, mentre viene illustrato con enfasi lo scontro per
noi vittorioso di Bumeliana del 26 ottobre42. Enfasi che si ripete
per l’episodio di una bandiera strappata al nemico da «i nostri
piccoli soldati grigi e modesti, oscuri lavoratori dei campi e
51
delle officine, [che] nel nome d’Italia diventano eroi tutti»43. Si
continua con lo sbarco a Bengasi e la visione di navi e marinai
ai loro posti di combattimento. A gennaio 1912 inizia una rubrica che diventa man mano più frequente sotto il titolo Dal teatro
della guerra, in cui si offrono alle lettrici varie lettere dall’Africa:
sono scritture di soldati, ora traboccanti di retorica patriottica,
ora tessute di innocue sciocchezze amorose, ma vi si trova pure
qualche descrizione di luoghi, come il cimitero musulmano di
Henni, oppure sospiri di nostalgia per la patria lontana. Quella
rubrica presto diventa Il corriere dei combattenti e il giornale
ambisce a farne un servizio vero e proprio, invitando madri,
mogli e sorelle a scrivere ai loro cari attraverso le pagine del
“Capriccio” che, inviato alle navi e sui luoghi della guerra,
poteva raggiungere un gran numero di destinatari più facilmente di una singola lettera, specie quando in Italia non si
conosce l’indirizzo esatto dei soldati44.
A tratti il periodico pubblica anche componimenti poetici,
cioè in rima, che banalizzano allegramente, a base di stereotipi
convenzionali, i temi guerreschi:
Concitata, qual torrente / l’onda italica partì / Tutta in sé
l’Italia sente / più che l’arabo le Urì / […] su, a l’attacco;
avanti hurràh / viva Italia, abbasso Allah
e via di questo passo45. Eppure un simile componimento ritornava, mesi dopo, accompagnato per di più da uno spartito
musicale46.
Quanto alle illustrazioni, alcune sono disegni firmati, per
esempio quello di Cesare Tallone: una casa araba signorile, ove
un uomo che parte per la guerra saluta la sua donna47; ma non
sempre la firma è leggibile. Parecchie edizioni poterono fregiarsi delle fotografie di Luca Comerio, un giovane fotoreporter che
già si era reso noto nei giorni del maggio 1898 inviando le sue
foto a “L’illustrazione italiana”48. Naturalmente le foto sono
tese a rafforzare il sentimento e l’orgoglio nazionale, ma anche
52
a tranquillizzare: uomini fermi in una trincea, con palme sullo
sfondo (n. 17); l’ammiraglio Faravelli fra lo Stato Maggiore e
l’equipaggio della corazzata Roma (n. 20); artiglieri che scortano
un cannone issato a dorso di cammello (n. 21); la «banda del
Garian», serenamente allegra in mezzo alle vicende guerresche
(n. 22); l’accampamento di un reggimento di fanteria, col solito
palmizio sullo sfondo (n. 23); un gruppo di sottomarini nel
porto di Taranto (n. 26); il compianto ammiraglio Aubry in
mezzo al suo Stato Maggiore (n. 27); persino il nuovo ristorante
costruito a Tripoli dalla ditta Savini e Zerboni (n. 28); e di
nuovo autorità militari, i generali Caneva, Frugoni e Salsa, fra
diversi addetti allo Stato Maggiore49. Non sempre appaiono
esatti i riferimenti cronologici alle battaglie che si intende illustrare, come nel caso della battaglia navale di Kunfidah, nel
mar Rosso50, e talora si illustrano episodi accaduti già da parecchie settimane, come il violento attacco turco ad Ain Zara, che
campeggia sulla copertina del 24 marzo51; ma l’effetto visivo è
notevole. Il primo volo di due dirigibili che sganciano bombe
su accampamenti arabo-turchi accende la fantasia del disegnatore come quella del commentatore, che condividono l’infatuazione per la guerra tecnologica: «L’aviazione ha trasportato la
guerra ne lo spazio… i soldati italiani esplorano e combattono
dall’alto»52. La scelta dei temi appare spesso condizionata da
esigenze d’immagine: i soldati italiani con i caschetti bianchi,
gli arabi avvolti nel barracano, le palme svettanti sullo sfondo
di dune ben ondulate, e se possibile il profilo di un minareto.
L’esotico attrae ed è la prima cifra con cui in queste pagine
viene evocato il mondo arabo:
come […] le moschee, le cui porte vengono permanentemente guardate da uno o due arabi silenziosi, avvolti nei lunghi
baraccani [sic] ed accoccolati per terra dietro la grata di
legno che divide il tempio dal cortiletto, una qualunque casa
araba è parimenti inviolabile e misteriosa per l’infedele.
53
L’altra è quella della sporcizia e della miseria:
una turba di gente scalza, stracciata e sporca… due cammelli stecchiti e scabbiosi, una sola via larga in riva al mare e
tanti luridi vicoletti che si internavano, s’allungavano,
intrecciandosi e confondendosi tra di loro…53.
Il tema ritorna, anche con il ricorso a piccole immagini (fotografie?) di venditrici, di donne che vanno al mercato, di carovanieri in viaggio: ma spesso il tono ironico e superficialmente
canzonatorio toglie efficacia al quadro, che del resto evita accuratamente qualunque discorso serio: «Io non voglio qui discutere se l’Italia abbia fatto bene o male ad appropriarsi della
terra libica, la futura Mecca d’Italia», scrive per esempio un
compilatore che, mentre si lamenta che la stampa estera ci
abbia tacciato di briganti, pezzenti, seguaci di Musolino, colerosi e peggio, si domanda però se la Tripolitania sia veramente
fertile oppure sia un osso spolpato54. Per la seconda volta “Il
capriccio” dichiara di astenersi dal giudizio.
A volte i cronisti sono a corto di argomenti, e allora ammanniscono allusioni convenzionali alle donne, da cui stare alla
larga, alla carne di maiale, all’ignoranza superstiziosa degli
indigeni di fronte al volo degli aeroplani. «Vorrei, amici lettori,
potervi dare notizie di indole guerresca – scriveva un corrispondente da Tripoli mentre sentiva colpi di artiglieria da Ain
Zara – ma sono sempre gli stessi piccoli attacchi, fatti più per
dare noia che per incutere timore»; e allora descrive il volto così
cambiato della città, dove si sono aperti ristoranti, birrerie e
negozi, miglioramenti che attestano lo scopo umanitario della
conquista, come la pacificazione fra arabi ed ebrei abitanti della
città: gli arabi venditori di noccioline americane, le donne
ebree, belle, coi vestiti colorati, le arabe la cui bellezza coperta
dai veli può solo esser immaginata, per «il brutto uso di coprirsi il viso». Quali che fossero gli usi e costumi di questa terra,
«che dopo secoli torna sotto l’egida della tricolore nostra cara e
54
bella bandiera», essa rimarrà «nostra conquista, o meglio riconquista, perché continuamente vengono alla luce del sole i simboli della grandezza romana sotto forma di statue, mosaici,
anfore…»55.
Tripoli italiana, dunque. Dal mese di luglio 1912 le copertine, che tornano a proporre anche soggetti diversi da quelli
militari, presentano aspetti della vita quotidiana in città, come
i lavori nel porto, oppure un gruppo vario di residenti56: si
vuole attestare o almeno auspicare una convivenza pacifica,
anche nei raccontini edificanti57 o nell’illustrazione dei baraccamenti della Croce Rossa Italiana a Tripoli58. Silenzio sulle trattative di pace, mentre ancora in ottobre un’illustrazione è dedicata al lutto delle madri e delle spose per il prossimo giorno dei
morti59. Finalmente la prima copertina di novembre sfodera un
disegno allegorico dell’Italia, col diadema in capo, la spada
nella destra, l’alloro (o l’ulivo?) nella sinistra, in alto l’italica
stella, che dice: «Sia la pace dei forti»60. Seguiranno ancora due
foto di Luca Comerio: ma La compagnia da sbarco della ”Sardegna”
a Zuara ha ormai il tono di un anniversario61, e Gli ufficiali
dell’esercito e dell’Armata [che] assistono alla recente grandiosa
Rivista Navale nel golfo di Napoli62 sono palese celebrazione di
una guerra considerata vinta e conclusa. La rubrica Corriere dei
combattenti, che aveva incontrato il favore del pubblico, prosegue, ma diventa Corriere africano. Ora il settimanale può riprendere la solita programmazione.
55
Note
1
Si veda N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli editori italiani, cit., p.
78-80 e 149-151; e S. Franchini, Editori, lettrici e stampa di moda, cit., specie
alle p. 308-312.
2 Si pubblicò dal 1864 al 1943. Mensile nel 1911-1912, era stato in precedenza settimanale.
3 Nuova, anche perché prima non vi era stata alcuna direttrice, né
direttore: cfr. Bibliografia dei periodici femminili lombardi, cit., p. 277.
4
Due dispense di 8 pagine a 20 cent.
5 Una dispensa di 8 pagine a 10 cent. spiegava il n. 2, feb. 1912, nella
rubrica Abbonamenti.
6
Per la storia contemporanea, in “La cucina moderna illustrata”, n. 22,
nov. 1911, p. 341. Annuncio già comparso in forma più breve nel n. 20
dell’ottobre 1912 e nel n. 21 dello stesso mese, nelle pagine pubblicitarie.
7 Si vendeva a 10 cent. la dispensa e dato che ogni settimana le dispense erano due, i 10 cent. diventavano 20. Da notare che l’annuncio sulla
“Novità” apparve nel febbraio 1912, sulla “Cucina” già a fine ottobre
1911.
8 Come già osservato per “Il corriere delle signore”, dell’editore
Treves, di cui si è detto.
9
I matrimoni arabi, 12 ott. 1911, p. 651.
10
I matrimoni tripolini, n. 10, 7 mar. 1912, p. 159.
11
Sventure umane!, n. 38, 19 set. 1912, p. 604.
12
Escludendo i molti pseudonimi, tipo Viola del pensiero, Crisantemo,
Autunno o simili, fra i nomi riconoscibili quelli femminili sono poco meno
della metà, alcuni più volte ricorrenti.
13
Angelina, Pensando a Tripoli, n. 43, 22 ott. 1911, p. 339.
14
Dovere, articolo non firmato, ivi, p. 340.
15
Angelina, Alla donna italiana, n. 52, 24 dic. 1911, p. 413.
16
Angelina Dragoni, In memoria di un caduto a Tripoli, n. 2, 14 gen.
1912, p. 14.
56
17
T. Carmelita, Omaggio, n. 52, 31 dic. 1911.
18
Adele Gandolfo, Per la patria!, n. 30, 28 lug. 1912, p. 238.
19
La donna araba, non firmato, n. 31, 4 ago. 1912, p. 246. Anche in
“Margherita” si distinguono le donne arabe fra ebree e musulmane: cfr.
nota 101 del cap. 1.
20
Le babbucce ottomane, non firmato, n. 26, 30 giu. 1912, p. 198.
21 R.L., Rimembranze ed impressioni nel deserto guerreggiato, n. 25, 23 giu.
1912, p. 206.
22
Pompeo Laporta, Sulla Umberto I, n. 27, 7 lug. 1912, p. 214.
23
Lettera della direttrice, n. 44, 24 nov. 1912, p. 346.
24
Durò dal 1890 al 1930.
25
Durò dal 1895 al 1941, nel 1911 indicava come direzione la premiata ditta C. Jacobacci, via Tadino 44, Milano. Si stampava a Bergamo,
all’Istituto italiano d’arti grafiche.
26
N. 1, 1°gen. 1912.
27
N. 20, 16 ott. 1912.
28
N. 16, 16 ago. 1912.
29
La Libia Italiana, supplemento speciale del 15 novembre 1912.
30
P. Vinassa de Regny, La Libia italiana. Terreni ed acque. Vita e coltura
della nuova colonia con carte geografiche e geologiche e 34 tavole d’illustrazione, Milano, Hoepli, £. 7,50.
31
Supplemento n. 3, del 15 giugno 1915.
32 La Società editoriale milanese, fondata nel 1905 da G.B. Pirolini,
editore legato ai repubblicani (cfr. N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli
editori italiani, cit., p. 225), aveva pubblicato anche “L’Italia femminile”,
periodico diretto per breve periodo da Rina Faccio (Sibilla Aleramo), cessato nel 1904.
33 Si veda Lucia Cusmano, in Bibliografia dei periodici femminili lombardi, cit.
34
Si vendeva a 5 cent. il numero, a £ 3 l’abbonamento annuo.
35
Si veda Bibliografia dei periodici femminili lombardi, cit.
57
36 Eleonora Buttari, La voce della patria, in “Rosa d’amore” n. 41, 8-15
ott. 1911, p. 2.
37
R. Zagarella, Patria, n. 45, 5-12 nov. 1911, p. 4.
38 N. 50, 10-17 dic. 1911, p. 1. Al microfilm la figura è poco nitida, ma
il significato è indubbio.
39
40
Raffaele Zingaro, Vanno a Tripoli, n. 52, 24-31 dic. 1911.
Settimanale, edito a Milano, dal maggio 1909 al giugno 1927. Si
vendeva a 5 cent. la copia, di 8 pagine: abbonamento annuo a £ 3. Gerente
era Pompeo Ferrari. «Contiene novelle, poesie, feuilleton d’argomento
prevalentemente sentimentale; pur non rivolgendosi esplicitamente alle
donne, i temi trattati autorizzano l’ipotesi di un pubblico soprattutto femminile», Bibliografia dei periodici femminili lombardi, cit., p. 53.
41
N. 42, 15-22 ott. 1911: riproduce un articolo de “La sera” a firma di
Giorgio Molli.
42
43
44
N. 49, 3-10 dic. 1911 e n. 51, 12-24 dic. 1911.
N. 52, 24-31 dic. 1911.
N. 20, 12-19 mag. 1912. Lettere dal fronte sono state poi, e anche di
recente, raccolte e pubblicate, e si rivelano di grande interesse per chi
vuole indagare a fondo sul consenso degli italiani a quella guerra, problema storiografico sintetizzato efficacemente da N. Labanca, Una nuova
Italia? La guerra di Libia, cit., sulla scorta del lavoro di S. Bono, Morire per
questi deserti, Milano, 1992, ai quali andrebbero aggiunti studi locali, come
quello molto interessante di Daniela Franchetti sulle lettere dei soldati
varesini: “Dalla Cirenaica, il paese delle odalische, ti invio i più cordiali saluti”.
Lettere di combattenti varesini dalla Libia (1911-1912), in “Calandari do ra
Famiglia Bosina par or 1995”, p. 41-53.
45
46
47
La canzone delle trincere, n. 6, 7-14 feb. 1912.
N. 17, 21-28 apr. 1912.
N. 8, 21-28 feb.1912. Cesare Tallone (1853-1919), pittore naturalista,
autore di ritratti e paesaggi, insegnò pittura all’accademia Carrara di
Bergamo, e a quella milanese di Brera.
48 Si veda G. Ginex, 1898: i moti del maggio milanese. Luca Comerio, un
esempio di fotogiornalismo, in Le Tre Italie, cit.
49 Tutti i numeri sopra elencati vengono pubblicati fra il 21 aprile e il
7 luglio 1912.
58
50
N. 9, 25 feb.-3 mar. 1912.
51
N. 13, 24-31 mar. 1912: l’attacco era avvenuto il 28 gennaio.
52
N. 18, 28 apr.-5 mag. 1911: fatto del 10 marzo 1912. Sull’entusiasmo
per la guerra tecnologica cfr. nota 17 del cap. 1.
53
Salvatore Neri, Gli arabi da vicino, n. 22, 26 mag.-3 giu. 1912.
54
L. Lupi, Tripolineide, n. 24, 9-16 giu. 1911.
55
Giulio Rocco, Impressioni tripoline, n. 26, 23-30 giu. 1911.
56
Si vedono infatti militari italiani, qualche arabo, e un frate cappuccino: n. 34, 18-25 ago. 1912.
57
Ad es. C. Giorgini, La bruna araba, n. 36, 1-8 set. 1912.
58
N. 39, 22-29 set. 1912.
59
N. 44, 27 ott.-3 nov. 1912.
60
N. 45, 3-10 nov. 1912.
61
N. 49, 1-8 dic. 1912.
62
N. 52, 22-29 dic. 1912.
59
3. Due riviste di lusso
Fra le riviste femminili di questi anni, alcune erano in particolare destinate a lettrici dell’alta società, come per l’appunto le
due che seguono, paragonabili per molti aspetti a “Margherita”
dell’editore Treves, e a “La gran moda”, del gruppo Verri, di cui
si è già detto.
“La cronaca d’oro”
Una rivista elitaria, destinata a donne della nobiltà, interessate comunque a eventi, abitudini e costumanze dell’alta società1. La guerra non è un fenomeno elitario, e purtroppo neppure l’entusiasmo per la guerra, ma certo questo periodico, che
può permettersi carta patinata e ricche illustrazioni, nel diffondere la vulgata patriottica è in prima fila. Il fascicolo del
novembre 1911 si esalta per la terra conquistata: «l’Italia nostra
è più grande!»2, in un fiume di «sacro entusiasmo», «grandezza della stirpe», «nuova alba di speranze e di vittorie», «orgoglio ed amore per la terra nostra», cui però si affianca anche
l’amore per «la gloriosa dinastia che ne regge con tanta sapienza e tanta fortuna i fatidici destini». Seguono belle fotografie di
Tripoli: le strade, la moschea, la dogana sulla riva del mare, il
forte Sultania, un pozzo arabo, un barbiere, e anche donne
indigene che preparano il cuscus. Altre riviste femminili hanno
sostenuto e approvato la guerra di Libia fin dal suo inizio, ma
questa si segnala per due elementi in più. Uno è il disprezzo
61
verso i pacifisti: «Noi non abbiamo turbato che i placidi sogni
dei sentimentalisti della pace universale. Non certo noi, oggi,
potremmo concorrere al premio Nobel degli apostoli del pacifismo. Esso è in fallimento»3. L’altro è il collegamento fra la
celebrazione del cinquantenario dell’unità d’Italia e la guerra
attuale: «Tutta questa enorme forza nazionale di produzione e
di valori, esibita nelle esultanze patriottiche del cinquantenario, aveva rimescolato ardimenti e passioni di vicissitudini
nuove» e la guerra «doveva coronare il grande anno dei nostri
più sacri ricordi e delle nostre meravigliose prove di produttività e di progresso»4. Un’esultanza intera e un po’ eccessiva
per la conquista di Tripoli, e per l’ammirazione suscitata negli
stranieri, data per certa.
Dell’entusiasmo di tutti gli italiani davanti al coraggio eroico dei soldati «che credevamo imbelli» scrive una penna femminile: «Sembra che l’Italia attendesse la prova del fuoco per
risorgere a nuova vita e rigettare in faccia alle Nazioni i falsi
giudizi emessi sui suoi figli…»5. Ne trae poi anch’essa alimento
alla polemica contro i pacifisti, e contro coloro che avevano
avversato e deprecato l’aumento delle spese militari, terminando ovviamente con l’esortazione alle madri, alle sorelle, alle
figlie, che negli onori tributati ai caduti trovino «conforto al
loro dolore inenarrabile». Voi, che quegli eroici soldati avete
educato, formandone il carattere ed il coraggio, sapete che
«donna vuol dire martire, donna vuol dire dolore!». E dunque,
«che la Patria non veda le lagrime di noi donne!». Qui non compare alcun discorso religioso, ma la musica assomiglia a quella
che sentiremo dal “Buon cuore” e dall’“Azione muliebre”.
Del resto, anche i molti contributi del numero speciale di
fine anno6, in prosa o in poesia, non fanno che riecheggiare gli
stessi concetti. In poesia: «oggi è la guerra contro le meschite /
la guerra santa a la barbarie nova, / che ancor s’annida in oasi
romite» e «batton le penne l’aquile di Roma», mentre si rinnovano le glorie di Dandolo e di Lamba d’Oria e dei tempi di
Lepanto7. Lo stesso richiamo al passato, la cristianità che com62
batte il nuovo musulmano, la civiltà contro la barbarie, ritroviamo nella conferenza di Vico Mantegazza, il quale intende
dimostrare l’abisso di civiltà fra le due razze (con il soldato
italiano che medica e fascia un arabo ferito, il quale poi cerca di
pugnalarlo; o con il bersagliere che raccoglie la bambina araba
e la consegna alla Duchessa d’Aosta), mentre di fronte al nemico – egli afferma – sono scomparse le divisioni e le distanze fra
gli italiani, tutti vestono la stessa divisa, e «sono uguali anche
moralmente, animati dallo stesso entusiasmo, tutti si sentono
solidali fra loro di fronte allo stesso pericolo»8.
Sul significato dell’impresa libica per il progresso dell’Italia
Giuseppe Molteni scrive che le conquiste coloniali sono spesso
dettate da calcoli puramente materiali, ma per fortuna l’Italia è
«stata guidata a Tripoli, ultimo rifugio dello schiavismo, da
superiori ragioni di civiltà» e gli italiani sono animati dal «desiderio legittimo di rivendicare in faccia al mondo la forza e la
dignità del loro paese»9. Anche Filippo Meda ritiene che vi sia
negli avvenimenti africani qualcosa di più importante che
un’impresa coloniale: tutto un popolo ha ritrovato finalmente
la coscienza del suo valore, della sua dignità, dei suoi destini.
Certo la fatalità storica di cui ha parlato il governo ha avuto
una piena rispondenza nel sentimento generale della nazione.
E ciò gli appare un fatto non effimero, che potrà durare, perché
è stato acquisito «il senso di una nuova forza e di una nuova
missione nazionale. Per compierla non ci mancherà la virtù del
popolo, voglia il Cielo che non manchi mai l’altro elemento
indispensabile: il senno dei Governi»10. Sembra fargli eco
Arturo Foa, sostenendo che, quando manca una fede religiosa
largamente e sinceramente professata, un popolo deve avere
una fede morale e civile, e «noi abbiamo, oggi, una fede. I nostri
soldati non hanno invano combattuto e molte giovani vite non
sono invano cadute. Conosciamo la forza d’Italia, sappiamo
quello che vuole e quello che può»11.
Ma qual è il popolo di cui si parla? Quale frazione degli italiani di inizio secolo? Gli italiani che poi si sarebbero divisi
63
sull’interventismo nel 1915, e sarebbero piombati dopo la guerra nella lotta civile e nella dittatura? Quale missione, quale fede
avevano in mente questi intellettuali? Forse una risposta a questi interrogativi sta nel concetto di ‘italianismo’, illustrato dagli
studi di Emilio Gentile12.
Ma torniamo ad esplorare il contenuto del numero straordinario. Certo è un sentire diffuso che l’Italia sia rinata, che le
nazioni ne siano stupite, e che gli italiani si sentano tutti uniti e
tutti i cuori battano in un palpito solo: almeno sono in tanti a
scrivere così13. E per mettere a frutto questa unità di cuori è
d’obbligo dedicare, come la “Cronaca d’oro” puntualmente fa,
un’intera pagina all’appello della ‘Pro Esercito’, alla cui raccolta di fondi a beneficio delle famiglie dei militari viene devoluto
l’incasso della vendita del numero speciale al prezzo di £ 2. Per
riempire le molte pagine della strenna occorre però il concorso
di altri scrittori, alcuni dei quali si rendono conto di compiere
un’opera da propagandisti, per lo meno discutibile. L’autrice di
uno scritto sulla posta per i soldati mette le mani avanti e quasi
si scusa di adoperare anch’essa, parlando delle lettere spedite
dalle donne, signore o povere che siano, le belle parole sonanti,
‘patria’, ‘eroe’, ‘sacrificio’: «luoghi comuni, sia, ma da due mesi
nessun argomento, nessun interesse riesce a distrarci da questo
gigantesco luogo comune che è la guerra»14. Dopo l’ode barbara di Alfredo Baccelli, e la fantasia in terzine Rondini di Cirene15,
troviamo un’ode alla Tripolitania dedicata al generale Fara e
già apparsa su altri periodici16. Ecco, invece, in prosa, la fantasia di Massimo Bontempelli, che non mi pare offensivo definire
penosa, anche se è apprezzabile il senso della propria inutilità
che assale l’autore, seduto fra i libri mentre tanti italiani sono a
combattere, sentimento subito scaduto nel grido reboante rivolto a un immaginario nemico: «Ch’io lo ammazzi, come un
sozzo turco, come un boiaccia arabo!»17. Ancora una donna, è
Neera, scrive per giustificare la guerra di conquista, e criticare
chi invece la maledice in nome della pietà per le sorti di tanti
giovani vite (quelle dei soldati lanciati alla conquista, natural64
mente, non dei conquistati, invasi, costretti a difendersi da
aggressori stranieri: di essi non si parla). Se un popolo non sentisse più nella sua anima «aleggiare lo spirito dell’eroe, sarebbe
un popolo morto», conclude, e perciò dobbiamo frenare il
nostro dolore, anzi benedire questa purificazione di ferro e di
fuoco, che è venuta a salvare l’anima italiana dalla cancrena che
la minacciava18. Tra le firme illustri non manca quella di
Giovanni Pascoli, che avvicina i morti di Libia a quelli di San
Martino, Calatafimi, Montebello, Palestro e agli altri sfortunati
eroi di Amba Alagi e Abba Garima19. Anche Matilde Serao partecipa con divagazioni su Santa Sofia e sulla ferocia dei turchi,
mentre una meno nota scrittrice inventa un improbabile ragazzino moraleggiante, che vuol abituarsi a una vita dura (farsi il
letto da sé, non usare l’acqua calda, lucidarsi le scarpe e simili)
per educarsi ai sacrifici che affronterà nella vita militare; anzi
vuole fondare a tale scopo un’associazione di ragazzi, pensando così di fare per i soldati qualcosa di più che l’offrire quei
pochi soldi alla ‘Pro Esercito’20. Non può mancare, su una rivista indirizzata alle donne, un cenno a quelle «gentili che a
Tripoli accorsero per sovvenire delle loro cure, della loro pietà,
delle loro tenerezze i feriti». Donne nobili, figlie di principi e
duchi, abituate a vita mondana, si sono date una missione di
suore e curano feriti, nati magari in un tugurio o in una capanna. Vengono addirittura definite una «crociata femminile, la
prima che abbia attraversato i mari in nome dell’Umanità. […]
queste elettissime che laggiù fanno del femminismo nobile ed
alto» e non lo intendono «come una mostruosa coercizione alle
leggi di natura»21. Che la “Cronaca d’oro“ non fosse una rivista
femminista già era ben noto alle signore lettrici, che mentre si
discuteva di legge elettorale potevano leggervi (con quanto
gradimento?) un esplicito attacco alla richiesta di voto alle
donne, intessuto anche questo di luoghi comuni e frasi offensive22. Con linguaggio riguardoso e accattivante, invece, si invitano le lettrici a rinnovare l’abbonamento offrendo alle prime
30 abbonate biglietti interamente gratuiti per un viaggio-crocie65
ra in prima classe, con tutte le comodità, a Tripoli, Derna,
Bengasi: un viaggio che il periodico promette di organizzare
nel nuovo anno23.
L’intera annata 1912 offre poche novità sul tema che ci interessa: dopo una novella sentimental-guerresca, molto lacrimosa24, qualche poesia patriottica, e parole di riconoscenza per la
Grecia o, più precisamente, per S.M. il re di Grecia che aveva
accolto i profughi italiani espulsi dal governo ottomano25; è da
notare poi una rievocazione letteraria del fatto di Henni, con un
armamentario verbale tipicamente razzista a presentare i quindici italiani stremati, senza cartucce, assaliti da 2000 e più nemici, «una caotica miseria riversata a morte e a bottino, un muggire d’insaziata bramosia fanatizzante», cioè gli schiavi neri
«come una muta di cani accesi dal loro sguattio»; mentre «dietro era la fosca genia dei deserti, l’arabo bestia»26. Più interessante uno scritto in morte di Pascoli, ove si cerca di giustificare
il fatto che egli «non seppe accompagnare virilmente la diana
revocante i gloriosi fasti della redenzione nazionale e non poggiò la strofe pugnace per le balde recenti conquiste» perché il
suo grande cuore lo avvicinava piuttosto «ai vinti, ai poveri,
agli umili di qua e di là dai mari e dalle frontiere»27. Contro chi
esorbita dal quadro edificante del patriottismo nazionale interviene poi esplicitamente il direttore. Lieto di poter annunziare
le vittorie di Zanzur e di Derna, e lo sbarco a Misrata, si indigna
invece con chi non si rende conto che tutte le guerre portano
difficoltà economiche, distruzione, morte, ma sono un segno
del valore dei popoli:
il mio dovere di redattore politico di questa illustre rivista
dell’alta società mi obbliga ad accennare a qualche agitazione milanese contraria alla guerra. Non fa mestieri che io
esprima il mio pensiero: esso è quello della generalità. È
meschino far prevalere le piccole sulle grandi cose; è idiota
se non malvagio parlare a spiriti inquieti di rivoluzione
allora che centinaia e migliaia di uomini, quasi tutti figli del
66
popolo, combattono e muoiono lontani per un supremo
pensiero di patria e di civiltà28.
Figli del popolo sono anche quegli operai metalmeccanici in
sciopero a Milano nell’aprile 1912 per il peggioramento delle
loro condizioni di vita29, e quegli «strati di popolazione direttamente interessata alla guerra» il cui malessere preoccupa anche
il prefetto e il ministro dell’Interno30, ma per questa rivista sono
solo delle stonature. Che non tutto in Libia si fosse svolto in
modo trionfale, anche alla “Cronaca d’oro” si dovette ammetterlo presto: «Qua e là trapelano verità intorno alla vera situazione libica», di cui i nazionalisti hanno ingigantito gli aspetti
positivi e minimizzato le difficoltà: se le avessero ammesse nel
1911, «oggi i socialisti non avrebbero ragione apparente di
beffe», scrive il redattore politico nel febbraio del 1913, concludendo «diciamo la verità: in Tripolitania e Cirenaica si combatte ancora e l’avanzata procede lentamente»31.
“La donna”
È una rivista quindicinale illustrata che si stampava a Torino
in edizione lussuosa32. La sua posizione rispetto alle donne cui
si rivolge può essere sintetizzata come femminilità sì, femminismo no33, e molta prudenza sul suffragismo, quello inglese,
beninteso:
A parte gli eccessi, che non ci trovano mai concordi […]
indubbiamente il voto alle donne, esercitato secondo gli
illuminati criteri di moralità e giustizia, ispirato ad alti sensi
e guidato da menti serene e oneste, si traduce in un beneficio indiscutibile per l’umanità34.
La guerra di Libia nella redazione non fa problema. Ha
suscitato un interesse di tipo antropologico, geografico, verso la
67
riva africana del Mediterraneo, ed ecco offerti alle lettrici alcuni
resoconti di viaggi in Egitto e in Tunisia, accompagnati da illustrazioni fotografiche35. Vediamo anche una foto da Ain Zara,
inviata da una collaboratrice che si è fatta ritrarre con alcuni
ufficiali italiani sorridenti36. Si dà poi notizia dell’iniziativa –
non solo milanese, ma in cui Milano ha dato il maggior contributo – di confezionare e spedire ai soldati i caschi di lana, e ciò
offre il destro per confrontare le donne italiane con quelle
dell’antica Roma e della Grecia: elemento di confronto non è il
lanam facere, beninteso, ma i nobili sentimenti rivelati dalle lettere di accompagnamento. Un testo è sufficiente per chiarirne
l’atteggiamento:
Prodi soldati, cari figli nostri, quale tenue offerta di sorelle,
di madri amorose, vi siano accette queste morbide lane.
Aggiungendo maglia a maglia con sollecita mano, le sorelle,
le madri intrecciarono a ciascuna di esse pensieri affettuosi,
voti ardenti per voi. Ricercateli: sentirete farsi per essi più
salutare il riposo, più benefico il sonno, più lieto il risveglio
su cotesto suolo che per le eroiche virtù vostre non sarà più
per l’Italia suolo straniero37.
Così scrive Rosa Massara De Capitani. Se le donne del
Comitato milanese appartengono alla nobiltà o all’alta borghesia, anche le lettere di risposta e ringraziamento dei soldati cui
è stato inviato il numero speciale natalizio provengono tutte da
ufficiali superiori. La rivista si compiace di quelle risposte, sfoderando la più trita e sincera retorica:
non poteva una rivista come Donna, che è stata riconosciuta
interprete dei sentimenti della femminilità italiana, restare
indifferente alle manifestazioni di patriottismo e d’entusiasmo delle donne italiane, che tanta parte hanno preso e
prendono a questa guerra, gloriosa affermazione della terza
Italia, e che si mostrano così degne dell’ora suprema di
prova che la nostra patria attraversa38.
68
Non manca l’omaggio alle crocerossine della Memphi, col
plauso e la riconoscenza espressi dalle autorità allo «slancio
generoso dell’anima muliebre», e con la debita lode alla
Duchessa d’Aosta, «nuova e più alta affermazione della moderna anima femminile italiana»; il tutto completato da una grande foto di gruppo di tutte le 21 infermiere con il nome di ciascuna indicato da un numero39. Del pari trova luogo in queste
pagine la patriottica accoglienza dei fratelli sfrattati dal governo turco, qui esemplificata dal Comitato veneto per i soccorsi ai
profughi dalle terre ottomane, che ha ricevuto gli italiani di
ritorno in patria sotto l’atrio dell’antico convento di Santa
Cosma alla Giudecca, evento illustrato da varie piccole fotografie40. Tutti motivi che si ritrovano anche in molti altri giornali e
riviste. Invece affatto particolare di “La donna” è l’appello alla
raccolta di fondi per la costruzione di un camion ambulanza da
donare alla flotta aerea, appello lanciato da un comitato di
nobildonne romane; occorrono però 30.000 lire, una somma
assai rilevante, che pur dopo molto ripetersi di richiami non
viene raggiunta. Eppure la campagna a favore di questa ambulanza aerea, cui “La donna” dà tutto il suo appoggio, anche con
un numero speciale, rivela il fascino esercitato da quei velivoli
usati per la prima volta a scopo bellico, e ancora molto primitivi e poco efficienti, ma di grande impatto mediatico, come
attestano le foto scattate per l’occasione e pubblicate su alcune
riviste, a partire da “L’illustrazione italiana” dell’editore Treves.
Sulla copertina del numero speciale di “La donna” è disegnata
una donna elegante che contempla in cielo un aereo con l’insegna della Croce Rossa, mentre sotto la figura si legge una poesia di Arturo Graf: Alla consolatrice dei mortali: «Alla pietà mancavano le ali. / Oh, prodigio che vince ogni parola! / ora le
acquista ed al soccorso vola»41.
All’interno del numero strenna, tra i molti contributi, è da
notare un orrido sonetto di Teresah, con tocchi di sadismo
patriottico:
69
Madre, sei tu che batti alla mia porta? […] e batti colla
falce?... o con la spada? / Italia madre, se tu fai richiamo, /
il tuo figlio non chiede: ode gli squilli / e quella che gli additi è la sua strada42.
Altre poesie e racconti patriottici, sullo sfondo della guerra
libica, si alternano a più meditati discorsi politici, che hanno già
il tono del bilancio di un anno di guerra, anche se ancora la
pace non è stata firmata. Bilancio tutto positivo per una di queste voci, che porgendo il benvenuto a coloro che ritornano,
polemizza con chi pensava che l’Italia non ce l’avrebbe fatta, e
prevedeva un’altra Adua, perché
[…] non aveva seguito con occhio vigile, con aperta mente
lo sviluppo robusto del nostro organismo nazionale […], il
fondersi delle nostre tendenze regionali in una tendenza
unica; non aveva compreso che l’idea socialista era passata
sopra la nostra storia come l’aria di aprile, colma di pollini
passa sopra un campo dissodato, lasciando cader nel terreno la sementa di una rinnovata fioritura. Ma i fatti, più eloquenti delle parole […] hanno narrato con logica inconfutabile […] che a Sciara Sciat i nostri giovani hanno saputo farsi
distruggere anziché retrocedere; che, obbligati a Henni dal
tradimento a dare un passo indietro, hanno saputo subito,
con più vigoroso slancio, buttarsi avanti fino ad Ain-Zara e
che, da allora, nulla ci ha fatto difetto: non la sapiente preparazione logistica, di suprema importanza in una guerra
coloniale, non l’accortezza tattica, difficile ad attuarsi fra
l’intrico delle oasi e la insidia delle dune, non il coraggio
temerario che sfida il pericolo e lo piega, non, virtù tra tutte
difficile, il senno dei capi, i quali hanno saputo aspettare,
tetragoni alle rampogne!43.
Non è qui il luogo di discutere affermazioni così categoriche, l’oggettività delle quali è stata messa in dubbio – a dir poco
– dagli storici; importa comprendere la forza dell’impressione
70
soggettiva di successo e di conquista che respira nelle parole di
questi italiani e italiane di un secolo fa. E che si percepisce
anche nelle affermazioni di un altro collaboratore, il quale
ricorda come nessuno credeva veramente che saremmo stati
capaci di occupare Tripoli, ma oggi – dice – sui giornali, non si
trovano più toni ironici:
Il paese, il tanto calunniato paese ha dato uno spettacolo di
forza, di tenacia, di temperanza e di concordia mirabile! […]
Qualcosa di spartano s’è maturato nelle madri e nelle famiglie italiane per quel che riguarda la concezione dei doveri
dell’individuo verso la patria.
Ed è cresciuto il rispetto per l’Esercito e per la Marina:
insomma, la più grande vittoria di un anno di guerra è l’aver
riacquistato fiducia in noi stessi44.
71
Note
1
Come diceva il sottotitolo: “Rivista mensile illustrata dell’alta società”. Era diretta da Galileo Massei.
2 L’Italia nostra più grande, titolo di apertura, non firmato, del n. 22,
ott.-nov. 1911.
3 Giovanni Bellezza, Il prodigio compiuto, ivi, pp. 4-6. Ma lo abbiamo
già notato, questo disprezzo, nel Canto barbaro e barbaresco di C. Battistessa,
su “La gran moda”, n. 1, 1° gen. 1912.
4
Ibidem.
5
Lina Matteucci, L’ora presente, n. 23, nov.-dic. 1911, p. 8.
6 N. 24, Numero straordinario di Natale e Capodanno, sotto gli auspici del Comitato Patronesse della ‘Pro Esercito’.
7
Giovanni Longo, La Canzone dell’Armi e delle Glorie d’Italia, n. 24, nov.dic. 1911, p. 10.
8
Vico Mantegazza, La Bianca Croce di Savoia simbolo di redenzione e di
civiltà, ivi, p. 4. Vico Mantegazza (1856-1934) era un giornalista di successo, molto interessato alla politica estera, già inviato in Bulgaria, in Africa
orientale, in Montenegro, autore di corrispondenze per vari giornali e
riviste, tra cui la “Rivista coloniale”; il suo opuscolo Tripoli e i diritti della
civiltà, del 1912, non lascia dubbi sulla sua posizione.
9 G. Molteni, direttore di ”L’unione”, a Galileo Massei, direttore di “La
cronaca d’oro”, ivi, p. 13. G. Molteni, (1877 - 1947), avvocato, pubblicista,
fu collaboratore di vari giornali cattolici.
10
Filippo Meda, Incipit vita nova?, ivi, p. 21. Su Filippo Meda (18691939), cattolico e uomo politico fautore dell’ingresso dei cattolici nella vita
politica italiana e deputato dal 1909, rimando ai numerosi studi di A.
Canavero.
11 Arturo Foa, (senza titolo), ivi, p. 22. Arturo Foa, letterato, scrittore,
nato a Cuneo nel 1877, molto apprezzato ancora negli anni Trenta.
12
E. Gentile, La nostra sfida alle stelle. Futuristi in politica, Roma-Bari,
2009, p. 18-19; Id., La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, RomaBari, 2006, p. 102-103 e passim.
13
Anche Giannino Antona Traversi, (senza titolo), n. 24, nov.-dic.
72
1911, p. 23, e Bassano Gabba, Il testamento di Apione, ivi, p. 24.
14
Haydée, La posta al campo, ivi, p. 6-7.
15
Alfredo Colantuoni, Rondini di Cirene, ivi, p. 9. Nome oggi sconosciuto, mentre Alfredo Baccelli, letterato e poeta (1863-1955), era figlio di
Guido, medico chirurgo e politico, due volte ministro della Pubblica
istruzione.
16
Miriam Cornelio Massa, Tripolitania, p. 12.
17 M. Bontempelli, Fantasia guerresca per pennaioli, ivi, pp. 10-11. Bontempelli (1878-1960) sarebbe diventato romanziere di successo, specie col
‘realismo magico’.
18 Neera, Le lagrime delle madri, ivi, p. 12. Neera era lo pseudonimo di
Anna Zuccari (1846-1918), autrice di novelle, romanzi e poesie e come tale
apprezzata da B. Croce; sostenitrice in un primo momento del femminismo pratico, poi ricaduta nel sentire tradizionale sulla missione della
donna.
19
Giovanni Pascoli, Benedetti voi, morti per la patria, ivi, p. 13.
20
Laura Gropallo, Alle trincee della vita, ivi, p. 15-16.
21
Nicola Misasi, Nobile e alto femminismo, ivi, p. 22.
22
Italo Sulliotti, O Signore Iddio!, n. 28, apr.-mag. 1912, p. 5.
23
La Cronaca d’oro all’alba del suo terzo anno di vita, ivi, p. 32. Interessante
in proposito l’amaro giudizio che di una gita a Tripoli, organizzata da
un’agenzia di viaggi italiana all’inizio del 1913, dette Leda Rafanelli sul
giornale anarchico ”La libertà”, n. 3, 15 mar. 1913.
24
Angiolo Orvieto, Il sogno della sorella, n. 25, gen.-feb. 1912, p. 11.
25 Ettore di S. Agata, Cronaca rosea della politica, n. 30, giu.-lug.
1912, p. 6-7.
26
Antonio Beltramelli, I superstiti, ivi, p. 4-5.
27 Walter Armigliato, In morte di Giovanni Pascoli, n. 28, apr.-mag.
1912, p. 4.
28
Ettore di S. Agata, Cronaca rosea della politica, cit.
29 Si veda F. Catalano, Milano tra liberalismo e nazionalismo (1900-1915),
in Storia di Milano, XVI, Milano, 1962, p. 114-115. Del resto anche nei mesi
73
precedenti furono continue le agitazioni di varie categorie di lavoratori in
difficoltà: tipografi, telegrafisti, macchinisti della Scala, tramvieri, panettieri, spazzini; basta sfogliare la cronaca cittadina del “Corriere della sera”
per rendersene conto.
30
Si veda F. Malgeri, La guerra di Libia (1911-1912), Roma, 1970, p. 288.
31
Ettore di S. Agata, Cronaca rosea della politica, n. 36, 10 feb. 1913.
32
Come è definita in Bibliografia dei periodici femminili lombardi, cit., p.
107. Un fascicolo costava cent. 50, e l’abbonamento annuo £ 12.
33
C. Frattini, Il primo congresso delle donne italiane, Roma 1908. Opinione
pubblica e femminismo, Roma, 2008, p. 80, osserva che la sua «linea moderata e poco rivendicativa» le assicurava collaborazioni illustri, tra cui
quella di Ada Negri, Matilde Serao, Grazia Deledda, Neera, Paola
Lombroso.
34
Paulo C. Rinaudo, Votes for Women, n. 187, 5 ott. 1912, p. 11.
35
Per esempio le foto di Lennert e Landrock, n. 170, 20 gen. 1912 e n.
174, 20 mar. 1912, di Lekegian e C., n. 169, 5 gen. e via via molte altre.
36
È la signora Levis, n. 71, 5 feb. 1912.
37
Rosa Massara De Capitani, lettera da Milano, 27 gen. 1912, n. 172,
20 feb. 1912.
38
Si vedano i nomi degli scriventi, nel n. 173, 5 mar. 1912.
39
Servizio a p. 14 del n. 174, 20 mar. 1912. La foto in Cronaca del Salotto,
n. 175, 5 apr. 1912.
40
Enrica Grasso, Dalla perduta casa alla patria, n. 182, 20 lug. 1912, p. 9.
41
Nel n. 187, 5 ott. 1912, numero speciale «Pro camion aereo di soccorso».
42 Teresah, Il figlio, n. 187, 5 ott. 1912, p. 16. Teresah è lo pseudonimo
di Corinna Teresa Gray Ubertis (1877-1964). Scrisse poesie, romanzi e
novelle, nonché assai apprezzati libri per l’infanzia.
43
Clarice Tartufari, A voi che tornate!, ivi, p. 17.
44
Giuseppe Piazza, La più grande vittoria di un anno di guerra, ivi, p. 22.
74
4. Le voci del mondo cattolico
Poiché in campo cattolico non vi era unanimità di atteggiamenti rispetto alla campagna africana, appare interessante
esaminare se e come venne trattato il tema della guerra di Libia
nei periodici femminili di ispirazione religiosa: fra quelli che ho
esaminato, alcuni lo tacquero completamente, come fecero certi
bollettini di dame patronesse, per esempio “Stille benefiche”1,
mentre altri vi dedicarono una certa attenzione, per esempio
“L’azione muliebre” e “Il buon cuore”, mentre a mezza via si
può collocare “Gigli e rose”.
Croce e mezzaluna
“L’azione muliebre”2, diretto da Elena Da Persico, era in
quegli anni l’organo dell’Unione Donne cattoliche in Italia, anzi
dell’ala conservatrice del movimento delle donne cattoliche,
nato nel 19083. Come tale, era apertamente schierato all’opposizione su vari punti della politica nazionale: specialmente, nel
1911, si batteva contro la aconfessionalità della scuola, contro la
legge Credaro che non metteva al primo posto l’insegnamento
della religione (n. 1, n. 5, n. 7), contro quei padri che scaricavano sulla scuola il dovere di educare i figli; contro la moda corrente, un «trovato» della massoneria per corrompere le donne;
contro la lotta degli «empi che ci tiranneggiano» per strappare
al clero il controllo degli ospedali, «uno dei suoi mezzi d’azione
più potenti» (n. 11). Sulla guerra di Libia, però, nessuna oppo75
sizione. Non che se ne parli molto: compare solo a dicembre
1911 in un articolo sulla schiavitù in Africa e sull’azione della
‘Società antischiavista’, attraverso le sue agenzie africane, tra le
quali quelle di Tripoli e Bengasi. Appunto l’esistenza di una
Lega antischiavista delle signore italiane offre alla direzione del
periodico l’opportunità di parlare in chiave patriottica dell’impresa libica:
Ed ora quelle terre africane, bagnate dal sangue di tanti
schiavi infelici rosseggiano del sangue dei nostri soldati che
combattono colà valorosi per l’ideale della patria. Noi, mentre invochiamo da Dio la vittoria dei nostri fratelli […] speriamo che tanti sacrifici italiani d’oggi non servano solo ad
aggiungere nuovi territori alla terra nostra, ad aprire uno
sfogo al bisogno nostro d’espansione, a dare ai nostri colonizzatori le vaste regioni un tempo tanto fertili, rese incolte
dall’islamismo,
ma anche a diffondere la religione cattolica in quella parte
dell’Africa4. L’augurio che la conquista di quel territorio diventi il «seme di una futura civiltà cristiana» si ripete poi (n. 1, gen.
1912), con parole di pena per le lacrime di tante donne che
piangono i loro cari «vittime della rabbia turca». E mentre i
soldati compiono il loro dovere di combattenti, le donne siano
«pronte al sacrificio per recare conforto e soccorso». Insomma,
allo Stato italiano, sebbene ateo ed infido in fatto di religione, si
obbedisce se ti manda a sparare e morire. Invece bisogna ribellarsi se non ti ordina di insegnare il catechismo in classe5. Del
resto dell’impresa libica, assodato che si trattava di una guerra
che ristabiliva la giustizia6, il giornale riesce a parlare in tono
edificante, che si tratti del soldato che dal fronte invia alla sorella i denari per l’abbonamento a “L’azione muliebre” (n. 3, mar.
1912), oppure della suora che ha saputo risvegliare nel nipote,
ufficiale in servizio laggiù, il desiderio di far celebrare una
Messa al campo e di convincere i suoi soldati a parteciparvi7.
76
Insomma i «centomila figli combattenti a Tripoli contro l’infame giogo della mezzaluna», sono cristiani sostenuti dalla religione, checché ne dica il Parlamento italiano ove si
inneggiò all’eroismo dei prodi combattenti in Libia, e massonicamente si tacque l’intervento divino nei fatti eroici,
figli della fede dei nostri giovani, spiegando questi fatti col
materialismo più stupido, col positivismo più insulso8.
L’ultimo accenno alla guerra africana si legge nel fascicolo
del giugno 1912, con l’augurio che «l’auspicata pace coroni la
proficua vittoria delle armi italiane in Libia», grazie al valore e
all’eroismo dispiegati «nel nome del dovere, della civiltà, della
grandezza nazionale». Nei numeri successivi, tuttavia, la questione Libia è ormai sparita dalle pagine del periodico.
Poco spazio occupa la guerra anche in un altro giornale di
intonazione religiosa, quale “Gigli e rose”9, mensile per la gioventù femminile, a cui illustrava le feste liturgiche, offriva
lezioni di catechismo e insegnamenti di morale pratica. Ora
però l’Italia è scesa in guerra, il tricolore «simbolo di cristiana
civiltà» sventola sulle coste dell’Africa, e allora il giornale invita a pregare
perché la vittoria baci la bandiera della patria, venga risparmiata l’effusione del sangue, e i vinti d’oggi - guadagnati
alla Croce - siano i fratelli di domani, stretti a noi in un solo
vincolo di giustizia e di carità10.
Qui almeno si auspica una futura fratellanza in nome della
fede cristiana, anche se portata coi cannoni. Invece in un paio
di raccontini edificanti compare la vulgata più o meno patriottica del comportamento femminile: prima la madre che, in
ansia per il figlio militare, maledice le ragioni della guerra:
Maledetta ambizione di conquista […] maledetta smania di
77
voler sempre estendersi, ingrandirsi. Non si stava bene così?
Non è bella e vasta e forte l’Italia? Nossignore; anche a
Tripoli vogliono andare! laggiù, dove, mi dicono che uomini
e bestie s’assomigliano assai; gente cattiva e feroce che tradisce, ammazza e scortica…11.
Poi l’altra madre, che saluta il figlio in partenza per l’Africa, gli raccomanda di scrivere, di ubbidire ai superiori, di non
essere temerario e, rimasta sola, cerca di vincere il proprio
doloroso smarrimento, fino a sentirsi «fiera di poter dire a sé
stessa e a tutti: “Anch’io ho sacrificato qualcosa per la
patria!”»12.
Molto più rappresentativo dell’analoga posizione cattolica
in quegli anni il periodico “Il buon cuore”: diretto da un religioso, era dal 1901 un settimanale per le famiglie, ma molte
delle sue rubriche erano indirizzate alle donne, pensate sempre all’interno della famiglia e della casa, senza ‘grilli’ per la
testa, custodi delle virtù tradizionali13. “Il buon cuore” si era
occupato, tra l’altro, nello spirito della fondazione Scalabrini14,
di missionari, di assistenza religiosa agli emigrati italiani e dei
numerosi problemi che il grosso fenomeno dell’emigrazione
suscitava all’epoca. Nel giugno 1910 si rammaricava che l’Italia fosse costretta ad «effondere […] in altri popoli e in territori altrui il sovrabbondare della sua popolazione», poiché
«purtroppo per il nostro paese la speranza di una larga colonizzazione politica fu travolta e rimandata a chi sa quando dai
disastri africani»15. Il possedimento di una colonia avrebbe
invece consentito di mantenere la lingua, la religione, le costumanze della patria. Date queste premesse, non può stupire
che la guerra di Libia sia guardata con occhio più che benevolo. Non solo perché comunque la guerra è un dovere, come la
buona madre deve insegnare per tempo ai suoi bambini16, ma
per una adesione totale alle ragioni di quella guerra. Non
lasciano dubbi in proposito le parole con cui essa viene presentata all’inizio del dicembre 1911:
78
L’Italia è impegnata nella guerra d’Africa, nell’affermazione
della sua assoluta e intera sovranità sulla Tripolitania e la
Cirenaica. Questa impresa ha dato una scossa potente a
tutta l’anima della nazione. È stata come una risurrezione.
L’Italia ha finalmente ritrovato se stessa. Da troppo tempo
l’Italia era accasciata, infiacchita nelle lotte interne dei partiti: guardando al passato due date si affacciavano che ci
avvilivano dinanzi a noi, che aiutavano il disprezzo dei
nostri nemici, Lissa e Adua. Nel Mediterraneo eravamo
vicini ad essere chiusi in un cerchio di ferro, qualora la
Tripolitania e la Cirenaica fossero state conquistate da
potenze straniere: l’Italia sarebbe discesa inevitabilmente al
livello di potenza di second’ordine. Tutte le glorie del passato, tutte le speranze del risorgimento politico svanivano ad
un tempo: l’Italia si sentiva sul petto un peso che la soffocava. Scoppia la guerra di Tripoli. Il cuore si allarga. È il sole
che compare all’orizzonte dopo una notte oscura, procellosa. Le navi gloriose salpano, l’esercito di terra segue.
L’Europa ammira la intelligenza e la forza di organizzazione militare di cui l’Italia dà prova17.
Ma, viene da chiedersi, stiamo leggendo “Il buon cuore”, o
il peana di qualche foglio nazionalista? Certo è il linguaggio
entusiastico della “Rassegna nazionale” in quei giorni18. E non
manca neppure il discorso sulla generosità italiana punita dal
vile tradimento degli arabi, che in prosa e in poesia dà le ali alla
retorica patriottica («le infide d’Africa arene […] l’oasi infida al
tradimento usata»), accanto al motivo della giustizia che richiede una punizione19. Poesie di donne, come quella di Maria
Motta, rivolte alle donne che offrono alla patria il tributo delle
loro lacrime: «madri e sorelle, fidanzate e spose / de’ tuoi guerrieri, o Italia, /e de’ martiri tuoi le generose / nel nome tuo
s’esaltano»20, dimostrano la partecipazione di questo giornale
alle vicende nazionali. Ed è ancora una penna femminile, che
mescolando citazioni foscoliane alle invettive contro il tradimento di un nemico sleale, dichiara apertamente la mentalità
79
colonialista: «Ormai tutti sentono che quella regione bagnata
dal sangue dei nostri prodi è nostra per amore e per diritto: noi
non possiamo più rinunciarvi; non è solo una colonia, è madre
patria e come tale la difenderemo» perché «dove era la mezzaluna noi portiamo la croce […] dov’era la barbarie noi portiamo
la civiltà […] dov’era l’efferatezza dell’odio settario portiamo la
dolce pietà evangelica che soccorre al vinto…»21.
Il diritto internazionale, i diritti di tutti i popoli non sono
neppure presi in considerazione. La partecipazione dei soldati
alle funzioni religiose in suffragio dei caduti è «la fede che
risorge, che riempie i cuori di santo entusiasmo», e il dolore è
reso sopportabile dal pensiero che essi «l’han fatto tutto il loro
dovere»: e d’altra parte, «che può fare un soldato per la patria?».
Insomma «fede e patria creano gli eroi», conclude Mary
Cappello. Anche nella lettera di un ufficiale risuonano i motivi
già noti: si combatte «per una buona causa, per un obbiettivo
elevato» e «si sente in cuore la legge fatale che spinge le nazioni più civili alla guerra contro la barbarie», sostenuti anche dal
pensiero religioso, e convinti «che l’Italia è qui per suo diritto e
per suo sacrosanto dovere»22. Proprio nelle lettere dei militari,
di alto e basso grado, si esprime con più evidenza il connubio
di fede, o meglio religione, e colonialismo nazionalista. «Il Dio
della guerra sarà con noi, perché con noi è il Diritto e la Forza»
scrive il colonnello Gustavo Fara, comandante dell’11°
Bersaglieri ed anche benemerito tesoriere della ‘Pensione benefica per le giovani lavoratrici’, al monsignore Antonio Ceruti,
dottore da 50 anni dell’Ambrosiana23. Del colonnello (poi generale) Fara, si riparlerà su questo giornale, ma intanto vale la
pena di citare una lettera di Ceruti, perché esprime, sia pure in
modo concitato, una delle motivazioni che spinsero tanti cattolici a sostenere l’impresa coloniale:
La guerra sarà e dovrà essere una catastrofe terribile a quel
lurido socialismo che non ha altra base che il vuoto, il nulla,
la negazione di tutto, la menzognera fratellanza universale,
80
la lotta di classe, l’egoismo, la guerra civile, il materialismo,
l’assenza di ogni ideale, la vita bruta infine. Che abisso!
Invece tutta la popolazione italiana aveva accettato e partecipato con calore alla mobilitazione nazionale, e Ceruti conclude esclamando: «La patria sarà grande, Dio lo vuole»24.
Insomma, quella guerra offrì ai cattolici un potente mezzo di
ralliement al sentire delle classi dirigenti del Paese. Anche nelle
notizie di cronaca si percepisce lo studio di apparire in linea
con le posizioni politicamente corrette del patriottismo nazionale. Riferendo che il cardinal Ferrari ha dato disposizione ai
parroci di raccogliere offerte per i feriti e le famiglie povere, il
giornale commenta: «ormai non sono che i socialisti fuori della
corrente nazionale, anche in un’opera di pietà, umanitaria, che
dovrebbe essere superiore alle ire di parte»25. Vediamo qui l’effetto della propaganda crescente e pervasiva della retorica
patriottica, che conduce a vedere nel socialismo un nemico
della patria, anziché un avversario politico26.
Trovano posto nel periodico anche altre lettere di tono diverso, quasi scanzonati racconti di viaggio, come quella di un soldato da Bengasi, che descrive con parole rassicuranti gli accampamenti e le corazzate sul mare antistante, spiegando che la città è
tutta occupata da truppe italiane e quindi non si temono rivolte
degli abitanti, che «sono perquisiti quasi giornalmente in casa e
dappertutto e quelli in possesso di armi vengono fucilati.
Purtroppo ne abbiamo dovuto fucilare un [sic] quindicina; è una
cosa orrenda, ma se non si fa così, non c’è altro mezzo per incutere timore»27. Dal gennaio 1912 i discorsi sulla guerra diradano,
e il giornale si dilunga invece a trattare della penetrazione europea in Tripolitania e Cirenaica, e specialmente di quella dei missionari cattolici, i Francescani italiani, e delle suore medichesse,
degli ospedali e delle scuole, tutti sostenuti dall’‘Associazione
nazionale di soccorso ai missionari Italiani’, fondata nel 1886:
associazione al cui attivo andava non solo la difesa e propagazione della fede, ma anche l’amore per la patria e la diffusione della
81
lingua italiana28. Altro tema affrontato è quello della tratta degli
schiavi, esercitata dai mercanti arabi della Cirenaica e specialmente di Bengasi: piaga che certo gli italiani faranno sparire29.
Interessante anche l’articolo sulla visione pessimistica dello storico belga Godefroy Kurth, che rievocando con rimpianto la fine
di quello spirito che aveva mosso i cristiani alle crociate contro
gli infedeli, preconizza un inevitabile scontro di civiltà
il giorno in cui, per una ragione qualsiasi, la mano del
domatore cesserà di tenere in briglia le anime di questi animali feroci, che noi crediamo addomesticati e che sono soltanto intimiditi30.
Ritorna ancora il generale Fara, che risponde alle giovani
lavoratrici della ‘Pensione benefica’ ringraziandole per gli
auguri e dichiarando però che la pace augurata è ben lungi dal
realizzarsi, e che la guerra continuerà ancora duramente e a
lungo. Invece un gruppo di signore, che verosimilmente di
quell’associazione costituivano piuttosto le benefiche animatrici che le beneficate lavoratrici, lanciano una sottoscrizione per
le famiglie dei bersaglieri gloriosamente caduti. «In questa
forma gentile si vuole anche rendere omaggio al generale Fara,
che impavido tra il grandinare delle palle, col revolver in
pugno, con le lacrime agli occhi, vide cadersi intorno a centinaia i diletti suoi figli»31. Applausi all’alto valore del nostro esercito anche nel ‘Circolo femminile Luigi Rossari’, in una riunione conclusa con auguri e grida di W il re! W la patria!32. Anche
la maestra cieca, Maria Motta, regala al “Buon cuore” un’altra
poesia patriottica, intessuta dei noti stereotipi:
Invan tu attenti, o bieca mezzaluna, / all’avvenir della
Sabauda Croce! / […] Invan la morte semini e l’inganno /
gli itali prodi armati / di fucili, di fede e di ricordi / vegliano intenti e sfidano concordi / o mezzaluna i tuoi sinistri
agguati33.
82
Si dà poi notizia che le suore sfollate durante la guerra sono
ritornate a Derna, hanno ripreso l’opera di maestre e improvvisato quella di infermiere in un ambulatorio sanitario diretto da
ufficiali medici34. Altra notizia centrata più sul lato assistenziale
che su quello politico o militare è l’accoglienza che il superiore
dei Salesiani ha offerto agli italiani profughi dalla Turchia35. E
sulla stessa onda il resoconto della pesca di beneficenza durata
quattro giorni nelle sale della ‘Pensione benefica’, dove «due
bersaglieri autentici dell’11° raccontarono fatti e fatterelli,
lodando il generale Fara, novello Garibaldi, senza del quale,
dicevano, “saremmo rimasti tutti sul campo!”»36. Ormai dalla
guerra qualcuno ritorna, come i 429 reduci da Derna, attesi alla
stazione da una folla che li applaude lungamente mentre la
banda dell’8° Fanteria intona la marcia reale37. Le vicende del
conflitto armato ormai non fanno più notizia, ma servono ancora a questo giornale per rafforzare la sua guerra di idee e contendere al socialismo la fiducia della classe lavoratrice, a cominciare dalle donne: esemplare in proposito il rilievo dato alla
cerimonia di benedizione d’una bandiera della ‘Società femminile di Mutuo soccorso’ a Bellano. Il discorso di un monsignore
in quell’occasione è teso a dimostrare che il bene delle giovani,
destinate ad essere le madri di domani, è anche il bene di tutta
la società, quindi della patria. Noi amiamo la patria, ed «è questo sentimento vivo e profondo dell’amor di patria che ci associò all’esplosione di entusiasmo di tutti gli italiani per l’impresa
libica: siamo andati a combattere fuori del paese per difendere
il paese»38. Sulla palese menzogna il cerchio si chiude.
Dubbi e contraddizioni
Fra i periodici di ispirazione religiosa può iscriversi anche
“Voci amiche”, all’epoca una rivista mensile; era diretta da Sofia Rebuschini e animata da un cattolicesimo aperto alla cultura
del tempo e anche ai problemi sociali. Per fare qualche esem83
pio, poteva presentare la filosofia dell’intuizione di Bergson, le
opere di padre Alfonso Gratry, un’opera di W. Foerster come
Cristianesimo e lotta di classe, e anche il movimento femminile in
Germania, e sempre racconti, poesie, meditazioni. Della guerra
di Libia prende atto nel numero del dicembre 1911, con parole
di chiara e commossa condivisione sia della sofferenza nelle
famiglie dei militari lontani, sia dell’ammirazione per i «prodi
soldati, degni eredi delle tradizioni gloriose del nostro Risorgimento», con «il legittimo e sacro orgoglio di appartenere ad un
popolo in cui il coraggio, l’eroismo, il senso del dovere e della
disciplina, l’amore della patria sono un patrimonio comune e
rifulgono in esempi indimenticabili»39. Solo nel fascicolo del
mese seguente un’ombra percorre la convinta accettazione della vulgata patriottica: «Non è compito nostro discutere la guerra», scrive la direttrice, ma nelle sue parole si affaccia invece il
dubbio. «Tanto sangue versato, tanta gioventù scomparsa, o
atrocemente spezzata, tanti torturanti martiri, non possono che
sconvolgere la nostra visione cristiana». Subito però l’ombra
viene scacciata con energia: «[…] ma, sopra queste e altre riflessioni tormentose e sconcertanti, si leva una radiosa certezza,
che ci fa pensosi e ammirati. Poiché tutti sono concordi nel constatare che questa dolorosa guerra ha rivelato gli italiani». Ha
rivelato agli stranieri le virtù degli italiani, coraggio, disciplina,
amor di patria e le ha rivelate «a noi italiani così spesso dubitosi e scettici, così inclinati ad un pessimismo oscuro circa le
qualità, circa le energie del nostro popolo». Ecco che la lode
diventa traboccante: «È il popolo d’Italia che combatte a Tripoli, il popolo oscuro e paziente dei lavoratori, dei contadini, degli operai. […] E appartengono al popolo quelle Madri che
scrivono per i loro figli lettere semplici e sublimi, chiedendo se
essi hanno fatto il loro dovere, e dichiarandosi fiere di offrire
alla patria quanto hanno di più caro». La visione cristiana non
ha dunque la forza di competere con il nazionalismo patriottico, introiettato al punto da costruire quella improbabile immagine di madri capaci di affermare che uccidere e morire per la
84
patria è un dovere e basta40. Per vari mesi poi sulla guerra si
tace, come se il dubbio rodesse dentro la direzione del periodico. Solo si riferiscono pagine di diario di una crocerossina: un
tema non direttamente guerresco, che permette di non ignorare
il conflitto in corso, senza allontanarsi troppo da una immagine
più riposante di femminilità41. Il dubbio ritorna, però, quando
si esortano gli italiani (non le donne in particolare, tutti, in modo generico) a «l’amore fraterno, l’aiuto volonteroso» verso i
profughi, costretti a lasciare le loro case e le loro attività nell’Impero ottomano e rifugiarsi in Italia, «perché i nostri fratelli che
ritornano abbiano a trovarsi veramente in Patria»: bisogna infatti «riparare ad una ad una le brecce aperte da quel flagello
che è sempre, anche se vittoriosa, anche se necessaria o almeno
utile, la guerra»42. Nei numeri seguenti della guerra non si
parla più in alcun modo nelle pagine di “Voci amiche”.
85
Note
1
Nelle pagine di “Stille benefiche, Bollettino trimestrale dell’Oratorio
S. Luigi: organo del Comitato delle dame patronesse”, nessuna notizia né
giudizio sulla guerra comparve in quei mesi: solo notizie delle attività
benefiche, delle intenzioni e preoccupazioni educative , dei pellegrinaggi
e dei doni ricevuti.
2 Per l’orientamento complessivo di questo mensile che, tra l’altro,
non riteneva opportuno concedere alle donne il diritto di voto, si veda la
già citata Bibliografia dei periodici femminili lombardi (1786-1945).
3
Si veda C. Frattini, Il primo congresso delle donne italiane, cit., p. 41-42.
4 L’idea di una nuova crociata, insomma, su cui vedi F. Meda, citato
in G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, vol. I, Roma-Bari,
1966, p. 542.
5
Posizioni e linguaggio analoghi a quelli di “Matelda”, giornale
toscano contrario alla scuola laica, pro insegnamento della religione nelle
scuole di Stato, ma patriottico davanti al «provvidenziale trionfo della
croce sulla mezzaluna»: citato da M.T. Mori, Matelda, in Giornali di donne
in Toscana: un catalogo, molte storie (1770-1945), cit., vol. II, p. 382.
6
Si veda per es. l’ode di Myriam Cornelio al generale Fara a p. 63-64
del n. 1, gen. 1912.
7
La missione della donna, nel n. 4, apr. 1912.
8
N. 5, mag. 1912. Di quale seduta parlamentare si parli qui non è
precisato: forse della grande discussione sulla politica estera che ebbe
luogo alla riapertura del Parlamento il 23 febbraio 1912.
9 Si stampò a Bergamo, nella tipografia vescovile Secomandi, dal
1911 al 1933.
10
Preghiamo!, Trafiletto anonimo, n. 11, 25 ott. 1911.
11 P. Epis, Un telegramma, n. 3, 25 mar. 1912. Le bimbe hanno pregato
la Madonna, e infine il temuto telegramma annunzia il ritorno a casa del
figlio soldato.
12
Laboremus, È partito!, n. 6, 25 giu. 1912.
13
Come notava già D. Maldini, in Bibliografia dei periodici femminili
lombardi, cit., p. 51.
86
14 Per cui si veda L. Ganapini, Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la
politica estera in Italia dal 1871 al 1914, Roma-Bari, 1970, p. 56 sgg.
15
N. 32, 6 ago. 1910, In memoria di S.E. Monsignor Scalabrini, p. 249-250.
16 Si veda il bozzetto di Itala Maria C., Profilo femminile, n. 51-52, 25
dic. 1910, p. 403-407.
17 Da Patria e beneficenza, editoriale non firmato, n. 49, 2 dic. 1911, p.
385. Si invitavano i benefattori, impegnati a finanziare la fiera di beneficenza per l’Istituto dei ciechi, a voler devolvere una parte degli introiti alla
società ‘Pro esercito’, a favore delle famiglie dei combattenti.
18 Si veda ancora L. Ganapini, Il nazionalismo cattolico, cit., p. 177-178
e M. Palazzi, L’opinione pubblica cattolica e il colonialismo. “L’Avvenire d’Italia” (1896-1914), in “Storia contemporanea”, 1979, n. 10.
19
Si vedano le quartine di Tripolitania, dedicata da Myriam Cornelio
Massa al generale Fara, n. 49, 2 dic. 1911, p. 389: la stessa pubblicata da
“Azione muliebre”, vedi nota 6, supra.
20
Maria Motta, Pei fratelli al campo, n. 50, 9 dic. 1911, p. 397.
21
Mary Cappello, Buon sangue latino, n. 51-52, 25 dic. 1911, p. 413.
22
La guerra contro i Turchi. Lettera di un ufficiale, n. 46, 11 nov. 1911,
p. 363.
23
Lettere del colonnello Fara, n. 49, 2 dic. 1911, p. 388.
24
Le patriottiche lettere di un soldato eroe e di un dotto sacerdote, n. 51-52,
25 dic. 1911, p. 421, non firmato.
25 Il Cardinal Ferrari pei feriti in guerra, n. 50, 9 dic. 1911, p. 395. Il corsivo è mio. Aveva già dichiarato Filippo Meda che i cattolici colsero volentieri occasione dalla guerra libica «per lasciare libero il palpito del loro
patriottismo», cit. in G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, vol.
I, Roma-Bari, 1966, p. 544. Lo stesso autore sottolinea la soddisfazione dei
cattolici per l’isolamento in cui la guerra libica aveva lasciato i socialisti,
ivi, p. 546.
26
Cfr. L. Scoppola Jacopini, I socialisti italiani di fronte al bivio della pace
e della guerra (1904-1914), in Guerra e pace…, cit., p. 85 sgg.
27
Lettere nel n. 50, 9 dic. 1911. E poi nel n. 1, 6 gen. 1912.
28
La prima propaganda d’Italianità in Tripolitania, n. 1, 6 gen. 1912, p. 3.
87
29 Guglielmo Ferri, Come si fa la tratta degli schiavi in Tripolitania e
Cirenaica, n. 5, 3 feb. 1912, p. 33-36.
30 Domenico Russo, Quando tramonterà la mezzaluna…, n. 6, 10 feb.
1912, p. 44.
31 Lettera del generale Fara… e Omaggio al generale Fara, n. 10, 9 mar.
1912, p. 73-74.
32
Luigi Lavezzari, Circolo Rossari, ivi, p. 75.
33
Maria Motta, Pro Victoria, n. 12, 23 mar. 1912, p. 90-91.
34
Le suore a Derna, n. 14, 6 apr. 1912, p. 109.
35 I Salesiani per i profughi della Turchia, n. 22, 1° giu. 1912, p. 171 e più
ampiamente, I Salesiani di D. Bosco per i figliuoli degli espulsi dalla Turchia, n.
23, 8 giu. 1912, p. 180-181.
36
Per l’11° bersaglieri, 15 giu. 1912, p. 188. Sulla fama del generale
Fara è interessante la ricostruzione critica di una delle sue azioni belliche in S. Romano, La quarta sponda. La guerra di Libia 1911/12, Milano,
1977, p. 189-191.
37
Nel Notiziario, del n. 32, 10 ago. 1912, p. 256.
38 Una festa a Bellano. Benedizione della bandiera della Società femminile di
Mutuo soccorso, n. 39, 28 set. 1912.
39
“Voci amiche”, Notizie, non firmato, dic. 1911, p. 35.
40
Ivi, Notizie, non firmato, gen. 1912, p. 36.
41 Note di viaggio della signorina Ida Roncaldier, ispettrice della Scuola
infermiere della Croce Rossa di Milano, iniziate nel numero di dicembre
1911, p. 36-39; proseguite nel n. di gennaio 1912, p. 37-40.
42
S.V.R., I Profughi, n. 7, lug. 1912, p. 244-246.
88
5. Mestieri femminili e missioni di civiltà
Non è agevole dire quante fossero le lettrici di periodici a
carattere professionale o sindacale, e per farsene un’idea non è
sufficiente guardare a quanto ciascuno abbia resistito sul mercato della stampa femminile: in ogni caso essi sono molto interessanti e portatori di particolari punti di vista.
Interesse nazionale e interessi di categoria
Cominciamo da quello che pare fosse allora il più diffuso.
Per “Il corriere delle maestre”1 - un settimanale che da quindici anni patrocinava gli interessi dei maestri e soprattutto delle
maestre, politicamente affiancava l’‘Unione magistrale nazionale’2, aveva una discreta diffusione e godeva di numerosa
collaborazione3 - l’anno 1911 era stato, anzitutto, quello della
legge Daneo Credaro, che prometteva di migliorare le condizioni degli insegnanti, di dare più mezzi all’edilizia scolastica e in
generale di sostenere l’insegnamento primario. Quando scoppia la guerra italo-turca, la Libia entra nelle pagine del periodico in un modo peculiare: «L’Italia ha appena iniziato due guerre, - si legge l’8 ottobre - una contro la Turchia, per il possesso
di Tripoli, l’altra contro l’analfabetismo e l’inciviltà, per la completa redenzione del popolo. Strumento della prima sono le
navi poderose, sono i saldi petti e i cuori intrepidi dei marinai
e dei soldati, che la nazione ha mandato alla conquista d’una
terra, che già moralmente le apparteneva». Strumento dell’altra
89
la scuola, in una guerra più lunga e più difficile, ma «forse e
senza forse più proficua» contro l’analfabetismo; però, per vincerla, lo Stato deve dispiegare altrettanta energia, preparazione
e mezzi finanziari. Il giornale cerca di rassicurare e rassicurarsi
che le spese militari non risultino a danno degli stanziamenti
necessari per l’istruzione elementare, e non accada che «per
causa dell’incidente tripolino […] la redenzione scolastica
d’Italia, con cui si affermò il cinquantenario glorioso, debba
finire come una torpediniera turca nelle acque di Prevesa»4.
Alle maestre dunque si propone la patriottica accettazione
della guerra di conquista, ma con riserva. Del resto non è negli
scopi del periodico illustrare lo svolgimento delle operazioni
militari. Piuttosto dà notizie sulle scuole italiane a Tripoli, sottolineando, «checché ne dica il giornalismo venduto o accaparrato dalle banche e dalle congregazioni», la valida opera dei
maestri e delle maestre italiane, «per gli italiani scuola di educazione patriottica e per gli stranieri un simbolo della nostra
Italia»; opera che deve però misurarsi «contro l’odio ingiustificato del governo locale e delle scuole confessionali sovvenzionate dallo Stato italiano»5. Pochi mesi dopo “Il corriere” ritorna
sulle scuole italiane in Libia e sui metodi adottati «per attirare
gli arabi nelle scuole ora riordinate», acquistandosene la fiducia
col «rispetto delle loro credenze»6.
In realtà il giornale riconduce sempre i fatti della guerra
esterna a quelli interni italiani: la gente di Segni ha invaso e
saccheggiato il municipio per opporsi alle misure di segregazione imposte dalle leggi sanitarie in presenza di casi di colera
e ha strappato i malati dal lazzaretto? il giornale depreca allora
«l’anima selvaggia del nostro popolo, il quale in realtà non
mostra di distinguersi molto da quelle folle ignoranti e superstiziose, fra le quali noi stiamo per portare la civiltà in virtù dei
nostri cannoni». L’episodio, «sfuggito forse a molti negli attuali entusiasmi guerreschi», è molto grave e dimostra che «i partiti hanno completamente trascurato di civilizzare le masse».
Un obbiettivo a cui invece tutti devono contribuire, monarchici,
90
socialisti, repubblicani, clericali, militari, sacerdoti, medici,
igienisti, perché a ciò l’opera dei maestri non basta7. Altri episodi di inciviltà, ingiurie e minacce a una maestra o addirittura
fucilate contro un maestro, sebbene ambedue nominati in
seguito a concorso, si prestano di nuovo al facile paragone: «di
beduini la nostra Italia selvaggia è piena»8. E tuttavia, come se
fosse stato rimproverato per disfattismo, il direttore esce di lì a
poco con un editoriale di ispirazione affatto diversa, in cui si
compiace di «legittimo orgoglio» per gli episodi che attestano
«l’intrepidezza, il valore, la bontà dei nostri soldati», e si prodiga in lodi della «nostra stirpe», sempre «gagliarda, generosa,
forte, degna delle tradizioni più belle del suo passato»: e non si
riferisce solo ai combattenti, ma anche alla serenità del popolo,
che acclama i partenti, ne segue il cammino, offre quanto può
per i feriti e per le famiglie dei caduti. «È un fatto d’ordine educativo della più alta importanza» dice, avvitandosi in un ragionamento non proprio lineare, e dimostra che il popolo ha più
virtù che noi supponessimo, e che «se nel tempo che è così inutilmente passato (educativamente parlando) dal 1870 ad oggi,
queste virtù latenti fossero state più validamente coltivate da
un completo organismo scolastico educativo, noi saremmo oggi
senza dubbio uno dei primi popoli del mondo»9.
Nei mesi seguenti l’intreccio fra educazione e patriottismo
viene affidato al discorso di una donna, che si commuove e si
inorgoglisce dinanzi all’eroismo dei «nostri piccoli soldati
grigi», impegnati laggiù a combattere e a vincere, «fieri del
mandato di civiltà e di conquista che la patria vi ha dato». Ma
da dove viene tanto coraggio? «Da dove viene la meravigliosa
fioritura che entusiasma oggi tutta l’Italia?». Viene dal lavoro
tenace ed umile dei maestri e delle maestre che l’hanno preparata: il patriottismo non si improvvisa sul campo di battaglia, è
frutto di una educazione che viene da lontano10.
Le fa eco un’altra voce femminile, che esorta colleghe e colleghi ad accendere nei cuori degli scolaretti, aiutandosi con la
nostra storia gloriosa, la fiaccola dell’amor di patria, con un
91
tono di esaltazione che impregna tutto il vocabolario:
Quanto promettente s’aprirà l’avvenire, se accanto alla
grandezza economica del paese durerà intatto, puro, nella
febbre del lavoro delle officine, dei campi, delle scuole, l’orgoglio del nome italiano che fa d’ogni martire un santo e
d’ogni umile un Dio11.
Insomma, un simile modo di sentire l’identità di un popolo
è già sulla strada che porterà dal patriottismo al nazionalismo
bellicoso e imperialista. Patriota è pure il maestro soldato, che
invia al direttore del giornale una lettera e la propria fotografia
in divisa di sottotenente, dicendosi felice di offrire il proprio
sangue «a la grande conquista d’Italia» e «all’opera grande di
civiltà», consapevole tuttavia che in realtà la civilizzazione
all’interno è ancora da completare:
E nutro fede che il Governo saprà mantenersi all’altezza del
fine che si propose, per riscattare nel concetto delle Nazioni
il sorriso d’incredulità dal quale fummo accolti quando,
chiamando di civiltà la nostra guerra, sembrò obliassimo
che la civiltà dobbiamo pel nostro popolo ancor tanto conquistarla12.
I due toni del patriottismo, il realistico e l’esaltato, continuano ad alternarsi. Lirico, se non esaltato, è quello della poesiola
da proporre agli alunni per insegnare l’amore della bandiera
con strofe di questo tenore:
Quanti eroi, quanti martiri e quali / ci rammenta la nostra
bandiera! / Essa parla de gli anni fatali / che in servaggio la
patria soffrì! / ma levandosi dritta ed altera / ne la splendida luce del sole, / narra i giorni che libera prole / vide Italia
e con Roma s’unì13.
92
La guerra di Libia ritorna sul giornale delle maestre attraverso un’altra corrispondenza: un direttore scolastico aveva
indirizzato al generale Fara, «rinnovatore delle gesta garibaldine, esempio alle giovani generazioni», un telegramma di omaggi in occasione della di lui nomina a generale per merito di
guerra. Il generale risponde dicendo il proprio entusiasmo per
«la grandiosa missione educativa nazionale dell’esercito» e
dichiara di condividere quelle lodi con chi aveva educato i soldati ch’egli si era trovato a comandare in Libia, cioè con i maestri «sacerdoti di fede e di amor patrio non meno grandi de’
miei ufficiali». E conclude: «le madri italiane seminarono, voi
avete coltivato, io ho raccolto. Questo è il solo merito mio».
L’apoteosi della grandezza nazionale non è però sufficiente per
il direttore, il quale si compiace, sì, di quella condivisione di
meriti e di quel riconoscimento, ma aggiunge che i maestri e le
maestre hanno coltivato finora in condizioni troppo difficili,
fatte di avversità legali, ambiente ostile o indifferente, ostacoli
governativi. E tuttavia essi sono pronti a proseguire la loro missione e «coltivare, fisa la mente e il cuore alla fortuna della
patria, per preparare altri raccolti»14.
Questi elogi da parte del generale per la valida opera d’educazione delle maestre stridono alquanto con la sfiducia che proprio all’epoca viene espressa nei riguardi delle maestre d’Italia
da Nitti, uno dei membri della Commissione ministeriale istituita nel 1907 per esaminare la questione del voto amministrativo
alle donne: le insegnanti «non sarebbero, forse, dal punto di vista
elettorale, i migliori elementi; esse sono già nella lotta, e non
rappresentano la parte più ammirevole del movimento per il
voto»15. È chiaro che gli obbiettivi del senatore e quelli del generale non coincidono. Nei mesi seguenti, dopo alcune fotografie
delle scuole italiane di Tripoli, una bella carta geografica della
Libia, la pubblicità di un libro sulla civiltà araba16, l’argomento
sparisce del tutto: neppure un cenno al trattato di pace con la
Turchia. Come se il direttore avesse avuto fretta di chiudere un
capitolo di storia vissuta in modo contraddittorio.
93
Bambini alla guerra
Scarsa o nulla risonanza invece ebbero le vicende belliche in
periodici molto specializzati, come i tre seguenti, che si proponevano scopi del tutto particolari.
“Mamma e bambino. Rivista quindicinale d’igiene e di educazione infantile”, fondata nel 1884 da Rodolfo Guaita e organo
dell’Ospedale del bambino di Milano, come altre pubblicazioni
a tema professionale non introduce nelle sue pagine informazioni, notizie o articoli sulla guerra di Libia. L’unica eccezione
è, nel luglio 1912, il discorso patriottico di una levatrice, rivolto
alle madri italiane, come atto di solidarietà e di orgogliosa condivisione dei sacrifici che la guerra impone loro:
Corrono per la patria nostra fremiti d’entusiasmo indescrivibile per le gesta eroiche che compiono i nostri soldati nelle
terre africane, ed anche l’anima femminile è pervasa da questo sentimento nobilissimo di patrio amore, per cui in oggi
ci appare ancora più grande e più bella questa nostra Italia.
Se le madri italiane, rinnovando gli esempi di fierezza delle
spartane, delle romane, delle eroine del Risorgimento, offrono i
loro figli alla patria, «bisogna dire che l’amore per la patria sia
ben grande e magnanima cosa»; ma sono state le levatrici che
hanno accolto il primo vagito di quei figli e hanno offerto consigli e ammaestramenti alle madri «perché potessero allevare
ed educare una prole che fosse degna della patria nostra»17.
Possono ben andarne fiere.
Questo discorso era già apparso alcuni mesi prima su un
giornale professionale come la “Gazzetta italiana delle
levatrici”18, ed era stato pronunciato durante l’VIII Congresso
delle ostetriche, per dimostrare che tutte le donne, anche quelle
impegnate nel mondo del lavoro, condividevano la mobilitazione del sentimento nazionale a sostegno della patria in guerra.
Un’altra rivista della stessa categoria professionale, “L’arte
94
ostetrica”, già “Giornale per le levatrici”, mentre non pubblica
resoconto alcuno dell’impresa militare e neppure alcun discorso al riguardo, non manca di mostrare la propria partecipazione agli avvenimenti bellici, dando notizia della partenza per il
fronte di qualche collega della Guardia ostetrica, uno partito
volontario per Tripoli come ufficiale della Croce Rossa, un altro
a bordo della Regia nave Regina Margherita, un terzo invece
richiamato dal Ministero della Guerra e inviato a Bengasi: a
ognuno il giornale porge gli auguri dei colleghi19.
Curiosa invece e del tutto particolare la partecipazione
all’impresa militare italiana della rivista per le maestre di scuola materna, “La voce delle maestre d’asilo”20.
Solo a fine ottobre 1911, iniziando una serie di articoli sugli
asili infantili italiani all’estero, il giornale parla anche della
Libia: informa allora che a Tripoli un asilo infantile italiano
esiste dal 1888-89, che nel 1910-11 ha avuto 260 iscritti, tra cui
gli italiani figurano per un quarto - gli altri sono per lo più
indigeni ebrei, e quasi altrettanti i maltesi, mentre pochissimi
sono i greci e i francesi e ancora meno i musulmani21.
Interessanti anche le notizie sugli asili italiani in altre città
dell’impero turco: a Costantinopoli, Salonicco, Scutari, Smirne,
a Beirut, dove gli iscritti sono 106, di cui 15 italiani e gli altri
tutti arabi; e anche a Betlemme e a Gerusalemme22. Non troviamo tuttavia notizie, né tantomeno dibattiti, sulla guerra italoturca né nella sezione denominata Discussioni, studi e battaglie,
che è dedicata agli interessi e ai problemi professionali, né in
quella denominata La nostra missione educatrice, la parte pratica,
che contiene suggerimenti didattici. In questa però la guerra
compare, indirettamente, sotto forma di canto o meglio di
scena che i bambini avrebbero dovuto recitare e cantare, divisi
in gruppi: da una parte gli italiani, fanti, bersaglieri, artiglieri,
cavalleggeri, marinai, e dall’altra i turchi e gli arabi che dovevano cantare «Siam turchi feroci! d’Italia i soldati / da questa
regione vogliamo scacciar». Tutti i bambini a gesti avrebbero
dovuto mimare lo sbarco, gli scontri e, alla fine del gioco, la
95
fuga dei turchi. Il canto è ovviamente ispirato alla vulgata
nazionale: «Portiamo la luce nei lochi stranieri / le leggi civili
diffonder vogliam». C’è però un correttivo al militarismo d’obbligo, ed è il coro della Croce Rossa, che esclama:
Corriamo, pietosi: chi geme, chi cade / col dolce soccorso
guarire vogliam / ad ogni ferito su queste contrade, / sia
pure un nemico, conforto porgiam.
E nel canto finale di pace, dopo quello di vittoria, il testo fa
dire a tutti i bambini:
ci unisce in un patto la gioia verace / a tutti s’estende l’affetto del cor! / Abbiam combattuto, ed or fratellanza / ci
stringe, col segno di grande speranza.
Insomma, se il titolo è eloquente: Educazione patriottica
all’asilo23, si tratta però di un patriottismo quasi pacifico: si considera la guerra già conclusa, la gloriosa nazione ha vinto, ma
non infierisce, anzi tende la mano. Da notare che il giornale
fornisce alle maestre d’asilo anche lo spartito della musica e fa
precedere il tutto da un articolo a firma di Ottavia Cicogna,
docente di pedagogia, in cui si sostiene che il gioco della guerra
è prediletto dai bambini, e che non è affatto il caso di vietarlo,
semplicemente è bene frenarne gli eventuali eccessi: molto più
temibili le solitarie manie di tormentare povere innocenti
bestiole. Discorso assai lontano dalle preoccupazioni educative
di chi pacifista lo era davvero: penso per esempio a Maria Goia,
che deprecava un simile scenario:
Noi vedremo presto per le strade i nostri bimbi giuocare agli
Italiani e ai Turchi, assalire, difendere, piantar bandiere, far
prigionieri, li vedremo esaltarsi nelle vicende della guerra e
della violenza.
96
Deplorevole, per chi voleva invece ispirare ai bimbi «il senso
della fraternità con tutti gli uomini»24, come lei e come tante
altre donne socialiste. Non a caso per leggere un discorso contro la guerra riguardante proprio i bambini, occorreva rivolgersi a “La difesa delle lavoratrici”25. Oppure all’“Alleanza”, che
aveva proposto alle madri di abolire le armi giocattolo26. Ma
ormai taceva.
97
Note
1
“Il corriere delle maestre. Monitore didattico settimanale illustrato”,
diretto dal prof. Guido Fabiani. Venne pubblicato dall’editore Vallardi,
dalla fine del 1897 sino al 1941. Direzione e amministrazione: Milano, via
Stelvio 2.
2
Il n. 10, 17 dic. 1911, si rallegrava della grande vittoria dei suoi candidati, quelli dell’Unione, per il Consiglio superiore della Pubblica istruzione, in confronto con quelli della Tommaseo, associazione magistrale di
ispirazione cattolica.
3 Secondo la Bibliografia dei periodici femminili lombardi, cit., “Il corriere
delle maestre” divenne negli anni Venti il periodico didattico più diffuso
d’Italia.
4
Guido Fabiani, Le due guerre, n. 1, 8 ott. 1911.
5
Federico Formica, Le scuole governative di Tripoli, ivi.
6
Le scuole italiane della Libia, n. 27, 14 apr. 1912. Sull’argomento si veda
G. Ciampi, La scuola nelle colonie, in “Critica storica”, 1990, n. 2, p. 302-323.
7
Guido Fabiani, L’Africa interna, n. 2, 22 ott. 1911.
8
Guido Fabiani, I beduini dell’Italia selvaggia, n. 4, 5 nov. 1911.
9
Guido Fabiani, Mentre si combatte, n. 6, 19 nov. 1911.
10
Teresita Simeoni Colpi, Educazione e patriottismo, n. 8, 3 dic. 1911.
11
Pia Spalmacin, Ai colleghi d’Italia!, n. 13, 7 gen. 1912.
12
Luigi Clerico, Lettera d’un maestro soldato, n. 8, 3 dic. 1911.
13 A.I. Clerici, La nostra bandiera. Canto per i fanciulli italiani, n. 14, 14
gen. 1912, nella rubrica Poesie per esercizio di memoria e per l’educazione
morale.
14
Guido Fabiani, n. 17, 4 feb. 1912.
15 Parole di Nitti, uno dei membri della Commissione, citato in M.
Bigaran, Progetti e dibattiti parlamentari sul suffragio femminile: da Peruzzi a
Giolitti, in “Rivista di storia contemporanea”, 1985, n. 1, p. 50-82, a p. 78.
16 Arturo Uccelli, Gli arabi nella storia e nella civiltà. Con un’appendice
sulla lingua araba e sui principali elementi del dialetto volgare nella Tripolitania e
98
numerose illustrazioni, Biblioteca popolare Antonio Vallardi, cent. 60, nel n.
25-26, 31 mar.-7 apr. 1912. La carta geografica nel n. 29 dell’aprile 1912.
17 Aspasia Sartori Duffatelli (levatrice), Le madri italiane e la guerra, in
“Mamma e bambino”, n. 13, lug. 1912, p. 98. Del resto il periodico, pubblicato dal 1884 al 1920, con qualche interruzione, intendeva «sgomberare
il campo da ignoranza e pregiudizi e divulgare i progressi scientifici nel
settore della puericultura», ma non era altrettanto progressista a proposito del femminismo, come nota R. Carrarini, Tendenze e caratteri della stampa
dedicata alle donne, in Donna lombarda…, cit., p. 281.
18 Sul n. 4, 25 feb. 1912, citato in Giornali di donne in Toscana: un catalogo, molte storie (1770-1945), cit., vol. II, p. 391.
19 Si veda il n. 24 del 31 dic. 1911, il n. 3 del 15 feb. 1912, e il n. 4 del
29 feb. 1912. In effetti, “L’arte ostetrica” non era rivolto solo a donne, ma
si diceva “Giornale per i medici e per le levatrici”. Durò dal 1887 al 1957.
20
Periodico settimanale illustrato di propaganda educativa e di classe, sorto nel 1904 ad Ancona e poi trasferito a Milano: editore Vallardi,
direttore ed amministratore Giacomo Merendi. Durò dal 1904 al 1943.
21 I Regi Giardini d’infanzia italiani in Tripolitania, in “La voce delle
maestre d’asilo“, 29 ott. 1911.
22 I Giardini d’infanzia italiani in Turchia e… dipendenze, in “La voce
delle maestre d’asilo”, 3 nov. 1911. Sul tema si veda G. Ciampi, La scuola
nelle colonie, cit.
23
Educazione patriottica all’asilo. A complemento del canto e gioco
comparve lo scritto di Gina Merlo, La presa di Tripoli, 23 dic. 1911. Il testo
del canto però è firmato Edvige Pusineri.
24 Maria Goia, La guerra, in “La Provincia di Mantova”, n. 295, 28 ott.
1911, p. 1, citato in O. Domenicali, Maria Goia. “Una voce che andava prima
al cuore poi alla ragione”, Ravenna, 1999, p. 65.
25
Si veda I bambini e la guerra, in “La difesa delle lavoratrici”, 4 feb.
1912; Il senno dei piccoli, ivi, 19 feb. 1912; La logica dei bambini, ivi, 7 apr.
1912, citati da O. Scriboni, Abbasso la guerra! Voci di donne da Adua al Primo
conflitto mondiale, Pisa, 2008, p. 47.
26 Si veda per es. A. Gadola, I giochi e la guerra, in “L’alleanza”, 1° feb.
1908. Il periodico si interruppe proprio alla fine di ottobre 1911.
99
6. La politica tra patriottismo e pacifismo
A questo punto la nostra rassegna si volge a esaminare un
gruppo di periodici femminili che erano veri e propri giornali
politici: quello appunto delle donne socialiste e il periodico
mazziniano “Fede nuova”, insieme a “Unione e lavoro”, laico,
meno politicamente esplicito, ma del pari schierato, poiché collocato in una posizione paternalista con l’obbiettivo di preservare le operaie dalla propaganda socialista e mantenerle sotto
l’influenza del tradizionalismo benpensante. Sta comunque il
fatto che le uniche riviste femminili - fra quelle da me prese in
considerazione - decisamente contrarie all’avventura libica
furono le due politicamente schierate, una socialista, l’altra
mazziniana: per ragioni non coincidenti, come si vedrà1. Si tratta di posizioni differenti fra loro, né l’una né l’altra definibile
come pacifista2.
Madri italiane e povere madri arabe
Il giornale delle donne socialiste “La difesa delle lavoratrici”3
fin dal primo numero del 1912 chiarisce la propria posizione
con un lungo articolo di Margherita Sarfatti. Si schiera così in
prima fila contro «l’attuale, crudele guerra di Tripoli che già
costa tanto sangue e tanti sacrifici, e promette senza alcun dubbio ripercussioni lunghe e profonde in tutta la vita della nazione». Non vuole confondersi col pacifismo ‘a tutti i costi’, ma
tanto meno con coloro che la guerra «la propugnano, la dipin101
gono, la ostentano anzi con gioviale cinismo come una guerra
di conquista e di arricchimento in ciò che ha di più odioso».
Dove è la civiltà, dove la giustizia, se trionfano solo la violenza
brutale, il diritto del più forte? Questa guerra è una truffa contro il popolo lavoratore, operai e contadini che in cinquant’anni
col loro lavoro, col sacrificio e magari con l’emigrazione hanno
migliorato la propria condizione. Invece la borghesia, «con
tutto il suo clamoroso patriottismo di chiacchiere, se ne infischia dell’agiatezza e del benessere collettivo della nazione».
Ognuno pensa al proprio tornaconto individuale e spera
nell’avventura, punta su Tripoli come si gioca al lotto. Noi
donne abbiamo poca voce, perché siamo assenti dalla vita pubblica, ma la guerra ci tocca direttamente, con la sofferenza dei
cari lontani, con la crisi delle industrie e il rincaro dei viveri, e
allora ricaviamone «una amara ma salutare lezione di cose, che
ci stringa tutte in un fascio, vigili, pronte, operose»4. Alla sofferenza delle madri, le nostre e quelle dei nemici, dà voce subito
Gisella Brebbia, accomunandole in nome dell’umanità, e dell’internazionalismo socialista:
No, madri italiane e povere madri arabe, non tutti calpestano il vostro dolore! Ci siamo ancora noi a dire, checché ci
costi la parola, che la guerra, ove non si tratti di legittima
difesa, è sempre un delitto […] Anche gli Arabi - a cui si
vuole portare via la patria loro - sono fratelli nostri e hanno
diritto alla vita5.
Una voce ben rara nell’Italia di quel momento, così disattenta alle ragioni del diritto dei popoli, esile voce coerente con il
rifiuto di quella guerra che per le donne socialiste era un’azione
brigantesca e non una impresa eroica6. Sul costo della guerra,
che ormai si riconosce destinata a durare a lungo, il giornale
insiste, rilevando che «per proteggere le vostre creature i soldi
difettano, ma per mandarle al macello ce n’è a josa […]. Ma
mentre i nostri bravi giovanotti vanno dunque al suono dell’in-
102
no di Mameli a conquistarsi la gloria, i rimasti qui come mangiano?». Il governo passa una indennità alle famiglie dei richiamati purché provino la loro assoluta indigenza, ma tale indennità è molto scarsa: otto soldi al giorno la moglie, quattro a testa
ai bambini: i vecchi non esistono7. Sui compromessi morali e
politici connessi alla guerra si ricorre alla penna di uno scrittore
autorevole quale Edmondo De Amicis, sdegnato di fronte alla
figura di un sacerdote che col crocifisso in mano esorta i soldati al combattimento: immagine di un giornale illustrato, che
egli però ritiene fatto tanto vero e frequente, quanto scandaloso8. Sul tema tuttavia non si insiste oltre. Invece ritorna il dramma delle famiglie dei caduti, a cominciare da chi è rimasto
senza sostegno, come la vecchia donna piangente che è vano
consolare dicendole che il figlio è morto per la patria: «La
patria? non la conosco», risponde lei9. Di fronte al dolore o
all’ansia di madri, sorelle, spose, la domanda che esse si devono porre, scrive Angelica Balabanoff, è «a chi esse pagano un
tributo così caro». Devono comprendere «che dalla società capitalistica, generatrice delle loro miserie e delle loro lagrime, non
hanno da aspettare nulla». Ora, «dopo aver perduto tutto, perfino i loro figli, le donne colla lotta di classe e col socialismo
altro non hanno da perdere che le loro catene»10.
In assoluta controtendenza rispetto al discorso della corrente
nazionale, cui si uniformano quasi tutti i periodici femminili
sottolineando l’effetto benefico che la guerra avrebbe avuto
sulla comunità dei cittadini, tutti uniti e concordi nel sostenere
la causa patriottica, “La difesa delle lavoratrici” commenta la
lettera d’un soldato che chiede a sua madre di identificare, se
possibile, «quel mascalzone» che gli aveva spedito al fronte una
copia dell’“Avanti!”, facendogli rischiare il carcere. Promette
comunque di ritrovarlo lui, una volta tornato, e di «fare il suo
dovere anche in tempo di pace». Ecco, spiega l’autrice dell’articolo, come la guerra divide gli italiani, anziché unirli: il soldato
non riflette che «il mascalzone, chiunque sia, è un cittadino
d’Italia, di quella patria in nome e a vantaggio della quale si fa
103
la guerra», magari un compagno di lavoro, che ubbidisce alle
proprie convinzioni11. Chi non ha mai creduto che il popolo
d’Italia abbia voluto questa guerra e la segua «coi suoi voti e col
suo cuore» è Maria Goia, che nelle adunanze operaie ha sentito
vivere un unico sentimento, nei paesi della Romagna come
nelle campagne del reggiano e del mantovano: «l’orrore per la
guerra e la coscienza di essere stati ingannati, traditi». Il discorso riguarda anche le donne, certamente:
I comizi contro la guerra non richiamano solo gli uomini,
richiamano anche le donne. In Romagna io le vedevo a centinaia, giovani e vecchie, in tutti i paeselli, in tutti i sobborghi; e a centinaia le vedo in questi paesi settentrionali.
La guerra potrebbe insegnare qualche cosa, dunque:
credo che mai, come in questo momento, i lavoratori, uomini e donne, abbiano sentito il rammarico di aver poco valore
nella vita pubblica. Essi sentono che, partecipandovi con
animo consapevole e fermo, darebbero un indirizzo diverso
da quello che ha, alla politica italiana, e incolpano forse di
questa guerra il loro assenteismo, di cui solo in parte hanno
il torto.
E anche le donne vogliono farsi sentire:
Ne sono un segno i circoli socialisti femminili che fioriscono, primi fra tutti, in Romagna. Fiorite, rossi circoletti, di cui
gli scettici ridono e le persone ben nate, piene l’anima di un
concetto di femminilità che s’arresta alla grazia dei modi ed
alla vacuità della mente, hanno orrore! Fiorite, fiorite…12.
Le responsabilità della politica che ha condotto alla guerra
ritornano in evidenza nel discorso ai reduci: voi chiedevate
soltanto di lavorare e ricavarne da vivere con le vostre famiglie,
ma «la frolla borghesia, il nazionalismo dei bambocci, i preti col
104
loro Banco di Roma» vi hanno strappato al vostro lavoro, vi
hanno fatta vestire la divisa del soldato, vi hanno dato le armi
al posto degli strumenti di lavoro. «Il socialismo che non volle
questa guerra, che è contrario a tutte le guerre» saluta tutti voi,
lieti di esser scampati: ma chi pagherà per i caduti?13.
Sul colpevole scambio fra gli strumenti di lavoro e le armi si
insiste ancora:
Incolti se ne stanno l’Agro Romano, e il latifondo pugliese;
deserta e abbandonata la Sardegna; senza strade la Calabria
e la Sicilia senza scuole. Ma negli arsenali freme il lavoro
orrendo. Obici e cannoni, e catapulte, e fucili, e spade, escono sinistri di sotto i feroci magli. Che importa il vomero? E
la vanga, e la zappa, e i picconi e i badili? Armi ci vogliono
e micidiali14.
Anche la firma della pace con la Turchia suscita più inquietudine che gioia. Significa certamente che la Turchia ritirerà le
proprie truppe,
Ma la Libia, […] di cui a malapena - fin dove ci protessero
le provvidenziali artiglierie delle navi - occupammo e neppur tutta, la estrema cornice marina; la Libia, la vera Libia,
impenetrabile, arida, vasta quattro volte la nostra penisola,
è là, intatta tutta quanta, tutta sconosciuta, irta di insidie e
di minacce; e quanti anni, o lustri, o decadi e quanto olocausto di ricchezze e di vite e di giovinezze, e lagrime di madri
e di spose, ci vorranno ancora, prima che ai nostri militi, ai
nostri disgraziati figli e fratelli, riesca di toccarne l’ultimo
confine […]?
Corretta previsione, purtroppo. Intanto la disoccupazione
batte alle porte in tutta Italia, il contrarsi del credito manda in
malora le industrie e i traffici, la crisi ha già incominciato ad
assottigliare i salari; il caroviveri sale. E allora bisogna combattere il militarismo, far cambiare indirizzo alla politica italiana,
105
«irrompere nei comizi del nuovo e più largo suffragio per tuonarvi le proprie rampogne e rivendicarvi intero il proprio
diritto»15. Una opposizione antimilitarista, piuttosto che anticolonialista, dunque, che si manterrà fino alla Grande Guerra,
pur registrando allora posizioni non unanimi, con qualche
avvicinamento alle ragioni degli interventisti16.
A chi si deve far la guerra
Fondato nel 1907 quale «giornale femminile di propaganda
mazziniana politica, sociale e religiosa», da Adelaide Albani
Tondi detta Alina17, e da lei diretto, nel 1911 “Fede nuova” si
dichiara contrario alla guerra libica in modo esplicito, precisando anche le proprie peculiari motivazioni. Il partito mazziniano
aveva appena fondato un ‘Comitato pro-Albania’, del quale
anche Alina era socia e, in nome della libertà del popolo albanese oppresso dagli ottomani, avrebbe approvato una guerra
alla Turchia. Anzi, secondo Alina, se l’Italia avesse dato agli
albanesi «il suo aiuto in tempo utile, oggi l’Albania sarebbe
fiera della propria riconosciuta autonomia e l’Italia sarebbe già
a Tripoli senza colpo ferire». Invece, per consiglio di Austria e
Germania, fa guerra al Turco per avere Tripoli, «perché le alleate così vollero […] Avrà Tripoli, ma a prezzo di quali sacrifici
e quanto sangue generoso […] oggi che la Turchia, liberata
dalla rivolta in alta e bassa Albania può disporre tutti i suoi
soldati contro di noi»18. L’ostilità verso la Triplice Alleanza,
come si sa, è motivata dall’irredentismo dei mazziniani, ma
l’ostilità verso questa guerra ha motivazioni più estese e non
del tutto coincidenti con l’antitriplicismo, motivazioni che
Alina cerca di chiarire nei numeri seguenti del giornale.
No, noi non siamo contenti che l’Italia vada oggi a Tripoli. È
questa, ci domandiamo, l’Italia di Mazzini, forte all’estero,
unita e libera, civile e ricca per poter recare civiltà, ricchezza
106
e libertà in altre plaghe? […] Noi comprendiamo le aspirazioni sincere di alcuni nostri amici e fratelli di fede per
Tripoli; ma è il momento che non ci fa essere d’accordo con
loro. Noi ci sentiamo italiani, oggi, soltanto italiani, e facciamo i migliori voti per la fortuna e la serietà del nostro tricolore. Ma l’avventura non ci soddisfa, il modo con cui si
compie ci ripugna; e poi… e poi, il nostro muliebre cervello
non ci vede dentro ben chiaro19.
Sì, bisogna aprirsi la via del Mediterraneo, ma non rinunciando alle nostre terre irredente, non lasciando che altri ci
possa chiudere la via dell’Adriatico. Allora, secondo Alina,
portare la guerra può essere ammissibile? La risposta a simile
questione capitale non tarda ad apparire in un editoriale destinato a far chiarezza: «Guerra!! È il grido stolto, belvino [sic],
impulsivo dell’umanità in stato di barbarie più o meno completa». I futuristi sono pazzi o degenerati, a parlare di guerra sola
igiene del mondo. Certo, anche Mazzini chiamò talora santa la
guerra, ma occorre distinguere.
Santa la guerra quando è combattuta in nome della giustizia
e della libertà conculcate; santa per esse la rivolta dei popoli contro i tiranni. Ma iniqua e scellerata, quando non ha in
mira che la conquista di provincie e regioni; quando invece
di insegnare […] leggi eque, lavoro, e civiltà di costumi, vi
reca l’oppressione, la desolazione, la maledizione e la
morte.
Santa sarebbe una guerra all’Austria «per la restituzione
delle sue antiche rapine», ma la guerra di Tripoli è scellerata e
soprattutto iniqua, perché lascia in pace il vero nemico nostro e
degli Arabi disgraziati - come tutti i popoli che gemono ancora
sotto il suo tallone - il Turco; e si sfoga in disumane guerriglie
contro gli Africani. E qui la scrittrice invita le donne, le madri
ad insorgere:
107
Or come le madri d’Italia non sorgono a maledire chi manda
ad uccidere e morire giornalmente i loro figli […] Madri
d’Italia voi tacete nel profondo lutto e forse maledite, sommessamente. Ma il vostro singulto è soffocato dalle strofe
manierate di poetesse che non compresero forse mai ciò che
sia essere mogli, essere madri; e dalla prosa dei giornalisti
pagati per applaudire. Madri d’Italia, il popolo vi guarda e
si meraviglia del vostro silenzio! Voi mandaste un grido di
orrore dopo Abba Garima ed il popolo sorse minaccioso a
dire basta!
Le madri devono gettare anche oggi il loro grido ed il popolo di nuovo dirà basta!
Basta con gli eccidi di Tripoli, basta con l’alleanza coll’Austria che sta macchinando, pel prossimo scompiglio balcanico, la nostra totale rovina. Madri, spose, sorelle d’Italia, la
parola spetta a voi pure20.
Il valore morale e politico della guerra in corso viene quindi
ripetutamente messo in discussione. La nostra armata non sta
facendo la guerra alla tirannide turca, che sarebbe stata una
bella pagina di storia della Terza Italia, perché la guerra è giusta
solo se mira a conseguire giustizia e libertà; invece, «annidata
in terre non sue compie soltanto delle guerriglie, delle scorrerie» e i piccoli successi ottenuti non saranno forse durevoli,
essendo incerto al riguardo il consenso delle potenze; «non
hanno quindi alcun valore nazionale, tranne quello dell’ammirabile coraggio spiegato dai soldati d’Italia»21. Neppure la sfilata degli ascari a Roma, in quella piazza dei Cinquecento che
ricorda i nostri fratelli trucidati a Dogali, suscita alcuna fierezza
e allegria in “Fede nuova”:
Triste spettacolo quella folla plaudente che certa stampa vorrebbe far credere rappresentasse il cuore e il pensiero d’Italia
e di Roma in quel momento. A che cosa, e a chi plaudiva
108
essa? Quei giovani forti, bruni, coraggiosi, gli ascari - non
sono più i liberi figli della terra africana loro patria. Essi sono
dei liberti, al soldo d’Italia, e come tali vanno a trucidare –
col grido di Savoia sulle labbra - al fianco dei soldati d’Italia,
i figli del deserto tripolino, i loro fratelli! La guerra che tanto
male si è dichiarata e si combatte contro il Turco, prosegue a
fuorviare la coscienza del popolo d’Italia, a spegnere in esso
ogni sentimento d’Idealità umana, di giustizia, di Fratellanza,
ci riconduce alla barbarie, al diritto della forza.
Così, mentre la Turchia porta il suo esercito nei Balcani e
opprime l’Albania, noi italiani in Libia combattiamo gli arabi,
«sacrificando la giovinezza d’Italia». E la folla applaude!22. La
posizione del giornale risulta chiara. Resta da aggiungere qualche osservazione sull’idea di poesia valida per una rivista politica come questa. Chi legge avrà notato la frecciata contro le
poetesse prive di esperienza e di affetti materni, allusione forse
a Matilde Serao, ad Ada Negri, a Teresah, per citare solo le più
note autrici di poesie patriottiche, nel senso del mainstream23.
Ma anche su “Fede nuova” compare una poesia patriottica, di
segno diverso, vorrei dire organica alla posizione politica della
rivista: l’autore immagina navi cariche di armati che vanno
verso la Libia, mentre «dall’Alpe una voce ai naviganti /
tuona» e cerca di fermarle, con un urlo di rabbia e di dolore, ma
invano. E allora sarcastico il poeta esplode:
Vola nocchiero a Tripoli latina / vola sul mare e l’occhio
bieco affissa / alla preda, alla pugna, alla rapina; / salpa alle
spiagge del Simun infeste. / C’è tempo per lavar l’onta di
Lissa, / posson piangere ancor Trento e Trieste24.
Curiosamente, poi, viene apprezzata una poesia che non solo
fece molto discutere (intervenne ad accrescere il frastuono, per
dirla con Croce25), ma che era stata censurata dal Governo per
timore di proteste diplomatiche, cioè La canzone dei Dardanelli, e
109
viene riprodotta da Alina non senza una premessa destinata a
neutralizzare le perplessità delle lettrici davanti a quel giudizio:
A noi, non ammiratrici della letteratura di Gabriele
D’Annunzio, anzi severe riprovatrici della sua arte, priva
della nota alata dell’ideale, del bello etico, altamente educativo […] sia permesso dire “la canzone è bella ed essa è
degna del pensiero italiano”, è arte vera, italiana, mazziniana: qui il poeta inneggia all’ideale sacro d’Italia, e appare
davvero vate dell’ideale patrio, umano26.
Italianismo? Diventerà interventismo nel 1915.
Una fila di fatti gloriosi
Vediamo ora una rivista solo parzialmente accostabile a
quelle più propriamente politiche: ha un fine politico, sottrarre
le operaie alla propaganda socialista, lo persegue con azioni
pratiche piuttosto che con discorsi e, come la maggior parte
della stampa femminile, sostiene la guerra nazionale. Si intitola
“Unione e lavoro. Organo della Società italiana di previdenza per
le operaie. Sotto l’alto patronato delle LL.MM. il Re e la Regina e
di S.M. la Regina madre, Milano”. Dal 1908 rappresentava le
sezioni di Milano, Cernobbio, Como e Varese, e dava notizia
delle attività e dei servizi offerti alle socie nelle varie sedi. Al 31
dicembre 1911 la Società aveva 9794 iscritte27, delle quali un
numero non precisabile erano signore nobili o comunque benestanti, che si incaricavano di gestire quei servizi con otto uffici
di segreteria in punti diversi della città di Milano, sei uffici
medici con 90 medici addetti, di cui 18 specialisti, sette circoli
festivi, otto biblioteche aperte la domenica28. Il centro della
Società era però una ‘Cassa mutuo soccorso operaie’ del cui
bilancio, come pure di ogni riunione del Consiglio, nelle assemblee annuali veniva reso conto a tutte le iscritte: dirigenti erano
110
le benefattrici, ma del Consiglio facevano parte alcune socie
operaie. Tra le varie attività era previsto a volte uno spettacolo
al Teatro Manzoni o al Filodrammatici, e qualche gita, per
esempio ad Arona e a Desio nel corso del 1910. Nell’aprile 1911
si sperava di organizzare persino una gita a Lugano. A tale
proposito si raccomandava alle socie la regolarità nel versamento delle quote, rammaricandosi che «delle socie che dovrebbero essere previdenti, lo siano tanto poco da non riuscire a
pagare regolarmente le loro piccole quote […] aspettando l’annuncio di divertimenti o gite per affollarsi a pagare 5 o 6 mesi
in una volta»29. Beneficenza e paternalismo. Fa parte del programma eminentemente educativo del giornale anche la celebrazione compunta delle principali ricorrenze nazionali, che
nel 1911 iniziano ovviamente col 17 marzo, per il cinquantennio
della proclamazione del Regno nella prima riunione del
Parlamento, conclusione, anzi consacrazione del Risorgimento
(già con la R maiuscola)30. All’enfasi della retorica patriottica
non manca nulla: redenzione della patria, avvenimenti eroici,
epoca fervida, santa causa dell’indipendenza, unità che già
esisteva nei cuori e li affratellava in un solo palpito, eroismi
palesi e oscuri, e la meravigliosa epopea dei Mille, il fatto forse
più grande, più luminoso d’eroismo e di disinteresse che possa
vantare la storia umana. Ora, si esortano le lettrici, noi che raccogliamo il frutto di tanti sacrifici, come figli di questa patria
dobbiamo dimostrare la nostra gratitudine, e adempiere con
amore il nostro dovere31. L’inaugurazione del monumento a
Vittorio Emanuele II alla presenza del re, e i lutti di casa
Savoia32, completano il quadro degli interessi politici del giornale, finché non scoppia la guerra di Libia. Allora anche
“Unione e lavoro” si mette a parlare della storia antica, dei
fenici, dei romani, e poi del giogo ottomano. «Per noi era un
diritto ed un dovere, data la posizione ed i ricordi storici della
Tripolitania, occupare quella terra fertilissima», si legge in un
articolo di Ninina Facchi, che presto si volge in celebrazione
quasi religiosa dei fatti bellici, ricordando alle care socie che
111
ottobre, questo bel mese della Madonna, fu già il mese della
vittoria di Lepanto, auspicio per l’attuale «nuova crociata» contro i Turchi33. Fra lirico entusiasmo («una fila di fatti gloriosi
iniziò luminosamente il principio») ed elogi sperticati («il
coraggio, l’abnegazione la fede nei destini della patria» animano le nostre truppe e «quali luci fervide irradiano il nome d’Italia e lo rendono rispettato dalle nazioni d’Europa, benedetto da
tante popolazioni, finora barbaramente oppresse»), si snoda
anche qui la lettura convenzionale della nostra impresa libica,
intessuta di falsità prese (inconsapevolmente?) come dati di
fatto. Forse invece, anzi senza forse, dicendo che «nel battito
del nostro cuore si rinfrange un’onda possente d’italianità che
quasi nuova vita colora d’entusiasmo questi scialbi giorni
autunnali», la scrittrice è sinceramente commossa, e vuole trasmettere alle lettrici il desiderio di un solenne Te Deum da innalzare al Cielo. Almeno, però, non si scaglia contro gli arabi traditori alla notizia di Sciara Sciat, solo dice che le perdite di
ufficiali e soldati «velano di tristezza l’animo nostro», e invita
alla preghiera.
Dalle parole ai fatti: nel numero seguente il giornale da un
lato lancia una colletta Pro esercito, destinata alle famiglie dei
militari richiamati, iniziando una sottoscrizione fra le socie che
subito offrono qualcosa, anche cifre piccolissime: 10, 15 o 20 o 40
centesimi, raramente qualcuna una lira o due, continuando nei
mesi seguenti. Dall’altra pubblica una interessante poesia di
Carolina Perego Messaglia: Visione. La poetessa ha visto in una
proiezione cinematografica soldati italiani vittoriosi che hanno
catturato uno stendardo turco con la mezzaluna e si chiede se
siano le anime dei soldati morti per la patria (come suo fratello,
caduto ad Adua nel 1896). A quelle anime di eroi domanda di
venire a incoraggiare le madri, spose e sorelle che oggi piangono
i loro cari34. Sta proprio allora diffondendosi l’ultima novità in
fatto di comunicazione, l’informazione di massa attraverso il
cinema è cominciata35. E la memoria di Adua pesa nell’atteggiamento degli italiani, offuscandone il discernimento della realtà.
112
Molto sommarie le informazioni sulle vicende belliche dei
mesi seguenti, sempre tuttavia senza accuse o vituperio dei
nemici. La redazione preferisce dare spazio alle notizie liete o
gloriose, come la storica seduta della Camera il 22 febbraio
1912, la prima dall’inizio delle ostilità, nella quale «l’Italia tutta
per mezzo dei suoi rappresentanti vibrò di entusiasmo, fiera
del suo re, dei suoi ministri, del suo esercito, della marina e
delle antiche tradizioni»36; come le accoglienze della popolazione di Rodi agli italiani, con applausi ed evviva all’Italia, tricolori ai balconi, fiori ed essenze profumate gettati «sugli elmetti
dei soldati liberatori»37. Oppure a quelle commoventi, come le
vicende dei profughi italiani dalle terre dell’Impero ottomano,
dopo l’espulsione decretata dalla Porta il 20 maggio 1912: tutta
la popolazione non musulmana, tutti i greci unanimi, si può
dire, li hanno circondati di prove commoventi di affetto e di
simpatia. Ora questi profughi dolenti e coraggiosi devono trovare lavoro e pane in Italia: «facciamo che i nostri fratelli […] si
trovino veramente in patria»38. Brevi trafiletti tornano poi a
dare notizie della guerra, lodando l’impresa di Enrico Millo e
dei suoi cooperatori «che l’Italia considera come eroi», oppure
evocando l’occupazione di Misrata, «il nodo del fanatismo
arabo» contrapposto naturalmente alla «bandiera della
civiltà»39. Nulla di particolarmente femminile nelle argomentazioni usate, neppure le solite parole d’ordine sull’assistenza, la
cura di malati e feriti: solo si legge una sintetica notizia sulle tre
nobili socie, dame della Croce Rossa, partite sulla Menfi
nell’autunno 1911 e poi ritornate in patria. Del desiderio di
pace e delle trattative in corso si fa cenno, ripensando all’anno
trascorso
con santo orgoglio perché, in questi dodici mesi di combattimento e di sacrificio, l’Italia si è rivelata una nazione
veramente forte e veramente grande […] sorretta da un
sublime spirito di abnegazione ed unita da una sola incrollabile fede.
113
Solo con la pace potranno davvero gli italiani «dedicare
tutte le [loro] energie a portare, senza spargimento di sangue,
nelle terre conquistate la civiltà ad esse finora sconosciuta»40.
Firmata la pace, il giornale sente il dovere di difendere la
decisione italiana di firmare quel trattato di Losanna che non
ha suscitato entusiasmo in chi avrebbe voluto si insistesse per
ottenere di più, e piuttosto si continuasse a combattere: no,
l’Italia ha fatto bene a firmare, così dimostrandosi grande non
solo nel valore militare, ma pure nella lealtà. Aveva chiesto la
Libia, la Libia ha ottenuto, si accontenta, mentre «se […] si fosse
mostrata avida […], non si sarebbe certamente acquistata quella fama di serena equanimità che oggi le procura le lodi incondizionate ed il plauso di tutti». Il giornale si augura che gli
italiani possano rimanere uniti ora come nel momento della
lotta41. In confronto con altri periodici femminili del tempo,
“Unione e lavoro” si distingue per il silenzio (rispettoso o indifferente?) sugli arabi, raramente nominati, e quindi neppure
oggetto di invettive o di disprezzo. Oggetto di biasimo sono
invece i turchi, «seguaci fanatici della religione mussulmana»,
dei quali si riparla in occasione della guerra intrapresa dalla
Lega Balcanica di Bulgaria, Serbia, Montenegro e Grecia, i quattro popoli che, stanchi del barbaro dominio della mezzaluna, si
sono sollevati e ben possono dire agli europei:
Ora applauditeci ed approvateci! […] dove la vostra discordia vi vietava di andare siamo andati noi, ed abbiamo fatto
ciò che non avete osato fare: abbiamo alzata la croce contro
la mezzaluna dell’Islam ed abbiamo vinto! Abbiamo finalmente purificata l’Europa cacciandone il barbaro Turco!
Applauditeci!42
Patriottico, paternalista, né femminista né antifemminista,
filogovernativo, moderatamente nazionalista.
114
Aborriamo la guerra ma benediciamo i turbamenti di una
lunga pace
Rimane da ultimo un gruppo di riviste collegabili più o
meno strettamente al femminismo, o comunque attente ai problemi della vita sociale delle donne, almeno di quelle che non
si volevano confinate nella gestione domestica, e nella moda. Vi
spiccano le due riviste dirette da Sofia Bisi Albini, che sono
state giustamente incluse dalle prime studiose di stampa femminile fra le riviste politiche43.
La prima delle due riviste fondate e dirette da Sofia Bisi
Albini, la “Rivista per le signorine”, apparve nel 189444, rivolta
a un pubblico di colte giovinette, con l’intento dichiarato di
«farsi guida spirituale delle future donne italiane»; le intratteneva su temi culturali svariati, era aperta anche al politico e al
sociale, ai problemi giuridici connessi alla condizione della
donna e alle questioni del lavoro minorile, ma nella sostanza
l’indirizzo era «estremamente moderato»45. La direttrice, Sofia
Bisi Albini, interessata soprattutto ai problemi dell’educazione
delle donne, aveva condiviso il femminismo pratico dell’Unione femminile nazionale, mantenendosi «equidistante sia dal
femminismo d’ispirazione socialista sia da quello cattolico»46,
ed aveva partecipato al Congresso nazionale delle donne italiane a Roma nel 1908. Pacifista propriamente non fu mai, però ai
tempi di Adua si era espressa in modo critico nei riguardi
dell’espansione coloniale, mentre invece nel 1911 si lasciò coinvolgere dal nazionalismo dilagante anche nel mondo dell’associazionismo e della stampa femminile47. La direttrice è ben
cosciente di questo cambiamento di rotta nella propria carriera
giornalistica, e vuole spiegarlo alle giovani lettrici: «Oggi che
scrivo mentre i treni carichi di soldati partono per Tripoli, acclamati da migliaia di cittadini, oggi che tacciono gli antagonismi
politici, davanti a questo meraviglioso risveglio di nobile sentimento patriottico, […] postuma giustizia» nei confronti di
Francesco Crispi, il più grande uomo di Stato dopo Cavour.
115
Figliole, oggi anche molte di voi forse si sentono inebriate
perché videro i giovani soldati partire entusiasti: ma voi, noi
tutti dobbiamo abborrire [sic] la guerra; noi dobbiamo far
voti perché questi conflitti fra nazioni si compongano senza
bisogno di massacri. Ma però [sic] benediciamo questi
improvvisi turbamenti di una lunga pace che addormenta
gli animi e fomenta egoismi e corruzioni. Nella vita dei
popoli […] sono spesso provvidenziali certi conflitti […] per
risvegliare sensibili fierezze e dispiegare belle energie.
Anche se – Dio non voglia – non si andasse incontro alla
vittoria, non può andar perduto quanto l’ora del pericolo ha
fatto sbocciare48.
Ecco i temi del patriottismo italico che la propaganda dei
nazionalisti stava coltivando sul fertile terreno del diffuso sentimento di orgoglio degli italiani, ormai pronti a scuotersi di
dosso quel senso di inadeguatezza impotente lasciato a sedimentare nei cuori dalle sconfitte del recente passato49. E allora
tutto il resto segue. La prosa esortativa: viene il Natale, andate
a trovare qualche madre, qualche famiglia di soldati al fronte;
raccomandate di non piangere, lo dicono i soldati:
le lettere di quei cari ragazzi sono poemi eroici nella loro
semplicità e sincerità […] E siate fiere dell’Italia che sta compiendo opera di civiltà e mostrando al mondo che l’antico
valor non è ancor morto50.
La poesia celebrativa:
Oh segno! Oh gittata oltre mare / semente di patria lontana!
/ Oh in terra romana / di nuovo, grandezza di pietra miliare, [le tombe dei caduti] / Ma quanti stan ritti! A la morte /
sorridono, e cingon corone / di fiore al cannone / e taciti
aspettano l’ora e la sorte51.
Con grande fierezza la direttrice presenta La madre, di Ada
Negri, a cui è grata per «questa meravigliosa lirica che in pochi
116
giorni ha corso tutta Italia»52. Il ritorno delle prime infermiere
della Croce Rossa è occasione di lode per tutte, a cominciare
dalla signora Aosta, «come Ella vuol essere chiamata»53; poi si
pubblicherà a puntate il diario di una infermiera54. Né viene
ignorata la pagina triste di Sciara Sciat, perché «lo strazio di
saper quasi decimato un reggimento dei nostri baldi bersaglieri» non spegne «l’orgoglio di essere italiani!». Una collaboratrice da Napoli propone una sottoscrizione per le famiglie dei
caduti55, e la rivista darà notizia di quella e di analoghe raccolte di fondi in città diverse, come Imola e Melfi. Altra proposta
di contributo attivo è poi quella di fare berretti di lana e spedirli ai soldati, come già attuato dalle donne del Patronato femminile che hanno spedito da Milano e da tutta la Lombardia
«copricapi pieni di bigliettini con frasi entusiastiche di omaggio
e di augurio per i soldati, e poesie dedicate alle vittorie di
Tripoli, distintivi, coccarde, cartoline col francobollo, caramelle,
cioccolatini, carte di visita, banderuole»; o andare a visitare i
feriti ritornati in Italia56. Non solo: l’instancabile Sofia invita le
giovani lettrici a scrivere lettere ai soldati, indirizzandole a
quelli che non hanno ricevuto posta da casa, a mandar loro
laggiù anche dei giornali, perché essi sono ansiosi di sapere che
cosa accade in Italia57. Il desiderio di agire patriotticamente si
rivela anche nell’esplicito monito a comperare italiano, così come
predica ai tedeschi una società fondata a Berlino, per favorire le
industrie locali: non seguite le réclames straniere!58 Forse però il
consiglio più significativo, e in qualche modo suggestivo, dato
alle lettrici è quello ripreso da un’idea lanciata quattro anni
prima da una scrittrice tedesca: sostituire i giovani validi nei
servizi militari di sanità, di sussistenza, di magazzinaggio, di
cucina e di lavanderia, tutte attività per cui le donne sono anche
più pratiche degli uomini59.
Intanto i mesi passano e la guerra continua: la rivista propone alle lettrici una drammatica evocazione dell’impresa di
Derna, ricordando «con intima fierezza l’eroico contegno del
Battaglione Edolo» nella notte dall’11 al 12 febbraio, «titanica
117
lotta dei cento e cinquanta alpini contro tremila assalitori», e
nella «battaglia lunga e feroce del 3 marzo, trionfo della santa
baionetta»60. Da Derna ancora una lunga corrispondenza
sull’inaugurazione solenne di un ricordo marmoreo in memoria dei caduti in quei terribili combattimenti, con discorsi debitamente infarciti di patria retorica, che sarebbe però stolto
dubitare non abbiano commosso le signorine lettrici61. Alle
quali, inoltre, la rivista non manca di fornire qualche informazione sulle colonie che l’Italia sta conquistando, per esempio
alcune pagine sulle donne arabe62 o la pubblicità di un libro che
racconta «le ultime giornate della Tripoli turca e le prime inebrianti gesta del nostro esercito sulle spiagge libiche», scritto da
un cronista che poté assistere a quei fatti63. L’ultimo accenno
alla guerra è quel decalogo, che la direttrice dichiara di riportare dall’altra sua rivista, sulla donna che ama la pace64, tutto teso
a ridimensionare il femminismo di anni neppur così lontani,
ma ormai bloccato davanti alla trappola della cittadinanza attiva nell’emergenza patriottica condivisa, in attesa di un riconoscimento che ancora appare (ingannevolmente) possibile. La
pace, sì, ma nel regno della donna, fra le pareti domestiche.
“Vita femminile italiana” era la rivista mensile illustrata, di
un certo livello culturale, per donne di classe sociale elevata,
che la stessa Sofia Bisi Albini dirigeva dal 1907 e che si pubblicava a Roma. Femminista, almeno inizialmente, ma non favorevole al suffragio femminile: le donne devono stare al loro
posto. Si occupava di filantropia e dava notizie internazionali,
anche su convegni e iniziative riguardanti il femminismo, ma
sempre «con una sorta di distacco, o di semplice disinteresse
verso le scadenze e le battaglie politiche interne»65. Anche gli
spazi dedicati alla guerra libica non sono molti, e persino l’evidente accettazione della guerra è poco insistita, come sottintesa: le narrazioni del patriottismo italiano sono presenti, ma si
riducono via via. Certo, l’apertura con la poesia di Ada Negri,
che scolpisce l’immagine della madre spartana66, e l’affermazione che finalmente col loro contegno le donne italiane hanno
118
riscattato la viltà di certe madri dopo Adua67, rientrano nel più
trito repertorio bellicista della retorica nazionale68. Lode delle
donne italiane, a cominciare dalle più visibili, come la marchesa
Adelaide Alfieri di Sostegno, che a Tripoli è andata a portare
fiori per i morti e pietà materna ai combattenti: gesto anche più
coraggioso di quello d’una infermiera, fa notare il giornale69.
Anche qui le infermiere della Croce Rossa, a partire dalla
duchessa d’Aosta e dalla marchesa Guiccioli, ricevono ampio
tributo di lode, perché, in armonia col popolo tutto che ha compreso «il grande ideale patriottico», la loro abnegazione ha
dimostrato che le donne italiane hanno «saputo camminare
senza chiasso e senza antipatiche andature maschili», dando
prova di «un bel femminismo sano e alto»70.
Contro il pacifismo, anzi contro le donne pacifiste, compare
quel decalogo di cui s’è detto, una serie di aforismi moraleggianti, che valgono a rimetterle al loro posto, quelle donne, fra
le mura domestiche: la donna che ama la pace è quella che
ama la sua casa, che adora i bambini, che studia e lavora
[…], è fedele a suo marito, educa con saggezza i suoi figli, fa
della casa un nido lieto e attraente […] non spreca denaro
[…] non è maldicente, non è litigiosa […] Ama la pace la
donna che ama la sua Patria, che vuol vederla forte e onorata, che alimenta nei suoi figli questo amore, che sa infondere
in essi il coraggio, la disciplina, l’entusiasmo, che sa dire
“Va, non piango, fatti onore”, se la Patria lo chiama alla
guerra. Ama la pace la donna che meno ne parla71.
Della guerra in corso nulla si dice propriamente, né tantomeno si discute. Appena un ricordo occasionale l’articolo sulle
scuole italiane di Tripoli, e segnatamente su quelle femminili72,
o la notizia di un comitato di signore, costituito a Genova,
assieme agli studenti universitari, per i doni di biancheria ai
soldati: così migliaia di capi di biancheria verranno spediti «al
conte De Albertis, colonnello del glorioso 89° il quale gradisce
119
il dono pratico e generoso delle donne genovesi e ne cura la
distribuzione»73. Molto diverso come tono e di respiro culturale decisamente più elevato l’articolo di Alma D’Aurora sulle
donne musulmane: il testo ha una relazione solo indiretta con
la guerra, in quanto si occupa delle donne turche e ne parla con
rispetto, anzi con ammirazione verso quelle che si sono impegnate nelle recenti battaglie politiche e conquiste civili. Tale
rispetto per le musulmane ella considera come un merito peculiarmente italiano:
Da quattro mesi – scrive – ormai tutta Italia vibra nell’eco
della fortunosa conquista, s’appassiona e si dona alle alterne vicende di vittorie e di morte, che la storia consacra;
come un bramito di fiera ferita, l’urlo dilaniante dei martiri
di Henni si ripercuote pauroso […] e pure, mai, da un quotidiano o da una rivista o dalla foga di un articolo d’impressioni, una parola ha giudicato o ha colpito la donna
dell’Islam74.
Una posizione singolare, che non esclude la convinta partecipazione alle ragioni della guerra coloniale: però non vi insiste. Questo è il tono del patriottismo soffice di tutta questa
rivista, che non è bellicoso, ma ignora del tutto qualsiasi ragione o diritto delle popolazioni aggredite, uccise, sottomesse,
deportate75. Del resto gli italiani vedranno e sapranno giudicare coi loro occhi: «un Comitato di persone veramente della
scuola, con sede in Roma», organizza per i maestri viaggi
d’istruzione anche all’estero, e il primo viaggio «avrà per meta
le coste della Libia, la nostra nuova colonia, che i maestri devono far conoscere ai fanciulli d’Italia»76. Tutto a posto, dunque.
Troppo facile per noi osservare che quella forma di rispetto,
nel senso di astensione da critiche malevole o pregiudizi infondati, poteva essere vera, ma coesisteva con verità completamente opposte, quali i trattamenti a volte inumani e la vera e
propria carneficina di donne arabe perpetrata dagli italiani
120
dopo Sciara Sciat, e attestata già allora da voci libere come quella di Paolo Valera77.
Insoddisfacente, per scarsità di materiale, è il confronto con
un’altra rivista femminile che rappresentava la posizione politica del femminismo emancipazionista, e che ci riporta a
quell’associazione di cui anche Sofia Bisi Albini era stata
parte.
Sorella guerra?
“Unione femminile nazionale” era il bollettino trimestrale78
della omonima associazione fondata nel 1899 da Ersilia Majno,
assai impegnata nel promuovere la partecipazione delle donne
alla vita sociale nel campo della beneficenza, dell’istruzione,
dell’assistenza e della difesa dell’infanzia, della maternità e del
lavoro, e a far progredire, con l’educazione e la cultura, la posizione delle donne nella legislazione civile e nei diritti politici:
associazione della quale fece parte anche Sofia Bisi Albini,
come s’è detto. Pochi i numeri disponibili di questo bollettino
relativi al 1911 e 1912, e insufficienti a dedurne la posizione
sulla guerra in corso: sappiamo tuttavia da altre pubblicazioni
dell’associazione stessa che in quel periodo l’Unione «ebbe
delegate le signore Jole Bersellini, Virginia Bartesaghi, Lydia
Cantoni nel Comitato di assistenza costituito dalla “Pro esercito” per aiuto alle famiglie dei combattenti»79, mentre invece fu
attivamente impegnata sul diritto di voto nel Convegno (aprile
1911) a Roma dei Comitati ‘Pro suffragio femminile’ e poi nel
Congresso ‘pro voto’ a Torino pochi mesi dopo, confermandosi
come la più interessata tra le associazioni emancipazioniste alle
iniziative sul voto alle donne80. Anche in un opuscolo celebrativo del 1948, quel contributo alla ‘Pro esercito’ rimane l’unica
traccia lasciata nella storia del sodalizio dalla guerra libica81:
evidentemente le donne dell’Unione sentirono di doversi allineare in qualche modo all’atteggiamento generale di sostegno
121
all’impresa militare dell’Italia, al fine di non urtarsi contro il
sentimento prevalente di appoggio alla politica nazionale, e lo
fecero nel modo più vicino alla loro sensibilità. Il problema era
certamente sentito: non a caso nazionalismo e internazionalismo, pacifismo e antipacifismo spaccarono proprio allora le
associazioni delle donne, quando l’adesione di Teresa Labriola
al movimento nazionalista rese irreversibili le divisioni già presenti fra le emancipazioniste italiane82.
Concludiamo questa rassegna dei giornali scritti per le
donne con una voce espressa direttamente da un gruppo di
donne, senza intermediari, né editore, né stampatore, in una
rivista manoscritta autogestita: “Lucciola”. Piuttosto che documentare quanto, della guerra di Libia, si voleva far sapere e
pensare alle donne italiane, “Lucciola” ci può dire che cosa
alcune di esse ne sentirono e pensarono in prima persona.
Sono, infatti, insieme mittenti e destinatarie dell’informazione
a parlare in questo giornale sui generis, manoscritto da un gruppo di donne associatesi per costruire una rete di relazioni che le
unì, traversando l’Italia tutta a partire dalla Sicilia83. Ammirevoli
nell’impegno di realizzare un’esperienza singolare e neanche
così effimera, le donne di “Lucciola” scrivevano di volta in
volta di letteratura, di filosofia, di religione, di problemi femminili, di attualità e anche di politica. Sul tema che stiamo trattando, tuttavia, le informazioni sono scarse84: fra i sette articoli del
1911 scelti dalle curatrici, neppure uno riguarda la guerra di
Libia e fra i nove del 1912 solo due. Uno è il racconto Chiarezza
(di Annetta Fabbri di Revere) sulla «nostra spedizione» di berretti ai soldati: anche se non tutte le corrispondenti avevano
risposto all’appello, «anzi, poche relativamente al numero delle
lucciole», lei ha potuto spedire a Tobruk ben 65 berretti di lana,
grazie a una benefattrice che ne aveva raccolto 30 in un paesetto del ravennate; elenca i nomi e il numero di capi forniti da
ciascuna delle Lucciole (in tutto 12, con una ventina di capi),
unisce la lettera dell’ufficiale che in data 17 marzo 1912 ringraziava da Tobruk i cuori materni e le mani gentili delle donatrici.
122
E aggiunge un particolare che attesta il suo premuroso affetto:
in ogni berretto, grazie alla generosità di due lucciole, mi
riuscì di cucire un quinterno di carta da lettere colle buste,
dicono che sia un dono graditissimo; ad alcuni berretti
erano pure uniti dei piccoli regali. Io poi […] feci delle piccole coccarde all’uncinetto che attaccai ad ogni casco e vi
stavano così bene i nostri colori!85.
L’altro scritto del 1912 riguarda la guerra in corso in modo
assai diverso: è il resoconto, steso da una Lucciola, di una conferenza di Matilde Serao al Filarmonico di Verona nel maggio
1912, tutta intrisa di patriottismo letterario: giovani che partivano entusiasti verso la morte all’ombra della bandiera tricolore, donne che salutavano trattenendo le lacrime, «nuove Cornelie, nuove madri di Cairoli», studenti che cercavano di arruolarsi, italiani che, pur di idee politiche opposte, di religioni diverse, si sentivano tutti fratelli davanti all’altare della Patria, insomma un popolo fremente di libertà, di progresso, anelante
alla difesa delle sue cause sante, nonostante la disapprovazione
delle nazioni. A questo punto il discorso della Serao per esaltare le gloriose gesta di Libia piombava nella retorica più reboante: «quando l’Italia vide avanzarsi la maestosa figura di sua
sorella, la guerra, subito la riconobbe: essa dalla guerra era nata
e per la guerra si era resa grande e indipendente»86.
Tali parole suscitarono nelle lettrici e nei lettori di Lucciola
una serie di critiche: è falso che l’Italia sia nata dalla guerra, è
nata dall’autodeterminazione di un popolo osservò Qualcuno
(Sofia Arpesani da Milano); la guerra non è uno scopo, se mai
un mezzo per affermare la grandezza d’Italia; valanga di parole senza pensiero, scrisse Soul (Adelaide Arpesani da Milano);
parole senz’anima, aggiunse Io (Gina Ceresoli, da Bergamo);
anche Lina (la direttrice e fondatrice Lina Caico, da Montedoro,
provincia di Palermo) ammise: «M. Serao non mi piace e questa
sua conferenza ancor meno, ma appunto perché noi si possa
123
conoscerla e giudicarla G.P. ha fatto bene a darcene questo riassunto, assai ben fatto»87. Patriottica sì, la rivista lo era sempre
stata, ma gli eccessi retorici non erano graditi88. Altri echi della
guerra in “Lucciola” si ricavano dalla presentazione delle curatrici, e potrebbero estendere un poco il nostro discorso89, ma già
sulla base degli scritti esaminati possiamo dire che la linea del
periodico si colloca nel grande fiume dell’opinione patriottica
nazionale, che se non è ancora esplicitamente nazionalista, è
tuttavia intrisa di un italianismo che ne è il precursore.
124
Note
1
Rimando per più estese informazioni a M. Scriboni, Abbasso la guerra! Voci di donne da Adua al primo conflitto mondiale (1896-1915), Pisa, 2008,
la quale ha rintracciato parecchie altre pubblicazioni femminili contro la
guerra, tra cui alcune, per lo più anarchiche, presenti nel periodo 19111912. Dice tuttavia (p. 44), che tra il 1910 e il 1911 le voci di donne contro
la guerra sembrano un po’ affievolirsi, anche per le difficoltà de
”L’alleanza”.
2 Al modo, per intendersi, di Manfredo Baccini, «pacifista convinto e
confesso già al tempo della guerra di Libia», per cui la pace «è l’ideale di
quel gruppo di rammolliti a cui mi onoro di appartenere», che si identificava con quanti «pacifisti, umanitari, repubblicani» si opponevano non a
quella guerra, ma a qualunque guerra: citato da S. Soldani nella scheda
della rivista “Ida Baccini”, in Giornali di donne in Toscana, cit., vol. II, p. 375.
3
Era in qualche modo la continuazione di “Su compagne!”, che fra il
giugno e l’ottobre 1911 fu animato da Angelica Balabanoff contro la guerra,
poi confluì ne “La difesa delle lavoratrici”, destinata invece a durare oltre
10 anni, diretta prima da Anna Kuliscioff e poi da Pietro Nenni. Ma le collaboratrici erano tutte donne. Si veda in proposito F. Pieroni Bortolotti,
Socialismo e questione femminile in Italia. 1892-1922, Milano, 1974, p. 121.
4 Margherita Sarfatti, Quel che la guerra insegna a noi donne, n. 1, 7
gen. 1912, p. 2.
5
G. Brebbia, Il pacifismo borghese e il socialismo, n. 1, 7 gen. 1912.
6
Come si legge in Voci dalle officine e dai campi, n. 1, 7 gen. 1912.
7 Guerra grossa,… ma soldi pochini!, articolo firmato “La difesa delle
lavoratrici”, n. 2, 20 gen. 1912, p. 1. Sulle enormi somme spese per la guerra, anziché per risolvere i problemi del Meridione, come argomento
dell’opposizione socialista, si veda anche L. Scoppola Jacopini, I socialisti
italiani di fronte al bivio della pace e della guerra (1904-1917), in Guerra e pace
nell’Italia del Novecento. Politica estera e correnti dell’opinione pubblica, a cura
di L. Goglia, R. Moro, L. Nuti, Bologna, 2006.
8 Edmondo De Amicis, trafiletto senza titolo, n. 3, 4 feb. 1912, p. 4:
però non è citata l’opera da cui sarebbero tratte quelle poche righe del
famoso scrittore, deceduto nel 1908.
9
La patria? Non la conosco, non firmato, n. 9, 19 mag. 1912, p. 2.
125
10 Angelica Balabanoff, Il doloroso tributo delle madri, n. 11, 16 giu.
1912, p. 4.
11 Abigaille Zanetta, Come incivilisce ed unifica il nazionalismo, n. 12, 7
lug. 1912, p. 2.
12 Maria Goia, Un anno di sciagurata guerra, n. 17, 22 set. 1912, p. 2. Sul
pacifismo irriducibile di questa donna socialista si veda ancora O.
Domenicali, Maria Goia, cit.
13 Senofonte Entrata, Il nostro saluto a quelli che tornano, n. 14, 4 ago.
1912, p. 2.
14
La guerra, trafiletto non firmato, ivi, p. 3.
15
La cosiddetta Pace…, articolo firmato “La difesa delle lavoratrici”, n.
19, 20 ott. 1912, p. 1.
16 Oltre la scheda ad nomen di F. Pedone in Bibliografia dei periodici
femminili lombardi, cit., si veda F. Taricone, Introduzione alla ristampa anastatica di “La difesa delle lavoratrici”, a cura di G. Polotti, Milano, 1992,
p. 14, secondo la quale nel periodico «si fronteggiano posizioni molto
diverse rispetto alla guerra, le quali stanno lì a ricordare come l’innato
pacifismo femminile sia storicamente ancora tutto da analizzare».
17 Adelaide Tondi aveva sposato Felice Albani, anch’egli giornalista e
mazziniano fervente, come il padre di Alina, Ermenegildo Tondi. Su questa interessante figura femminile, rappresentante del mazzinianesimo, si
veda F. Tardiola, Carte politiche. Adelaide Albani Tondi (1862-1939), in
Scritture di donne. La memoria restituita, a cura di M. Caffiero, M.I. Venzo,
Roma, 2007, p. 270-289. Su “Fede nuova” si veda anche A. Buttafuoco,
Cronache femminili: temi e momenti della stampa emancipazionista in Italia
dall’Unità al fascismo, Arezzo, 1988, p. 185-189; e O. Majolo-Molinari, La
stampa periodica romana dal 1900 al 1926, vol. I, Roma, 1977, p. 308.
18
Alina, Alla distanza di un anno appena, n. 56, 30 set. 1911, p. 1: la
fondazione del ‘Comitato italiano pro-Albania’ era avvenuta nell’autunno 1910.
19
Alina, A Tripoli, a Tripoli!!?, n. 57, 31 ott. 1911, p. 4.
20
Alina Albani Tondi, Guerra!!, n. 60, 31 gen. 1912, p. 1.
21
“Fede nuova”, La guerra, n. 63, 30 apr. 1912, p. 2.
22
Gli Ascari a Roma, n. 64, 30 giu. 1912, p. 1 e 2. Sul tema cfr. supra,
126
cap. 1, p. 25 e nota 53, p. 35 e nota 100.
23 Poetesse e scrittrici assunte rapidamente a simbolo letterario del
sentimento nazionale: si veda per esempio E. Scaglione, Primavera italica.
Antologia delle più belle pagine sulla guerra italo turca, Napoli, 1913, che nelle
sue 773 pagine ospita anche racconti e poesie di dieci autrici (tra cui quelle indicate nel testo), spesso retoriche e stucchevoli, a parte un delicato
racconto di G. Deledda.
24
Paolo Panerai, Navigando a Tripoli, n. 57, 31 ott. 1911, p. 4.
25
B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, 1928, p. 287 nell’ed. 1962.
26
“Fede nuova”, La canzone dei Dardanelli, n. 61, 20 feb. 1912, p. 2.
27
Assemblea generale, (non firmato), apr. 1912. Vi si riferiscono, tra
l’altro, le cifre seguenti, relative all’anno trascorso: 8426 giornate di sussidio distribuite fra 596 socie ammalate; erogati 77 sussidi per maternità;
167 socie inviate alle cure; 388 socie iscritte alla cassa dotale; 500 iscritte ai
circoli festivi con corsi di studio, di sartoria, biancheria, ricamo, dattilografia, francese, morale. A migliaia ammontavano i libri distribuiti nelle
varie biblioteche. L’assemblea si era tenuta il 12 marzo.
28
“Unione e lavoro” ne precisava spesso indirizzi e orari di apertura,
ad esempio nel n. di febbraio 1911.
29
Assemblea generale, (non firmato, come il rapporto dell’anno precedente), apr. 1911.
30 S.R., La proclamazione del Regno d’Italia, apr. 1911. L’articolo inizia
così: «La mattina del 17 marzo, molte di noi si sono meravigliate vedendo
la bandiera tricolore ondeggiare alle finestre […] certe date si imparano
[…] a scuola, ma poi si dimenticano, se nessuna commemorazione speciale si succede di anno in anno, per rammentarcele».
31
Ibidem.
32
Seguirà poi (nel n. di aprile 1912) il biasimo per il «vigliacco attentato» al sovrano del 14 marzo 1912.
33
Ninina Facchi, Tripoli, nov. 1911.
34
«Oh, l’ore del valor quanto sian belle / dite e il morire per il patrio
suol!»: Carolina Perego Messaglia, Visione, dic. 1911.
35 Poteva essere uno dei molti filmati realizzati in Libia da Luca
Comerio, fotografo e cineasta: si veda in proposito L. Goglia, Africa, colo-
127
nialismo, fotografia: il caso italiano (1885-1940), p. 850, in Ministero per i beni
culturali e ambientali, Fonti e problemi della politica coloniale italiana, vol. II,
Roma, 1996.
36
N.F., La guerra, apr. 1912.
37
N.F., Rodi, giu. 1912.
38
S.V.R. I profughi, lug. 1912.
39
N.F., La guerra, ago. 1912.
40
M.C., La guerra, ott. 1912.
41
M.C., La pace, nov. 1912.
42
M.C, Nei Balcani, dic. 1912.
43
A. Buttafuoco, R. De Longis, La stampa politica delle donne dal 1861 al
1924. Repertorio-catalogo, in “Nuova DWF”, n. 21, 1982.
44 Stampata a Milano dall’editore Cogliati, come “Il buon cuore” di
cui si è già detto.
45 Come dice l’esauriente scheda firmata da A. Gigli Marchetti nella
Bibliografia dei periodici lombardi, cit., ad nomen.
46 Si veda la scheda di F. Taricone in Dizionario biografico delle donne
lombarde. 568-1968, Milano, 1995, ad nomen.
47 Evoluzione messa in luce da importanti studi; rimando, per tutti, a
C. Papa, Sotto altri cieli. L’Oltremare nel movimento femminile italiano (18701915), Roma, 2009, specie alle p. 149-153.
48 Sofia Bisi Albini, Risveglio, 4 ott. 1911, p. 597. Che cosa decise di
questo «slittamento» (come lo chiama D. Gagliani, Guerra e identità di
genere in età contemporanea, in Vivere la guerra. Percorsi biografici e ruoli di
genere tra Risorgimento e primo conflitto mondiale, a cura di L. Guidi, Napoli,
2007, p. 154) dal pacifismo all’interventismo nazionalista, rimane ancora
una questione aperta.
49 Per questi temi rimando alla convincente analisi di E. Gentile, La
Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel secolo ventesimo,
Milano, 1997.
50
Sofia Bisi Albini, Natale senza giovani, (dic.?) 1911, p. 728-729.
51 Angelina Lanza, Alcuno ritorna, dedicata ad Enrico Corradini, (dic.?)
128
1911, p. 735-737.
52 Ada Negri, La madre, n. 1, 1-15 gen. 1912. La pubblicherà anche in
“Vita femminile italiana”, vedi infra.
53
L.A., Le infermiere della Croce Rossa, (dic.?) 1911, p. 763-764.
54
Elisa Majer Rizzioli, Diario di una infermiera, n. 1, 1-15 gen. 1912, p.
6-8. Il diario venne poi pubblicato in volume: Accanto agli eroi. Crociera
sulla Menfi durante la conquista di Libia, Milano, 1915. Si veda in proposito
S. Bartoloni, Italiane alla guerra: assistenza ai feriti 1915-1918, Venezia, 2003;
Ead., Donne nella Croce Rossa Italiana: tra guerre e impegno sociale, Venezia,
2005.
55
Myriam, Che cosa faremo?, da Napoli, nov. 1911, p. 770-772.
56 Silvia P., da Catania, Una visita ai nostri soldati feriti, n. 1, 1-15 gen.
1912. Lo stesso tema abbiamo segnalato su “La donna”, n. 172, 21 feb.
1912.
57
Ciò che voi potete fare per i nostri soldati, n. 2-3, 31 gen.-15 feb. 1912, p.
58
M., Una lezione di nazionalismo, n. 2-3, 31 gen.-15 feb. 1912, p. 35.
59
Sandra, La donna soldato, n. 2-3, 31 gen.-15 feb. 1912, p. 38.
60
Maso Bisi, Il nostro battaglione, n. 5-6, 15-31 mar. 1912, p. 73-74.
61
Il nostro battaglione, n. 9, 15 giu. 1912, p. 144-145.
30-31.
62 X, Le donne arabe, n. 11, 15 ago. 1912, p. 186-188. Impressioni e giudizi (discutibili) di un italiano da Derna.
63
Paolo Giordani, Sui campi d’Africa. Da Tripoli a Bengasi, n. 9, 15 giu.
1912, p. 140; ripetuto in numeri seguenti.
64
Sofia Bisi Albini, Ama la pace…, n. 15, 15 dic. 1912, p. 316; già in
“Vita femminile italiana”, set. 1912, p. 216, cfr. qui nota 65.
65 M. Bigaran, Mutamenti dell’emancipazionismo alla vigilia della Grande Guerra. I periodici femministi italiani del primo novecento, in “Memoria”, n. 4, 1982, p. 129.
66 Ada Negri, La madre, di cui qui appare la strofa iniziale Non piango, no, gen. 1912, p. 3-5, era stata già pubblicata in “Giornale d’Italia”, 11
dic. 1911. Concordo con la definizione di «falso mito» che ne dà A. Del
Boca, Tripoli bel suol d’amore, cit., p. 146. Sofia Bisi Albini, invece, grande
129
estimatrice di Ada Negri, la pubblicò, come abbiamo visto, anche sull’altra rivista.
67 S.B.A., Le infermiere della Croce Rossa. Un’intervista col Conte Taverna,
feb. 1912, p. 116-118.
68 Abbiamo già detto di questa evoluzione delle posizioni politiche di
Sofia Bisi Albini, un tempo contraria all’espansione coloniale. Dice C.
Papa, Sotto altri cieli, cit., p. 151, che Sofia Bisi Albini, uscita dal Consiglio
nazionale delle donne italiane dopo il Congresso del 1908, si era poi
lasciata convincere dalle ragioni della conquista libica, «anche perché
conscia dell’opportunità offertale dalla guerra di fissare i confini di un
beninteso femminismo e candidarlo così a una qualche forma di riconoscimento nazionale».
69 G. Caprin, Una donna alle trincee, gen. 1912, p. 6-10. L’A. insiste sulla
parentela col grande Cavour, e su una vita tutta dedita alla beneficenza.
L’articolo è tratto da “Il Piccolo”.
70
S.B.A., Le infermiere…, cit., p. 117.
71
Una donna italiana, La pace e le donne italiane, set. 1912, p. 216. C.
Papa, Sotto altri cieli, cit., p. 110, lo intende più benevolmente come «il
decalogo del pacifismo patriottico femminile», indirizzato a beneficio
della grandezza nazionale.
72
Le nostre scuole di Tripoli prima della guerra, da “Corriere delle maestre”, mag. 1912, p. 381-382.
73
Per la biancheria ai soldati, giu. 1912, p. 443.
74
Alma d’Aurora (pseudonimo di Lilia Golfarelli), Per le musulmane,
nella rubrica Voci d’oriente curata dall’A., gen. 1912, p. 35-42. Da confrontare con La donna Turca, sulla toscana “La moda del giorno”, diretta da M.
Serao, una descrizione sommaria e critica, ma unico accenno indiretto alla
guerra di Libia, secondo M.T. Mori, autrice della scheda, in Giornali di
donne in Toscana, cit., vol. II, p. 387.
75 Era generale del resto, in Italia, fra tutti i commentatori, la «incapacità di attribuire alla parte avversa il patriottismo, che invece parte dell’opposizione socialista le riconobbe»: come ha notato, da ultimo, G. Dore, Shara
Shatt: la rivolta libica, la repressione italiana, in Le tre Italie…, cit., p. 671.
76
Notizie. Un viaggio magistrale d’istruzione in Libia, nov. 1912, p. 871.
77
P. Valera, Le giornate di Sciarasciat fotografate, Milano, 1912: le foto-
130
grafie del testo sono riprodotte anche nell’edizione anastatica curata da
R. Rainero, Paolo Valera e l’opposizione democratica all’impresa di Libia,
Roma, 1983.
78 Iniziato il 1° maggio 1908; del 1911 rimane solo un numero di luglio;
del 1912 uno di aprile. Si veda Bibliografia dei periodici femminili lombardi,
cit., e La stampa periodica femminile in Italia, cit, ad nomen.
79
Unione femminile nazionale. 1899-1917, Milano, 1917, p. 19.
80
Su cui si veda almeno A. Buttafuoco, Cronache…, cit., p. 178 sgg.
81
Gemma Zambler, Cinquant’anni di vita della Unione femminile nazionale, Milano, 1948, p. 17.
82
Rimando ancora ad A. Buttafuoco, Cronache…, cit., p. 225.
83
Leggere le voci. Storia di “Lucciola”, rivista manoscritta al femminile, a
cura di P. Azzolini, D. Brunelli, Milano, 2008. La rivista durò dal gennaio
1908 al 1926. Questo libro ne presenta un’ampia selezione.
84 Premetto che la mia conoscenza di questo periodico è limitata a
quanto ne appare nell’antologia sopracitata, che è appunto una scelta dei
fascicoli esistenti. Le intelligenti curatrici, tuttavia hanno prestato attenzione allo spazio dedicato dalle Lucciole alla guerra in genere, e perciò
anche qualche eco della guerra di Libia compare negli scritti ivi raccolti.
85 Chiarezza, La nostra spedizione di berretti, apr. 1912, p. 128 dell’antologia di cui a nota 83.
86
G.P., Primavera italica, ago. 1912, p. 144-145 dell’antologia. L’articolo
era però del luglio precedente.
87
Le osservazioni critiche sono a p. 146.
88
Lo nota anche C. Papa, Sotto altri cieli…, cit., p. 185.
89 P. Azzolini, La rivista Lucciola: una storia, tante storie di donne, in
Leggere le voci, cit., scrive a p. LXXVII: «Fra le Lucciole serpeggiano fermenti di entusiasmo colonialista, qualche microbo di imperialismo. Giulia
cita ruggenti versi di D’Annunzio come cantore della fellonia degli arabi.
Dandy disegna un frontespizio patriottico, graficamente molto abile, con
bandiera sventolante. Lanternino nel settembre 1914 scrive un lungo reportage sulla sua visita alle tombe dei caduti di Sciara-Sciat, con dovizia di
volti arabi, in cui appare la diffidenza di un uomo inferiore, mentre le donne
si scoprono con mosse brusche, lasciando intravvedere un viso bello e un
131
corpo che rivela nella sua esuberanza precoce, la decadenza atavica della razza.
[…] Sakuntala scrive un articolo sui funerali di un caduto e davanti a quelle spoglie lo spirito critico delle Lucciole tace, per rispetto a chi ha sacrificato la vita ad un ideale per quanto discutibile. Ma quando G.P. riferisce
entusiasta la conferenza che Matilde Serao ha tenuto al Filarmonico di
Verona, sulla rinascita della nazione, la nobile missione italiana in Libia,
contro le altre nazioni europee che non approvano l’invasione, tutte le
Lucciole unanimi accusano la Serao di inutile retorica e contestano che la
guerra sia un fine per dimostrare il valore italico, tutt’al più un mezzo».
132
Conclusioni
Alla fine della rassegna, potrei concludere semplicemente
dicendo che la stampa periodica femminile nel suo complesso
– tolte le poche voci decisamente contrarie, come “Fede nuova”
e ancora più esplicitamente “La difesa delle lavoratrici” – costituì un accompagnamento in tono minore della campagna
nazionalistica dei grandi quotidiani (per la quale rimando a
Malgeri1, Maltese2, M. Pincherle3, Del Boca4, Castronovo5, per
citare almeno qualcuno dei più noti studi in materia), ed insieme un panorama della cultura media coltivata e propinata ad
uso delle donne italiane.
Mi pare utile, però, tracciare qualche distinzione. È evidente, per chi abbia seguito la nostra ricerca, che alla guerra nei
periodici femminili non si fece opposizione, se non – ripeto –
sul giornale delle donne socialiste e su quello delle mazziniane
(cap. 6). Nella maggioranza degli altri la guerra venne accettata
e sostenuta, ma in misura e modo differenti. Un gruppo di giornali ne tacquero del tutto o quasi: la guerra venne ignorata
come estranea al tipo di interessi coltivato dalle proprie lettrici,
o perché non interferiva col loro lavoro (di sarte, di ricamatrici,
di levatrici), o perché comunque apparteneva a un ambito
diverso e separato della loro vita. Un altro gruppo, ed è il più
numeroso, ne parlò almeno in modo marginale rispetto all’oggetto principale, moda, buone maniere, lavori donneschi, teatro, eventi mondani, ecc., sentendo di dover prendere posizione
su un tema di importanza nazionale, sebbene lontano dagli
interessi abituali di chi scriveva e leggeva quel periodico; e
133
allora scelse a ‘coprire’ il tema racconti, bozzetti, divagazioni,
poesie, illustrazioni, purché non eccedessero in toni drammatici, ispirassero piuttosto serenità e sentimenti di empatia verso i
combattenti, dando per scontato il fatto che l’Italia stava combattendo una guerra, e che la guerra, quella come ogni altra, era
cosa normale, ovvia, non discutibile. Un terzo gruppo non solo
parlò della guerra in atto, ma ne seguì abbastanza attentamente
le fasi, raccontando a modo suo gli avvenimenti principali,
sempre tuttavia mantenendosi nel solco dell’informazione ufficiale, cioè patriottica, e trasudando retorica nazionale ad ogni
pagina.
Solo congetture, ovviamente, sull’efficacia che poté avere il
discorso di quelle riviste. Come non è quantificabile il numero
di lettrici che venivano raggiunte dalla stampa femminile, così,
anzi maggiormente, è incerta la valutazione dell’effetto che i
discorsi patriottici, largamente profusi in tutti questi periodici,
(come è evidente anche a chi non avesse visto che il presente
lavoro), possono avere prodotto. Non dubbi invece gli scopi di
chi scriveva: coinvolgere emotivamente le lettrici, convincerle
che era dovuto un sostegno morale e politico di tutti, uomini e
donne, alla patria in armi6, che i soldati italiani andavano a
portare la civiltà a un popolo di barbari, ignoranti, incivili. I
soldati italiani erano tutti eroi, tutti valorosi, sia i superstiti che
i caduti, mentre gli arabi, come Sciara Sciat aveva dimostrato,
erano traditori e infidi. Non importa che di loro non si conoscesse nulla di preciso, si ripeteva come ritornello ciò che tutti
dicevano7. Che i libici potessero e dovessero difendersi da un
aggressore straniero non era concepibile, e forse l’insistenza sul
loro status di esseri primitivi (che in certi casi abbiamo visto
diventare insulto e disprezzo) era motivata dal desiderio di
controbattere chi invece aveva visto e narrato il loro coraggio e
l’ardimentoso affrontare la morte contro la superiorità anche
tecnica delle armi italiane: testimonianze che nelle lettere di
alcuni soldati comparvero8, e che potevano circolare, e forse
offuscare la nozione così gelosamente accarezzata di superiori134
tà degli italiani. Rari anche gli spunti di un atteggiamento favorevole alla conciliazione fra italiani e libici, alla pacificazione fra
conquistatori e conquistati9. Certamente nella maggioranza
delle riviste non abbiamo trovato traccia del conclamato pacifismo dell’anima femminile, come inclinazione sentimentale
consona alla natura stessa della donna, estranea alla guerra, che
è affare dell’uomo10. Chi scriveva sui giornali, a buon conto,
cercava di esorcizzarlo e di neutralizzarlo quel pacifismo, riducendolo ai pianti e alle lacrime che le donne erano esortate a
frenare, asciugare, o almeno nascondere dignitosamente.
Insomma, anche le madri dei caduti non dovevano piangere:
imitassero invece le eroine del Risorgimento, e si convincessero
che la patria era da anteporsi a qualunque affetto personale.
Fare grande la patria doveva essere vanto di ogni italiana e
ricompensa di ogni sacrificio, oggetto su cui trasferire ogni
affetto materno. Un dovere indiscutibile, ovvio, naturale, come
appunto è indiscutibile ed ovvia la guerra. Questa e anche quella futura, la Grande Guerra, cui le donne giungeranno preparate proprio dalla guerra di Libia11.
In generale questi compilatori o compilatrici di riviste femminili non si preoccupavano tanto di fornire notizie attendibili,
di dare informazioni corrette e veritiere, ma solo di trattare l’argomento più o meno dignitosamente. Il «travisamento della
verità»12, di cui pure essi o esse furono autori, non era neppure
consapevole o programmato. Era conseguenza del considerare
gli eventi bellici come fatto incontestabile. La guerra non si
discute, si accetta, senza domandarsi se sia evitabile o no, giusta
o ingiusta: questi pensieri neppure sfiorano la mente di chi scrive, e in ogni caso non devono turbare quella di chi legge. In un
certo senso la «rimozione e […] la rilettura dell’esperienza coloniale in termini funzionali a renderla più rispettabile e utile alla
costruzione dell’identità nazionale nel dopoguerra»13 era già
cominciata allora, nella stampa per le donne, come del resto in
quella per gli italiani tutti, insieme alla costruzione di una
immagine degli italiani buoni, che dura tuttora.
135
Le mie osservazioni sull’assoluta indifferenza delle riviste
femminili, eccettuata “La difesa delle lavoratrici”, verso i diritti dei popoli invasi suonano certo ingenue rispetto alla considerazione che «la guerra di Libia non era che un capitolo di storia
dell’espansionismo europeo», e che nonostante le Convenzioni
dell’Aja «i popoli soggetti o destinati al colonialismo erano
esclusi – nel momento della guerra – da ogni diritto internazionale e dal diritto bellico»14. E tuttavia, sebbene a far obiezioni
al progetto imperiale fossero pochi anche a sinistra15, qualcuno
ad indignarsi per quell’ingiustizia esisteva, e quindi riesce
arduo constatare che i diritti dei popoli, già nozione non di
pochi nel Risorgimento, fossero ora divenuti invisibili. Vero è,
d’altra parte, come ha messo in luce Giuseppe Finaldi, che la
cultura del colonialismo in Italia non era un semplice scimmiottare l’imperialismo di Francia o Gran Bretagna, ma era un
aspetto importante e vitale del nostro nation-building project,
una consapevolezza già allora condivisa fra la popolazione,
perché le idee e le notizie circolavano lungo tutta la penisola,
nonostante l’arretratezza innegabile specialmente delle campagne, le comunicazioni ancora difficoltose, la scolarizzazione
non completata16. Sia nella storiografia che nella politica italiana da allora molto è ovviamente cambiato e tanti passi sono
stati fatti per superare la cultura e la pratica del colonialismo.
Basta pensare al trattato italo-libico del 2008, pur con i suoi
risvolti vistosamente strumentali, o ad avvenimenti minori e
tuttavia di grande significato, come l’accordo del 1998 fra Italia
e Libia, sull’istituzione di un comitato scientifico misto per studiare insieme la storia delle due nazioni, o ad iniziative come la
mostra allestita a Brescia nel febbraio 201017. Adesso, cento
anni dopo, tutto è stato sconvolto, nuove aggressioni, violazioni ed offese anche da parte nostra vengono inflitte al popolo
libico. Affatto imprevedibili, ma non facili neppure questa
volta, saranno i rapporti dell’Italia con la Libia del futuro, e
ancora una volta occorrerà pazienza e rispetto della verità per
ricostruire.
136
Note
1
F. Malgeri, La guerra libica (1911-1912), Roma, 1970.
2
P. Maltese, La terra promessa. La guerra italo-turca e la conquista della
Libia, Milano, 1969.
3
M. Pincherle, La preparazione dell’opinione pubblica alla guerra di Libia,
in “Rassegna storica del Risorgimento”, 1969, III.
4 A. Del Boca, Gli italiani in Libia. Tripoli, bel suol d’amore. 1860-1922,
Roma-Bari, 1986, p. 144 sgg.
5 V. Castronovo, Stampa e opinione pubblica nell’Italia liberale, in V.
Castronovo, L. Giachessi Fossati, N. Tranfaglia, La stampa italiana nell’età
liberale, Roma-Bari, 1979, p. 186-187.
6
Logico, quindi, che mai in queste riviste per le donne comparissero
notizie di azioni o parole di opposizione, come i comizi di Maria Goia, di
cui si è detto, o il tentativo di Alma Dolens di parlare, nell’ottobre 1911,
contro l’impresa coloniale a Milano, impedito però dalla polizia: cfr. F.
Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile…, cit., p. 123. Alma
Dolens era lo pseudonimo di Cesita Bonfatti Pasini (1869-1948), che si
impegnò attivamente, nell’Unione femminile nazionale, per il diritto di
voto alle donne, e nell’Unione lombarda, presieduta dal pacifista Teodoro
Moneta, per sostenere l’arbitrato e la pace.
7 «A tutti, dai bambini dell’asilo in su, si diceva la favoletta della civiltà che noi avremmo esportata in Libia, pretesa basata semplicemente sulla
ignoranza e sulla malafede»: A. Del Boca, A un passo dalla forca. Atrocità e
infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed
Fekini, Milano, 2007, p. 20.
8 Cfr. S. Bono, Morire per questi deserti, cit.; D. Franchetti, “Dalla
Cirenaica…”, cit.
9 Li abbiamo visti nel “Capriccio” (cap. 2, nota 57), nel canto per i
bimbi dell’asilo (cap. 5, nota 23), in un bel racconto di G. Deledda nell’antologia di Scaglione (cap. 6, nota 23), e, fugacemente, anche nel religioso
“Gigli e rose” (cap. 4, nota 10), oltre che nel giornale delle donne socialiste
(cap. 6, nota 5).
10 Si veda però la decostruzione dei ruoli tradizionali, per esempio in
B.J. Elshtain, Donne e guerra, Bologna, 1991.
137
11 Diceva Sofia Bisi Albini nella prefazione al diario di Elisa Majer
Rizzioli, Accanto agli eroi. Crociera sulla “Menfi” durante la conquista di Libia,
Milano, 1915: «sappiano le donne italiane con quale spirito di sacrificio e
con quale purezza di cuore devono andare incontro all’opera di assistenza
che le attende».
12 Parole di P. Maltese, La terra promessa, cit., p. 354: «Tutto il sistema
di comunicazioni ufficiali durante la guerra fu improntato al travisamento
della verità». Non è il solo a dirlo, basti pensare a Labanca, Del Boca, S.
Romano ed altri storici.
13 Cito da E. Petricola, A. Tappi, Orientalismi all’italiana, in “Zapruder.
Storie in movimento”, n. 23, 2010, p. 3: il dopoguerra di cui parlano gli
autori è quello dell’Italia repubblicana.
14 N. Labanca, Guerre coloniali e guerre europee. Il problema del nemico, in
Le guerre del Novecento, a cura di G. Gribaudi, Napoli-Roma, 2007, p. 50 e
p. 53-54.
15 Come anche recentemente è stato fatto osservare, per esempio da
C. Brice, Il 1911 in Italia. Convergenze di poteri; frazionamento di rappresentazioni, in “Memoria e ricerca”, n. 34, 2010, p. 57.
16 G.M. Finaldi, Italian National Identity in the Scramble for Africa. Italy’s
African Wars in the Era of Nation-building (1870-1900), Bern, 2009.
17
Di cui è fedele testimonianza il catalogo curato da C. Di Sante e S.
Hasan Sury, L’occupazione italiana della Libia. Violenza e colonialismo 19111943, Centro per l’Archivio nazionale e gli studi storici, Tripoli, 2009.
138
Elenco dei periodici consultati
L’alleanza. Giornale settimanale politico letterario per l’istruzione
sociale e politica della donna, Pavia, poi Pavia-Milano, 19061911. Settimanale poi quindicinale. – Il complemento del
titolo varia. – Cfr. p. 9
L’arte ostetrica. Giornale per i medici e le levatrici. Rivista quindicinale di ostetricia e ginecologia pratica edita dalla Guardia
medica di Milano, Milano, 1887-1957. Quindicinale poi mensile. – Continuazione di: Giornale delle levatrici. Cfr. p. 94
L’azione muliebre. Organo del femminismo cristiano, Milano poi
Milano-Verona, poi varia, 1901-1951. Mensile. – Il complemento del titolo varia. – Cfr. p. 75
Giornale illustrato delle famiglie, Milano, 1865-1915,
Mensile poi quindicinale. – Cfr. p. 15
Il
bazar.
Il
buon cuore.
Il
capriccio.
Giornale settimanale per le famiglie. Organo della
Società amici del bene, Milano, 1901-1917. Settimanale. – Cfr.
p. 78
Giornale illustrato del pubblico italiano, letterario,
umoristico, fantastico, amoroso, Milano, 1909-1927. Settimanale.
– Cfr. p. 51
Il corriere delle maestre. Monitore didattico settimanale illustrato, Milano, 1897-1943. Settimanale. – Cfr. p. 89
Il
corriere delle signore.
Giornale di moda e di letteratura,
Milano, 1897-1922. Settimanale, poi quindicinale, poi mensile. – Titolo e complemento del titolo variano. – Cfr. p. 30
Corriere universale della domenica. Letture, pagina moda, per
ridere, ricami, giuochi ecc. Giornale per le famiglie, Milano,
1903-1913. Settimanale. – Cfr. p. 21
139
La cronaca d’oro, Milano, 1910-1915. Mensile. – Cfr. p. 61
La
cucina moderna illustrata.
Rivista quindicinale di cucina ed
economia domestica, Milano, gen.-dic.1911. Quindicinale. –
Cfr. p. 43
La
difesa delle lavoratrici.
Giornale delle donne socialiste,
Milano, 1912-1925. Quindicinale, poi settimanale poi mensile. – Cfr. p. 101
La
donna. Rivista quindicinale illustrata, Torino, poi Milano,
1905-1968. Quindicinale poi mensile poi bimestrale. – Il
complemento del titolo varia. – Cfr. p. 67
L’eco della moda. Giornale per le signore e signorine, Milano,
1888-1912. Quindicinale. Si fonde poi con Il corriere delle
signore. – Cfr. p. 31
L’eleganza, Milano, 1878-1917. Quindicinale. – Cfr. p. 32
L’emporio della ricamatrice, Periodico speciale d’ogni genere di
ricami e lavori, Milano, 1886-1915. Mensile. – Cfr. p. 28
La fantasia, Milano, 1901-1914. Mensile. – Cfr. p. 28
Fede nuova. Giornale femminile di propaganda mazziniana, politica,
sociale, religiosa, Roma, 1907-1938. Quindicinale poi mensile.
– Cfr. p. 106
Gigli e rose. Periodico mensile per la gioventù femminile, Bergamo,
1910-1919. Mensile. – Cfr. p. 77
Giornale illustrato della biancheria. Per donna, uomo, bambini
e per la casa, Milano, 1904-1914. Mensile. – Cfr. p. 49
La gran moda. Corriere parigino di mode e lavori femminili, Milano,
1887-1915. Quindicinale. – Cfr. p. 22
Lucciola, [caso unico di unico giornale manoscritto ed autogestito da donne], 1908-1926. – Cfr. p. 122
Mamma
e bambino.
Rivista di igiene e di educazione infantile,
140
Milano, 1897-1920. Mensile poi quindicinale poi mensile. –
Il complemento del titolo varia. – Cfr. p. 94
Margherita. Giornale delle signore italiane. Moda e letteratura,
Milano, 1878-1921. La periodicità varia. – Cfr. p. 32
La moda illustrata. Giornale settimanale illustrato per le famiglie,
Milano, 1886-1939. Settimanale poi quindicinale poi settimanale. – Cfr. p. 44
La
Butterick. Metropolitan fashions della casa
The Butterick publishing Co. (Limited) - London e New York
Milano, 1898-1930. Mensile. – Cfr. p. 48
moda universale
Il monitore della moda. Corriere settimanale, Milano, 1869-1915.
Settimanale. – Il complemento del titolo varia. – Cfr. p. 29
La
Rivista mensile illustrata delle mode, Milano, 18641943. Decadale, poi settimanale poi mensile. Il complemento del titolo varia. – Cfr. p. 43
novità.
La ricamatrice novella. Rivista unica al perfezionamento dell’arte
del ricamo ad uso dei collegi, scuole, ricamatrici e famiglie,
Milano, 1895-1941. Quindicinale poi mensile. – Cfr. p. 48
Il
ricamo,
Milano 1899-1943. Settimanale, poi quindicinale poi
mensile. – Cfr. p. 45
Rivista per le signorine, Milano poi Roma, 1894-1913. Quindicinale poi la periodicità varia. – Cfr. p. 115
Rosa d’amore. Giornale settimanale illustrato, letterario, artistico,
mondano, Milano, 1905-1911. Settimanale. – Cfr. p. 50
La stella e l’aurora, Milano, 1893-1915. Settimanale. – Cfr. p. 24
Stille benefiche. Bollettino trimestrale dell’oratorio S. Luigi. Organo
del Comitato delle dame patronesse, Lodi, 1910-1961. Trimestrale.
– Cfr. p. 75
Il trionfo d’amore, Milano, 1897-1936. Settimanale. – Cfr. p. 25
141
Il trionfo della moda, Milano 1899-1915. Settimanale. – Cfr. p. 27
Unione e lavoro. Organo della società di previdenza per le operaie,
Milano 1907-1957. Mensile. Il complemento del titolo varia.
– Cfr. p. 110
Unione femminile
Cfr. p. 121
nazionale,
Milano 1908-1912. Trimestrale. –
Vita femminile italiana, Roma, 1907-1913. Mensile. – Cfr. p. 118
La
voce delle maestre d’asilo.
Periodico settimanale illustrato di
propaganda educativa e di classe, Ancona poi Milano, 19041943. Mensile, poi settimanale. – Il titolo varia. – Cfr. p. 95
Voci amiche. Rivista femminile, poi Rivista mensile di studio e
d’azione, Milano, 1911-1916. Mensile. – Cfr. p. 83
142
APPENDICE ANTOLOGICA
della
dalle collezioni
Biblioteca di storia moderna e contemporanea
“La donna”
20 gennaio 1912
Federazione piemontese del Consiglio nazionale delle donne
italiane
Questa federazione lavora con efficacia, senza sforzo e senza
vanto, seguendo, forte e tenace nelle sue aspirazioni come nella
sua condotta, le proprie vie ben delineate e sicure.
Nell’ottobre, ad una prima adunanza, la presidente sig.ra Giulia Bernocco-Fava Parvis, fedele amica di Donna, teneva, valendosi
dell’ospitalità nostra, nel salotto di Donna, una prima adunanza
nella quale l’egregia signora dava un riassunto sommario del suo
viaggio in Danimarca, Svezia e Norvegia. A Stokholma aveva
avuto luogo dal 6 al 12 settembre un convegno del Consiglio Internazionale delle donne, presieduto da Lady Aberdeen, dove la
signora Bernocco rappresentava la Contessa Gabriella SpallettiRasponi, presidente del Consiglio Nazionale delle donne, nella
sua qualità di Vice-presidente del Consiglio Internazionale.
In quell’occasione anche i consigli danese e norvegese avevano
invitato le delegate di tutte le nazioni al convegno internazionale
di Stokholma a fare una visita ai rispettivi paesi, e a Copenhagen
prima, a Christiania poi furono fatte segno alle più cortesi ed entusiastiche accoglienze. In quell’occasione a Christiania, ad un pranzo offerto dal signor Bütenshon, ex-console generale d’Italia, a
tutte le signore, la Presidente della federazione piemontese fu invitata a ringraziare l’ospite gentile in lingua italiana. E la signora
Bernocco lo fece coll’entusiasmo e colla facondia che potevano
ispirare il luogo, l’occasione e un bellissimo ritratto del Duca degli
Abruzzi donato al valente Console Bütenshon, che ricordava il
principe colto e gagliardo, onore e vanto dell’Italia.
145
La Presidente prometteva alle signore della federazione piemontese una relazione più ampia del suo viaggio, e speriamo che
la gentile signora si ricordi allora di Donna, come già fece per la
sua conferenza sul Canada.
In quella seduta dell’ottobre dava pure il resoconto della Colonia femminile di Salsomaggiore, sorta per iniziativa dalla federazione, a commemorare con un’opera pietosa il cinquantenario
dell’unità italiana.
Il primo esperimento della Colonia riusciva benissimo. Il 2
agosto la Presidente stessa accompagnava la piccola squadra di 10
donne alla cura miracolosa di quelle acque, e dopo 20 giorni di
cura ne tornavano assai migliorate e alcune guarite. Riferiva come
il Municipio riconoscendo l’utilità dell’istituzione l’aveva soccorsa
con L. 1000 e che 4 delle donne, condotte alla cura, appartenevano
a bassi impiegati municipali. Ringraziava la civica amministrazione dell’opportuno aiuto e raccomandava alle signore della federazione un’attiva propaganda in favore all’opera sorta proprio nel
suo seno.
Per ultimo comunicava un invito della sezione torinese della
Dante Alighieri ad aderire ad un ciclo di conferenze che il Consiglio direttivo della Dante aveva promosso a benefizio della
patriottica istituzione. E tutte le signore presenti aderivano riconoscendo ed apprezzando la bella iniziativa, che ci offriva il mezzo
di sentire valenti oratori quali Lucifero, Battelli, Chiappelli, Daneo,
che avrebbero illustrato ognuno una maggior gloria del genio italiano che della fortuna della patria è certo la ragione suprema.
Ma un’altra opera maturava la federazione piemontese, d’accordo col Consiglio, il rispetto nazionale all’onore dell’esercito
italiano e il soccorso alle povere famiglie dei richiamati, combattenti d’Africa.
Una nobilissima lettera della Contessa Spalletti pubblicata sul
“Giornale d’Italia” riportata dalla “Stampa” diceva a Lady Aberdeen lo sdegno delle donne italiane per le menzogne dei giornali
esteri, e specie inglesi e tedeschi, sulle pretese atrocità dei soldati
italiani. In nome della verità e della giustizia la pregava di voler
intromettersi, nella sua qualità di Presidente del Consiglio interna-
146
zionale, perché più esatte e sincere fossero le notizie riguardanti la
guerra italo-turca e fosse riconosciuto e resogli giustizia il valore
dell’esercito italiano.
E mentre i nostri bravi soldati in Tripolitania e Cirenaica tengono alto l’onore nazionale, qui in patria le donne del Consiglio
nazionale faranno il loro dovere verso le famiglie bisognose dei
richiamati sotto le armi. Una sottoscrizione aperta sul “Giornale
d’Italia” a Roma raccogliente le offerte, non soltanto delle federazioni, ma di tutti quelli che comprendono e condividono il nobile
intento del Consiglio nazionale, sottoscrizione che già fruttò più di
L. 65.000, permetterà alle federazioni di dare sussidii alle famiglie
più bisognose.
La federazione piemontese ha la fortuna di avere a Presidente
onoraria S. A. R. la Principessa Laetitia. Essa, la Vedova di un valoroso soldato dell’indipendenza italiana, volle aiutare l’opera della
federazione piemontese. E costituendo un comitato composto di
signore di ufficiali insieme con altre della federazione stessa, pensava nobilmente che l’assistenza morale, la parola consolatrice che
avvicinava la moglie del superiore a quella del soldato dovesse
avere su questa più efficacia e più valore.
L’opera di soccorso si attuò subito. Un dono di Natale pei soldati d’Africa partiva l’8 dicembre per Catania, portando ai nostri
prodi 10 quintali di roba fra indumenti, sigari, sigarette, carta da
lettere, cartoline, pipe, bocchini, ecc.
E dal 6 dicembre alla sede del Comitato provvisorio, via Davide
Bertolotti, 10, si distribuiscono ogni giorno soccorsi. È una processione di povere mogli, madri, padri. E S. A. l’augusta e generosa
Presidente del Comitato provvisorio è là ogni giorno dalle 16,30
alle 18, a dare col 5, col 10 franchi, la parola buona e cara che acquista più valore e dà più conforto perché viene dall’alto.
Quelle povere donne del popolo, madri talvolta di otto, dieci
figli, hanno immancabilmente sul seno la lettera del figlio, la sposa
quella del marito. Oneste lettere scritte a matita, dal campo o
dall’ospedale, rozze e sgrammaticate hanno talvolta un’impronta
di tale grandezza, che verrebbe voglia di baciarle... E le madri, le
mogli, spose giovani rimaste sole dopo pochi mesi dalla nozze,
147
non hanno mai parole di ribellione, mai. «È il loro dovere e Dio ci
aiuterà, dicono» è per la patria! Eroico buon senso e bontà del
popolo italiano, che se talvolta appaiono annebbiati, nei momenti
grandi si rivelano e trionfano in epiche gesta!
Continuano le offerte di denaro e di indumenti alla sede. Il
Comitato dei doni natalizi in generi alimentari volle generosamente dare al Comitato alcune belle cassette di bottiglie di vino, portate dopo la partenza dei doni, e queste serviranno a corroborare
tante povere famiglie nel giorno di Natale. Ché è desiderio dell’augusta Presidente di far fare un Natale giocondo o almeno meno
triste alle famiglie dei richiamati. Un episodio gentile.
Si presenta un giorno alla sede del Comitato una donna non
più giovane, decentemente vestita. «Sono la vedova di un soldato»
disse, «non posso dare denaro, ma dò questo braccialetto d’oro,
sarà per i soldati o per le loro famiglie». Chi di noi non ricorda la
Monna Ghita dell’assedio di Firenze?
Le ottime signore del Comitato vanno a visitare le famiglie
nelle case loro per conoscerne più da vicino i bisogni e soccorrerle,
intanto si escogitano mezzi per raccogliere dalla benevolenza e
dalla carità cittadina nuovi fondi. Di che non è capace un cuor di
donna quando l’idealità della patria e l’amore pel prossimo lo
commuovono?
Così il Consiglio nazionale e per esso le federazioni, che lo
costituiscono, assurgono in questo momento ad una nobilissima
meta rivelando alle donne italiane la bontà, la sincerità, la lealtà
delle loro intenzioni e delle loro opere.
Quando il Generale Caneva mandò un telegramma di ringraziamento alla Contessa Spalletti, pel dono di Natale in indumenti
ai suoi soldati, riconobbe l’alta mente e la nobilissima anima della
Presidente del Consiglio nazionale. La Contessa Gabriella Spalletti
riassunse i desiderii, i voti, le aspirazioni più elevate delle donne
italiane.
Il caldo sole d’Africa baci la fronte gagliarda ai nostri Eroi,
mentre le brezze del mare hanno portato loro le carezze e gli augurii della patria italiana.
L.
148
Fig. 1. Copertina di “La donna”, 20 gennaio 1912.
Collezione della Biblioteca di storia moderna e contemporanea
149
20 marzo 1912
Come siamo andati a Tripoli
Quantunque non sia tra le consuetudini di Donna, di accogliere nelle
sue colonne recensioni di libri che escono dall’ambiente strettamente letterario ed artistico, pure facciamo volentieri un’eccezione per l’opera
poderosa del nostro amico e collaboratore Giuseppe Bevione, il noto giornalista che ha illustrato l’impresa di Tripoli, opera recentemente uscita,
dalla Casa Bocca Editrice, pubblicando ciò che ne pensa un nostro distinto ufficiale di Stato Maggiore.
Come risulta chiaramente dal titolo non si tratta di qualcosa di
nuovo poiché la materia nel complesso è fornita dalla storia nostra
degli ultimi mesi. D’altra parte molti dei capitoli non sono che la
riproduzione riveduta di lettere dall’A., già pubblicate sul periodico
La Stampa.
È pregio notevole della pubblicazione lo stile piano e scorrevole
che cattiva la simpatia e l’attenzione del lettore, anche, e si
potrebbe dire specialmente, di chi quelle lettere abbia già lette sul
periodico citato.
Nella prima parte della pubblicazione avente per sottotitolo
«La speranza» l’A. magistralmente descrive le terre e le razze della
Tripolitania e della Cirenaica, e senza perdere di vista la situazione
politica generale, dimostra la necessità e l’utilità della recente
conquista. Sono capitoli che si leggono attentamente e d’un fiato e
nei quali non si sa se ammirare di più il patriottismo dell’autore o
la sua acutezza di intuizione, e tutto questo senza vani artifici di
retorica. La complicata nova questione coloniale vi è tracciata sotto
i suoi varii aspetti, cosicché sul complesso si ha un quadro felice e
completo di quello che era e di quello che potrà essere la nuova
colonia. Alieno dagli esagerati entusiasmi come dal pessimismo
degli osservatori superficiali, l’A. in questi capitoli offre materia di
meditazione a qualsiasi ramo dell’attività sociale.
Nella seconda parte «La realizzazione» descrive le operazioni
militari alle quali assisté attorno a Tripoli fino al 26 di ottobre ed in
150
seguito a guisa di complemento aggiunge notizie degli sbarchi
avvenuti sulle altre località della Tripolitania e della Cirenaica.
Anche in questa parte egli non ricorre a similitudini immaginose e
stiracchiate ma con forma felice e con sentimento ci trasporta quasi
nell’ambiente e fa vibrare le nostre anime all’unissono con quelle
dei valorosi che laggiù hanno combattuto.
Nel complesso dobbiamo essere grati all’A. di aver riunito in
un libro un lavoro di parecchi mesi e che lo onora sia per il
patriottismo che per le interessanti notizie che ora resta più facile
fissare nella mente perché esposte di seguito e con ben evidente
ordine logico mentre prima, pubblicate ad intervalli su di un
periodico, potevano facilmente sfuggire attraverso l’affannoso
succedersi quotidiano degli avvenimenti.
Cap. A. Ricchetti
Scuola di Guerra – Torino
151
Fig. 2. Copertina di “La donna”, 20 marzo 1912.
Collezione della Biblioteca di storia moderna e contemporanea
152
20 luglio 1912
Dalla perduta casa alla patria
I profughi italiani sono stati ospitati a Venezia nell’antico chiostro di S Cosmo
Siate i benvenuti, fratelli
Fidate in giorni migliori
La madre patria vi apre le braccia
Venezia ricorda e spera
Benedetti siano i vostri sacrifici
Voi che lasciaste ogni cosa diletta, trovate
qui conforto affetto, speranza
Queste parole di saluto gentile dettate da Maria Pezzè Pascolato,
appaiono subito all’occhio di chi entra sotto l’atrio dell’antico convento di S. Cosmo, alla Giudecca, dove il Comitato Veneto per i
soccorsi ai profughi dalle terre ottomane, presieduto dal commendatore Beppe Ravà, ha preparato un asilo conveniente, ampio,
comodo, fresco e pieno d’aria e di sole per i fratelli nostri che tornano; e, come toccano il nostro cuore proteso verso la sventura
degli espulsi, così devono dolcemente quietare la loro anima turbata dalle vicende tumultuose dei giorni e dei mesi di angoscia,
che precedettero la loro drammatica partenza. Partenza che non
dovette essere dolorosa soltanto, perché segnava lo sfacelo dei loro
interessi e della loro vita economica oramai stabilmente fissata; ma
perché li allontanava, d’un tratto, dai luoghi, per quanto divenuti
ostili, ad essi familiari, dove parecchi sono nati e donde non s’erano allontanati mai, dove è la casa, piccola patria che ognuno crea
intorno a sé, nella quale, adunati i membri di una sola famiglia e
aperto il cuore e il labbro alle memorie dei padri venuti d’Italia o
della giovinezza in Italia vissuta, essi si sentivano ancora fedeli
alla loro terra d’origine; ma perché li mandava incontro all’ignoto,
al nuovo, all’inconsueto, sia pure nella patria diletta. Ahi! che per
alcuni di essi, figli di italiani, ma nati in Oriente, si ripeteva all’inverso l’avventura dei loro padri, e ancora essi dovevano lasciare
«ogni cosa diletta più caramente», le vie su cui il passo ha indugia-
153
to ogni giorno e di cui ogni pietra ha un ricordo, gli amici più
affezionati, i servi più fedeli, per tornare in esilio verso la Patria
lontana! E il saluto di amorosa tenerezza, fra il pianto e il sorriso,
accorato e fidente, con cui ritornano alle sue braccia aperte ad
accoglierli, pare voglia riscattare l’altro doloroso saluto dato dai
padri partenti verso la terra straniera, non così triste anche quello,
che insieme al pianto per le cose perdute, non brillasse il sorriso
della speranza verso l’avventuroso avvenire.
È forse l’atavico baldanzoso coraggio ond’erano animati i partenti verso le lontane sorti quello che anima questi uomini, costretti a rifarsi una carriera a metà della vita e anche oltre, questi uomini maturi sulla soglia di un nuovo impiego, mentre intorno una
numerosa famigliuola reclama guadagni non esigui; è quell’antico,
meraviglioso coraggio che sorregge in tacita e fidente aspettazione
le donne e le fanciulle, e sopratutte, quelle che hanno già i capelli
canuti e non sanno dove né quando né come potranno ricominciare a costruire il loro nido disperso?
Più che ad ogni altra fonte, questo meraviglioso coraggio si
alimenta alla viva sorgente dell’amore che qui hanno trovato. I
profughi giunti finora a Venezia sono quasi tutti persone educate,
capaci d’intendere bene e di commuoversi alle premure e alle
affettuose dimostrazioni onde sono fatti segno. Si legge sui loro
volti che la festosa accoglienza della patria, a malgrado dell’incerta e triste condizione in cui si trovano, li esalta e li fa alteri, di
fronte ai giovinetti figli che li circondano, di essere tornati italiani
compiaciuti dalla gentilezza del sangue latino, dalla franca ed
aperta cordialità del cuore italiano.
– Vedete? – sembra che essi dicano tacitamente, col lampeggiare dello sguardo – questa è la nostra patria. Così è la gente di
nostra razza!
Mentre sotto gli archi del chiostro conventuale, gli uomini passeggiano, sostano, giocano a dama o al domino, preoccupati e, più
ancora, annoiati da un ozio che si prolunga a contrasto con il desiderio vivo e l’abitudine di attività che è in ognuno di essi, io guardo le donne, le osservo, parlo con qualcuna che mi viene presentata dalla impareggiabile ed inimitabile Maria Pezzè Pascolato, che
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passa a S. Cosmo quasi tutta la sua preziosa giornata, prodiga del
suo intelletto e del suo cuore alla causa pietosa degli espulsi, e mi
compiaccio della loro forza, e le ammiro nella loro dignitosa serenità di spirito.
L’uomo, di solito, accetta meglio il fatto inevitabile, compiuto,
perché più pronto alle risoluzioni, e, se pure un improvviso e doloroso mutamento che, come in questo caso, scompiglia i suoi interessi e tutti i disegni dell’avvenire, lo attrista, è meno propenso ai
lamenti, meno facile al rimpianto, è più schivo dal manifestare il
suo intimo corruccio; non si perde in vane parole, né in vani sospiri; la donna, invece, non soltanto è, per natura, tradizionalmente
attaccata alla casa e al luogo natìo, è più consuetudinaria e più
soffre dei rapidi mutamenti di vita, ma è essenzialmente più
espansiva dell’uomo, più facile a rivelare esteriormente il proprio
dolore, e, come a vedere esageratamente roseo quando un felice
evento appena si annunzia, così pure a scorgere tutto nero quando
appena il torbido si avvicina.
Ebbene, queste donne italiane, che han preparato in fretta i
bauli, piangendo, guardando col cuore straziato, per l’ultima
volta, la loro casa, il loro giardino, le loro suppellettili, tutto quanto
abbandonavano per non rivedere mai più, ora sono calme, sorridenti al sorriso con cui le loro sorelle d’Italia le accolgono e, come
se avessero ritrovato in noi delle congiunte care, a cui desiderassero unirsi, più che narrare la pena provata, parlano delle nuove
speranze e alcune dicono con eroica squisita gentilezza che hanno
lasciato volentieri la terra natia per la grande patria sconosciuta.
La Patria? Oh certo esse ne devono avere sentite talvolta – specie le più colte – un ardente bisogno. Perché queste donne, che
avevano una casa, forse comoda e bella, una famiglia certo affettuosa e cara, delle sostanze utili e preziose, quando uscivano da
questo cerchio individuale di affetti o di interessi, quando un fatto
collettivo scuoteva l’anima del popolo in mezzo al quale vivevano,
o una delle voci tradizionali della razza si levava più imperiosa e
più forte intorno a loro, si sentivano straniere e chissà quante volte
forse, avranno sognato come una deliziosa avventura di rivedere
il paese lontano della loro giovinezza o della loro infanzia, già
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avvolto nelle nebbie sentimentali del ricordo, o di conoscere finalmente le città e i borghi di cui i loro congiunti narravano con dolcezza nostalgica! Ma la realtà è rude e portandole alla Patria e
risvegliandone in esse l’amore, le ha tolte alla casa.
Raccolte nella temporanea dimora, esse vivono intanto l’ora in
cui le commozioni del recente passato, tutte vibranti di affannosa
inquietudine, si conciliano con le speranze ed i sogni del prossimo
avvenire. L’ora in cui si interroga il destino e si sente che gli sforzi
degli uomini sono vani a fiaccare l’onnipotenza di quella forza
misteriosa che li sospinge nel loro fatale andare a guisa di foglie
turbinanti in balia del vento.
– Signora, crede che mio marito potrà trovare quell’impiego
che desidera? – mi domandava una signora, moglie di un farmacista di Costantinopoli – Mio marito ha cinquant’anni ed è sempre
stato padrone di farmacia. Vorrebbe un impiego governativo, perché, capirà, oramai gli sarebbe troppo doloroso venire sottoposto
agli ordini di un giovine di venticinque o trent’anni...
E, intanto, negli occhi di questa signora, finemente educata, usa
agli agi di una comoda vita, tremava una lacrima trattenuta e infinitamente triste a vedersi.
S’io penso – ella aggiungeva – alle infelicissime donne, che
dovettero dare in omaggio alla patria i congiunti più cari, o li videro tornare alle loro case per sempre mutilati nella persona balda di
giovinezza e di salute, trovo che la mia sventura è ancora lieve e
mi stringo al seno i miei figli, perché questo mi basta.
Simili pensieri passano come grigie ali annunziatrici di tempesta sul capo delle donne non più giovani, memorie care e dolorose
come vólti di morenti, errano sul capo delle donne vecchie, alcune
delle quali non sanno la nostra lingua, perché vissute in città della
Turchia dove non vi sono scuole italiane (o dove non ne erano
negli anni più addietro) o perché, costrette dalle necessità dei loro
interessi, dalle abitudini commerciali, dalla comunanza continua
di vita con gente straniera, a parlare sempre altro linguaggio,
l’hanno dimenticata percorrendo il lungo fiume dei loro anni; o la
intendono appena, ma non la sanno parlare.
Mentre negli occhi di alcune fanciulle – occhi lunghi e neri e
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Fig. 3. Copertina di “La donna”, 20 maggio 1912.
Collezione della Biblioteca di storia moderna e contemporanea
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un po’ meravigliati come di chi ha nelle vene, per lontane parentele, qualche goccia di sangue orientale – io vidi brillare la lieta
speranza, che sempre l’impreveduto reca all’anima aspettante
dei giovani.
Chi non ha sognato, nella sua giovinezza, di spingersi lontano
dalla propria casa e dal proprio paese, per vedere nuove genti e
nuovi luoghi? Chi non ha uno spirito di avventuriero a vent’anni?
L’idea del nuovo è già per sé stessa così seducente, da ripagare
dell’addio dato alla casa, per chi è giovane, ancora quasi senza
memorie, alla terra, dove non lascia tenaci affetti. Così, quando, a
sera, dalle grandi finestre aperte sulla verde freschezza degli orti,
spesseggianti nell’isola della Giudecca e, più lontano, sopra il
vasto azzurreggiare della laguna, queste giovinette espulse dai
paesi dell’Islam guardano la soave natura e sognano, esse vedono,
con trepido cuore tutta la loro vita, la loro vita vera, che qui incomincerà con l’amore, con la casa novella, con i figli, con le gioie
profonde e i profondi dolori... E alla fantasia ventenne tutto ciò
appare sempre seducente, doppiamente vestito di poesia se esse
pensano che qui è la terra dei padri e che il dolce linguaggio che le
isolava dalla gente nel paese straniero, qui è il linguaggio di tutti.
Ma al cuore delle madri, da quella stessa tranquilla natura,
blanditrice delle anime, viene invece l’onda delle memorie, sempre tristi. Laggiù, nella terra divenuta nemica, sul suolo da cui
furono cacciate, esse conobbero l’improvvisa e turbatrice ebbrezza
dell’amore, la trepida e orgogliosa dolcezza materna; di laggiù
torna alla loro memoria il volto di qualcuno che dorme sotto la pia
terra, che non sa di essere turca o italiana. E forse nel loro cuore
profondo, ove soltanto col suo amore e col suo dolore, la donna
grandeggia solitaria su tutte le ambizioni umane, che chiamiamo
talvolta ideali, esse implorano: – O Patria, sii tu benigna ai nostri
figli, perché mai più non riavremo noi, inchinate alla fatale discesa,
la nostra casa! Sii tu benigna a loro, perché noi nel tuo amore li
abbiamo allevati e oggi, che ogni cosa è perduta, tu sola ci resti, tu
sola resti a noi senz’opera, senza terra e senza casa!
Enrica Grasso
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5 ottobre 1912 (numero speciale)
date ali all’Italia
Un appello alle Donne e alle Fanciulle italiane
Verso il finire dell’estate in una di quelle ore indimenticabili di
orgoglio e di vita nazionale in cui l’Italia ha ritrovato tutta la
coscienza di sé nella gara generosa di propositi e di iniziative,
mediante le quali il nostro paese voleva far sentire tutta la sua
solidarietà attorno alla sua bandiera e al suo Governo, è fiorito e si
è schiuso, fiore gentile e aulente, questo bel proposito di bene e di
amore patrio; alcune amiche hanno raccolto l’idea, sorta nell’animo generoso e irrequieto di due delle nostre personalità e delle
nostre glorie femminili letterarie di offrire alla flotta aerea d’Italia,
che prima tra le maggiori sorelle del mondo era chiamata a dare di
sé prova così illustre della guerra d’Africa, un’unità che racchiudesse in sé non solo l’offerta delle donne d’Italia, ma un voto speciale del lor gran cuore di madri, di spose, di sorelle ed amiche.
L’offerta dell’areoplano che il Comitato delle Donne Italiane,
costituitosi in Roma, intendeva offrire all’esercito, si è immediatamente trasformata al suo nascere in un pensiero generoso che
solamente animi femminili potevano sentire e accompagnare ad
un gesto di alto sentimento patrio.
La macchina aerea, che in un momento di ridestato sentimento
bellico doveva essere donata al nostro vittorioso esercito per la
maggior gloria e la maggior forza dell’Italia nostra, non poteva
essere solamente strumento di guerra o solamente simbolo di
forza e di audacia: il bel gesto della mano muliebre che accompagnava quest’offerta doveva lasciare sulla macchina un’impronta
sicura indelebile ed eloquente dei sentimenti di pietà e di soccorso
che sempre in ogni animo di donna si accompagnano ai maggiori
slanci di entusiasmo patriottico, e ben spesso traducono questo in
quelli.
Ecco come e perché l’areoplano, che il Comitato delle Dame
costituitosi a Roma e che ha trovato in ogni città d’Italia pronta e
larga adesione di spiccate personalità muliebri, sorgeva nei propo-
159
siti già nelle prime iniziative come crociato di rosso battezzato col
nome Humanitas, e doveva essere destinato a portare pronta opera
di soccorso ai caduti in guerra per i quali sempre va lenta e non
abbastanza occhiuta l’opera di aiuto e di soccorso medico.
La macchina che le donne d’Italia avevano indicato già esisteva
nella pratica delle cose e il colonnello De Filippi, a cui la marchesa
Clelia Pellicano si era rivolta come presidente di questo Comitato
per avere notizie, scriveva d’incarico del Ministro della guerra il 15
luglio 1912 le seguenti informazioni:
«I dati principali dell’apparecchio sono: Biplano Maurice
Farman; motore Renault 70 HP; superfici portanti m. q. 54; lunghezza m. 13,50: piano superiore m. 15,50, aleroni m. 5, per 0,60;
envergure: piano inferiore m. 11,50, aleroni m. 2,50 per 0,60; larghezza delle ali della cellula principale compreso l’alerone m. 0,50. Peso
in ordine di marcia a vuoto, e compreso il motore kg. 550. Ogni
apparecchio può portare con facilità 400 kg. (compreso il pilota e la
benzina ed olio per 2 ore di volo). Dietro il pilota, e davanti al motore, è disposta una solida cesta avente la capacità di m. c. 0,500, in
cui trova posto la mercanzia, o nella quale possono comodamente
prender posto due persone. Spero tutti questi dati saranno sufficienti a renderle più facile l’opera caritatevole intrapresa con tanto
slancio».
Accolta con entusiasmo e riconoscenza dalle alte autorità ministeriali l’iniziativa delle donne romane ha avuto già nell’ultimo
scorcio dell’estate passata una pronta ed efficace realizzazione e
Donna si compiaceva già nel luglio scorso di accennare nelle sue
colonne i risultati della prima sottoscrizione che avevano raggiunto una somma cospicua di oltre L. 4000.
Ma pur raggiungendo la mèta prefissa occorre ancora un lungo
cammino poiché la somma da incassarsi deve raggiungere le L.
20.000 e il solerte ed operoso Comitato di Roma ha preparato tutto
un programma di riunioni e di iniziative per l’autunno ora incominciato appunto collo scopo di riunire questa somma.
Tra i progetti preparati dal Comitato di Roma vi era quello
della pubblicazione di un numero unico il cui ricavo fosse destinato ad accrescere i proventi della sottoscrizione e allorché il
160
Comitato di Roma partecipava questo suo progetto alla nostra
Rivista, Donna ha creduto dovere suo di dare ad essa la sua
pronta adesione e il suo miglior aiuto incaricandosi, essa stessa
della compilazione e preparazione di questo numero, ben lieta
di poter portare agli scopi generosi che l’iniziativa si propone
tutto il suo appoggio, fiduciosa d’avere con lei l’adesione e il
consenso di tutte le donne italiane.
Spesse volte l’affermazione di un giornale invece di essere la
voce risonante di tutto un pubblico può apparire come una buona
pretensione o una figura rettorica convenzionale, ma in questo
momento Donna pensando alla falange numerosa di tutte le sue
amiche e lettrici sparse per ogni angolo d’Italia e oltre i confini della
patria sente, come forse non ha mai sentito, più sicuramente venire
presso di sé l’eco della simpatia e della solidarietà di tutte quelle
donne e fanciulle in cui batte cuore d’italiana, e con sicura fiducia
afferma che il consenso e il plauso da esse portate all’opera delle
coraggiose e tenaci iniziatrici di questa impresa è condiviso da tutte
le amiche sue che sono con noi nell’augurare il più completo successo a questa bella impresa di femminilità e di italianità.
Così è sorto questo numero unico che per necessità di organizzazione interna ha dovuto fondersi col numero doppio speciale
che Donna prepara al principio di ogni autunno come dono alle
sue lettrici. Ecco perché le nostre abituali amiche ed abbonate sfogliando questo numero speciale troveranno prevalente una nota
che esalta l’ora gloriosa che vive il nostro paese in questo momento e sopra tutto l’impresa generosa a cui Donna ha dato il suo contributo; mentre quelle lettrici che per caso leggeranno questo
numero di Donna e lo acquisteranno appunto col nobile intento di
portare adesione agli scopi generosi del Comitato Romano,
dovranno scusarci se troveranno insieme alla materia che forma
titolo precipuo di questo numero, pagine e rubriche che riguardano la fisionomia speciale della nostra Rivista.
Ma questo incrociarsi di argomenti diversi noi ci auguriamo
possa e debba coincidere ad un unico scopo: condurre all’iniziativa del Comitato Romano l’adesione e l’appoggio di tutte le amiche
di Donna e far conoscere a tutte le signore che acquisteranno que-
161
sto numero per aiutare l’opera del Comitato di Roma questa nostra
Rivista il cui indirizzo è improntato a sensi così alti di affermazione muliebre e nazionale.
Noi invitiamo per tanto tutte le amiche e lettrici ed abbonate di
Donna di voler dare la loro adesione alla sottoscrizione iniziata dal
Comitato Romano e per la quale Donna apre a partire da questo
numero nelle sue pagine una rubrica speciale per accettare le offerte che ad essa saranno mandate e che sarà nostra premura girare
al Comitato di Roma mentre preghiamo tutte le amiche nostre a
volersi adoperare per l’opera di propaganda del Comitato centrale
per la vendita di questo numero unico che sarà ceduto al prezzo di
L. 1 e che troveranno rivolgendosi direttamente alla cassiera del
Comitato, Lungo Tevere Prati, 18, Roma.
Iniziamo intanto questa sottoscrizione e siamo in attesa che
tutte le nostre amiche vogliano farci giungere prontamente la loro
offerta anche a conferma di quella solidarietà a cui Donna ha fatto
appello più sopra.
lista di sottoscrizione
Direzione Donna, 2a off. L. 25
L’Ignota “ 10
La Baronne
“ 10
Jeannette “ 5
Lydia De Liguoro “ 10
Livia Celle “ 5
Cristina Ragazzoni
“ 5
Flora La Valle
“ 5
Lina Audero
“ 5
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Fig. 4. Copertina di “La donna”, 5 ottobre 1912.
Collezione della Biblioteca di storia moderna e contemporanea
163
Il primo camion-ambulanza aereo sarà offerto
dalle donne italiane
L’iniziativa si deve a due elette nostre scrittrici, a due anime
piene d’entusiasmo e di fede, le quali subito dopo che l’Italia
ansante per le vittorie in Libia, desiderò un più vasto dominio nel
cielo, si accordarono perché anche le donne della patria conquistatrice potessero offrire una unità alla flotta dell’aria.
La marchesa Clelia Pellicano e Clarice Tartufari, e ad esse rispose subito un coro d’entusiasmo. La prima offerta, di lire cinquecento, della Pellicano, fu portata all’assemblea generale dell’Associazione «Per la donna» e fu accolta da essa con acclamazioni; immediatamente fu deliberato si costituisse un Comitato per aprire una
sottoscrizione. A questo Comitato esecutivo, aderirono con slancio
le signore:
Astuto signorina Mercedes, Astuto signorina Dolores, Blasi
signorina Maria, Caracciolo D’Aquara duchessa Ottavia, Colocci
Honorati marchesa Cristina, Danieli Camozzi contessa Maria Lisa,
Grassi signora Maria, Lucifero marchesa Elena, Magliocchetti
signora Ida, Martini Ruspoli contessa Laura, Monaldi marchesa
Ada, Pellicano marchesa Clelia, Prunetti signorina Dora, Raimondi signora Anna, Sandesky signorina Teresita, Tonetti signora
Giuseppina, Turin signora Berta, Volpi signorina Angelica, Zenatti
signora Nina che elessero poi a presidente la marchesa Pellicano,
a segretaria la signorina Maria Blasi e cassiera la signora Ida
Magliocchetti.
Intanto ogni classe di cittadini versava quote alle varie liste, e
già, per le somme ingentissime raccolte, la flotta di areoplani da
guerra, s’andava infoltendo. I capitali raccolti dai vari comitati
venivano destinali ad unità di combattimento che avessero diretto
e accelerato una vittoria, che avessero portato nel momento propizio, con il lancio di bombe, lo scompiglio nel campo nemico.
Il Comitato delle Donne Italiane, pensò che ogni vittoria costava alla patria tanti figli dilettissimi; che sui campi di gloria sarebbero caduti feriti; che i più eroici, i più audaci, quelli che si spingerebbero più avanti e con maggior slancio, sarebbero stati forse i più
164
tardi ad essere curati ed assistiti. Pensò che anche il soccorso, la
pietà potessero aver ali e deliberò che la sottoscrizione fosse per il
dono di un areoplano a scopo umanitario.
Una Commissione del Comitato esecutivo si recò al Ministero
della guerra per sapere se fosse stato possibile soddisfare tale desiderio e s’ebbe da S. E. Mirabelli parole di plauso e d’incoraggiamento all’iniziativa e dal colonnello Morris e dal professor Orlando l’assicurazione che si stava costruendo un camion-ambulanza
aereo, capace di trasportare con velocità massima, l’aviatore, un
chirurgo, due infermieri ed oltre 300 kgr. di medicinali e posta.
Così fu iniziata la sottoscrizione: e il primo camion-ambulanza
aereo, dono delle Donne Italiane, che si chiamerà «Humanitas»,
sarà apportatore alla nostra gioventù che combatte e soffre, dei
soccorsi e balsami alle ferite del corpo, del saluto della patria e
delle famiglie lontane, dei nostri messaggi d’affetto, dei nostri voti
e del nostro entusiasmo per gli eroici figli d’Italia.
Oltre al Comitato esecutivo fu subito composto un Comitato
d’onore e la contessa Gabriella Spalletti, il cui nome è sempre fra i
primi ovunque vibra amor di patria, ne assunse la presidenza.
Aderirono le signore:
Sig.re Clementina Annaratone, Roma – Gina Bondi Almagià,
Roma – dott. Valeria Benetti Brunelli, Roma – Giulia Bernocco
Fava-Parvis, Torino – Ada Artom Trevis, Roma – dott. Giulia Bernabei Centanni, Siena – Donna Maria Barzilai, Roma – Dottoressa
Ester Bonomi, Genova – Donna Carlotta Celesia, Roma – Sig.re
Fanny Carpi, Roma – Eva De Vincentis, Roma – Amalia Donati,
Roma – Duchessa C. De Asarta, Roma – Sig.ra Ester Danesi Traversari, Roma – Contessa Maria Jonni, Senigallia – Sig.re Sofia Lanino,
Roma – prof. Margherita Mengarini, Roma – Olga Marotti, Roma
– Fanny Norsa Pisa, Milano – Duchessa Stella Paternò Castello
Bruno, Catania – Marchesa Elisa Pino Lecce, Roma – Contessa
Noemi Piccini Lomiry, Milano – Sig.ra Maria Rocco Berlingeri,
Roma – Donna Marianna Ruggi, Bologna – Donna Alice Ravà,
Roma – Sig.ra Amalia Schiavetti Mezzabotta, Roma – Donna Clarice Tartufari, Roma – Sig.ra Amelia Tonelli, Roma – Marchesa
Zina Tartarini (Rossana), Roma – Contessa Dora Melegari, Roma.
165
Con la più grande alacrità e con la più viva fede si svolse il
lavoro di propaganda. Alle offerte cospicue della marchesa Clelia
Pellicano, di donna Carlotta Celesia, della contessa M. Lisa Danieli, duchessa de Asarta, marchesa Cristina Honorati, baronessa
Amelia Macri Romanazzi, contessa Gabriella Spalletti, signora
Gioia Sinigallia; all’attività instancabile delle signore Fanny Carpi,
Anna Raimondi, contessa Piccini Lomiry, di alcune sezioni dell’Associazione «Per la donna», si deve se in pochi giorni si raccolsero
circa lire 4000. Ora, per la ripresa della vita cittadina, altre benemerite stanno preparando rappresentazioni, conferenze, spettacoli;
tutti a beneficio della sottoscrizione.
Il numero odierno di La Donna dovuto all’ interessamento del
suo direttore cav. Nino G. Caimi, al quale hanno concorso nomi
tanto illustri e cari alla letteratura, all’arte, alla storia della nostra
patria, siamo certe sarà accolto con quel favore che merita
un’opera di cuore nella quale si accumunano tutti gli ideali, tutte
le aspirazioni!
Ida Magliocchetti
A voi che tornate
Ora è un anno, dalle pagine di questa rivista io mandavo il
saluto delle donne italiane ai soldati partenti.
Quante speranze appassionate, ma trepide, nell’ottobre scorso!
L’entusiasmo ci sollevava, eppure un’ansia non confessata, ma
assidua, ci tormentava nel nostro secreto. All’impeto dei primi
giorni avrebbe risposto la tenacia che dà saldezza e compattezza,
che trasfonde all’impulso la forza di una leva? Avrebbe corrisposto
la pazienza, virtù modesta e nonpertanto necessaria al
conseguimento degli alti fini? Avrebbe corrisposto la fede che nelle
ore sfibranti dell’attesa rincuora, nelle ore perigliose dell’azione
sostiene ed incalza, nelle ore del trionfo rende pacati, nelle ore
della disfatta rende sereni e decisi alla riscossa? Gli altri ci
credevano, e purtroppo noi ci credevamo, di una esaltazione
166
pronta a divampare, altrettanto pronta a incenerirsi; gli altri ci
supponevano, e purtroppo noi ci supponevamo, fanciulli per la
instabilità del volere, vecchi per un utilitarismo materiato di
piccole accortezze.
«L’Italia è povera, è inetta, è dilaniata» asserivano i giovani
turchi stambulini. «L’Italia è un corpo che si dissolve per mancanza
di coesione. Al primo squillo di una tromba guerriera il socialismo,
idra dalle molteplici teste, manderà un suo grido e la rivoluzione
imperverserà per le vie cittadine e per le campagne».
Così proclamava il Tanin, nel nome grande di Allah! Così ripeteva la eco a Salonicco, fra i conciliaboli del comitato Unione e
Progresso.
L’Europa ci guardava con sorriso di pietà schernitrice ed
attendeva che i vinti di Adua diventassero i vinti di Tripoli!
Chi pensava questo, dentro o fuori dei nostri confini, non aveva
seguito con occhio vigile, con aperta mente, lo sviluppo robusto
del nostro organismo nazionale; non aveva osservato il rinsaldarsi
del nostro carattere, il rinvigorirsi della nostra coscienza, l’innalzarsi
dei nostri ideali, il fondersi delle nostre tendenze regionali in una
tendenza unica; ricca, perché varia, gonfia di vita, perché
spumeggiante delle singole tendenze di molteplici vite; non aveva
compreso che l’idea socialista era passata sopra la nostra storia
come l’aria di aprile, colma di pollini, passa al di sopra di un
campo dissodato, lasciando cader nel terreno la sementa di una
rinnovata fioritura. Ma i fatti, più eloquenti delle parole, hanno
parlato durante quest’anno di prove acerbe e hanno narrato, con
logica inconfutabile, con tacitiana concisione, con lapidaria
chiarezza, con detti oramai indelebilmente stampati nel libro della
nostra storia, che a Sciara-Sciat i nostri giovani hanno saputo farsi
distruggere anziché retrocedere, che, obbligati a Henni dal
tradimento a dare un passo indietro, hanno saputo subito, con più
vigoroso slancio, buttarsi avanti fino ad Ain-Zara e che, da allora,
nulla ci ha fatto difetto: non la sapiente preparazione logistica, di
suprema importanza in una guerra coloniale; non l’accortezza
tattica, difficile ad attuarsi fra l’intrico delle oasi e la insidia delle
dune; non il coraggio temerario che sfida il pericolo e lo piega;
167
non, virtù fra tutte difficile, il senno dei capi, i quali hanno saputo
aspettare, tetragoni alle rampogne! Non ci ha fatto difetto neppure
il folle ardire, che ha trasfuso alla nostra impresa il soffio vasto di
epopea onde palpitavano, siccome vele sull’ampiezza luminosa
dell’Egeo, i canti eroici degli antichi rapsodi. Non forse l’ardito e
scaltrito laerziade incitò gli equipaggi delle nostre torpediniere al
folle volo per compire la gesta dei Dardanelli?
«Considerate la vostra semenza», forse Ulisse incitò coll’ansito
delle macchine sotto pressione:
«Considerate la vostra semenza, o seme di veneziani, di
genovesi, di pisani, di amalfitani!» E il latin sangue gentile
tumultuò nelle vene dei nostri animosi, i quali andarono incontro
alla morte:
Parea che a danza e non a morte andasse
Ciascun dei nostri, o a splendido convito.
Se non che la morte, placata da tanta audacia e da tanto fiorir
di giovinezza, si scansò, fece largo e non volle sfiorar del suo dito
fatale nemmeno una di quelle balde fronti, circonfuse dall’aureola
di un supremo sacrificio, liberamente accettato.
Adesso cominciano a ritornare i cari giovani, a tornare
definitivamente o per un breve riposo! Ci tornano dal mare e dalle
sabbie, dalle ridotte e dalle trincee; tornano consapevoli di sé e
della forza loro; tornano riconoscenti dell’amore che tutto il popolo
d’Italia ha loro dimostrato, fieri dell’amore da essi dimostrato a
tutto il popolo d’Italia!
«Ben tornati» noi gridiamo, protendendo il cuore e le braccia.
«Ben tornati nelle vostre case, dove la lampada del nostro fervore
ha bruciato per voi notte e giorno in silenzio raccolto e solenne.
Ben tornati nei vostri campi, dove la mano esercitata al fucile,
riprenderà ad esercitarsi negli utensili del lavoro! Ben tornati alle
vostre officine, dove il rombo delle macchine vi riuscirà
d’incitamento alle opere della pace, come il rombo del cannone vi
riusciva d’incitamento alla battaglia! Ben tornati ai vostri studi, o
voi che, leggendo dei legionari romani, leggerete di voi stessi. Ben
tornati tutti, o voi che sapeste comandare, o voi che sapeste
ubbidire !
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E per voi, giovani, che non tornate, che non tornerete mai più,
per voi il nostro saluto più appassionato e reverente. Per voi ha
lacrime ciascuna madre d’Italia come se fosse la vostra madre
vera! Ciascuna donna d’Italia piange sui vostro fato immaturo e
ineluttabile; ma il dolore è severo ed assume austerità per
l’orgoglio di avervi offerti in olocausto ai destini della patria.
Gridando augurii festosi a chi torna, vi portiamo sulla cima del
nostro tenace pensiero, o voi che non tornate, che non tornerete
mai più, giovani eroi caduti, sacri al rimpianto ed al ricordo!
Clarice Tartufari
Quelle che aspettano
Aspettano: si dice che il bianco fiore della pace abbia già pronti i suoi bocci, ma risponde il baleno delle spade alla notizia benigna: il fiore della pace vuol essere, pare, irrorato di molto sangue.
E chi non pensa, chi non ha pensato, teneramente, con una carezza
nel cuore – in questi giorni di nuova ansia, quando il nostro palpito è stato tutto, ancora una volta, per i fratelli lontani in armi – chi
non ha pensato alla lunga, alla tragica attesa delle piccole donne
silenziose che riabbracciarono per pochi giorni i loro cari e sperarono, invano, che le loro braccia protese si richiudessero per sempre a stringere il caro tornato per sempre ?... Sono sacre al silenzio:
non si vedono, non si sanno: eppure noi le sentiamo, le indoviniamo, un po’ dappertutto intorno a noi, immobili nell’atmosfera
della vita, attente, assorte, isolate; ed una commossa dolcezza, un
pietoso senso di solidarietà femminile, c’induce a ricercarne taluna
nell’ombra dove si cela o a tentare d’immaginarle tutte, fantasmi
gentili, sparsi per valli, per monti, per villaggi e per città, catena di
cuori che si tengono l’un altro – ignorandosi – per virtù dello stesso tremore, dello stesso ardore, dello stesso sogno. Quante sono? E
chi ne sa nulla? Si seguono e si continuano. Il loro nome è: coraggio; il loro destino più certo è: oscurità. Sono soldati, anche le
piccole donne che aspettano: combattono senza nome la loro dura
battaglia. Si salveranno, o spariranno, come i loro uomini laggiù:
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brilleranno in un raggio di gloria o ricadranno nel buio: la loro
sorte è così intimamente legata a quella del combattente che mi par
quasi, s’io le penso, di vederne taluna lanciarsi nella mischia folle
e poi cantare nella vittoria, e tal’altra stramazzare colpita, ed altre
ancora, col mento sulla palma, attendere nelle lunghe vigilie sotto
la tenda, teso l’orecchio e pronto lo spirito, mentre sul loro capo le
stelle inquiete sembrano anch’esse vigilare battendo palpebre
d’oro sul grande raggio degli occhi. E non è forse il sogno l’eguale
della realtà? Forse che il desiderio non vale l’azione? Non sono
dunque laggiù, coi loro compagni, le piccole donne silenziose? Ci
sono: e quando è finito il combattimento, s’aggirano ancora come
larve sul campo, e cercano, e trovano, e s’inginocchiano a pregare
ed a piangere. Sono tra le barelle che vanno col loro carico di martirio. Sono nei bivacchi aspri, dopo le fiere giornate, quando il
pericolo sovrasta ancora e la stanchezza fiacca i corpi e il sonno
minaccia da vicino. Sono a intrecciare ghirlande, coi fratelli, per il
biancore delle tombe... Il sogno eguaglia la realtà, il desiderio vale
l’azione. Nessuno potrà togliere loro, domani, questo ricordo:
d’essere state alla guerra. Hanno vissuto una doppia esistenza,
hanno dilatato i confini della vita e della morte.
Ho detto che il loro destino si chiama: oscurità. Ma se balza
dall’animosa falange anonima un eroe, ecco la sua dolce donna
porglisi a lato semplicemente, e non già per arditezza sua propria,
ma per il gesto di grazia che le moltitudini, dal cuore ingenuo,
conoscono. Chi, del cavalleresco popolo d’Italia, ignorò ai tempi di
Agordat il nome di Rosalia Pianavia Vivaldi? È vero: ella era allora
in Eritrea; poté seguire il suo diletto, poté dormire sotto la tenda, e
sentirsi intorno l’agguato, e raccogliere i feriti e confortare i
morenti sui campi ancora insanguinati. Un raggio di luce è per lei,
come una medaglia brilla sul suo petto forte. Ma quante sorelle
avrebbe ella avuto se fosse stato possibile alle donne italiane toccare il suolo di Libia! Bene lo sa l’eroica donna che non vide il
diletto cadere sul campo della gloria, ma l’ebbe a lungo agonizzante, preda del male che non perdona, ed oggi ne scrive così: «Se
vivesse, il mio Generale sarebbe laggiù!», mettendo in quest’alto
grido di rimpianto tutto il suo orgoglio per la memoria di lui, «il
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Generale!». Bene lo sa, Rosalia Pianavia Vivaldi. E certo, s’ella si
cerca una sorella, deve volgersi con fiducioso sorriso alla dolce
figura aspettante di Giulia Fara.
Non a caso, e non perché entrambe a me care, io accomuno
queste due donne, di cui una rappresenta il passato, l’altra il presente, in uno stesso pensiero; le circonda entrambe, per me, un’aureola d’ineffabile poesia: un lungo, un profondo, un esclusivo
amore per il compagno della loro esistenza. «La vita di due che
s’adorano è un paradiso» scriveva ancor ieri Rosalia Pianavia
Vivaldi, sulla cui grande chioma bruna fiocca la neve del tempo:
ed è bello che sia verità, perché parrebbe quasi romanzo, se si scrivessero ancora dei romanzi romantici. E questo afferma con ogni
suo atto, con ogni parola, la più giovine sorella, Giulia Fara. Forse
non si conoscono e le loro vite si rassomigliano tanto! «Sola con
solo», il tenero motto del poeta è il motto del loro destino. «Il
Generale» è la parola della loro adorazione che ha qualche cosa di
virile: nel loro fermo ardore c’è quasi un senso di disciplina. Come
mi piace udire su delicate labbra feminee questo termine soldatesco che dice un riconoscimento d’autorità, una comprensione del
bel valore guerriero, una devozione da milite, una rassegnazione
al pericolo, una certezza di dirittura, di fortezza, di abnegazione
nel compagno prescelto! Non diversamente i vecchi grognards di
Napoleone dovettero dire: «l’Empereur». Ed è bella, questa fede,
nel cuore di una piccola donna. Quando lei, la moglie, l’amata,
dice austeramente: «il Generale», par di vedere passare in campo
aperto tutta la schiera ardita dei bei reggimenti, bandiere in testa,
dietro il galoppo tranquillo che precede e guida alla vittoria. Sono
tutti i soldati d’Italia che io rivedo, in un lampo d’amore, quando
una di queste donne pronunzia con alterezza le parole della sua
credenza: «il Generale».
E così, com’esse, una grande famiglia che sa le stesse devozioni
serene e spesso gioconde. In tempi di pace, nella loro zingaresca
vita dalla facciata brillante e dai molti oscuri laberinti di sacrifizio,
lo spettro della guerra le accompagna sempre, scacciato, negato,
magari deriso. Esse dicono: «Se venisse una guerra», come direbbero «Se il sole più non si levasse». Ma pur sanno che il sole non
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può non levarsi, e che invece la guerra scoppia e divampa quando
l’ora fatidica è scoccata. E passano, dal fatalismo un po’ incredulo,
alla certezza accettata, di un colpo. Non stupiscono, non si lamentano: lo sapevano; dunque il fatto rientra nella logica delle cose
naturali. Ma il cuore, no, non sapeva: il cuore dimentica queste
cose che il cervello sa. E chi dirà l’agghiado terribile, il raccapriccio
di questi cuori risvegliati?
Non c’è che aspettare. Ed aspettano. Sono rimaste nelle case
dove le tengono altri doveri e dove nulla sembra mutato. Sono
andate a vivere nelle città sul mare per essere più vicine, pronte a
imbarcarsi quando giunga insperato, il permesso di partire. Hanno
errato di luogo in luogo come rondini sperdute per fuggire la solitudine intollerabile nelle città straniere e vuote, e qualcuno le ha
avute ospiti, qualcuno ha cercato di trattenerle, ma le incalzava
l’ansia di andare che è il male di chi aspetta. Il nostro pensiero
amico le ricerchi e le accompagni: sono oggi le più degne e dolorose tra noi. La femminilità pura e ardente, umile e gloriosa, rifulge
in esse del suo bel raggio immortale. Inchiniamoci. E valga per
tutte l’augurio che, in nome di tutte, io mando a quella che più mi
è nota, fra le dolorose: a Giulia Fara, forse la sola che non ha ancora, dopo dodici mesi di guerra, riveduto il tanto atteso. Se finalmente ritorni, il più popolare degli eroi di questa nostra guerra, se
una moltitudine festante lo accolga sulla banchina del porto di
Napoli e si rinnovi a seguirlo nella sua corsa verso il natio
Piemonte con alto clamore di evviva, guardi il buon popolo, che è
cavaliere, alla leggiadra imagine feminea ch’io vedo al fianco del
Generale, e, rimirandone il sorriso che si ricorda di tante lagrime
versate, senta il buon popolo – che è poeta – quale anima di dolore
trema ancora in quella gioia immensa. E nella donna del suo eroe
prediletto saluti tutte le aspettanti.
Settembre 1912.
Térésah
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5 dicembre 1912
Pei nostri morti d’Adua
Mentre sui gloriosi campi della Libia un modesto, ma duraturo
ricordo, eretto sui luoghi delle battaglie o nei cimiteri dove
trasportate furono le salme dei gloriosi che morirono per l’avvenire
d’Italia, rende evidente come ufficiali e truppe venerino la
memoria dei compagni che alla patria offrirono la vita, è bene che
il paese sappia come, per opera dei suoi bravi figliuoli e di chi sa
virilmente educarli, dimenticati non siano stati i valorosi che,
sferzati dalla sfortuna e fra disagi e privazioni indicibili seppero in
cruenta battaglia confermare al mondo intero qual bel sangue
scorra nelle vene dei figli d’Italia.
Nel cimitero d’Asmara, la povera e misera croce che per 16 anni
– un po’ troppi invero! – ha segnato al visitatore il campo dove
riposano le salme dei combattenti di Adua che morirono in
quell’ospedale per le ferite riportate nella battaglia, è stata, da
pochi mesi, sostituita, per opera dei Cacciatori d’Africa, con un
semplice e severo monumento.
La pietosa, generosa, simpatica iniziativa è partita da un glorioso reduce di quella gran giornata e delle campagne di Cina, da un
vecchio bravo ufficiale, il capitano cav. Costantino Brighenti.
Incoraggiato dal Comando, egli è riuscito a vincere molte inerzie e
molte difficoltà, ed a dare, a chi ben lo merita, un ricordo degno e
duraturo.
Al bravo ufficiale vada la riconoscenza delle povere madri
ancora piangenti e vada la riconoscenza del paese, il quale plaude
al Comando di quelle valorose truppe perché sa dare vita e corpo
alle iniziative nobili, belle e generose.
Ma se per opera d’un cuore d’un Comando oggi si è riparato ad
una dolorosa omissione, ricordi il Paese che sui campi di Adua
ancor biancheggiano al sole le ossa dei prodi suoi figli!!!...
C. De Rossi
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“Fede nuova”
31 ottobre 1911
A Tripoli a Tripoli!!?
No, noi non siamo contenti che l’Italia vada oggi a Tripoli.
È questa – ci domandiamo – l’Italia di Mazzini, forte all’estero
unita, e libera, civile e ricca per poter recare civiltà, ricchezza e
libertà in altre plaghe?
Noi vediamo intanto che già a braccetto del prete vi stanno
iniziando la triste semenza dell’errore e dell’ipocrisia.
Ci si risponde: – “bisognava aprirci la via del Mediterraneo”.
D’accordo: ma non rinunciando alle nostre terre irredenti, non
lasciando che altri tenti di chiuderci la via dell’Adriatico!
Noi comprendiamo le aspirazioni sincere di alcuni nostri amici
e fratelli di fede per Tripoli; ma è il momento che non ci fa essere
d’accordo con loro.
Noi ci sentiamo italiani, oggi, soltanto italiani, e facciamo i
migliori voti per la fortuna e la serietà del nostro tricolore.
Ma l’avventura non ci soddisfa, il modo con cui la si compie ci
ripugna; e poi...
e poi, il nostro muliebre cervello non ci vede dentro ben chiaro.
***
Evviva invece la Cina, che si dice in lotta per la sua Repubblica!
Dall’Oriente ci venne la civiltà antica e da là forse ci verrà la
novella civiltà, coll’esempio della lotta per la conquista della
libertà.
Che si debba davvero andare a pescare la nostra repubblica in
Cina?
***
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Navigando a Tripoli
Sulle rocche di Tripoli fumanti
Han piantato d’Italia il tricolore
Verso la Libia le ferrate prore
Muovon veloci a furia; avanti... avanti...
Ma dall’Alpe una voce ai naviganti
Tuona: Fermate; non udite in core,
Come un urlo di rabbia e di dolore,
Che vi parla di fremiti e di pianti?
Vola nocchiero a Tripoli latina,
Vola sul mare e l’occhio bieco affissa
Alla preda, alla pugna, alla rapina;
Salpa alle spiagge del Simum infeste,
C’è tempo per lavar l’onta di Lissa,
Posson piangere ancor Trento e Trieste.
Paolo Panerai
30 novembre 1911
Smarrimento e Incoscienza?
“La guerra sviluppa i migliori o i peggiori sentimenti, secondo
la moralità del fine”.
Così appunto, come l’egregio amico Giovanni Miceli comincia
il suo articolo sulla “Ragione” Pervertimento delle coscienze – concludiamo noi in questi giorni il nostro doloroso monologo, leggendo le notizie della guerra tripolina e i commenti e le svariate
opinioni intorno ad essa dei giornali, dei partiti e delle varie loro
individualità.
O noi abbiamo perduto la direttiva della nostra coscienza o altri
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oggi l’ha smarrita in mezzo ai fumi di un patriottismo esagerato e
sbagliato.
Prima d’andare innanzi nell’esposizione del nostro pensiero
dobbiamo premettere che noi in questo momento di Babele politica
siamo così discordi dalle critiche e dalle conclusioni antipatriottiche e antidealistiche di molti socialisti, come dall’entusiasmo ottimista, che sa di barbarie, dei nazionalisti e dei guerraffondai.
Noi siamo donne, noi siamo mazziniane.
Alla scuola del Grande abbiamo appreso che cosa sia la patria,
che cosa voglia dire soldato della patria, quali sono i doveri che una
patria grande e civile ha verso le patrie sorelle, civili o barbare che
siano, destinate a formare la unità della famiglia umana.
E noi sentiamo d’essere nel vero, quando affermiamo che la
patria dev’essere sacra a tutti i suoi figli, e che tutti i suoi figli
devono dare operosità e vita, se occorre, alla sua indipendenza,
integrità, libertà e grandezza civile: e che il dovere di una nazione
civile è quello di recare altrove, dove altre famiglie umane o vivono nel servaggio, o non godono ancora dei doni del progresso –
libertà, ben’essere, istruzione e leggi ispirate alla morale civile.
Ma affermiamo pure che tale missione non è quella che condusse l’Italia a Tripoli.
Sentiamo altresì che il soldato resta sempre cittadino, e che perciò
gli eserciti militari non hanno una morale a parte: ma devono,
quando sono chiamati in azione, essere gli esponenti della morale
cittadina e patria come dovrebbero esserlo a lor volta le scuole, gli
uffici svariati della vita nazionale.
Or noi domandiamo se l’Italia di Giuseppe Mazzini, la Giovane
Italia, la Terza Italia quale il sogno luminoso de’ suoi figli spenti
nelle battaglie per essa, o nelle prigioni o sui patiboli l’aveva voluta
– se l’Italia, sotto la bandiera della Monarchia e del Vaticano compie
in questo momento a Tripoli il suo dovere di nazione civile.
Non lo chiediamo ai socialisti che nella loro discendente parabola, come partito politico, nel fallimento completo del loro programma sociale, hanno creduto di trovare in questa loro opposizione alla presente guerra un sostegno per frenare la loro precipitosa caduta e vi si sono appigliati; essi non si avvedono che la loro
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voce è sempre e più che mai falsa e fuor di proposito: essi si scagliano ancora contro i nostri fratelli dell’esercito, che la ferrea
disciplina ha colà inviati, senza pensare ch’eglino in questo
momento di errore nazionale col loro sacrifizio ed il loro personale
eroismo tengono alto il nome d’Italia.
Noi non vorremmo credere, no, per rispetto a questo sacro
nome, per rispetto al gentil sangue latino, che scorre nelle vene dei
nostri soldati, che questi siansi macchiati degli orrori di cui la
stampa Europea concorde li accusa.
Ma se anche alla onoranda voce di Bolton King – indubbio
amico dell’Italia, mazziniano nell’anima, censore severo dei suoi
connazionali ed amico dei Boeri, quando l’Inghilterra moveva in
guerra contro essi e li opprimeva, dobbiamo con dolore prestar
fede, noi non possiamo tuttavia accettare gli spropositi di certi
socialisti, che vituperano gl’Italiani e chiamano fratelli i turchi.
Ma essi, i socialisti, non sanno che soffocare sconciamente ogni
sentimento idealistico della patria, elevando il principio di classe e
la lotta economica a morale politica.
Noi, se la brutta verità sta contro i nostri soldati, non possiamo
che velarci inorridite la fronte, ed imprecare alla guerra senza sacri
ideali, alla monstruosa guerra di conquiste tanto inopportunamente condotta dalla monarchia in questo momento e con questi
modi, che crea naturalmente rappresaglie scellerate e feroci; che
strappa i figli d’Italia dal cuore delle madri, dalle spose e dai figlioletti per gittarli in braccio alla morte! E mentre ve li spingono in
nome della grandezza della patria, i nostri Mentori sperperano oro
e sangue italiano per disonorarne il nome.
E neppure rivolgiamo la nostra domanda a coloro che in nome
di un nazionalismo, che esagera l’ideale della patria e spesso lo
rende strumento di oppressioni e di barbarie, trova tutto bello e
tutto giustificato quanto oggi si compie dall’Italia regia a Tripoli.
Ma bensì questa nostra parola rivolgiamo a tutti coloro che
amano come noi l’amiamo la patria nostra, e che sentono la missione sua nei destini nuovi dell’umanità, che anelano allo svolgersi del progresso in seno alla pace, e che sentono, come noi sentiamo, che anche la guerra può essere in dati momenti necessaria e
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santa – noi chiediamo loro ancora una volta: – È questa odierna, la
missione dell’Italia di Mazzini?
Sono queste le guerre che Egli invocava necessarie, come santificava il pugnale d’Armodio in certe ore della vita dei popoli e
delle nazioni?
Osate ancor dire che è mazziniana l’azione attuale dell’Italia su
Tripoli?
Siamo donne, siamo mazziniane: e col cuore e col senno delle
madri degne del nome d’Italia: noi vi diciamo: No!
Mazzini voleva che l’Italia fosse una dall’Alpi al mare: e sulle
nostre terre irredenti e sul nostro mare Adriatico spadroneggia tuttora l’imperatore degl’impiccati, il bastonatore delle donne lombarde.
Mazzini voleva che l’Italia repubblicana si ponesse alla testa
delle nazioni latine per recare civiltà: libertà, industria e lavoro ai
popoli oppressi o ancor barbari; e la Monarchia ha condotta l’Italia
alle alleanze cogli oppressori suoi e dei popoli fratelli. E l’ha trascinata con l’imperialismo inumano, appreso dagli alleati, ad opprimere già l’Africa come oggi l’ha condotta a Tripoli.
A Tripoli era nostro dovere e nostro diritto l’andare e antichi
trattati europei ce lo avevano riconosciuto.
E tuttavia tal dovere e tale diritto si lasciò lettera morta dalla
Monarchia italiana anche quando l’Austria – alleata nostra – si
annesse la Bosnia-Erzegovina: chi avrebbe in quel momento potuto contrastarci l’immediata occupazione di Tripoli? Le stesse
potenze europee se ne sarebbero fatte mallevatrici.
Gli è che l’Italia non ebbe mai una politica internazionale
schiettamente italiana.
Anche oggi essa ha voluto andare a Tripoli per vie oblique: a
Tripoli si doveva andare attraverso l’opposizione della Turchia e
dell’Austria e non già trucidando i Tripolini.
L’Italia credeva essersi propiziata la Turchia mettendo a guardia dei nostri mari i soldati italiani perché al popolo Albanese, in
lotta per la sua libertà, non arrivassero né un fucile, né un libero
figlio d’Italia in aiuto; e scacciando dal suolo italiano i profughi
agitatori Albanesi, e mettendo a disposizione della reazione turca,
e degli intrighi diplomatici a costei favore, tutta la prosa denigra-
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toria di una stampa compiacente, senza coscienza!
E dire che anche in primavera l’Italia governo, chiudendo un
occhio, di fronte all’azione Albanese, e risparmiando qualche milione, poteva andare a Tripoli felicemente, mentre l’Italia popolo
accorreva in aiuto degli Albanesi contro il Turco.
Ma la Némesi Albanese ha permesso che provasse – a breve
scadenza – le stesse amarezze a lei inflitte. Oggi tutta la stampa
europea pone in non benigna discussione l’azione italiana nella
Tripolitania, denigra uomini e fatti!
E mentre l’Italia ufficiale, sempre serva degli alleati, già sbalordita del suo ardire anela alla pace, le potenze europee – si direbbe
divertite dal suo vorrei e non vorrei andare contro il turco – la lasciano sola alle prese coi suoi guai!
È con gl’incoscienti figli del deserto che oggi l’Italia vuole ad
ogni costo aver ragione!
Ma essa perderà in quelle aride sabbie milioni e sangue generoso inutilmente fintanto che lascierà indisturbati i giovani e vecchi turchi a sovvertire tenebrosamente contro di lei i figli del
deserto Tripolino.
Quei negri ci ameranno un giorno quando vedranno che l’Italia
non li uccide, non brucia le loro capanne, non devasta le loro terre,
non offende la loro fede ma intende di farli liberi e felici.
Ma questo i Tripolini non sapranno fino a che i Turchi saranno
liberi di suggestionarli contro di noi, fino a che l’Italia invece di
puntare la spada contro questo avanzo di barbarie, che sussiste nel
cuore dell’Europa per ricacciarla nell’Asia sua patria, la rivolgerà
contro il petto dei poveri selvaggi Arabi spauriti e irresponsabili
della loro stessa reazione.
Ebbene no! Le madri, le donne d’Italia seppero e sanno dare la
vita dei loro cari per la grandezza della patria loro: ma in
quest’azione Tripolina nulla oggi vi è di grande se non la ferocia
con cui si versa il sangue arabo e il sangue italiano.
Chi fu a volere tutto questo in Italia?
“Dicono: il Re no, i ministri no; fu il popolo a volerlo!”.
Non è vero! Il popolo assisté, più mesto che entusiasta, alla partenza dei suoi figli per la Tripolitania; ed in Romagna e nel Parmense
180
e nella Maremma Toscana, dove il popolo volle protestare per questa guerra che non sentiva sua, fu preso a fucilate dai soldati del Re.
È così che il Governo tiene conto della volontà nazionale!
Precisamente come nella passata primavera quando l’Italia
popolo volle rendersi solidale colle lotte del popolo Albanese furono processati i cittadini, perseguitati i Comitati pro-Albania, impedita ogni loro azione!
Forse le madri, le donne d’Italia sentirebbero nelle loro lacrime
un palpito d’orgoglio italiano consolatore sapendo che il sangue
sparso dai loro figli, dai loro fratelli ha fiaccato un potere tirannico
quale è quello del Turco in Europa, ha prodotto la rottura della
odiosa Alleanza Austriaca, ha forse ricondotto nel seno della
madre patria Trento e Trieste...
E forse questo hanno pensato molti cuori generosi, vedendo
avviarsi l’Italia monarchica sulle coste Tripoline.
Ma l’Italia monarchica non sa combattere di queste civili battaglie!
L’Italia è vile coi forti, e coi supposti forti: ed oggi, dopo un’aggressione mal riuscita, non sa più quale via tenere.
E non pertanto la via sarebbe ancora bella e luminosa per lei.
Muovere arditamente la guerra al Turco; la guerra a tutta
oltranza, la guerra senza quartiere a questa nefasta tirannia ottomana: basterebbe la vigorosa azione dell’Italia contro di essa della
nostra marina spinta arditamente nell’Egeo perché la storia ne
segnasse il fine.
I popoli Balcanici si agitano compatti in un fremito di rivolta;
l’Albania ne darà ancora la scintilla; e certo, in uno di questi supremi sussulti, di tali forti e generose regioni, il vecchio cuore della
Turchia Europea cesserà finalmente di battere.
L’Italia potrebbe oggi segnarne l’ora decisiva, recarle il colpo
fatale.
Ma l’Italia monarchica non l’osa, non lo farà.
Essa si ubbriaca di glorie sanguinose, di fallaci trionfi, di effimere vittorie riportate sui barbari figli del deserto, del possesso
limitato di una terra, per la quale si discute ancora dall’Europa se
il Turco potrà cedergliela!
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Chi potrà persuadere gli incerti, i trepidanti, i dubbiosi di tutti
i partiti che la guerra di Tripoli, così com’è fatta, e come si svolge,
manca di moralità e di alte finalità e che andrà disseminando nei
cuori, non pensieri generosi ed arditi, ma sentimenti meschini e
perversi?
Chi ricondurrà le coscienze d’Italia, le coscienze sincere e
buone sulla retta via?
Chi potrà dire all’Italia di Mazzini quale è oggi il Dovere che le
incombe?
Chi potrà ricondurre il pensiero d’Italia, fuori da questo pervertimento morale in un campo d’azione, di osservazioni, di aspirazioni degne, grandi civili?
Noi donne ne diamo la voce d’allarme, prevedendo i disastri
materiali e morali che ci si preparano!...
Ai figli generosi d’Italia, ai repubblicani e ai Mazziniani,
l’azione.
Fede Nuova
31 gennaio 1912
Guerra!!
Guerra, Guerra!!
È il grido stolto, belvino, impulsivo dell’umanità in stato di
barbarie più o meno completa.
Ogni Governo tirannico, o semi-tirannico, ricorre a questo
mezzo di salvezza, allorché si avvede che quel buon popolo, noto solo
per pagare tasse, lavorare da servo, e far ombra al sole comincia stancarsi di tali assegnategli funzioni e dimostra velleità di volersi
governare da sé.
La storia c’insegna.
Lasciamo stare gli imperatori ed i patrizi romani, che tenevano
buone le orgogliose plebi di Roma ubbriacandole di gloria recando
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le loro legioni a guerreggiare contro il mondo intero, piantando il
superbo fascio consolare sui più lontani continenti.
Le plebi gonfie della potenza e delle crescienti vittorie di Roma
applaudivano nei circhi, e nei trionfali ritorni i loro vincitori condottieri, e ossequienti alla favola di Menenio Agrippa ridiscendevano l’Aventino! Opimio tiranno trionfava, e i Gracchi Tiberio e
Caio, liberi tribuni di Roma, venivano uccisi a furore di popolo,
mentre nei Fori tentavano di rivendicare i conculcati diritti del
popolo.
Pane e divertimenti!
E gl’Imperatori e i patrizi ne erano larghi alla plebe, tanto assetata di Giostre sanguinose, negli anfiteatri della capitale del mondo.
Ma tutto ciò è antico molto, quanto è recente e contemporaneo
l’esempio della Francia, caduta sotto l’esosa tirannide del piccolo
Napoleone, dopo il sanguinoso tradimento del 2 dicembre 1852.
Il popolo Francese – salvo poche preclare eccezioni – assiste
soddisfatto alle gesta di Napoleone contro la repubblica Romana,
a sostegno del Papa. Recando guerra e dolori ad altri popoli trovava un diversivo alle proprie miserie.
Ma quando nel 1870 quel popolo si riscosse, e il meschino tiranno Buonaparte sentì tremare il suo trono, ricorse ancora alla guerra salvatrice.
Guerra, Guerra! a Berlino, a Berlino!
La favola di Menenio Agrippa trionfava ancora a Parigi dopo
tanti secoli. Il buon popolo ubriacato di speranze gloriose,
dimenticava ancora il proprio vergognoso servaggio per applaudire alle imprese del suo Piccolo Cesare, ed alla onnipotenza delle
armi francesi.
Oggi, in un virile sussulto di risveglio, i vari popoli di Europa
si agitano, e volgono attorno gli sguardi in cui accenna a brillare
forse il ritorno di un pò di lucida ragione.
E i governi febrilmente ammanniscono il diversivo della guerra
per salvare i rispettivi Troni.
A Berlino si prepara la guerra alla Francia, e si lavora a ribadire
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per ciò la Triplice Alleanza, con la compiacentissima Italia.
L’Italia Monarchica cerca di calmare il fremito d’ira del suo
popolo, esaltando l’impresa di Tripoli.
La guerra!
La guerra, col corteggio di tutti i suoi orrori – anche dopo
Cristo, anche dopo Mazzini – si vuole imporre come norma della
vita civile dei popoli.
Ma che è mai dunque pei fautori della guerra la così detta civiltà umana?
Odio, bramosia di vendetta, sete di sangue, voluttà di uccidere.
Uccidere come oggi si fa a Tripoli, usando rappresaglie feroci, e
impiccando sistematicamente, quotidianamente a Bengasi dove la
forca, trasportata da Tripoli, vi è stata eretta in permanenza!!...
È questa dunque la civiltà del XX Secolo?
I futuristi, definiscono, con un recente loro manifesto, la guerra
sola igiene del mondo: e chiedono che la passata Italia domini sulla
parola libertà; inneggiando al governo, divenuto finalmente futurista.
Quando avremo voglia di ridere, scriveremo su queste colonne
anche di costoro, che forse non tutti i nostri lettori conoscono: nei
momenti di transizione morale i fenomeni più sconci sono possibili, come in un corpo in decomposizione i tumori più ripugnanti.
Certo è che bisogna essere moralmente degenerati, o pazzi
come i futuristi, per acclamare alla guerra ed ai suoi orrori.
E pure spesso anche noi inneggiamo alla santa ribellione; anche
Cristo diceva alle turbe, io non sono venuto a portarvi la pace, ma a
mettere la spada fra il padre e il figlio, fra la madre e la figliuola, fra l’oppressore e l’oppresso; e Mazzini, altresì, chiama talvolta Santa la
guerra.
Santa la guerra, quando è combattuta in nome della giustizia e
della libertà conculcate; Santa per esse la rivolta dei popoli contro
i tiranni.
Ma iniqua, ma scellerata, quando non ha in mira che la conquista di provincie e regioni; quando invece di insegnare in Continenti
lontani leggi eque, lavoro, e civiltà di costumi, vi reca l’oppressione, la desolazione, la maledizione e la morte.
Guerra Santa per noi è quella che tratto tratto, combatte la gio-
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vane, generosa Russia, contro la vecchia Santa Russia, scellerata;
Guerra Santa, quella che combattono gli Albanesi, i Macedoni, e
tutti i popoli Balcanici, sostenenti il loro sacro diritto di nazionalità
e di libertà, contro la perfida e feroce Mezzaluna: come guerra
Santa sarebbe stata quella dell’Italia contro tal mostro, annidato
nel seno dell’Europa.
Guerra Santa quella dell’Italia chiedente all’Austria la restituzione delle sue antiche rapine, accorrenti, in aiuto degli schiavi
nostri fratelli.
Ma la guerra di Tripoli è scellerata.
Sopratutto iniqua, perché lascia in pace il vero nemico nostro, e
degli Arabi disgraziati – come tutti i popoli che gemono ancora
sotto il suo tallone – il Turco: e si sfoga in disumane guerriglie
contro gli Affricani.
Or come le madri d’Italia non sorgono a maledire chi manda ad
uccidere e a morire giornalmente i loro figli, a piccoli drappelli; e
poi brama la pace col Turco, e nega l’aiuto doveroso – quanto utile
ad essa – verso le frementi regioni balcaniche mentre vuole imporci ancora la vergogna dell’Alleanza coll’Austria?
Madri d’Italia, voi tacete, nel profondo lutto, e forse maledite
sommessamente.
Ma il vostro singulto è soffocato dalle strofe manierate di poetesse che non compresero forse mai ciò che sia essere mogli, essere
madri; e della prosa dei giornalisti pagati per applaudire.
Madri d’Italia, il popolo vi guarda e si meraviglia del vostro
silenzio!
Voi mandaste un grido d’orrore dopo Abba Garima ed il popolo sorse minaccioso a dire basta!
Gettatelo dunque, oggi ancora, il vostro grido di madri e di
spose orbate dei loro cari, e non per l’onore della patria: forse il
popolo d’Italia lo attende, e dirà basta anche oggi. Sì, è tempo di
gridare basta con gli eccidi di Tripoli, poiché il Turco è a
Costantinopoli, basta con l’Alleanza con l’Austria che sta macchinando, pel prossimo scompiglio balcanico, la nostra totale rovina.
Madri spose, sorelle d’Italia, la parola spetta a voi pure.
Alina Albani Tondi
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30 aprile 1912
La guerra
La guerra – se non ha scopo altamente grande e glorioso di libertà, di giustizia, di civiltà, e quando come unico mezzo solo la ragione delle armi resta ad un popolo ed alle nazioni per raggiungere
questi fini – la guerra è azione anticivile, antiumana e immorale.
Come dovrà definirsi l’azione odierna dell’Italia?
L’Italia non fa la guerra alla tirannide turca – annidata in terre non
sue – compie soltanto delle guerriglie, delle scorrerie, ottiene piccoli
successi che non potranno restare tutti duraturi perché a suo tempo
quando si discuterà la pace forse non avranno in tutto il consenso
dello potenze, e non hanno quindi alcun valore nazionale e morale
tranne quello dell’ammirabile coraggio spiegato dai soldati d’Italia.
La guerra col Turco in nome della giustizia, e del diritto delle genti,
nell’interesse della civiltà e della libertà dei popoli, da esso oppressi,
sarebbe stata la più bella pagina di storia della Terza Italia.
Ma fin qui ripetiamo la guerra colla Turchia non si è fatta.
E se a pace compiuta le povere isole dell’Arcipelago Greco saranno riabbandonate all’oppressore, questi farà loro scontare amaramente la festosa accoglienza fatta ai nostri soldati.
E il generoso popolo Albanese, che ritorna a levarsi in armi contro il suo tiranno, deciso a scuoterne il giogo, ode ancora ripetersi
dall’Italia, facendo eco servile all’Austria ed alla Germania: io sono
pronto a rispettare i diritti del Turco in Europa; approvo lo statu quo
nei Balcani.
O Italia, diletta patria nostra! non è questa no, l’azione che da te
risorta a nazionalità voleva il più grande dei tuoi figli, Giuseppe
Mazzini.
E tuttavia tu potresti ancora, se i tuoi reggitori lo volessero, essere l’ardita e grande arbitra in Europa, in quest’ora: e potrebbe ancora scriversi nella storia il generoso fine di questa guerra: e i popoli,
mercè tua, risorti a indipendenza e libertà, potrebbero benedire il
sacro nome d’Italia e il sangue generoso de figli suoi, versato pel
grande ideale di redenzione e di Civiltà Umana.
Fede nuova
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ISBN: 978-88-96244-33-3
978-88-96244-34-0