Montale, Dylan e la reticenza

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Montale, Dylan e la reticenza
Montale, Dylan e la reticenza
di Alberto Fraccacreta
… ogni rumore è come una ferita.
Anton Čechov, Il giardino dei ciliegi
1. Introduzione: trascendenza dentro il reale
In poesia esiste il ritardo d’essere come forma estetica di una particolare soluzione lirica.
Attraverso precise regole retoriche, il poeta ‘ritarda’ l’oggetto del canto, tacendo l’esperienza di ciò
che pure vuole dichiarare. Se è vero che «il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha
bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica»31, il tacerne l’importanza nel senso di
unidirezionalità dell’ispirazione è un limpido modello di grandezza dell’alterità considerata sino
all’infinito. L’oggetto, non perdendo la piena identità, diviene dunque un relato tangibile e diafano
del Trascendente: «l’Altro metafisico è altro secondo un’alterità che non è formale, secondo
un’alterità che non è semplice rovescio dell’identità, né secondo un’alterità fatta di resistenza al
Medesimo, ma secondo un’alterità anteriore ad ogni iniziativa, ad ogni imperialismo del
Medesimo»32.
Al di là del nostro ‘al di là’ concettuale, dato naturalmente dalla funzione creativa e creatrice
della mente, esiste una trascendenza che si mostra oltre la trascendenza mentale e che è definibile
come ‘secondaria’. Quest’ultima coincide con l’amore implicito, di cui la trascendenza ‘primaria’ è
lo specchio riflesso. «L’amore anteriore non può avere Dio per oggetto, poiché Dio non è presente e
non lo è ancora mai stato. Ha dunque un altro oggetto. [...] L’amore implicito di Dio non può avere
che tre oggetti immediati, i tre soli oggetti, quaggiù, in cui Dio sia realmente, benché segretamente,
presente. Essi sono le cerimonie religiose, la bellezza del mondo e il prossimo» 33. La bellezza del
mondo additata da Simone Weil è legata ad un’idea, un ei3doj: concerne l’aspetto eidetico, la
coscienza intenzionale husserliana: la trascendenza ancora ‘primaria’. È un lì anonimo e inanimato.
In questo senso si può parlare propriamente di oggetto. Il prossimo è invece irriducibile. La forma
psichica di trascendenza si mostra in esubero dinanzi alla presenza di Altri: si schianta contro
un’ostinazione radicale. Il prossimo rifugge il processo di oggettualizzazione, non si comprime in
un ei3doj, esce dal cervello. Non c’è lingua né formula che esaurisca l’inesauribile sorgente da cui è
31
P. CELAN, La verità della poesia, Torino, Einaudi 2008², p. 16.
E. LÉVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, JacaBook, 2010³, pp. 36-37.
33
S. WEIL, Attesa di Dio, Milano, Rusconi 1972, p. 102.
32
37
tratta la sua esistenza. L’esistenza precede l’essenza. Come conoscere, dunque, la realtà del
trascendere data dal prossimo?
Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti.
Montale suggerisce la strada da battere: il cieco sole portato dentro si schianta contro la totalità
per tutti. Ma quest’ultima entra in relazione con un sovrappiù al suo esterno che è infinito.
L’altra trascendenza risiede, allora, nelle cose che pure tentiamo mentalmente di trascendere: è
all’interno di esse, attaccata al sembiante di un Altro che è la sorte. Sorte che abbacina, acceca la
trascendenza ‘primaria’ e la distrugge nell’incontro come auto-evidenza. «L’Altro metafisicamente
desiderato non è ‘altro’ come il pane che mangio, come il paese che abito, come il paesaggio che
contemplo, come, a volte, io stesso posso apparire ai miei occhi: questo ‘io’, questo ‘altro’»34.
L’Altro rompe la totalità e provoca nel Medesimo un vuoto esacerbato. Simone Weil assegna a
questo vuoto il valore di una presenza dai connotati sovrannaturali, perché vigente anche nel divino
che ha scelto di non esercitare il potere:
Come un gas, l’anima tende ad occupare la totalità dello spazio che le è accordato. Un gas che si restringesse e che
lasciasse un vuoto sarebbe contrario alla legge dell’entropia. [...] Non esercitare tutto il potere di cui si dispone, vuol
dire sopportare il vuoto. Ciò è contrario a tutte le leggi della natura: solo la grazia può farlo 35.
Lévinas sostiene che l’alterità si manifesta fenomenologicamente nell’esposizione del volto: «noi
chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me»36. L’idea
dell’Altro in me è la ‘trascendenza mentale’; il volto, al contrario, certifica l’esigenza di un
trascendere reale.
Il monismo assoluto materiale e spirituale di Hegel si traduce in termini di assenza della nozione
di infinito, perché esclude la sorte dell’alterità. La realtà, sostiene Kierkegaard, possiede appunto un
34
E. LÉVINAS, Totalità e Infinito, op. cit., p. 31.
S. WEIL, L’ombra e la grazia, Milano, Bompiani 20115, pp. 22-23.
36
E. LÉVINAS, Totalità e Infinito, op. cit., p. 49.
35
38
doppio piano di trascendenza: un ordine metafisico; un Dio nella storia. A questi aggiungiamo un
terzo che li accomuna: un ordine ‘fisico’ infinito nel finito.
Come si è detto, a una trascendenza ‘mentale’, ‘cerebrale’ è necessario coniugare allora una
‘esterna’ ed ‘irriducibile’ che è noumeno all’interno del reale, descritto dalla presenza dell’Altro
nella manifestazione del volto. A questa esistenza autoevidente si dà il nome di ‘trascendenza dentro
il reale’.
Essa non è una riduzione dell’elemento sovrasensibile entro la prospettiva dell’immanenza. Il
trascendere trascende l’immanente, ma anche lo caratterizza. Meister Eckhart direbbe che «l’occhio,
nel quale io vedo Dio, è lo stesso occhio, da cui Dio mi vede; il mio occhio e l’occhio di Dio, sono
un solo occhio e una sola conoscenza»37.
D’altra parte è lo stesso Montale che precisa teoreticamente il substrato antinomico della
questione:
Il miracolo era per me evidente come la necessità. Immanenza e trascendenza non sono separabili, e farsi uno stato
d’animo della perenne mediazione dei due termini, come propone il moderno storicismo, non risolve il problema o lo
risolve con un ottimismo di parata38.
Il fine e la visione del reale si compie nella trascendenza senza l’opposizione dei mondi. Essi
sono, piuttosto, compenetrati. «Per Montale il mondo metafisico è inferito nel mondo fisico e da lì
indotto: non dunque iscritto nei cieli, ma dentro la cosa»39.
Aggiungiamo: il trascendere è in germe al reale, ma anche dopo il reale, oltre la “fodera del
mondo” di Milošz, in una continuità dialettica, non oppositiva. È come se ci fossero due piani
secanti e sovrapposti.
La presenza di un piano irriducibile, al di là dell’oggetto e al di là dell’essenza, innesca nella
poesia la tecnica di un rinvio ‘necessario’ che si concretizza in una retorica simile: vorrei dire quello
che sto per dire, ma non lo dico perché non posso dirlo, non riesco a dirlo, tuttavia nel non dirlo o
dicendolo inadeguatamente lo sto dicendo.
Questo è un miscuglio dinamitardo di reticenza, allusione, ellissi e preterizione: non l’ha
inventato Montale, ma rientra in un repertorio universale dell’arte, come si vedrà con due canzoni di
Bob Dylan. La lontananza degli ambiti è “tesoro sporgente” della ricchezza poetica nella quale
brancoliamo a prezzo di rimbaldiane illuminations.
37
MEISTER ECKHART, Sermoni tedeschi, Milano, Adelphi 1985, p. 45.
E. MONTALE, Intenzioni (Intervista immaginaria), in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa,
Milano, Mondadori 1996, p. 565.
39
A. GAREFFI, Montale antinomico e metafisico, Firenze, Le Lettere 2014, p. 139.
38
39
Bisognerà platonizzare, avere in mente san Bonaventura, l’amore scala a Dio. L’amore per la creatura che trasmoda
nell’amore per il Creatore donde la creatura amata provenne e dove la creatura amante a sua volta si rende, anch’essa
derivandone, e a questo si ricongiunge insieme alla creatura amata nel giro dell’uroboro del tempo, ricomponendo
l’androgino originario 40.
La finalità peculiare di tale processo risiede nella transvalutazione dell’Altro come siepe
dell’infinito nella sua effettiva personalità. Il luogo rischiarato del Non detto è il passaggio
lévinasiano dall’Io ascoso all’Eccomi: «è l’accusativo che ha il primato, non il nominativo. Io non
sono più io, sono eccomi»41.
2. La reticenza nella tradizione
Questo rinvio ‘necessario’ perché legato, come si è anticipato, alla pratica espressiva del Non
detto, il quale provoca un cortocircuito poetico di notevole rilievo, può essere definito come
reticenza a dire quel che si vuole dire, che è poi l’unica cosa veramente importante da dire.
La reticenza propriamente detta o aposiopesi (dal verbo greco aposiwpa/w ‘mi interrompo,
taccio’) è tradizionalmente «la figura retorica che consiste nell’improvvisa interruzione di un
messaggio con la soppressione di una sua parte o nell’allusione diretta a qualcosa che viene
taciuto»42.
Tra le figure retoriche, assieme all’ellissi, l’aposiopesi, interrompendo il discorso, «impone un
sovrappiù interpretativo (di tipo enfatico) circa le ragioni della sospensione»43. Questa e0poxh/ può
comportare: 1) la brusca interruzione del messaggio e il cambio di argomento; 2) l’allusione a
qualcosa che va sottaciuto o è inesprimibile.
La Retorica a Gaio Erennio dello Pseudo-Cicerone, opera risalente al
I
secolo a. C., prevede
l’aposiopesi e la definisce praecisio (IV, 41) con un esempio che pone in rilievo proprio il calcolato
grado di coscienza retorico-pragmatica:
40
Ibid., p. 190.
G. SCHILLACI, Relazione senza relazione, Acireale, Galatea 1996, p. 295.
42
D. CORNO, Aposiopesi, a cura di Treccani.it l’enciclopedia italiana, 2010,
http://www.treccani.it/enciclopedia/aposiopesi_(Enciclopedia_dell’Italiano)/.
43
Ibid.
41
40
Praecisio est cum, dictis quibusdam, reliquum quod coeptum est dici relinquitur inchoatum, sic: ‘Mihi tecum par
certatio non est ideo quod populus Romanus me – nolo dicere, ne cui forte adrogans videar; te autem saepe ignominia
dignum putauit44.
Fu il retore Quintiliano, nell’Institutio oratoria, a collegare la reticenza a un moto dell’animo
(adfectus), nel senso della collera, della sollecitudine o dello scrupolo (quasi religionis), ampliando
l’impiego della figura anche al passaggio da un argomento all’altro.
Durante il medioevo l’aposiopesi si sviluppa soprattutto in collegamento con l’idea di brevitas,
come artificio per comprimere i discorsi, e in questo senso si avvicina all’allusione e alla
preterizione, il dichiarare cioè che si tacerà qualcosa che poi viene detta.
In Dante si prospetta, attraverso la reticenza allusiva, una nuova e decisiva ‘poetica
dell’inesprimibile’, la quale crea ex novo una conoscenza largamente condivisa che viene taciuta. I
più noti endecasillabi riferiti ad essa sono:
Quel giorno più non vi leggemmo avante (Inf. V, 138);
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno (Inf. XXXIII, 75).
In tali versi cala come un velo grigio sulla narrazione. Sono reticenti ad asserire, per pudore o per
vergogna, un destino od una realtà efferata. Il velo è tuttavia squarciato dall’ammiccamento.
Spesso poi in Dante (ed è qui il suo apporto decisivo) la reticenza è l’unico modo per cantare le
lodi di quanto percepisce e vede45. In questo aspetto c’è una piena consonanza formale con
Montale. Così ai vv. 19-33 del XXX canto del Paradiso:
La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.
Da questo passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo:
ché, come sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.
44
Rhétorique à Herennius, texte ètabli et traduit par G. Achard, Paris, Les Belles Lettres 1989, p. 180. La traduzione è:
«La reticenza è quando, dette alcune cose, il resto del pensiero che si è cominciato si lascia incompiuto, così: ‘Non mi è
data pari contesa con te, perché il popolo romano mi... non voglio dirlo, perché non paia forse a qualcuno troppo
arrogante; te invece ha spesso stimato degno di infamia’».
45
Cfr. F. TATEO, Per dire d’amore. Reimpiego della retorica antica da Dante agli arcadi, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane 1996.
41
Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m’è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l’ultimo suo ciascuno artista.
Quello di Dante è però un addio definitivo alla sua poesia in vista del solcare l’ubiquo, il luogo
pieno di luce al di là dello spazio e del tempo nel quale si dispiega la visione di Dio in un’estatica
‘acronia del lirismo’, mentre Montale, ribaltando i termini nella divinità femminile, conclude il suo
viaggio in Utopia, nel posto che non c’è.
La definizione canonica di aposiopesi, tuttavia, resta ancora quella inerente all’interruzione del
pensiero per far intendere, attraverso poche parole, molto di più di quello che si è inteso sopprimere.
Nel Novecento italiano l’aposiopesi è utilizzata dai poeti più attenti al circuito comunicativo col
lettore. Così Guido Gozzano nei Discorsi46 la adopera come artificio visivo di sovradeterminazione
conoscitiva, come modalizzatore del tempo narrativo testuale interno o per rendere il senso della
conversazione.
Al di là dell’impiego essa rimane, come si vedrà con Dylan, una forma inconscia e intrinseca ai
modi del Dire, i cui connotati precisi risiedono nell’interruzione del pensiero (aspetto materiale) e
nell’inesprimibile dantesco (aspetto spirituale).
3. La reticenza montaliana
Eugenio Montale, in particolare, sembra combinare l’aposiopesi con la preterizione, la litote e
l’epifonema, ad esempio, nella celeberrima chiusa di Non chiederci la parola47. Gli Ossi sono però
permeati dal musicale erotico kierkegaardiano48 che è figura dell’immaginazione letteraria, senza
entrare troppo nel merito della realtà come categoria dell’amore. Lo spirito della sensualità è
espresso mediante la metafora dello sgretolamento che connette l’ideale dell’Eros con Thanatos
(«Sommersa ti vedremo/ nella fumea che il vento/ lacera o addensa, violento» Falsetto). Il tema di
Amore e Morte è simile a quello tassiano: Tancredi può raggiungere il compimento dei suoi desideri
amorosi soltanto nel grembo del sepolcro, dove le ceneri sue e di Clorinda potranno fondersi,
impetrando così il dualismo empedocleo. Così, in un’ottica freudiana, il piacere si pone al servizio
46
G. GOZZANO, Tutte le poesie, Milano, Mondadori 2006.
E. MONTALE, Tutte le poesie, op. cit., p. 29.
48
Cfr. S. KIERKEGAARD, Enten-Eller, I, Milano, Adelphi 1976.
47
42
della morte. Anche in pittura, con Egon Schiele, vi sono due linee demarcanti: l’eterna e impietosa
Passione e il Geworfenheit dell’analitica esistenziale, l’esser gettati nel mondo ostile. Ne La madre
morta l’involucro mortuario racchiude il Sein zum Tode (l’Essere-per-la-morte) del nascituro. Con
Schiele, Kokoschka, Dubuffet e Bacon si può parlare di ‘morte incarnata’.
È nei Mottetti49, tuttavia, che la tecnica del silenzio ‘ammiccante’ cambia rotta e raggiunge la sua
acme: Eusebio ritarda l’apparizione del ‘tu’ fino alla penultima parola dell’ultimo verso, nel quale è
potentemente concentrata tutta la tensione lirica e il significato ultimo del canto. Per Contini «il
sottinteso dell’intera poesia di Montale è una lotta drammatica del poeta con l’oggetto: per trovare,
quasi, una giustificazione al vedere»50.
Ciò che si è detto pare, dunque, eclissarsi di fronte a ciò che non si dirà, senza per questo
conseguirne un principio di Morte:
Il ramarro, se scocca
sotto la grande fersa
dalle stoppie –
la vela, quando fiotta
e s’inabissa al salto
della rocca –
il cannone di mezzodì
più fioco del tuo cuore
e il cronometro se
scatta senza rumore –
..............................................................................
e poi? Luce di lampo
invano può mutarvi in alcunché
di ricco e strano. Altro era il tuo stampo.
Il processo teologico della via negationis, che si sforza di definire l’Altro in ciò che non è, pare
dichiarare che «l’Assente non è accessibile alla rivelazione poetica, sicché come Dante nel
Purgatorio qui Montale è un poeta che esplora i limiti della sua arte e umilmente dichiara che essa
49
50
E. MONTALE, Mottetti, a cura di D. Isella, Milano, Adelphi 20064.
G. CONTINI, Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Milano, Einaudi 2002, p. 11.
43
(come pure la Natura) è incapace di catturare il trascendente»51. Senza dimenticare, come sottolinea
De Caro, che «Montale si solleva al riconoscimento di una cieca cosmologia e alla moralità di una
teodicea negativa (il mondo è male, e del male non possiamo darci spiegazione) che trasforma la
sua alterata percezione della realtà in una metafisica della storia e, in primis, della storia
immediatamente contemporanea nella quale egli è immerso»52.
A livello cerebrale la combinazione poetica di allusione, reticenza e preterizione genera nel lobo
occipitale una scintilla di ritardo (“luce di lampo”), di irriducibilità (“invano”), di cresta dell’infinito
(“alcunché”) rispetto alla posizione soggettuale di chi guarda circospetto. Il pensiero dell’antinomia,
di ciò che va contro il no/moj, la regolarità appianante della logica, si mostra nel tortuoso ripullulare
di negazioni e domande (“e poi?”). Come Hölderlin, poeta liminare, «anche Montale pensa per
antinomie. Parte dal dato effettuale, l’occasione, e attraverso una catena di analogie sale e scende
insieme la scala fino a toccarne i limiti. La sua è una poesia visionaria e metafisica, che si sporge
verso l’oltranza, senza pur conseguirla»53.
Ciò che si dice, che si mette in poesia come una sfilza di additamento “ricco e strano”, non può
dire: il comando dell’alcunché impedisce la formula («Non domandarci la formula che mondi possa
aprirti»). Ciò rende la reticenza ‘antinomica’. Montale si spinge nel regno più alto del Non detto
dispiegando il vessillo della creaturalità.
Vergine madre, figlia del tuo figlio (Par. XXXIII, 1)
Il Non detto è riferito antinomicamente da Dante per l’eccellenza dell’essere che racchiude il
senso e la via della fede. Montale non riesce a dire, perché permane nell’alcunché, e il suo
descrivere si assomma in un cieco e indifferente Altro. Il dominio del Non detto è dominio di Maria
perché Ella è antinomia vivente, espressione del realismo metafisico, essendo creatura tempio dello
Spirito Santo. La sua presenza fisica, agli occhi del Dante credente, è pensiero vivo
dell’impensabile, manifestazione reale dell’extracerebrale. Arsenio si scontra invece con l’uligine
dell’Altro, pur cercando disperatamente di dargli una forma, uno “stampo”. Non vi riesce. Altro è in
alcunché: in nessuna parte, in Utopia. In Clizia non risuona il cembalo dell’Eccomi, me voici.
A ben guardare, è questo un mottetto della ‘conversione’, o meglio: della richiesta di
conversione. La condizione del poeta è terribile: vede lo splendore e anche l’orrore; sa di non poter
nutrire di un amore d’immaginazione («L’amore ha bisogno di realtà. Amare attraverso una
51
E. MONTALE, Mottetti, op. cit., p. 59.
P. DE CARO, Quel giorno «troppo folto» di Montale. Una lettura di “Eastbourne”, Foggia, Koinè Comunicazione
2011, p. 56.
53
A. GAREFFI, Montale antinomico e metafisico, op. cit., pp. 34-35.
52
44
apparenza corporea un essere immaginario: che cosa ci può essere di più atroce, il giorno in cui ci
se ne avveda? Più atroce assai della morte, perché la morte non impedisce all’amato di essere stato.
È la punizione del delitto di aver nutrito l’amore di immaginazione») 54, ma non ha scelta: quello
splendore macchiato è l’unica alba di là dello scetticismo. Clizia è “angelo nero”, “non celestiale né
umano”. È la condizione finale di Ho tanta fede in te, che assomiglia alle ultime parole di Rinaldo
ad Armida (Gerusalemme XX, 134-136).
«Armida, il cor turbato omai tranquilla:
non a gli scherni, al regno io ti riservo;
nemico no, ma tuo campione e servo.
Mira ne gli occhi miei, s’al dir non vuoi
fede prestar, de la mia fede il zelo.
Nel soglio, ove regnàr gli avoli tuoi,
riporti giuro; ed oh piacesse al Cielo
ch’a la tua mente alcun de’ raggi suoi
del paganesmo dissolvesse il velo,
com’io farei che ’n Oriente alcuna
non t’agguagliasse di regal fortuna».
Sí parla e prega, e i preghi bagna e scalda
or di lagrime rare, or di sospiri;
onde sí come suol nevosa falda
dov’arda il sole o tepid’aura spiri,
cosí l’ira che ’n lei parea sí salda
solvesi e restan sol gli altri desiri.
«Ecco l’ancilla tua; d’essa a tuo senno
dispon,» gli disse «e le fia legge il cenno».
Eccomi: il me voici di Lévinas (Isaia 6,8; I Samuele 3,5). L’imitazione della Vergine Maria,
l’essere più alto fra le creature, è la salvezza. Qui difetta anche lo Stilnovo: è Maria il primo gradino
della scala a Dio che San Francesco scorse in una visione, non la donna amata.
Il poeta può amare la sua donna ora solo se convertita. La sua conversione è la necessità ultima
del canto: si nota un’inversione rispetto alla poetica dantesca. La donna ‘reale’, perlustrata nella sua
creaturalità, e dunque in rispetto del suo esserci non immaginativo, non può donare in sé la
salvezza, ma per mezzo e a prezzo della sua conversione. Un prezzo di umanità, perché la sua
natura divina è utopica. Tale prezzo è l’imago della Vergine, come riecheggia sapientemente nelle
parole di Armida nell’ecco l’ancilla tua. Ecco, eccomi: la mia testimonianza, l’attestazione
54
S. WEIL, L’ombra e la grazia, op. cit., p. 115.
45
perpetuata55. Lévinas lo attribuisce alla potenza del volto che rispecchia ora il progetto di Dio. La
conversione è la coincidenza di un vedere non immaginativo, ma reale nella trascendenza. Nella
conversione della sua donna il poeta sbandiera la sospirata verità celata al mondo, e veduta sin
d’allora da lui solo. Ecco, eccomi: di rimando il poeta lo dichiara al suo pubblico: guardate, è questo
ciò che avevo visto in lei. La ragione di chi scrive sta nell’aver visto quel che nessuno ha visto con
il medesimo nitore: l’amore di Dio per la creatura.
Secondo Simone Weil, «il prossimo, gli amici, le cerimonie religiose, la bellezza del creato non
decadono al rango di cose irreali dopo il contatto diretto dell’anima con Dio. Al contrario: soltanto
allora queste cose divengono reali. Prima erano quasi sogni, non esisteva alcuna realtà»56.
La negazione dell’alcunché e dell’Altro presuppone il sole nascente dell’Oriente. Armida,
illuminata dal Cielo che ha squarciato i veli, rischiara la mente ed è nascitura. «Essendo Maria
l’aurora che precede e annuncia il Sole di Giustizia, che è Gesù Cristo, deve essere svelata e
conosciuta, perché lo sia Gesù Cristo»57, suggerisce San Luigi Maria Grignion de Monfort.
Ancora Montale:
Al primo chiaro, quando
subitaneo un rumore
di ferrovia mi parla
di chiusi uomini in corsa
nel traforo del sasso
illuminato a tagli
da cieli ed acque misti;
al primo buio, quando
il bulino che tarla
la scrivanìa rafforza
il suo fervore e il passo
del guardiano s’accosta:
al chiaro e al buio, soste ancora umane
se tu a intrecciarle col tuo refe insisti.
«Il pensiero dominante di Clizia intreccia col suo filo continuo il primo brusco risveglio del
mattino e il primo inquieto approdo alla notte: ‘soste ancora umane’, nel fluire del tempo, solo in
55
E. LÉVINAS, Etica e Infinito, Troina, Città Aperta 2008, p. 102.
S. WEIL, Attesa di Dio, op. cit., p. 167.
57
SAN LUIGI M. GRIGNION DE MONFORT, Trattato della vera devozione a Maria, Camerata Picena, Shalom 1995, p. 77.
56
46
virtù del Suo aiuto»58. Il ‘tu’ cliziesco giace però come una pura presenza soltanto al morire del
Detto. Quando la parola del Medesimo è sul punto di scomparire, appare l’alterità che pure ha
impresso il motivo di ciò che si dice. In Ti libero la fronte dai ghiaccioli Eusebio gioca con
Brandeis (fuoco/ghiaccio) tramite il sole freddoloso. In effetti, l’amore è l’incontro, in senso
presocratico-pitagorico, dei contrari. «L’amicizia è armonia soprannaturale, unione di contrari»59.
L’amore è il luogo nel quale gelo e fuoco sono il Medesimo; una visione integra, come la bolla
del ghiacciolo, si cristallizza in un cerchio rovente. Caldo e freddo sin nelle loro proprietà essenziali
adesso si compenetrano. Il freddo discernimento della pura esistenza e il fuoco della passione
ardente che tale discernimento suscita. Questo non è dunque solo un ossimoro, ma una potente
antinomia perché investe due forme differenti del pensiero. «Le antinomie non sono ossimori: su di
esse si fonda il pensiero, sugli ossimori le canzonette». 60
La reticenza montaliana collima, dunque, con l’espressione formale dell’inesprimibile dantesco;
varca un limite e si ritrae. È l’ultimo gradino della scala wittgensteiniana. «Tutto il senso del libro si
potrebbe riassumere nelle parole: Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può
parlare, si deve tacere»61. Prima di questo limite c’è il sentire nudo, oltre la piena comprensione: è
tuttavia impossibile permanere del tutto nell’una e nell’altra parte. È come se l’attività neuronale
provasse fisicamente ad uscire dal cervello per darsi all’intero Altro dell’esterno in una forma di
empatico fulgore.
«La figura di Irma, o quel che rimane del suo ricordo, viene sottoposta da Montale, sulla traccia
di Dante e Hölderlin, a uno “spostamento” ontoteologico, si ripresenta come evento del sacro e
diventa così l’angelo messaggero di Cristo che assume su di sé il male del mondo e si offre alla
sconfitta, e questo angelo che si chiama Clizia è in realtà concepito come Beatrice, figura portatrice
di Cristo in terra, Cristofora (→ la Beata Cabrini), e dunque per eccellenza figura ubiqua
(dell’occidente e dell’oriente, del nord e del sud) della donazione, della metamorfosi e della
incarnazione»62. Tuttavia, «nel Cristo della morte e della rinascita, nella Cristofora, vibra uno strano
brivido esoterico»63.
Le soste ancora umane canonizzano il limite e l’indicibile; varcando il confine, è varcata la
dimensione umana. Proprio in questo senso l’aposiopesi è figura dell’inesprimibile perché con la
58
E. MONTALE, Mottetti, op. cit., p. 90.
S. WEIL, Attesa di Dio, op. cit., p. 157.
60
A. GAREFFI, Montale antinomico e metafisico, op. cit., p. 36.
61
L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, a cura di A. G. Conte, Torino, Einaudi 1964, p. 3.
62
P. DE CARO, Journey to Irma. Una approssimazione all’ispiratrice americana di Eugenio Montale, (I) Irma, un
‘romanzo, Foggia, De Meo 1999, p. 98.
63
Ibid., p. 99.
59
47
sua attestazione di minorità supera di fatto il linguaggio. La casa dei doganieri è, in quest’ottica, la
prima poesia che si pone sul limite del dicibile, aprendo a una nuova poetica 64.
Montale attesta, pertanto, la difficile esigenza di un infinito con il finito, di una metafisica con la
fisica, di una trascendenza dentro il reale.
4. La reticenza dylaniana
In due canzoni di Bob Dylan risalenti al fecondo periodo di Oh mercy (Columbia Records, 1989,
38’ 46’’), benché attenuato, si ravvisa un processo retorico-narrativo simile. L’aspetto ‘reticente’
pare, tuttavia, maggiormente inglobato nella preterizione, l’affermare, come si è detto, che si tacerà
qualcosa che poi viene prontamente dichiarata.
La valenza interlocutoria dell’inscape (impronta dell’essenza dell’oggetto nel soggetto) e
dell’instress (azione di relazione tra soggetto e oggetto), teorizzata dal gesuita Hopkins 65, chiarisce
la fenomenicità dei sogni apparentemente slegati e indifferenti nella canzone Series of dreams (non
compresa nell’album). C’è come un ponte che lega la mente alle cose e la conduce in un ‘fuori di
mente’. La musica martellante generata dai bassi e dalle percussioni crea quella “repubblica
invisibile” che il critico Greil Marcus attribuiva ad un Dylan time out of mind, al di là del tempo.
L’effetto ‘string’ della tastiera, che subentra nella terza strofa dopo il primo bridge, produce un
suono che sembra andare avanti e ritorna immancabilmente indietro, simile ad una monetina
tintinnante. Si crea dunque una fisica del suono nella quale il passato è presente e il presente è
futuro. La parola del cantante, che viene sballottata in queste possibilità che sì e possibilità che no,
raggiunge il “punto zero” kierkegaardiano dove tutto rimane ancora aperto e disponibile 66.
Il sogno in serie è la traccia da cui si dispiega un rapporto di azioni che determinano un destino
tra il sogno medesimo e colui che lo vive. Tale destino è afferrato nella sua improprietà causale: la
‘serie’ coincide allora con la sincronicità dei nessi acausali sostenuta da Jung67.
I was thinking of a series of dreams
Where nothing comes up to the top.
Everything stays down where it’s wounded
And comes to a permanent stop.
Wasn’t thinking of anything specific,
Like in a dream, when someone wakes up and screams.
64
Cfr. A. GAREFFI, Montale. La casa dei doganieri, Roma, Studium 2000.
Cfr. G. M. HOPKINS, Dalle foglie della sibilla. Poesie e prose, a cura di V. Papetti, Milano, Rizzoli 1992.
66
Cfr. S. KIERKEGAARD, Enten-Eller, I, op. cit.
67
Cfr. C. G. JUNG, L’analisi dei sogni. Gli archetipi dell’inconscio. La sincronicità, Torino, Bollati Boringhieri 2011.
65
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Nothing too very scientific,
Just thinking of a series of dreams.
Thinking of a series of dreams
Where the time and the tempo drag,
And there’s no exit in any direction
‘Cept the one that you can’t see with your eyes.
Wasn’t making any great connections,
Wasn’t falling for any intricate schemes.
Nothing that would pass inspection,
Just thinking of a series of dreams.
Dreams where the umbrella is folded,
And into the path you are hurled,
And the cards are no good that you’re holding
Unless they’re from another world.
In one, the surface was frozen.
In another, I witnessed a crime.
In one, I was running, and in another
All I seemed to be doing was climb.
Wasn’t looking for any special assistance,
Not going to any great extremes.
I’d already gone the distance,
Just thinking of a series of dreams68.
‘Pensavo ad una serie di sogni, nulla di scientifico: pensavo soltanto ad una serie di sogni’. Il
ribadire la non importanza dei sogni in successione nella cesura che precede il ritornello testimonia
un’importanza oltre lo schema razionale, nel quale la connettività dell’evento onirico è legato ad un
‘altro’ extracerebrale. Il sogno è realtà, anzi «Si trema a sentirci così capiti e, alla fine,/ A capire,
come se conoscere diventasse/ La fatalità di vedere le cose troppo bene» 69. La preterizione iniziale
68
B. DYLAN, Bob Dylan. Lyrics 1962-2001, a cura di A. Carrera, Milano, Feltrinelli 2006, pp. 1022-1023, trad.:
«Pensavo a una serie di sogni/ dove niente emerge in superficie,/ ogni cosa sta giù dove è ferita,/ e giunge a fermarsi del
tutto./ Non pensavo a niente di specifico,/ come in un sogno, quando uno si sveglia e dà un grido,/ neanche niente di
troppo scientifico,/ pensavo solo a una serie di sogni.// Pensavo a una serie di sogni,/ dove volano il tempo e il ritmo,/ e
non c’è uscita in nessuna direzione,/ tranne quella che con gli occhi non si vede./ Non facevo chissà quale connessione,/
non mi buttavo in una rete d’intrighi,/ mica niente che dovesse passare un’ispezione,/ pensavo solo a una serie di
sogni.// Sogni dove l’ombrello sta chiuso,/ dove vieni scagliato per strada,/ e sono inutili le carte che hai in mano/ a
meno che non siano di un altro mondo.// In uno bruciavano numeri,/ in un altro assistevo a un delitto./ In uno correvo, e
in un altro/ non facevo altro che salire./ Non chiedevo speciale assistenza,/ non mi spingevo su limiti estremi,/ la strada
da fare l’avevo già fatta,/ pensavo solo a una serie di sogni».
69
W. STEVENS, Aurore d’autunno, a cura di N. Fusini, Milano, Adelphi 2014, p. 159.
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(“nothing”, “everything”, anything”), rafforzata dal dissimulatorio “just”, si scontra nel bridge con
una poetica dell’inesprimibile che tenta, nell’inquietudine della rottura temporale (“umbrella is
folded”, “into the path you are hurled”), di uscire dallo spaziotempo e scorgere l’another (“unless
they’re from another world”).
Anche in questo caso agisce principalmente una nozione di ritardo connessa col lobo occipitale,
che scatena la memoria del Dire e ad apre ad un lirismo ‘acronico’.
Sincronicità significa allora anzitutto la simultaneità di un certo stato psichico con uno o più eventi esterni che
paiono paralleli significativi della condizione momentaneamente soggettiva e – in certi casi – anche viceversa. […] Il
fenomeno della sincronicità è quindi la risultante di due fattori: 1) un’immagine inconscia si presenta direttamente
(letteralmente) o indirettamente (simboleggiata o accennata) alla coscienza come sogno, idea improvvisa o
presentimento; 2) un dato di fatto obiettivo coincide con questo contenuto70.
Ecco, dunque, che la trascendenza chiamata in causa dal processo creativo del cervello,
irrompendo nel reale, interrompe la propria dimostrazione. Il contenuto si staglia nell’al di fuori
inespresso.
In Most of the time, canzone angolare dell’album, il processo è simile. Tuttavia alla reticenza e
alla preterizione è associata anche l’ironia, ovvero il dichiarare l’insostenibilità di ciò che si simula
di sostenere. Questa è forse la forma più accentuata della dissimulazione.
Most of the time I’m clear focused all around
Most of the time I can keep both feet on the ground
I can follow the path, I can read the signs
Stay right with it when the road unwinds
I can handle whatever I strumble upon
I don’t even notice she’s gone
Most of the time
Most of the time it’s well understood
Most of the time I wouldn’t change it if I could
I can make it all match up, I can hold my own
I can deal with the situation right down to the bone
I can survive, I can endure
And I don’t even think about her
Most of the time
70
C. G. JUNG, L’analisi dei sogni. Gli archetipi dell’inconscio. La sincronicità, op. cit., pp. 205-211.
50
[...]
Most of the time I’m halfway content
Most of the time I know exactly where it went
I don’t cheat on myself, I don’t run and hide
Hide from the feelings that are buried inside
I don’t compromise and I don’t pretend
I don’t even care if I ever see her again
Most of the time71
Anche qui è presente una via negationis. «Il problema era che i versi non mi lasciavano entrare lì
dove avrei voluto stare. [...] Sembrava avesse più a che fare con il tempo che con me. Mi sembrava
che un suono di orologio, magari il Big Ben, avrebbe dovuto risuonare a vari livelli nel corso del
pezzo»72.
Il cantautore, attraverso la moltiplicazione dei “can” e dei “don’t”, schiude uno spazio in cui la
possibilità e la negazione sono sovrane nella logica apofatica che dichiara il simbolo quando non è.
Il conseguimento del non essere del tu sfuma non appena si asserisce che è esso tale per “la maggior
parte del tempo”. Sono dunque le minoranze a schiacciare la maggioranza nel potente diktat della
dichiarazione ribaltante.
Il frammento di un tempo senza tu è l’ammissione di un tempo senza tempo, tempo o istante in
cui l’amore si ingrandisce, per dirla con Ted Hughes, “quarantanove volte” e si trasforma in
a(ga/ph, «amore discendente»73, nel quale il desiderio si fonde con l’eternità. «Se si discende in se
stessi si trova che si possiede esattamente quel che si desidera. [...] La sofferenza, il vuoto sono, in
casi simili, il modo di esistenza degli oggetti del desiderio. Scostato il velo di irrealtà, si vedrà che
essi ci sono offerti così. Quando lo si capisce, si soffre ancora; ma si è felici»74.
5. Gomitolo di concause
71
B. DYLAN, Bob Dylan. Lyrics 1962-2001, op. cit., pp. 1006-1009, trad.: «Il più delle volte metto bene a fuoco tutto
quanto ho intorno,/ il più delle volte so stare coi piedi per terra./ Non sbaglio il percorso, so leggere i cartelli,/ tengo
bene la strada anche in mezzo alle curve,/ affronto bene tutto quello in cui inciampo,/ nemmeno mi accorgo che lei se
n’è andata,/ il più delle volte.// Il più delle volte non c’è bisogno di dirlo,/ il più delle volte non cambierei niente
neanche se potessi./ Riesco a quadrare tutto, so fare i miei affari,/ prendo in mano l’intera situazione,/ sopravvivo,
resisto,/ e non penso neanche a lei,/ il più delle volte.// [...] Il più delle volte per metà sono contento,/ il più delle volte
com’è andata lo so perfettamente./ Non tradisco me stesso, non corro a nascondermi,/ a nascondermi dai sentimenti
sepolti dentro di me./ Non scendo a compromessi, non faccio finta,/ proprio non mi importa se non la rivedrò,/ il più
delle volte».
72
B. DYLAN, Chronicles. Volume I, a cura di A. Carrera, Milano, Feltrinelli 2005, p. 167.
73
BENEDETTO XVI, Deus caritas est. Enciclica, Roma, Libreria Editrice Vaticana 2006, p. 7.
74
S. WEIL, Attesa di Dio, op. cit., p. 43.
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La differenza sostanziale tra la poetica di Dylan e quella di Eusebio, se è lecito fare un confronto
impari, è che la reticenza di quest’ultimo funziona come sostanziale ritardo d’essere: non si può
cogliere l’impalpabile, ma l’impalpabile esiste. Clizia è altra rispetto alla materia. Il ritardo
dylaniano è ironico in senso socratico, una specie di dissimulazione dichiarata: la maggior parte del
tempo non penso a lei, la maggior parte del tempo; esiste dunque un momento in cui ci pensa;
oppure: sto pensando ad una serie di sogni, nulla di che, sto solo pensando ad una serie di sogni:
nulla di che, però ci pensa.
La consonanza invece risiede nello squarcio della categoria temporale, nel tentativo di esodo da
un tempo psicologico che è l’unico davvero esistente. Il chiaro e il buio montaliano sono visti in
chiave del divenire dell’Universo e sono intrecciati dai fili invisibili dell’iddia, quando il poeta
permane in una sosta ancora umana, sul limite del trasumanare. La reticenza trasmuta dunque nella
forma numinosa, il necessary angel di Stevens («Io sono l’angelo della realtà,/ intravisto un istante
sulla soglia. [...] Sì, sono l’angelo necessario della terra,/ Poiché chi vede me vede di nuovo// La
terra, libera del duro giogo della mente») 75, che è simbolo-carne in uno spazio di ‘acronia del
lirismo’ tipico dell’arte in tutte le sue forme più disparate. Montale e Dylan sono dunque legati da
un’esigenza artistica intrinseca all’arte.
Secondo le neuroscienze, l’arte potrebbe essere un’estensione delle funzioni cerebrali. Zeki 76, in
particolare, descrive perfettamente la ‘trascendenza primaria’ (estrarre informazioni sugli aspetti
essenziali), ma nega la ‘secondaria’. In un’estensione non c’è possibilità di ‘acronia del lirismo’,
surélévation, estasi.
Questa ‘acronia’ del lirismo, legata evidentemente alla parte superiore del lobo temporale, è
l’esperienza di sospensione che il cervello percepisce fuori di sé, in una determinazione estatica di
complementarità con l’esterno, la quale pende mortalmente, come la spada di Damocle, sui sensi
dell’autore e del fruitore che empaticamente ne comprende l’impulso. Il tempo ‘presentato’ è
appunto time out of mind, un break al di fuori della mente che offre, nell’istituto eluso della
temporalità, un riguardo di trascendenza ‘secondaria’.
Tale intervallo transitorio, di cui la reticenza è la chiave espressiva, assume su di sé «una
immagine dell’eternità; ma è anche un surrogato dell’eternità»77. L’Ersatz impone di «uscire dalla
75
W. STEVENS, Aurore d’autunno, op. cit., p. 239.
Cfr. S. ZEKI, La visione dall’interno. Arte e cervello, Torino, Bollati Boringhieri 20072, p. 17: «Insomma – questa la
mia poco ortodossa tesi – gli artisti sono in un certo senso neurologi che, con tecniche loro specifiche e senza esserne
consapevoli, studiano il cervello e la sua organizzazione».
77
S. WEIL, L’ombra e la grazia, op. cit., p. 39.
76
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caverna», sì da raggiungere un distacco della presenzialità che «consiste nel non orientarsi più verso
l’avvenire»78.
La reticenza diviene essa stessa poesia, alterità, trascendenza: «e se il “tu” di Montale fosse la
poesia?»79.
78
79
Ibid., p. 41.
A. GAREFFI, Montale antinomico e metafisico, op. cit., p. 2.
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