OMELIA ALLA MESSA A CONCLUSIONE DEL

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OMELIA ALLA MESSA A CONCLUSIONE DEL
OMELIA ALLA MESSA A CONCLUSIONE DEL PELLEGRINAGGIO
Mentre ascoltavamo le letture della Parola di Dio, guardavo i settori della nostra
assemblea liturgica. E pensavo che essa illustra al vivo l’immagine più ricca, più varia,
più multiforme, e anche più colorata, della nostra Chiesa diocesana di Novara. Ci siamo
proprio tutti. Avete visto i bambini, le persone ammalate, che sono in realtà sempre in
posizione principale, i pellegrini, i medici, tanti giovani che hanno scelto di fare un
pezzetto della loro estate qui, molte persone che sono venute a cercare se stessi a
Lourdes, anche un gruppetto discreto e partecipe di sacerdoti.
Credo che stiamo facendo esperienza di che cosa sia la Chiesa: per dire Gesù è
necessario che ci sia la ricchezza dei volti. Non basta uno solo a dire Gesù e a dare Gesù,
ma è necessario che questa ricchezza dei volti cammini insieme, viva anche insieme.
Guidati dalla mano materna della Madonna in questi giorni, credo che abbiamo sentito
il Signore presente in mezzo a noi.
Per dirvi questo, riprendo da dove abbiamo iniziato e vi intravedo una sorta di
inclusione: ritornate mentalmente alla grotta, quando finalmente siamo riusciti a
esserci tutti insieme e pensate questa mattina, qui nella chiesa di Santa Bernardetta.
Ricordiamo la nostra parola guida. Ve l’avevo annunciata: è il termine “saluto”: «Maria
si domandava che senso avesse tale “saluto”». Questa parola, il saluto a Maria, si è
moltiplicata. Nel brano di oggi ritorna ben tre volte: come in una sorta di effetto
domino: «Maria “salutò” Elisabetta…»; «Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di
Maria…». Dunque, abbiamo un saluto che è come una scossa, un’onda tellurica che si
trasmette, sommuove tutte le nostre coscienze, le nostre emozioni, i nostri ricordi. È
interessante notare che Maria, entrando in casa, saluta Elisabetta. L’evangelista annota:
«Appena Elisabetta “ascolta” il saluto di Maria…». Il saluto, da un lato va trasmesso e
dall’altro va ascoltato e ricevuto.
Questa mattina dobbiamo raccogliere i frutti: accanto alla pioggia che abbiamo preso e a
tutte le cose che abbiamo acquistato, cose tutte bellissime, c’è uno zainetto di cose
importanti da portare a casa, che non pesano, perché sono dentro di noi. È facile
tenerle, sono dentro il nostro cuore, la nostra coscienza, in questo sacrario intimo dove
si possono custodire anche realtà che… non trovano la parola per dirsi agli altri. Ho
chiesto a tanti giovani, compresi i ragazzi di terza media che arrivavano da Traffiume:
«Come è stato?» «Bello!» mi hanno risposto. Magari riesci a dire una parola sola che
però diventa lo specchio di tante immagini di questi giorni.
Continua il testo del Vangelo procllamato: «Elisabetta piena di Spirito Santo esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le
donne e benedetto il frutto del tuo grembo”». E’ la seconda metà che, con la prima che ho spiegato l’altro giorno, va a
comporre la preghiera dell’Ave Maria. E poi aggiunge: «A che debbo che la madre del Signore venga a me?» Avrei io
dovuto venire da te!... «Ecco: appena la voce del tuo “saluto” (è la terza volta) è giunta ai miei orecchi, il bambino ha
esultato di gioia nel mio grembo!».
Pensate però dove passa il saluto. Il saluto colpisce l’orecchio, viene dalla voce di Maria, passa attraverso l’orecchio, e
fa sussultare il bambino che è nel grembo. Ecco, quest’onda che si trasmette per raggiungere il punto più intimo.
Punto intimo che è il luogo dove si generano le cose nuove. Il grembo è l’unico miracolo della vita vera. Perché tutti –
diciamocelo - siamo venuti qui perché speravamo qualcosa. Forse anche di vere un miracolo. Ma il vero miracolo è che
dalla vita possa generarsi la vita, quella con la “V” maiuscola, che trasmette tenerezza, presenza, vicinanza, amore,
compassione, condivisione, prossimità, compagnia. Fate caso: sono tutti termini che sono spariti dalle ultime edizioni
del vocabolario, nessuno più le dice e soprattutto le pratica. È la vita che contagia… perché c’è anche una forma di vita
che invece genera morte, che trascina nel buco nero. È quella di chi pensa solo a sé.
Una giovane coppia questa mattina mi ha detto una cosa sorprendente (gli devo l’esclusiva): ma don Franco, con tante
belle persone e belle esperienze che abbiamo vissuto qui in questi giorni, perché nel mondo c’è tanto male e tanta
cattiveria? È un’osservazione che vale un trattato di teologia! È perché – gli ho spiegato – l’uomo e la donna sono un
animale mimetico, cioè un soggetto che imita. Se si trova dentro in una sinfonia che suona e canta bene, anche il più
piccolo si sente parte di un grande concerto. Se, invece, uno vive rinchiuso nel suo piccolo orticello e pensa solo a sé,
allora produce una musica sgraziata, perché suona non con gli altri, ma contro gli altri.
Ecco, bisogna essere generatori di vita, della “pienezza di grazia”(kacharitomene: ora potete andare anche voi a casa a
dirlo in greco!...). Questa pienezza di grazia che è pienezza di vita, di dono, di tenerezza, di amore, è anche una forza di
simpatia… perché non si può sempre avere attorno persone musone! Questa pienezza di grazia si deve trasmettere. E
come si fa? Cerco di dirvelo in tre punti.
In questa ultima mattina bisogna raccogliere i frammenti di vita che questi giorni vissuti insieme hanno generato in
noi. Anche l’aspetto faticoso delle celebrazioni un po’ hollywoodiane di ieri che non terminavano mai. Certo bisogna
celebrare anche questo… Tuttavia, forse in piccolo frammento di tempo passato alla grotta, nello sguardo di una dama
che ci ha aiutato quando non ce lo aspettavamo, nella parola di un pellegrino che ci ha detto una parola, nel braccio di
un giovane che ci ha aiutato e ci ha fatto pensare detto: va… questo giovane come tira bene la carrozza… Perché ho
visto bene: qualcuna sembrava la regina d’Inghilterra su quella carrozza, tanto che è venuto anche a me voglia di fare
un giro! [Applauso]
Raccogliamo, dunque, tre frutti, tre sussulti che nascono nel grembo, nella parte più intima di noi. Io vi indico le tre
caselle, i tre scomparti dove metterli.
Il primo sussulto deve essere quello che riguarda la vita personale, soprattutto per chi è venuto per la prima volta a
Lourdes. Dobbiamo dirci: quest’anno sono andato a Lourdes! Che cosa mi è rimasto per vivere in un modo diverso
quando sarò a casa? Questa la domanda a cui rispondere. Ognuno metta dentro un’intenzione in questa prima casella:
una cosa da fare, una cosa per essere. Attenzione: non c’è nessuno, anche il più inabile, che non abbia questa abilità di
contagiare attraverso un frammento di vita.
Poi il secondo sussulto si rivolge a quei giovani (e non più giovani) venuti la prima volta (le mozzarelle….). Magari
iscritti solo perché c’era l’amico che veniva… Forse hai detto: “va bene, se c’è bisogno, io vengo”. Gesù si fa presente e
poi ti prende per mano delicatamente e ti fa fare un pezzetto di strada. Ecco: ognuno di questi deve poter dire: “io ho
fatto il battesimo di Lourdes! Non posso essere più un ragazzo, una ragazza, un medico, un paramedico, ecc. come
prima”. Una sfida la devo portare a casa, una chiamata importante per me, una provocazione che ha la forma non
semplicemente dell’emozione, ma anche dell’azione e dell’impegno. Non basta dire: “Mi ha colpito quella scena, ma
ha emozionato quell’incontro, ho conosciuto una bella ragazza….” No, occorre portare a casa un impegno che diventi
un’azione, una scelta che continui anche dopo. L’ho detto al Consiglio dell’OFTAL: il Vescovo nuovo desidera che ci sia
anche un’OFTAL domestica, parrocchiale, zonale. Fate come volete voi, però che questa esperienza continui nella vita
quotidiana! Questa è la seconda casella da riempire, anche per i sacerdoti, perfino per il Vescovo.
E il terzo sussulto è per coloro che compiono un traguardo pieno della vita. Tra un po celebreremo gli anniversari.
L’anniversario è un tempo che si compie, è una cosa importante. Non tutti i frammenti di tempo sono uguali: ci sono
anni che non si ricordano, si perdono nella nebbia, e ci sono istanti, minuti, sui quali si potrebbe scrivere un libro! È il
fenomeno della memoria. La memoria si ricorda di che cosa? La memoria fissa quanto noi abbiamo compiuto in questi
tempi: 10,25,50,60 anni), tiene la traccia della fedeltà che ci abbiamo messo. Celebrare gli anniversari significa
celebrare la fedeltà. Ho scritto una frase che ha colpito anche madre Canopi, quando gli ho inviato gli auguri per i
cinquent’anni di vita religiosa: “La fedeltà è il nome maturo della libertà”. Quando uno è stato fedele si dice: l’è un om,
l’è una dona! Senza aggiunta di aggettivi. Uno di cui ci si può fidare, una persona di parola, un tu affidabile. La fedeltà
ha a che fare con l’affidabilità. E chi è stato fedele ringrazi il Signore perché quel verbo greco che vi ho fatto imparare
(kecharitomene) ha trasmesso dentro la storia di quelli che celebrano un anniversario pieno l’onda lunga della
pienezza di vita e di grazia. Lo ha portato ad essere fedele, ad avere figli, e dopo ha accolto nipoti, lo ha spinto a
seguire un sogno, a essere fedele al proprio sacerdozio, a fare una strada che magari non era quella che aveva sognato
all’inizio, ma che è stata diversa, forse più bella o più brutta, ma in ogni caso su quella strada è stato fedele.
E allora vi auguro che questi siano i tre frutti del nostro pellegrinaggio. Ecco il nostro saluto alla Vergine. Pensate a
Bernadette è morta giovane, a 36 anni. Si può raggiungere la pienezza anche in 36 anni. Basta avere il cuore e il
grembo dove si genera la vita, che si dilata. Ve lo auguro di cuore e, andando a casa, direte alla gente che incontrate:
quest’anno è stato veramente bello!