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Le opere sono le parole del maestro
Giuliano Gresleri in Botta, architetture 1960-2010
Il nome di Mario Botta compare in una rivista internazionale di architettura per la prima volta nel
1967, quando Giuseppe Mazzariol pubblica sul n. 4 di Lotus il progetto di Jullian de la Fuente per la
chiesa dell’Ospedale di Venezia1.
«Si tu ne saisis pas la tension éthique qu’il y a derrière le tableau, tu ne peux pas affimer qu’il est
beau ou laid».
Mazzariol aveva corrisposto alla richiesta di Botta, allora giovane studente, di entrare a far parte
dell’equipe veneziana che si sarebbe occupata il progetto definitivo della grande opera di Le
Corbusier, così come – sempre nel 1968 – Botta è a fianco di Louis Kahn nelle settimane in cui il
maestro americano è a Venezia per la presentazione del progetto per il nuovo Palazzo dei Congressi
e della Biennale2.
In questa breve e intensa stagione tra Parigi, il Ticino e Venezia conclusa dalla tesi di laurea con
Carlo Scarpa e Mazzariol come relatori matura l’”epifania architettonica” di Mario Botta.
Egli conserverà di quei giorni un ricordo intenso affiorante durante il lungo cammino degli anni
successivi che lo vedono protagonista giovanissimo del rinnovamento della architettura nel Ticino e
poi assurgere a notorietà internazionale con un lavoro progettuale che ha del sorprendente per
vastità, continuità e complessità dei suoi lavori (oltre 350 progetti di edifici e oggetti di design) così
che oggi Botta è un maestro riconosciuto in tutto il mondo. Egli ha attraversato con presenza
costante nel dibattito in corso gli anni più complessi della modernità collocandosi con una
riconoscibilità immediata e un suo irripetibile modo (malgrado le citazioni continue che ne vengono
fatte) entro la scena architettonica succeduta all’”età dei maestri”. La mostra del MART ne coglie
tale carattere, evidenza, connessioni, avvicinamenti e allontanamenti da coloro cui egli si è
accostato in tempi lontani per poi percorrere un sentiero sicuro diventato poi una larga via sulla
quale altri si cimentano ancora oggi3.
L’essere ticinese (genti del lago e della montagna) aver conosciuto, abitato e studiato a Venezia
(logica rigorosa della struttura, imprevedibilità nella luce e maestria dei materiali) aver lavorato a
Parigi (dove la modernità è ******** negli atelier e nei musei e dove le architetture sono accostate
nella dimensione alla metropoli) hanno fatto di lui un interprete unico dei luoghi. Le sue architetture
si inseriscono nei siti confondendo loro il carattere che proprio nelle opere realizzate. Così
procedendo l’architettura non subisce il paesaggio ma diventa strumento della sua stessa
realizzazione, processo di una comprensione varia quanto lo è l’anima dell’osservatore. Perché gli
oggetti architettonici re-agiscono in tal modo, devono essere chiari, assoluti, matericamente definiti
e leggibili. Essi divengono secondo l’apologo di Carlo Dossi (che Botta cita sovente) “m**** per
leggere” e dar senso alle cose della natura, ritagliandone delle parti e definendole, (la fenetre
tableau) per poi ricomporle nella visione di sintesi che riassume e “traduce”. Tra tutte le opere di
Botta, la sezione lignea del San Carlino del Borromini, sottratta al panorama di Roma e ricollocata
nel contesto luganese ubbidisce a tale principio, serve per farci capire il procedimento che
l’architetto ha intuito fin dalle prime opere degli anni ’70 quelle che preludono alla Casa Rotonda
(1980-82) a quella di Riva San Vitale (1983-84) alla Chiesa di Mogno (1986-94)4.
1
Nelle tavole a colori il nome di Mario Botta è associato ai nomi di Josè Oubrerie, dei fratelli Petrilli e due ragazze
Pozzana e Gambari.
Cf. Mazzariol G., L’atelier Jullian e la chiesa dell’Ospedale di Venezia in “Lotus” n. 4, 1967-1968 pp.209 ss.
Sulla vicenda della chiesa dell’ospedale veneziano cf. in particolare Petrilli A., La chiesa per l’Ospedale di Venezia in
Gresleri G. e Gresleri Gl., Le Corbusier Il linguaggio liturgico Compositori, Bologna 2000, pp. 202 ss. Anche Gresleri
G., La chiesa in collina e l’atelier tra cielo e mare in “Massilia”, Valparaiso AEQ Ed., 2007, pp.32 ss.
2
Cf. Mazzariol G. (a cura di), Un progetto per Venezia, estratto da “Lotus” n. 6, Venezia 1969
3
Sugli anni giovanili di Botta e il suo rapporto coi maestri cf. in particolare Petit J., Botta / Tracé d’Architecture, Fidia
Ed., Lugano 1994. Note autobiografiche di grande interesse in Botta M. Quasi un diario
La lettura dell’elemento naturale organico e dell’elemento geometrico razionale del manufatto sono
presenti (con diverse declinazioni) nell’intera opera di Botta e ne determinano quel modo
particolare di “occupare” lo spazio di cui Kennet Frampton si accorse solo negli anni ‘705.
«Il mio scopo era di progettare una casa in cui i miei amici si sentissero protetti in uno spazio e
proiettato, allo stesso tempo, nel paesaggio»6. La casa che nel ’73 era già realizzata, produceva
sull’osservatore esattamente questi sentimenti. Chi la contemplava o accedeva al suo interno
entrava subito in sintonia con le intenzioni dell’architetto che comprendevano per via della forza
narrativa dei segni e dei volumi. Il ponte di ferro collega infatti il prisma della casa al declivio del
suolo ma, allo stesso tempo isola la casa dal contesto naturale attraverso il meccanismo della sua
struttura antinaturalistica. Sospeso sul ponte il visitatore indugia sul meraviglioso paesaggio lontano
e solo in un secondo tempo percepisce il procedimento nella sovrapposizione dei piani e il
ribaltamento della loro logica: scendere attraverso di essi anziché salire verso il tetto. Il ruolo degli
elementi tradizionali che formarono la casa è così messo in discussione: basamento, corpo centrale,
tetto, sono – di fatto – ancora presenti ma usati come espedienti che stabiliscono “tempi” diversi
all’abitare che generano – in funzione delle inusitate aperture sull’esterno – una sensazione di
profonda immersione nel paesaggio. Non è detto che alcuni precedenti a questo tipo (villa
Tugenddhat di Mies a Berna 1928-33, o la villa Goti di Enrico De Angeli a Bologna 1933-35) dove
il rapporto tra edificio e declivio del terreno sono risolti con analoga strategia, Botta estremizza qui
tali intuizioni perché gli elementi non sono subalterni gli uni agli altri ma tutti assieme (naturalità e
tecnica, paesi e architettura) vengono adoperati nelle singole valenze espressive in modo così
esplicite da determinare l’unità del tutto, proprio nel senso che Botta attribuisce più tardi allo
scrittore Dossi7. Usando poi blocchi di cemento a vista per i muri portanti esterni e mettendo in
evidenza le forti marcature dei solai in getto, l’edificio si staccava ulteriormente dall’iconografia
“modernista” e sembravano voler stabilire parentele non casuali con l’arcaismo regionalista del
Canton Ticino. Solo le “spaccature” delle pareti murarie stabiliscono ancora qualche riferimento ai
“tagli” lecorbusieriani usati nella casa di Stabio (1986) e associati qualche tempo più tardi alle
grandi aperture rotonde della casa di Cadenazzo, dove troviamo già le pareti in blocchi di cemento a
vista, il tetto piano e le murature perfette dei piani.
La grande diffusione che queste opere ebbero subito sulle riviste di architettura segnarono anche
l’affermazione internazionale di Mario Botta al quale – da allora – fu riconosciuta la capacità di
sottrarsi alla tradizione modernista legandosi alla sua radice più autentica senza temere il problema
della tradizione e quello del regionalismo. Non si trattava infatti di leggerli come semplici disvalori,
ma di ricondurre quei problemi all’interno di un quadro complesso che le opere ricordate venivano
definendo.
In tal modo trova giustificazione anche il rapporto con la tradizione dei “maestri” che pure Botta
aveva studiato e frequentato: Le Corbusier Kahn e Scarpa che fu il suo relatore alla tesi di laurea
allo IUAV di Venezia nel 19698.
4
Mario Botta affronta tale questione in vari scritti. Mi riferisco qui a quelli più raggiungibili. Cf. pertanto De Giuli S. e
altri (a cura di), Mario Botta riflessioni, Reggio Calabria 2009, pp.35-39. L’argomento è “intuito” da Botta e sviluppato
in occasione di una celebre intervista a Luis Kahn. Vari testi raccolti a cura di Mestelan P. tra i quali Entrtien avec
Mario Botta in “Cahiers de theorie” n. 3 Monteux 2000, pp. 61 ss.
5
Frampton K. La tendenza a costruire in Rota I. (a cura di), Mario Botta architetture e progetti negli anni ’70, Electa,
Milano 1979.
6
Cf. Petit J. op. cit., p. 36.
7
Cf. nota 4 ora confrontabile con Frampton K., Mario Campi, Franco Pessina. Nel paesaggio Luganese, Casabella n
534, aprile 1987, pag. 4.
Nella villa Gotti a Bologna il visitatore giunge, con evidente intenzione dell’architetto, percorrendo la passerella aerea
e trovando l’ingresso (oggi modificato) sul tetto-terrazza. L’intero organismo ne risultano tipo logicamente “ribaltato”
in funzione di una gigantesca finestra rotonda che inquadra ancora le “due torri” e il panorama di Bologna. De Angeli
sostiene nei suoi scritti che tale soluzione gli era stata suggerita dalla bellezza del sito (quasi motivazione
dell’architettura) dalla pendenza del suolo e dal fatto di poter disporre di mezzi tecnici poteva sperimentare con grande
libertà.
8
Cf. Petit J., op. cit., p. 34.
«… Parigi. Avevo visto gli edifici di Le Corbusier; un modo per rendermi conto che la storia era già
passata e di capire l’architettura»9.
La piccola casa di Stabio che Achieri presenta su “Lotus” n. 5, ambientato in aperta campagna e
circondata da un muro di cinta è già la prova di tali superamenti. L’architettura che si “difende” dal
fuori è già indice di quel principio Kahniano che il maestro americano ribadì in occasione della
presentazione a Palazzo Ducale del suo progetto per il Palazzo dei Congressi: «un progetto libero e
aperto nel quale gli ambienti hanno determinato lo spazio. Credo che gli spazi debbano ispirare il
progetto e non che il progetto determini gli spazi»10.
Alla luce di tale osservazione per il Nuovo Centro di Bellinzona (1971) e la scuola media di Morbio
(1972) si inseriscono in tale logica ed indicano la convinta riflessione che Botta fa in questo
momento sull’opera di Kahn. Sono queste le opere – infatti – che segnano maggiormente il
passaggio alla scala del territorio e nelle quali l’approccio bottiano alla preesistenza si legge nella
complessità della sua strategia “rifondativa”.
L’architettura che creo è … in una forte relazione con la natura. Vorrei che la mia architettura
fosse percepita come una realtà radicata nella cultura della mia terra nativa e legata ad essa… Sto
cercando di trasformare questa realtà che è sempre unica. Ogni singola casa è un “unicum” che
comunica con un paesaggio particolare, il quale a sua volta ha una propria storia, una propria
cultura, e che possiede una propria stratificazione da consolidare e trasformare.11
L’unicità dell’architettura e la volontà di sfidare il costruito trasformandolo si colgono molto bene
in due progetti che – dal momento della loro pubblicazione – ebbero risonanza internazionale: la
Biblioteca dei Cappuccini a Lugano (1976-79) e la trasformazione della Casa Colonica di
Ligrignano a Morbio Inferiore (1977-78). Entrambi i progetti affrontano il problema della
comunicazione tra e con gli edifici esistenti usando il tema della simmetria e dell’asimmetria con
espedienti programmatici funzionali all’inserimento del progetto nel sito, l’idea della copertura
“opaca” ( il tetto della Casa Colonica) e quello trasparente di vetro della Biblioteca è fondamentale
per farci capire che Botta sta interessandosi in modo preciso al problema della luce: tema che
assieme a quello della “******” e della “materia è destinato a conferire carattere di identificante
della sua architettura. È a seguito di queste esperienze che nella tradizione bottiana vengono
introdotti la pietra naturale ( oltre ai blocchi di calcestruzzo) il mattone e i lucernai. Questi ultimi
consentono alla luce solare di scendere all’interno dello spazio in modo zenitale, quindi si riflettono
all’interno con sorprendenti effetti di luce. Anche la pianta subisce radicali semplificazioni derivanti
dall’adozione di una base quadrata (a volte spaccata in quattro parti con ambulacro al centro a mo di
galleria vetrata) come nel Centro artigianale di Balerna (1979). Anche se l’idea di inserire la pianta
quadrata in una forma circolare compare già negli schizzi per la casa di Riva San Vitale, il progetto
di “Balerna 2” affronta il tema con assoluta sicurezza suggerendo una ipotesi di parentela
morfologica con opere di Stirling; la Biblioteca di Stoccarda ad esempio (1977-83), che
richiederebbero specifici approfondimenti12. Collocato marginalmente in un lotto di frangia il
grande edificio circolare è spaccato a metà dalla strada interna (coperto dal lucernaio a due falde)
alla quale si accede attraversando un corpo di fabbrica voltata ad area: un prisma accostato ad un
cilindro i cui muri con sezione “ a redenti” sono segnati da alte feritoie che illuminano i laboratori
interni. Il tema del “luogo circolare” viene riproposto nel 1987 col Museo di Guernica destinato a
contenere il capolavoro di Pablo Picasso e suoi settantadue studi preparatori. Collocato al centro
della piazza il museo si sviluppa nella sala ipogea che riceve luce zenitale tramite la “torre
9
Petit J., ibidem.
Kahn L., Discorso in occasione della presentazione del progetto del Palazzo dei Congressi a Palazzo Ducale, 30
gennaio 1969 in Mazzariol G., (a cura di), Un progetto per Venezia in “Lotus” n. 6, 1969, cit.
Botta – che era presente all’evento – fu anche colui che suggerì a Mazzariol che si recava in visita a Kahn a Filadelfia,
di portare con se la celebre mappa di Venezia di Jacopo de Barbari (1500) per avviare col maestro americano i primi
ragionamenti sul valore dei siti e dei “luoghi”, temi intrinsechi dell’architettura di Kahn che Botta aveva già colto con
precisione.
11
Curtis W., L’Architettura moderna del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 624.
12
Rowe C. (introduction by) James Stirling, Rizzoli, New York 1984.
10
osservatorio” che la sovrasta. la grande dimensione, l’area ribassata di ingresso, la torre, l’uso della
pietra viva conferiscono all’insieme la forza dei grandi progetti utopici e lo stesso senso drammatico
che il dipinto picassiano ci trasmette13.
Recuperando l’esperienza “catacombale” della Biblioteca dei Cappuccini, Botta può allineare una
serie di espedienti progettuali che si definiranno con sempre maggior precisione nei celebri progetti
degli anni succesivi.
Li richiamiamo di seguito:
1- La pianta generata dall’accostamento di semplici figure geometriche o formata da una figura
elementare a sua volta suddivisa in parti.
2- La muratura solida e compatta che non disdegna il getto cementizio ma che preferisce la
“texture” ricca di vibrazioni dei blocchetti cementizi o del laterizio.
3- Le “prese di luce”: vere e proprie “fenditure” nella massa muraria sul fondo delle quali sono
collocati gli infissi stabilendo in tal modo un rapporto inteterno-esterno che enera varietà e
sorpresa.
4- La luce zenitale che piove dalle “spaccature” dei piani di copertura direttamente all’interno
degli spazi abitati stabilendo ogni volta precisi criteri di orientamento dell’edificio.
5- Il lucernaio a due falde (destinato a sorprendenti trasformazioni come al MART di Rovereto
o nel Centro Congressi di Lugano dove ricopre le piazze interne . con tali mezzi e grazie ad
incarichi sempre più complessi ed articolati, Botta riesce recuperare l’esperienza moderna in
modo critico, liberandola da stanche tradizioni funzionaliste ed aprendola a dimensioni *****
che si trasformano spesso in soluzioni di sorprendente iconografia volumetrica richiamando
inevitabilmente le figure architettoniche pre-conosciute quali i rustici fienili delle pre-Alpi e i
battisteri romanici della pianura lombarda.
Dopo la Casa Rotonda
Tra il 1980 e il 1981 Botta progetta in Ticino un edificio d’abitazione nei dintorni di Stabio. Dato
che si tratta di una dimora unifamiliare in un lotto circondato dal verde, la storia dell’architettura ce
subito se ne occupò con grande interesse avrebbe dovuto chiamarla “villa”, rotonda come la celebre
palladiana di Vicenza. Il termine “casa” ne mette in evidenza l’etimologia latina e allo stesso tempo
ne sottolinea con forza il carattere costruttivo14.
L’uso della tipologia rotonda per un edificio domestico non è nuova, basti pensare al celebre
prototipo di Mosca che Melnikow progetta e realizza nel 1919 incastrando tra loro le figure di due
cerchi e sostituendo le finestre con serie “antigerarchiche” di coperture esagonali in file
sovrapposte, come feritoie15. Addizionando i due cerchi, Melnikow stabilisce però un asse direttore
e inserire di fatto un “fronte” sottraendo al cilindro verso strada una sottile porzione che si
trasforma in “facciata” vera e propria. L’edificio rientra così nel sistema prospettico tradizionale
non sempre negato dagli architetti moderni e facendo “rientrare”la sua singolare costruzione nel
****** tradizionale di lettura per piani accostati tra loro. Nel “corpo cilindrico” di Botta invece,
ogni riferimento alla facciata tradizionale è abolito. Il volume è tagliato verticalmente da fenditure e
aperture sempre diverse; il tutto è piano ma vi si sovrappone un lucernario a due spioventi perché la
luce illumini l’interno senza far ricorso alla finestra tradizionale; blocchetti cementizi, disposti
diagonalmente, segnano lo stacco della soletta del tetto dal corpo murario. Ad una osservazione più
13
Sui progetti di concorso per il museo di Guernica cf. le riflessioni di Quaroni in “Parametro” n. 109/1982, Faenza Ed.,
Faenza.
14
La fortuna critica della “Casa Rotonda” di Stabia è enorme. Rimando per i primi approfondimenti bibliografici del
1982, Trevisiol R. (a cura di), Mario Botta. La Casa Rotonda, L’Erba Voglio Ed., Milano 1982.
15
Cf. Koph A., Ville et Revolution, Anthropos, Paris 1967, pp. 72-73. Sul significato che per i “moderni” ebbe la figura
circolare , cf. le note di Tafuri in AAVV, Socialismo, città, architettura 1917-37, Officina Roma 1971 con particolare
riferimento alle illustrazioni di opere di El Lisickim i celebri “Proun” del 1919 ai quali Botta sembra essersi riferito per
la copertina del volume dell’Erba Voglio dedicato alla Casa Rotonda. Anche Marcade V., K. S. Maleritch. De Cezanne
du Suprematisme, L’Age d’Homme, Paris 1974, p. 111 ss.
approfondita ci accorgiamo della simmetria distributiva degli interni attorno al corpo delle scale che
salgono dietro l’ingresso e fuoriescono dalla parete con un corpo cilindrico che sembra alludere nel
coronamento agli antichi camini veneziani. Negli schizzi preliminari si percepisce molto bene il
procedimento di definizione del progetto che suggerisce – come dice Curtis – «il tema di un
calendario solare», orientato per catturare quanta più luce possibile e riparando da essa allo steso
tempo. È molto probabile che Botta si sia qui riaccordato a ad uno degli ultimi progetti di Le
Corbusier: l’ambasciata di Francia a Brasilia dove l’impianto circolare è di continuo spaccato
dall’ortogonalità dei setti murari che, ai vari piani hanno sovrapposizioni sempre diverse 16. Anche
nelle opere precedenti Botta aveva fornito la misura delle sue capacità operative, la Casa di Morbio
apre al suo lavoro nuove possibilità di esplorazione dello spazio che dalla semplice****** si allarga
alle forme delle istituzioni (la chiesa, il museo, la scuola, ecc.) alla città e al territorio. La chiesa di
Mogno, la cattedrale di Evry, i musei di Tokyo e San Francisco.
I primi due sono luoghi metaforici del simbolo, gli altri, i musei, sono “depositi” del pensiero,
contenitori della ri-creazione artistica; nella tradizione occidentale, comunque, luoghi celebrativi,
dentro e attorno ai quali prende forma tangibile un rito collettivo. Si tratta cioè di edifici dotati di un
particolare ruolo urbano, ciò che Louis Kahn chiamava «espressioni alle istituzioni».
È qui, infatti, più che in ogni altra parte della città, dove ancora si manifesta il senso
dell’appartenenza al gruppo , al luogo, al tempo.
Dalla casa alla scuola al museo il lavoro di Botta ha dunque privilegiato tra il 1986 e il 1990, con
evidente complicità dei committenti illuminati, la costruzione dei luoghi simbolici della città.
Cilindro, cubo, triangolo, forme primigenie riadattate come base dell’architettura occidentale,
divengono per lui abaco formale attraverso il quale temi antichi vengono tradotti in espressioni
nuove.
La casa-tempio, la chiesa-cattedrale (anche quando si tratta di una cappella di paese), il museopalazzo-città riportano “paradossalmente” l’architettura moderna al vocabolario formale dell’”homo
ad circulum, ad quadratum” e si esprimono con le stesse qualità apparenti con cui si dava un tempo
senso allo “spazio”; “utilitas, firmitas, venusta”. Il linguaggio aulico ed antico si trasforma e si
concilia con quello moderno.
Di fronte a questa architettura, cadono le estrinsecazioni linguistiche e letterarie in voga. L’occhio
ritorna unico giudice e trasferisce criticamente alla mente il senso di ogni nuova invenzione. Le
forme ubbidiscono ad un codice noto così che siamo subito in grado di “riconoscere” quanto
cerchiamo perché l’architettura comunica senza difficoltà apparente, il senso della sua esistenza.
Nella vita di un architetto c’è, ad un certo punto, un’opera o un gruppo ristretto di opere che
riassumono le altre, che condensano, le intenzioni generali di una ricerca e l’esperienza acquisita.
Non esito a credere che per Mario Botta la chiesa di Mogno, la cattedrale di Evry, i musei di Tokyo,
più tardi quello di Rovereto, contengano il senso profondo di un lavoro. I temi attorno ai quali egli
ha organizzato in questi anni il proprio progettare, si sono purificati da ogni tentazione modernista.
Anche le sofisticate citazioni dei maestri che solo l’occhio abituato a leggere segni nascosti riesce a
cogliere, si fanno sempre più rare, perché dopo la chiesa di Mogno un linguaggio forte si è definito
e con esso un abaco capace di costante rigenerazione. Quando Botta si accinge al progetto per la
chiesa di Mogno, alcuni edifici di carattere istituzionale e collettivo, già molto noti e celebrati. . Il
Museo Watari-um di Tokyo (1985-90), il Museo d’Arte Moderna di San Francisco (1989-95), il
Museo Jean Tinguely a Basilea (1993-96), il Padiglione per il 700° anniversario della
Confederazione Helvetica a Bellinzona (1990-91) il monumento “Cumbre De Las Americas” a
Santa Cruz di Bolivia (1996); tutte opere dallo spiccato carattere celebrativo nelle quali l’architetto
16
Cf. Le Corbusier, Oeuvre Complète 1957-65, Ed. D’Architecture, Zurich 1965, pp. 18-21. L’idea dell’edificio , delle
valenze architettoniche subordinate ad una visione cinetica dello spazio costruito in modo da sfuggire alla sola
percezione prospettica, si ritrova con frequenza nell’opera dell’ultimo Le Corbusier. Nel progetto della chiesa
parrocchiale di Firminy ad esempio il “cubo” di base si trasforma salendo in una forma conica abolendo con evidente
effetto plastico il piano di facciata. In tal modo il concetto di fronte principale, secondario e posteriore era abolito in
funzione di una cinetica visiva che conferisce all’opera una valenza spaziale legata direttamente alla cosmologia solare,
che dava ragione alla stessa architettura.
affronta il rischio del monumentale attraverso la “reinterpretazione tipologica” dei soggetti. Trattati
con rivestimenti in laterizio che sdrammatizzano le dimensioni delle grandi masse e affrontando
criticamente il problema dell’inserimento dell’oggetto nel sito. Botta giunge a sorprendenti
“reinvenzioni” di luoghi che – specie a Tokyo e a San Francisco - modificano la scala dall’interno,
riconducendola alla misura “praticabile” dell’edificio da “abitare”. Sono opere di grande
dimensione entro le quali l’articolazione dello spazio ubbidisce a quelle necessità dell’utente di
sentirsi protagonista attivo nell’individuare i percorsi e scegliere gli spazi dove stare. Sembra quasi
che i progetti di “case” degli anni precedenti abbiano configurato un lavoro preparatorio per un
salto di scala. Tutte queste opere si confrontano infatti non più con i domestici paesaggi ticinesi ma
con l’ostilità ambientale morfologica della grande città col cui paesaggio il confronto è sempre
drammatico.
La chiesa di Maggio di piccole dimensioni (asse minore 10mt - asse maggiore 14mt), che si
sviluppa da una pianta ellittica ai margini di un villaggio di montagna collocato in un panorama
superbo, è un punto di arrivo delle ricerche di questi anni. Botta affronta per la prima volta il tema
del luogo sacro, della costruzione in pietra viva, della copertura-lucernario inclinata che copre
l’intera sezione del solido di base. L’idea del corpo cilindrico isolato nel paesaggio, che non ha
precedenti nell’esperienza di Botta se non per quanto sopra già detto, potrebbe derivare dagli studi
che nel 1964 Oubrerie conduceva nell’atelier di Sevres, per mettere a punto il solido “ideale” per la
chiesa di Le Corbusier a Firminy. Con questa esperienza Le Corbusier tentava di passare – lo
abbiamo ricordato più sopra – da una pianta quadrata (il solido di base) alla forma conica che,
tagliando il volume, si conclude in alto tramite una sezione inclinata nella quale erano infitti due
lucernai: uno cubico e uno cilindrico con diversa inclinazione per poter direzionare la luce su luoghi
liturgici precisi. Nel 1965 quando a Botta era Parigi, i modelli di Oubrerie erano ancora nell’atelier
e comunque i disegni per le chiese ampiamente pubblicati da “L’Art Sacre” e da Ouvre Complete17,
Botta potrebbe aver raggiunto comunque, la sintesi formale di Mogno semplicemente trasponendo
l’idea “circolare” dalla Casa Rotonda dell’uomo a quella di Dio per semplice comparazione di due
luoghi con diverse interpretazioni dell’idea di abitare, fornendo una attendibile interpretazione
anche per il progetto della cattedrale di Evry. Alcune foto che mostrano la chiesa inserita tra le case
del villaggio, ne esentano l’ambientamento raggiunto, non attraverso una facile mimesi formale ma
nell’adozione di un procedimento costruttivo che implica gli stessi paradigmi di rapporto col sito
propri dell’architettura del luogo. Tale procedimento costruttivo appare molto bene sulle tavole
pubblicate nell’Opera Completa di Motta dove il modello, gli schizzi, i disegni tecnici e le foto
spiegano molto bene il lavoro di definizione dal generale al dettaglio18.
Non appoggiati come oggetti inerti, ma “sprofondati” nel terreno come in un impatto cosmico
l’edificio palesa tutta la nobile “pesantezza” di cui è fatta. Conci di pietra, che a Evry ritornano o
altrove ricorsi di laterizio, pannelli prefabbricati cementizi trattati con la perfezione del marmo, lisci
o bocciardati, blocchi sovrapposti come nelle antiche costruzioni, divengono i protagonisti reali del
fatto costruito. Nelle pareti ricurve , nelle “tese” superfici il muro sfugge alla misura per via della
sua perfezione materica: lunghezza e spessore restano sconosciuti . ogni punto della muratura
diviene così, al tempo stesso, inizio e fine, “limite” della linea che chiude, della parete che avvolge
lo spazio. Il mattone dipinto d’argento della casa di Morbio (che allude ad una pietra
dall’inconsueta preziosità) si è trasformato col tempo nella pietra-pietra, nella pietra-cemento e poi
nel sasso. La rotondità che annulla la facciata, rende questi edifici monoliti commemorativi di un
evento cui devono la loro esistenza. La chiesa di Mogno sembra aver perso porte e finestre, dettagli
decorativi, perché ogni comunicazione con l’esterno sia subordinata al grande occhio zenitale,
attraverso il quale cielo e terra riprendono a comunicare. Il sole attraversa Mogno e Evry lungo
l’intera struttura dei lucernai innalzati come piatti solari sopra i tetti delle case o tra il buio di
17
Sull’origine della chiesa di Firminy e la sua storia cf. in particolare Gresleri Gl. L’acropoli rovesciata in Gresleri G. e
Gresleri Gl. Le Corbusier il programma liturgico, Compositori, Bologna 2000, pp. 186 ss. e la bibliografia relativa.
18
Cf. Mario Botta opera completa vol. 2, Motta Ed., Milano 1994, pp. 38 ss. La bibliografia sulla chiesa di Mogno è
vastissima. Un fondamentale contributo per una corretta comprensione dello spazio liturgico in Botta è in Aanheim R.,
La nuova chiesa di S. Giovanni Battista a Mogno in Mario Botta cinque architetture, Skira, Milano 1996.
anonimi grattacieli come a San Francisco. Geometrie di pura luce, fine di uno spazio che è tutto
dentro, come il tempio anticoche non ha “nulla”fuori se non il suo piano di appoggio e le sue
membra portanti. L’edificio rifiuta ogni retorico quanto inerte ambientamento, in virtù del ruolo da
protagonista cui è destinato.
Con la chiesa di Mogno e la cattedrale di Enry l’architettura di Botta si manifesta dunque anche
come fatto simbolico: oltre alla risposta funzionale e la loro apparenza fisica esse trasmettono il
significato filosofico del loro esistere.
La casa e la città
Nel decennio tra l’80 e il ’90 l’architettura di Botta è soggetta ad una evoluzione iconografica (nei
progetti) e visiva (nella realtà) in senso monumentale. Come avveniva per Louis Kahn, anche Botta
tenta di dare forma a individuare “tipi” per le istituzioni moderne. Dalla casa alla chiesa, dal blocco
per uffici al museo, lunghi ragionamenti accompagnano l’evolversi del progetto. Più questo si fa
critico nei confronti della tradizione, più l’architettura tende a trasformarsi in luoghi destinati a far
si che la gente stia ***** ad altra gente, ricreando le condizioni che sono alla base del vivere civile.
Può essere che tutto ciò derivi dal lavoro analitico che Botta compie – alla scala urbana – per alcuni
importanti concorsi, la “Bicocca” a Milano (1986) promosso dalla Pirelli, si ricollega a celebri
ipotesi urbane del Le Corbusier degli anni ’20 ma supera gli schematismi di allora attraverso l’idea
della commistione ed integrazione delle funzioni.
I grandi assi adeguano la scala urbana degli edifici alla grandiosità del sito in cui elementi anomali,
estranei alla logica formale della periferia, conferivano alla grande dimensione il senso di vicinato
proprio della piazza e della “strada abitata” di tradizione europea. Gli studi per la nuova sede
dell’Unione delle Banche Svizzere (1986-95) e la realizzazione della siedlung di Novazzano (1992)
ci consentono di cogliere perfettamente la direzione che l’architetto da al suo lavoro in questo
periodo cruciale. Novazzano è uno dei complessi più articolati e anomali realizzati in questo
periodo. Alludenti alla spazialità del Karl Marx Hof del quale trasferisce tangibilmente l’”apologia
del moto” della grande corte centrale e la plasticità delle balconate in oggetto 19. L’intervento
ubbidisce al programma di edilizia economica e popolare e risponde alle sue limitazioni
economiche con la ricchezza delle soluzioni plastiche e dei prospetti entro percorsi particolari e
sequenze di portali circolari che richiamano gli oblò dei corpi scala e delle logge. Anche la leggera
depressione naturale a nord viene utilizzata ***** paesaggistico ricordando il modo con cui le
testate di Britz si affacciano sulla valle più in basso, confrontando le scale istituzionali di questi
progetti (l’edificio per il terziario e quello economico residenziale) abbiamo la possibilità di capire
osservandoli nella loro potenzialità concreta, cosa intende Botta quando parla di “ricreazione
urbana”.
Una libera e ricca reinterpretazione dei tipi e dei criteri di funzionalità che si coniugano ad avere
una originale visione paesaggistica del fenomeno costruito si leggano molto bene nei progetti a
grande scala di questo periodo (la Valle del Flon a Losanna ad esempio) e poi a tutta una serie di
progetti che sembrano trovare un momento di sintesi nel Padiglione per i festeggiamenti del 700°
anniversario della Confederazione Helvetica a Bellinzona e varie altre località dei cantoni che Botta
affronta con la sicurezza inventiva con cui ha affrontato il problema delle strutture metalliche dei
lucernai. A Bellinzona è l’intero lucernaio a trasformarsi in architettura: la dimensione dell’oggetto,
oltre le mura del castello, inserito com’è nel sito, è tale da suggerire un sentimento di stabilità e di
“per sempre” ad un edificio destinato a “durare per una sola estate”. Si concretizzarono qui non solo
evidenti referenze – già notate da me in passato – alle arcature delle coperture a centina di
Adalberto Libera (1927) ma anche alle strutture mengoniane che sorreggono la cupola della
Galleria Vittorio Emanuele a Milano (1891) e che preludono “al gesto estremo” dell’intera piazza
coperta dal disco di luce del MART di Rovereto.
19
Rimando per le intrinseche collimanti riflessioni col tema qui affrontato e la sua origine nella storiografia bottiana a
Gubler J., Cantieri in Botta opera completa vol. 2, cit. pp. 6-8.
Dalla casa unifamiliare a Vacallo (1988) a quella di Daro (1992) anche la ricerca sull’abitazione
monofamiliare si muove con una libertà nel controllo della forma difficile da ritrovare altrove. La
casa destinata ad un lotto verde circondato di residenze casuali poggia su un suolo “ripartito” (cioè
stabilisce un piano di appoggio preciso) e si sviluppa con una pianta triangolare che troviamo anche
nel museo di Tokyo o sulla sagrestia di Evry. Il triangolo di base è rettangolo, è metà di un quadrato
la cui diagonale (terzo lato) assume la funzione di “facciata”. È questo un progetto famoso,
pubblicato molte volte, che affascina per la logica naturalezza della sua distribuzione interna. La
forza intrinseca del progetto sta nell’intuizione di rendere la “facciata” elemento autonomo dal resto
dell’architettura. I due archi che si intrecciano e si interrompono al centro della parete muraria, ne
sottolineano con forza la sua autonomia, accentuata dal fatto che essa non forma angoli con i muri
retrostanti configurandosi di fatto come un grande segno architettonico “antico”.
La casa ritrova così un “fronte”, ma, gerarchicamente non in relazione con gli spazi domestici
interni facendo perdere all’edificio ogni connotazione post-moderna perché esso assume i connotati
di un tipo edilizio “reinventato”. L’interesse per l’arco o per la porzione di cerchio, si precisa
sempre meglio mano a mano che l’architetto si impegna nel soggetto religioso. Le “macchine per
guardare fuori” (le case) e le “macchine per guardare dentro” (le chiese) sembrano divenire – da
questo momento – il vero tema di Botta. La casa, come la chiesa, stabiliscono infatti una cesura
precisa con la psicologia spaziale della città. Esse possono anche essere occasioni per “rigenerare”
siti urbani relazionandoli “paesaggisticamente” all’intorno, ma restano luoghi autoreferenziali e
gerarchicamente definiti sulla base di valori contenutistici precisi. Così, la forma rotonda che si
affaccia con l’arco ribassato sull’esterno, della chiesa di Merate (1994), verso il “guscio” e
proiettata contro il cielo, può trasformarsi nella Cappella del Monte Tamaro, uno degli edifici di
Botta in cui meglio si concretizza – come per Kahn – che la forma evochi subito la funzione. Dalla
grande quantità di schizzi e mediante i disegni tecnici meticolosi coi quali il progetto è definito,
esso appare unione strategica di due “tipi” già sperimentati: la chiesa circolare (Mogno) e il pontegalleria che collega l’edificio sospeso al retroterra superando lo sbalzo. È qui ribadita l’idea della
“centralità” dello spazio assemblare che rifugge da forme inusitate per farsi contenere entro un
perimetro preciso, che l’occhio controlla e dove la reciprocità tra celebrante e fedeli è visivamente
immediata. Ciò si ottiene – ancora una volta – aprendo l’edificio in alto e trattando le superfici
murarie di conseguenza. Nella Cappella di Monte Tamaro appaiono evidenti riferimenti al tetto
della Casa Malaparte di Libera sospesa sul mare di Capri, al grande ponte-convento della SainteBaume di Le Corbusier, alle costruzioni e ai fortilizi militari delle Alpi italiane e tedesche. Botta
adopera tutte queste referenze senza mai ricorrere alla citazione esplicita. Chi abbia letto Quasi un
diario coglie bene il procedimento istintivo ma coltivato dall’annotazione visiva colta per via, o su
un libro o su di un’opera: capita fino in fondo può essere ricreata in ogni momento.
Un riferimento al Kahn di Venezia diviene palese nel progetto del Palazzo del Cinema della
Biennale di Venezia (1990). In pianta e in alzato le analogie sono sorprendenti. Malgrado Botta
affermi l’idea delle “sall”, due gemelle per la Sinagoga di Tel Aviv (1996-98) sia una risposta a
condizioni precise affermate in quella occasione20.
Confrontando tra loro le sezioni di questi due grandi progetti (che si sviluppano a vent’anni di
distanza l’uno dall’altro) si colgono molto bene le analogie progettuali e l’incredibile capacità
dell’architetto ticinese di trasfigurare nei suoi progetti ogni antica referenza. In qualche modo si
tratta dello stesso atteggiamento che Le Corbusier nei confronti delle proprie opere: un progetto
continua inevitabilmente in altro perfezionandosi ed arricchendosi.
Nel Palazzo del Cinema sembra quasi che Botta abbia trasformato i blocchi terminali del “ponte” di
Kahn, nelle due ali dei servizi che corrono parallele, “prore” delle due sale di proiezione
comprimendole cosicché si evidenzi l’allusione alla forma delle due navi accostate di poppa. Se
Kahn attribuiva la forma del ponte delle due sale alla tensione spaziale che si legge nel declivio
della piazza di Siena collegandosi metaforicamente ad una immagine a lui particolarmente
congeniale, Botta, misurandosi col contesto del lungomare Marconi “ricostruisce” un edificio di
20
Cf., Louis Kahn silence and light, cit. p. 62.
grande potenza offensiva, un’opera che – come nota Gubler – «sembra già appartenere alla
memoria stessa della città»21.
Al di là dei pur evidenti riferimenti analogici-distributivi ciò che da potenza inedita all’opera di
Botta sta sviluppata in altezze distinte ma collegate dalla “sella” intermedia, le due grandi scale che
restavano comunque – nei progetti di Kahn – chiuse nello stesso involucro. Si leggeva, in una
decisione di questo tipo, l’esperienza che Botta ha messo a punto in questi anni cruciali per il suo
critico lavoro sul rapporto architettura-città. Tutta la sua attenzione si sviluppa d’ora in poi in tale
direzione. Ciò che prima poteva leggersi come esclusiva ricerca di un rapporto a volte non sempre
facile da cogliersi, tra architettura e luogo, si fa d’ora in poi progettazione complessa di sistemi
spaziali di cui la Sinagoga di Tel Aviv, il MART di Rovereto, la ricostruzione lignea del San
Carlino di Borromini a Lugano divengono metafore dell’intera sua opera architettonica.
Torniamo così – ancora una volta – a quello che è un problema specifico della “modernità”: il
restauro. In una recente intervista Botta lo ha definito il «problema del non bisogno» dato che esso
sarebbe, almeno come oggi è inteso dalla gente, un bisogno generato dalla incapacità della cultura
contemporanea di adattare le proprie istituzioni a contenitori a volte non pensati a tale scopo.
Eppure, se ci riferiamo ad un organismo la cui tipologia ubbidendo a funzioni e programmi liturgici
spesso radicalmente modificati nel tempo (una messa ai tempi di *** in S.Maria di Cosmedin era
molto diversa da come si officia oggi nella chiesa di Meier a Roma), è facile constatare come
l’edificio sacro abbia saputo spesso autorigenerarsi, accogliendo parti disomogenee, a volte in
palese contraddizione “stilistica” ma in sapiente analogia compositiva e architettonica. Mario Botta
ha affrontato questo discorso in modo limpido a proposito del Teatro della Scala e rimando alle sue
considerazioni22.
Come già noto a proposito di Kahn era questo un problema cui l’architetto americano era giunto
per altre vie: egli dichiarava di «voler dar forma alle istituzioni» pur sapendo e accettando che
raramente quelle moderne abbiano reali rapporti con quelle antiche. Una istituzione antica come la
città (Rovereto ad esempio) malgrado il suo tessuto si sia definito nei tempi lunghi di ogni altra città
storica è il frutto di un progetto “istituzionale” di vita associata entro il quale è molto difficile
adottare edifici moderni o adeguare quelli antichi a funzioni mai previste per loro. È pur vero che
l”istituzione” ha, a volte, una forza tale da tollerare alterazioni e trasformazioni; conventi che sono
diventati scuole, carceri, manicomi, tribunali, senza che nessuno se ne sia particolarmente
scandalizzato, salvo il “sarcofago eterno” dell’edificio si può accettare qualsiasi bugia
architettonica. Rovereto è da questo punto di vista una metafora esemplare. Il progetto del MART
collocato a questo punto del nostro discorso per quanto ormai “datato” rispetto al lavoro successivo
che Botta compirà con altri interventi a scala urbana configura un livello di pensiero, anzi un
pensiero filosofico che si affaccia di continuo sul lavoro dell’architetto, accoglie i ragionamenti su
esposti, li condensa, li chiarisce e li proietta – arricchiti – in quelli successivi. Mi rifaccio quindi a
quanto scrissi in altra occasione23.
La tavola di impianto urbano che nel primo numero di “ OP ” apre la documentazione di progetto,
rivela intenzioni che si apparentano ad altri progetti urbani (Perugia, Milano, Torino), ma con una
intuizione molto chiara circa il ruolo che il museo avrebbe avuto nella città. Rigorosamente
ortogonale rispetto all’asse direttore di Via Bettini, tra i Palazzi Annone e Alberti, la “ strada
nuovissima ” delle arti porta al centro della piazza circolare, ricavata per sottrazione di un terzo di
volume dalla massa quadrata dell’edificio. L’architettura moderna che sorge così alle spalle dei
palazzi antichi, conferisce loro nobiltà dimenticata perché li introduce da protagonisti in un discorso
generale di rapporti urbani rivitalizzati anziché essere spettatori passivi. Come accade per gli
ingressi domestici delle sue case, anche la nuova porta delle arti richiede di essere cercata
all’interno della nuova piazza. La metafora della porta che svela il segreto dell’antro con la parola
21
Cf. Mario Botta opera completa vol. 2, cit. p. 196. Gli espliciti riferimenti di Louis Kahn alla Piazza del Palio sono in
Mazzariol G., Un progetto per Venezia, cit.; soprattutto per quanto si riferisce all’opera dell’architetto americano
Ronner H. – Jhaveri, Louis Kahn complete work 1935-1974, Birk-hauser, Basel-Boston 1987, qui alle pp. 374-375.
22
“Plus forme” (a cura di), Mario Botta riflessioni, cit. p. 183 e prima.
23
Gresleri G., Bottiana, in Cappellato G. (a cura di), Mario Botta, Luce, Gravità, cit. p. 16 ss.
che solo il saggio conosce, appare in tutta evidenza quando, rallentato il passo e attraversato il
cerchio, l’oggetto mostra la sua complessità organizzativa. Il quadrato che genera il museo è
generato a sua volta da un pattern strutturale di elementi ripetuti che ricorda il sistema aggregativo
dell’ospedale di Venezia cui Botta lavorò negli anni ’60, a dimostrazione che - al solito - per
l’architetto la tipologia non scaturisce dall’analisi dei modelli locali ma piuttosto, come ricorda
Gubler, si estrapola dallo studio dell’opera dei maestri 24. Il perfetto inserimento dell’edificio
nell’intorno avviene dunque con naturalezza interpretativa e monumentale assieme, a conferma di
una capacità di interpretazione giunta al punto più evidente della sua leggibilità. Altri sono gli
elementi che inseriscono l’oggetto nel paesaggio, riassumendolo: l’altezza, i profili, la fredda pietra
di cui è rivestito che si adatta bene all’idea di una grande piazza pavimentata e coperta, capace di
sfruttare appieno l’effetto astrale della cupola vetrata, collocata all’incrocio di una via “ interna “
con una via ” esterna “.
I facili riferimenti alla volta opaca del Pantheon hanno fatto il giro del mondo, dimenticando la
sorprendente analogia di questa soluzione con le tradizioni delle gallerie urbane ottocentesche e in
particolare con quella mengoniana di Milano che Botta ha avuto sotto gli occhi innumerevoli
volte25. Nella grande architettura di Rovereto non c’è nessuna nostalgia per le opzioni
rappresentative della “ tendenza ” così come nessuna idea “ anti urbana ” quale appare in molti
progetti “ di moda “ di questi ultimi anni; l’architettura di Botta ha bisogno della città e del suo
paesaggio come fatto dialettico, orizzonte su cui misurarsi. Essa intesse con l’esistente un discorso
critico: intende farsi accettare per come appare senza mimetizzarsi né “ conciliarsi ” con l’esistente,
ma utilizza l’esistente come materiale in evoluzione. Botta ha saputo aprire una nuova stagione
all’architettura moderna perché adotta la parola “ architettura ” in senso lato; essa è progetto
formale, controllo tecnico del manufatto, gestione dello spazio urbano, volontà di dare ai materiali
significati sempre diversi, sentendosi però impegnato a non uscire dal repertorio della tradizione
moderna. Essa accetta questa contraddittorietà; l’interesse per il nuovo e per la tecnologia è analogo
a quello che dimostra per la tradizione, anche la più arcaica. Catalogatore e collezionista di
immagini (la memoria visiva ricordata da Jean Petit), Botta è in grado di sottoporre la storia ad
un’analisi che consente comunque il suo recupero, quindi di operare caricando il progetto di
significati riconoscibili.
È difficile, nel vuoto del grande atrio del MART da cui si sviluppa la spina delle scale che
collegano i piani del museo, sottrarsi all’immagine folgorante e “ deperiana ” dei cunei sovrapposti
ed incastrati tra loro, motivo che si vede negli intagli dei mobili dell’artista di Rovereto (1920). Ma
è anche impossibile non cogliere tracce di architetture che compaiono in opere come Il fulmine
compositore (1932) o Festa della sedia (1927), entrambe conservate al MART26. L’intera spazialità
del museo offre poi citazioni mazzoniane, brani di paesaggio urbano incorniciato da finestre a telaio
metallico, qualcosa di molto simile alle trasparenze della stazione trentina o a quelle sperimentate
molto prima da Figini, Pollini e Libra. Il contesto costruito ha generato in qualche modo una
architettura che “osserva” gli edifici circostanti così che diventano essi stessi oggetti coinvolti nel
progetto. I percorsi sono organizzati per non avere col fuori rapporti se non strategicamente mirati,
al fondo delle prospettive delle strade interne, “ lontano”. Tutto si concentra nel vano centrale e poi
fluisce nelle stanze fatte per mostrare. Nella loro giustapposizione di parti autonome, esse scorrono
le une nelle altre, così che il visitatore non perde la strada lungo la quale si sviluppa la narrazione
24
Gubler I., Cantieri, cit., p. 7.
Gresleri G., Un capitolo dell’architettura moderna non ancora scritto, in Guccini A. M. (a cura di), Giuseppe Mengoni
architetto d’Europa, Cassa di Risparmio in Bologna Ed., Bologna 1998. L’ammirazione di Botta per Milano e per la
sua architettura viene spesso ricordata. Una citazione recente dell’architetto lo conferma: “la mia città è Milano, la mia
capitale morale, la sorgente culturale alla quale attingo”. Cfr. Botta M., Quasi un diario, cit., p. 263.
26
Su Depero e l’architettura gli studi sono incredibilmente assenti. Non sembra interessare la critica l’influenza che il
pittore trentino esercitò su tutta la generazione degli architetti futuristi. La sua amicizia per Angiolo Mazzoni è, negli
studi recenti, poco più che un aneddoto. Su tali argomenti cenni interessanti sono in Passamani B., Depero, Comune di
Rovereto – Musei Civici – Galleria Museo Depero, 1980. Anche in Belli G., Depero, Electa Ed., Milano 1988, catalogo
dell’omonima mostra roveretana.
25
pittorica. “Concentrazione” e “dispersione” fanno parte di una strategia attraverso la quale il museo
è allo stesso tempo un’architettura per mostrare e un’architettura che si mostra. Da tutto ciò dipende
probabilmente lo straordinario successo internazionale avuto da questo edificio, che deve essere
“cercato” pur sapendo dov’è e che risponde perfettamente al programma culturale dell’Istituzione
che l’ha voluto, Il “Sacro” e la Casa di Luce27.
Botta aveva tentato qualcosa di analogo qualche anno prima di essere coinvolto nel progetto del
MART, quando venne incaricato di dare soluzione alla Sinagoga Cymbalista e al Centro
dell’Eredità ebraica nel Campus universitario di Tel Aviv. In una situazione urbana diversa e poco
compatta, viene riproposto il tema del quadrato e del cerchio, qui connessi uno all’interno dell’altro.
Attraverso una formidabile progressiva rastremazione dei ricorsi che salgono, il poligono di base e
quello della copertura si sovrappongono specularmente mentre attorno a loro le pareti passano
magicamente dalla figura cubica a quella cilindrica. Il vuoto risultante tra quadrato inscritto e
cerchio circoscritto, serve per far scendere all’interno una luce zenitale che varia col variare del
percorso solare e giunge a terra rifratta dall’asperità e dal vibrare delle superfici interne. Le due torri
troncoconiche e rovesce, perfettamente identiche pur contenendo funzioni diverse, sono una di
fronte all’altra. Si tratta infatti di funzioni complementari, perché il “sacro” della preghiera
confluisce nello studio e nel sapere. Un passaggio “graduale“ che si effettua mediante un porticato
e un’area di accesso. I due edifici gemelli si “svolgono” l’uno accanto all’altro, come i “rotoli della
legge”, strettamente connessi dalla pagina che fluisce durante la preghiera. Botta ha accolto qui e
svelato un enigma presente nella storia dell’architettura, quello di due edifici identici (templi votivi,
porte urbane, torri difensive, ecc.) e lo ha reinterpretato con una libertà compositiva nuova,
generando una sensazione visiva analoga a quella che si prova osservando figure identiche (pedine,
torri, alfieri e regine) quando si confrontano fra loro sulla tavola degli scacchi28.
Ad una scala e con significati diversi è riproposta qui l’idea che era stata formulata nel 1984 col
progetto del Palazzo del Cinema a Venezia. Nell’evoluzione dei tipi occidentali, gli edifici “doppi”,
*** piani danno luogo alla singolare struttura romanica del “penty rigion” (la pianta quadrata con
quattro travi angolari identiche, con una quinta al centro) che genera, per evoluzione tipologica
quella specie di “sacrum palatium” che la cattedrale romanica nella sua prima stagione (Cluny ad
esempio) ma anche San Gallo (dove si trovano elementi binati e speculari sia cilindrici che a pianta
quadrata), per trovare poi espressione architettonica potente e **** di Santiago di Compostela o nel
Duono di Spira29.
Dato che corpi di fabbrica affiancati e identici si trovano già in progetti di Kahn (studi per
l’Ablution’s Court a Dacca), negli studi per gli edifici dell’Università della Virginia (1961-63)
mentre espliciti riferimenti alla forma archetipica del “quadrato sacro” sono nel progetto della
Sinagoga di Gerusalemme che l’architetto americano elabora tra il 1968 e il 1974 30. Ovviamente i
riferimenti che Botta fa a questi “segni” architettonici del suo maestro (il fatto è già stato più sopra
evidenziato) sono esclusivamente di segno “analogico” appartenendo semmai ad una tecnica di
montaggi che li usa come pedine (il riferimento alla “scacchiera” fatto più sopra è dunque calzante)
in cui vengono inseriti con matericità, composizione logica nuova solo alludente al suo patrimonio
mnemonico.
In un mondo fortemente destrutturato, l’edificio sacro può essere dunque inteso (oltre la pratica e la
funzione religiosa che gli sono proprie) non solo come segno dell’essere cristiani o ebrei o
musulmani, ma qualcosa che rappresenta gli uomini nella loro complessità e il mondo stesso nella
sua sacralità. Esso dichiara nel medesimo tempo la separatezza dalla ripetitività del quotidiano. Il
miracolo dell’architettura cristiana sta nel tentativo di “redimere“ tale separazione. Oltre i significati
27
Accolgo qui il tema da me già sviluppato in occasione della mostra “Opere Recenti” di Mario Botta a Padova nel
Palazzo della Ragione. Rinvio pertanto al saggio scritto in quella occasione: Bottiana, in Cappellato G. (a cura di),
Mario Botta, Luce, Gravità, cit.
28
Botta M., Una Sinagoga, in Quasi un diario, cit., pp. 180 ss.
29
Le più accessibili dissertazioni su tali argomenti si trovano in Norberg-Schulz, Il significato nella architettura
occidentale, Electa, Milano 1973, pp. 150 ss.
30
Cf. Louis Kahn Complete work 1935-1974, cit.
liturgici che Botta ha tradotto perfettamente nella chiesa di Sriate, tale conciliazione è affidata
principalmente alla geometria dell’involucro murario, nella varietà dell’ interpretazione data a “ciò
che recinge”. Il luogo sacro può farsi così impenetrabile fortezza dell’immagine biblica (ciò che
distinguerebbe il quotidiano dal divino, come a Tel Aviv). Gerarchicamente ordinato su precise
tipologie, si trasforma nella basilica cristiana (vaso di luce, porta del cielo, tabernacolo celeste,
Arca dell’Alleanza, nave sicura in ogni procella, città di diaspro, casa degli angeli, vaso degli
aromi, ecc.) secondo la poetica e struggente terminologia liturgica che associa l’edificio
all’immagine della Madre del Signore e che è servita anche a Botta per lanciare un ponte tra
l’iconografia di Ronchamp e quella del Monte Tamaro. Il significato di tale teofania celeste si
sviluppa lungo una tradizione di duemila anni entro la quale, edifici stilisticamente molto diversi
sono stati costruiti con gli stessi obiettivi, cercando di dare misura al mondo e di illuminarlo perché
possa essere visto, quindi capito: “e la luce fu”, recita il Genesi. La luce si oppone al buio che nega
la misura delle cose. Isaia parla di un “popolo che camminava nelle tenebre e vide una grande luce”.
Per poter essere “ visto” dagli uomini, Dio si cela dietro una “nube sfolgorante”; infatti non è
possibile guardare il Signore in faccia, né “la fiamma del roveto che arde” né resistere al “vento del
Tabor”; “facciamo […] tende per te, per Mosè, per Elia” è il proposito degli Apostoli stremati dalla
fatica del pellegrinaggio e della ascesa alla sacra montagna. La permanenza di Dio nella tenda (nella
chiesa) è struggente presenza che abita il tabernacolo, luogo che la preziosità della materia rende
vivo e palpitante assieme. La separatezza del luogo lo protegge e lo offre come punto della
massima concentrazione spaziale. A nessuno verrebbe in mente di chiedere a Botta se egli creda o
meno in Dio. Certo è che egli ha dato, con alcune sue architetture religiose un’interpretazione
fascinosa di tali concetti, di fronte ai quali è difficile restare indifferenti. La chiesa come luogo di
luce (luogo che riceve e rimanda la luce) è del resto il grande tema che attraversa l’architettura
dell’Occidente31. Scendendo dalle cupole dorate delle chiese bizantine, rimbalzando sui mosaici,
raccolta e riflessa dalle absidi, effusa dalle grandi vetrate delle cattedrali, orientata con procedimenti
arcani dai pertugi delle chiese romaniche, la luce è il primo vero materiale costruttivo dell’edificio
sacro32. Botta ha fatto di tale questione il principio stesso che regola la sua architettura, che sta
assumendo, in certa misura, anche un carattere di “sacralità“. Ma sacre o profane che siano le sue
costruzioni, esse sembrano voler annullare il gesto estremo che si compie ogni volta in cantiere,
quando l’ultima tavella o l’ultimo coppo definiscono per sempre che il cielo deve stare fuori e
dentro l’ombra oscura.
Giuliano Gresleri, Bologna Febbraio 2010
31
Su questo argomento, e in particolare sull’architettura religiosa di Mario Botta cfr. Norberg-Schultz C., Luoghi tra
cielo e terra, in Mario Botta 5 architetture, catalogo dell’omonima mostra alla Fondazione Querini Stampalia di
Venezia, Skira Ed. Milano 1996. Nello stesso volume, Pozzi G., La chiesa in cinque chiese, affronta in specifico un
tema che è ora parte essenziale dell’architettura bottiana.
32
Oltre alle celebri annotazioni di Le Corbusier per Ronchamp e Firminy cui Mario Botta si è evidentemente rifatto,
l’orientamento della luce come specifico mezzo di definizione dello spazio religioso è stato affrontato dagli architetti
moderni solo in tempi relativamente recenti. Esemplari, e ancora oggi di straordinaria efficacia, le parole di Luigi Figini
al 1° Convegno di architettura sacra a Bologna del 1955 cui fecero eco quelle di Michelucci e Quaroni che si
interessarono appassionatamente a tale questione. Cfr. pertanto Trebbi G. (a cura di), Dieci anni di architettura sacra in
Italia 1945-1955, UTOA Ed., Bologna 1956; segnatamente le pagine 42 ss. Sul senso e l’uso della luce nell’edificio
sacro cfr. anche Botta M., Mogno per Jean Petit, in Quasi un diario, cit. pp. 131 ss.