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Alice senza niente – romanzo di Pietro De Viola
1a Edizione digitale ottobre 2010
La foto di copertina è del mio amico Jorge Rua
Alice senza niente è un romanzo distribuito gratuitamente
sul web. E’ impossibile sapere con certezza quante persone lo
leggeranno. Voglio ringraziare sin da ora quanti saranno così
cortesi da segnalarmi via email di averlo scaricato.
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2
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Alice senza niente
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4
a Maria
5
6
1.
Sono seduta in pullman, a sinistra, proprio
accanto al finestrino. Stamattina l’autista sembra
aver perso tutta quella tranquillità e lentezza
irrazionali che l’hanno sempre contraddistinto, da
quando lo conosco io almeno. Corre. Pare mangiarsi
la strada, questo carrozzone di lamiera sul quale sto
seduta, ad ogni curva e ad ogni galleria. Rende quasi
impossibile la lettura, con tutta quella luce fastidiosa
da festival tecno. Lui, l’autista, non si preoccupa di
nulla, nemmeno del doppio senso di marcia in
alcuni tratti dell’ autostrada da terzo mondo, e corre.
Prima, per un attimo, dallo specchietto mi è
sembrato uscisse qualcosa di simile ad un ghigno
che si stampava sulla sua faccia rugosa fatta di pelle
secca. Per un attimo ho avuto paura e mi sono
guardata intorno.
Mi sento serena solo quando nessuno mi si è
seduto accanto. In genere faccio di tutto per restare
sola. Appena salita cerco subito il posto che secondo
me allontanerebbe chiunque e mi ci siedo, adagio la
mia borsa sul sedile di lato e ruoto la testa dalla
parte opposta ai passeggeri in entrata. Mi vedono
quasi assente credo, o magari pensano che la borsa
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occupi il posto di qualcun altro e rinunciano a
chiedere:
“Signorina, è libero?”
Magari andasse sempre così.
I più fastidiosi sono certi buzzurri che si
accomodano senza respirare, senza domandare
nulla, così. A volte sono talmente distratta che mi
riesce facile il non sentirli, e mi accorgo solo in
seguito di avere accanto un autentico sconosciuto.
Per questo metto la borsa, volenti o meno dovranno
chiedere permesso prima di sedere ed io per assurdo
potrei anche rispondere:
“No mi dispiace, sto aspettando mia madre.
Salirà alla prossima fermata.”
Ma non ho risposto così cinque minuti fa,
purtroppo.
Mi si è avvicinata questa vecchietta vestita da
confetto, tonda e tozza, sorridente e dall’aspetto
familiare. Poveraccia, sembrava reggersi in piedi a
stento, non potevo inventare nessuna scusa. Le ho
fatto posto.
L’avessi anche solo sospettato per un attimo che
specie di vecchiaccia fosse, mi sarei alzata e diretta
verso i sedili in fondo. Ride, parla in continuazione
con tutti ad alta voce, come se in questo bus
esistessero solo lei e la sua faccia felliniana, come se
gli altri passeggeri avessero tutti la sua identica
voglia di ridere e comunicarsi emozioni. Io invece
sto male. Ho la solita nausea di ogni mattina, la
stessa acidità di stomaco. Ad ogni curva che questo
autista-valentinorossi taglia ghignando una nuova
ondata di malessere mi sale fin su gli occhi e la testa.
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Avrei bisogno di una bacinella per vomitare ed al
solo pensiero sto peggio ancora. Cerco di distogliere
l’attenzione dalle sue chiacchiere apocalittiche e
poso gli occhi in linea retta sul dorso nero del sedile
che mi sta davanti. C’è un Giulia ti amo a caratteri
microscopici che uno studente poco sicuro di sé deve
aver impresso ormai anni fa, a giudicare dalle
condizioni pessime del bianco della scritta a vernice
di scolorina. Accanto c’è una rosa così netta e
definita che vista da lontano potrebbe sembrare
vera. Poi vedo solo bianco. E’ un attimo, e sono come
ricoperta da un drappo bianco.
Mi giro di lato, la vecchia continua a gracchiare e
ridere, stavolta ha proprio fatto amicizia con uno
studente di una qualche ingegneria e parlano di
analisi. E’ così fastidiosa e invadente che non ha
alcuna vergogna nel chiedere in prestito il libro. “Per
imparare qualcosa di nuovo” dice. Ma cosa vuoi
imparare a quell’età? protesto in silenzio, io che
adesso soffro anche di razzismo estemporaneo
dovuto al malumore. Comincia a leggere ad alta voce
intere pagine di assiomi, teoremi e dimostrazioni
incomprensibili, ed ha la faccia di chi stia proprio
intendendo ciò che legge. Sembra che nessuno ne sia
disturbato, anzi sui sedili posteriori scopro altre
pensionate che, come lei, ridono e parlano e ridono e
leggono libri di matematica e ancora ridono dietro il
loro trucco pesante e le mammelle sfatte abbondanti
che dondolano nel borotalco. Tutto il bus è un circo
ed io sto male, mentre gli adulti cominciano a
piangere, i bambini ridono e gli studenti in
cravattino si baciano tra loro.
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Una maledetta mano invisibile le passa un libro
di economia politica, ed è la fine. Comincia a
riassumermi all’orecchio destro, rapidissima, tutto il
programma di microeconomia. Parte dagli assiomi
letti nel volume, si inarca sull’abc dello studio di una
funzione e poi si lancia col trapezio sulla teoria del
consumatore, domanda e offerta e relative funzioni,
vincolo di bilancio, curve d’indifferenza, saggi
marginali e… si ferma. Si sarà stancata? No!
Ricomincia: elasticità della domanda, elasticità
incrociata rispetto al prezzo di un altro bene, persino
con l’elasticità rispetto al reddito cerca di sfondarmi
il timpano! Tira fuori la lingua, dà una leccata agile
al mio lobo destro e segue con lo studio dei mercati
perfettamente concorrenziali, il monopolio e
l’oligopolio. Gli isoquanti e le rette di isocosto! Non
finisce più!
Ancora bianco. Stavolta disegna un arco di 180
gradi sul mio volto disteso, ed al centro c’è proprio il
lampadario di bambù intrecciato.
E’ come se fossi sbalzata in avanti verso l’altro
sedile, quello del Giulia ti amo, ma non sento
dolore. Vedo la vecchiaccia rotolare per lo stretto
corridoio, i bambini strillare, altri dire Mio Dio.
Guardo di lato, fuori: abbiamo proprio messo di
sotto qualcuno. Comincio a tremare, una ragazza
dicono due manager spettinati che stavano facendo
l’amore. Ma povera penso io, ma non fa niente,
tanto non aveva colloqui oggi dice l’autista, ah beh
allora fanno tutti in coro e lo recitano come fosse un
rosario, sembrano mille monaci tibetani raccolti in
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preghiera: Ah beh allora Ah beh allora Ah beh
allora Ah beh allora Ah beh allora…
Poi ancora bianco, e ne sono proprio invasa da
questa massa di lenzuola del mio letto freddo a due
piazze. Guardo la sveglia: le sette. Che sogno goffo,
sono veramente arrabbiata con me stessa. Il modo
meno corretto di cominciare la giornata.
Non mi piace dovermi alzare con un brutto sogno
ancora vivo in testa, continuerei a dormire sino a
quando non ne arrivassero altri, dolci e belli, come
quelli che facevo anni fa, ai tempi del liceo. Ho
sempre bisogno di un minuto buono al risveglio,
giusto per rendermi conto di dove mi trovi, di chi sia
io e del perché debba alzarmi a quest’ora,
stamattina. Dopo aver trovato le mie risposte mi
sento già più pronta per affrontare la giornata, ma
con questo freddo oggi è pesante abbandonare le
coperte. Riccardo è già uscito per il jogging e non ho
sentito nulla, mi avrà vista dormire profondamente
e avrà pensato fosse meglio non chiamarmi. Lui si
che si alza presto, corre e torna a casa più riposato di
prima. Per me qualsiasi orario è sbagliato per
svegliarsi la mattina. Di pomeriggio sarebbe meglio
anzi no, di notte, io preferirei alzarmi di notte,
perché man mano che passano le ore carburo di più
e le idee migliori fioccano che è una bellezza. Non
posso permettermi il lusso di continuare a riflettere
su sogni ed orari: orizzontale come sono, col cuscino
che mi accarezza la nuca, rischierei di
riaddormentarmi senza avere il tempo di
accorgermene. E’ una situazione dura e senza
soluzione la mia, devo violentarmi per togliermi dal
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petto queste foglie autunnali su sfondo marroncino
costituitesi in coperta trapuntata, e togliermi dal
letto.
Viste così da vicino, con la faccia supina sul
materasso e gli occhi a seguire le linee sbilenche del
pavimento, le mie ciabatte sembrano molto più
grandi del loro 38. Azzarderei una misura 40.
Bellissime. Di un giallo lussurioso che dà forma
compiuta ad un piccolo cammello, no è un
dromedario, e ad un fusto arboreo di palma. Mi
sembra quasi di non meritarmele, queste ciabatte
cinesi da 2 euro. Me le metto ai piedi e vado ad
alzare la serranda.
La stanza comincia a farsi luminosa di luce
naturale, l’unica che non mi innervosisca negli
ultimi tempi. La mia miopia è andata peggiorando:
non sopporto la luce elettrica, ho bisogno di chiarore
autentico.
La giornata non sembrerebbe di quelle peggiori.
E’ nuvolo certo, il che è anche accettabile pensando a
questa fine di gennaio freddo, ma non piove. Le
macchine già sputano gas neri all’incrocio tra Corso
Cavour e il grande viale Vittoriano; ne intravedo gli
occupanti se mi metto gli occhiali. Ogni ora ha la sua
categoria di guidatori d’auto. Questo è il momento di
chi è ancora in orario e vuole rimanerci, a giudicare
dalle espressioni che riserva al semaforo qui sotto
che non si decide a farsi verde. Tra mezz’ora vedrò
madri e padri portare zaini colorati con i figli
attaccati, come fossero accessori di quelle specie di
borse da viaggio alla fine del mondo. Un attimo
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dopo arriveranno impiegati diretti ai loro uffici pieni
di carte e di voglia di tornarsene a casa.
La signora del pane non è ancora passata. Di
solito alle sette e un quarto ha già completato i
quattro palazzi dell’incrocio e la vedo allontanarsi
col suo furgone rosso verso lo strappo di Via
Garibaldi. E’ bionda, ma di un biondo estremamente
appassito, che scolorito e stopposo non la rende né
affascinante né luminosa. Eppure è ancora giovane,
nonostante i suoi modi comunichino qualcosa di
molto vicino alla stanchezza di vivere.
Sento i capelli gonfiarsi d’acqua fino a quando la
testa non ne è piena. Diventano pesanti, poi le gocce
cominciano a uscire dai lati e scivolare verso altre
parti di me; in un attimo sono completamente zuppa
d’acqua calda. Non è affatto un’incantevole
cerimonia del bagno ma piuttosto uno strattone
shockante al mio sonno, ed infatti in venti secondi
sono sveglia del tutto. Shampoo al tiglio e camomilla
dolce per non spezzare neanche uno dei miei capelli
chiari che cerco di curare meglio che posso.
Docciaschiuma al ginseng per tutto il mio metro e
settantacinque di pelle liscia tendente al vellutato,
come Ric ripete spesso. Insapono le braccia ed il
collo, i seni, il ventre; poi scendo giù per le gambe
fino ai piedi di un biancore spaventevole stamattina.
Mi bastano ancora pochi istanti e sono avvolta
nell’accappatoio rosa molto kitsch già di suo, ma che
evidentemente non era sufficiente per il suo
ideatore, il quale per completare il tutto ha voluto
aggiungere delle margherite enormi ricamate, di
modo che, quando per puro caso, in un pomeriggio
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d’un ottobre fa, una zia fosse passata davanti ad una
vetrina del centro, un passante avrebbe potuto udire
tali parole:
“Ma quant’è douce st’accappatoio! Pare fatto
apposta per Alice, vediamo quanto costa”. Venti
euro non spaventano la zia Rachela, grazie a Dio.
La zia Rachela è figlia di un errore. Il suo nome in
verità era Rachele, ma nel 1936 un refuso dell’ufficio
anagrafe non era cosa infrequente. Tutti l’hanno
sempre chiamata Rachele ma io, da quando ho
scoperto che la sua carta d’identità non mentiva, uso
il suo nome ufficiale. Si è arrabbiata un po’ ma solo
all’inizio, ormai sono anni che la sua nipote preferita
le cambia una vocale. Sapevo non sarebbe durata a
lungo, la tranquilla zia si è trascinata incolume alla
sua bella età anche grazie ad un vero patto di non
aggressione con il mondo esterno. Mai una malattia
seria, mai un incidente, mai un profondo dispiacere,
la zia Rachela. Di contro: mai un tonfo al ventricolo
destro, mai un’allegria sfrenata, mai qualcuno che le
spaccasse lo stomaco d’amore, per quanto ne sappia.
Sta a guardare dalla finestra lucidando la teiera
d’inox anche se le immagini che girano all’esterno
sono le stesse ormai da anni, nulla cambia. Ma lei si
bea del tempo e lucida. Quando la sento bussare alla
porta è per me la fine di un sogno fatato: quello di
essere padrona di me stessa, senza lei che,
nell’ordine, apra il freezer per controllare che gli
alimenti siano incellofanati bene, controlli la
cassetta della posta, stacchi le mie prese di corrente
sovraccariche per evitare che il mio computer
s’incendi per corto circuito, controlli con fare
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nazionalsocialista che il wc non riporti incrostazioni
di sorta, lustri in modo delicato ma deciso l’unica
bomboniera d’argento che ho in casa, sorpresa
gradita di un matrimonio, mentre invece io vorrei
che lo sporco e gli acari la disintegrassero in polvere
725. Questa è la zia Rachela, un concentrato di frasi
del tipo:
“Hai mangiato oggi?”
“Quando pensi di dare la cera?”
“Avresti bisogno di un nuovo ferro da stiro.”
“Cerca di usare solo olio extravergine di oliva!”
“Che bella donna sei diventata, Riccardo deve
stare attento, hi hi hi!”
Se ci penso è un prezzo basso da pagare. In
cambio mi regala shampoo al tiglio, docciaschiuma
al ginseng e accappatoi rosa.
Questo mese ho compilato 193 form online su siti
aziendali alla voce lavora con noi. Ho scritto 193
volte il mio cognome e nome. Per 193 volte ho
indicato indirizzo, numero civico, cap, città,
provincia di residenza e di domicilio (da non
indicare qualora quest’ultima coincidesse con
l’indirizzo di residenza. Non coincideva). Per 193
volte ho indicato il mio numero di cellulare ed ho
lasciato in bianco il box relativo al numero di
telefono fisso, mentre sempre 193 sono state le volte
in cui ho aggiunto il mio indirizzo email e la data di
nascita.
Poi, 193 volte, sono passata alla seconda fase:
istruzione e formazione. Il mio diploma di maturità
classica conseguito nel 1999 con un voto di 84
centesimi presso l’Istituto (ed ho messo il nome
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dell’Istituto) della mia città (ed ho messo il nome
della città) è apparso per 193 volte, esattamente lo
stesso numero di volte in cui ho inserito la mia
laurea in Scienze Politiche indirizzo politicoeconomico vecchio ordinamento, conseguita presso
la mia Università (ed ho messo il nome della città
della mia Università) con il voto dirompente di 110
centodecimi. Niente lode.
Che conosco ottimamente lo spagnolo, meno
bene l’inglese ed a livello scolastico il francese l’ho
specificato 193 volte. Per 193 volte ho scritto di aver
avuto un’esperienza di studio all’estero durata 6
mesi.
Per 193 volte ho cliccato sulla freccetta a destra e
sono placidamente passata alla sezione Precedenti
esperienze lavorative. In un supermercato come
addetta al reparto e cassiera ho lavorato 193 volte, lo
stesso numero come venditrice telefonica di linee
adsl e agente immobiliare. Per 193 volte sono inoltre
stata babysitter presso varie referenziate buone
famiglie.
Le competenze acquisite sono state il mio forte
ben 193 volte: realmente più esperta di un agente
Cia di stanza a Düsseldorf. So programmare in html,
conosco quasi tutto il pacchetto Office e OpenOffice.
So usare alla perfezione programmi come Nero,
Photoshop, Corel Draw e simili, ho persino qualche
rudimento nel montaggio di filmati. Cucino
abbastanza bene, so lavorare a maglia, i vetri delle
finestre li faccio splendere come diamanti. Ho
esperienza nel commercio elettronico in quanto
venditrice Ebay di tutto ciò che trovo gratis in giro.
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Conosco anche il sistema operativo Linux ed almeno
tre programmi per la gestione della posta. So inoltre
abbozzare qualche passo di habanera e accennare
parecchi accordi di chitarra insegnatimi da
Riccardo. Chiaro, tutto questo l’ho segnalato per 193
volte.
Ho indicato tutta Italia tra le preferenze
territoriali 193 volte, esattamente lo stesso numero
di volte in cui ho riempito con le mie frasi mistiche il
box vuoto dedicato alle motivazioni:
“Crescita professionale e umana in un’azienda
altamente strutturata come la vostra. Grande
desiderio di imparare con abnegazione ed umiltà e
mettere al servizio le mie doti di responsabilità e
passione già utilizzate negli anni di studio
universitario in Italia ed all’estero”.
Ho anche inviato 96 email ad altrettanti istituti
bancari e mi sono recata al Centro per l’impiego tutti
i mercoledì e venerdì pomeriggio. Sono anche stata
in 4 agenzie di lavoro interinale.
Questo mese ho fatto questo, e siamo ancora al
25.
Le mie 193 compilazioni a qualcosa hanno
portato. Sono seduta al primo piano della
multinazionale dei miei sogni e aspetto. La posizione
per la quale ho passato la maggior parte dei sabato
sera dei miei 20 anni a studiare ha il nome pomposo
di Allievi capo reparto settore casse. Per me è un
gergo facile facile per dire che fai la cassiera per un
anno, poi, se hai esagerato con gli straordinari
gratuiti, se oltre a far da cassiera non ti sei
preoccupata quando c’era da lustrare casse, scaffali e
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gabinetti, se nel frattempo il supermercato della tua
multinazionale non è stato acquisito da un’altra
azienda ancora più multi della tua attuale multi, se
non ti hanno licenziata e, infine, se non è stato
dichiarato fallimento per mancanza di liquidità,
forse diventi capo reparto. A quel punto sarai
personalmente responsabile di una serie di fattori
che sconosci e sui quali non hai nessun potere, hai
100 euro mensili in più in busta paga e rischi il
licenziamento ogni giorno.
Ma è un gergo anche per dire che sarebbero 1000
euro al mese, il che per me significherebbe un
aumento di quelli che noi economiste siamo solite
definire ad elasticità infinita, visto che attualmente
parto dalla cifra di zero euro mensili lordi. Non
penso nemmeno a cosa potrei farci, con 1000 euro
mensili.
Una gonna alla Sisley prima cosa. Di un colore
che non deve andare bene per tutte le occasioni, non
voglio più comprare vestiti da utilizzare per 5 anni,
voglio una gonna a fisarmonica di cotone leggero
anche se siamo a gennaio, a fiori azzurri su sfondo
blu scuro. La indosso subito, esco dal negozio e a
fine giornata, giuro, se mi assumono, la butto via.
Poi le scarpe. Due paia. No! Cinque paia, cinque.
Un paio con tacchi a spillo, rosse, elegantissime.
Un paio di anfibi da smaltare e attrezzare subito
con lacci colorati.
Un paio basse scamosciate.
Un paio di stivali di pelle nera da 200 euro
minimo.
Un paio da tennis comode comode.
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Tre maglioncini, un bel cappottino, qualche
completino intimo. Poi voglio un piumone di vera
piuma d’oca, il freddo la notte ci disturba il sonno
nonostante i nostri bollenti spiriti.
Voglio riempire il carrello con così tanto cibo da
bloccarne le rotelline, il peso dev’essere talmente
tanto che non deve andare più né avanti né indietro.
Di lato si deve muovere il mio carrello, girando su se
stesso. Chiamo un mio futuro collega ad aiutarmi,
così socializzo. Voglio che la cassiera impieghi otto
minuti di orologio a passare la mia spesa al lettore
ottico, voglio che le si infiammi il tunnel carpale e
poi dica, sudaticcia: duecentoventisette euro e
novantatre centesimi. E voglio fare invidia e rabbia
a tutta la gente in fila che dopo aver aspettato otto
minuti è pure costretta a vedere quanto io sia lenta
nell’estrarre due banconote da 100, una da 20 ed
una da 10. Li voglio sentire sbuffare dietro di me
come non hanno mai fatto, visto che le mie sono
sempre state spese da 15, 18 euro al massimo.
Non ho più comprato un libro da 3 anni, voglio
entrare in libreria e afferrare il primo che mi capiti e
sperare che faccia schifo, tipo quei romanzi con
protagoniste disoccupate sfigate coincidenti con l’io
narrante o quei manuali con diete straordinarie a
base di carote ed ossobuco. Ecco, anche un vassoio
di carote da un chilo e sette - ottocento grammi di
ossobuco.
Faccio il pieno alla Fiat Uno, poi vado in una
concessionaria e con la prima busta paga firmo
subito la richiesta per un finanziamento per una Y10
nuova, celeste. Do fuoco alla Uno e a bordo della Y10
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passo a prendere Riccardo che avrà già capito dove
lo porterò. Negozio di strumenti musicali e lì la
famosa frase da film:
“Scegli pure la chitarra che preferisci. E’ un regalo
amore mio.” E le sue lacrime, e l’abbraccio, e i baci.
Poi visto che, in caso, a tagliare le spese c’è
sempre tempo, la pizza. La pizza! In una pizzeria
vera, una vera pizza in una pizzeria vera! Non di
quelle surgelate a 50 centesimi l’una in offerta, né
quelle a due euro l’una di marca. Una pizza vera,
durante un vero sabato sera, con un forno a legna
vero, un vero pizzaiolo bagnato di sudore, una
cameriera che mastica la gomma ed un pelo
pettorale del pizzaiolo tra un’oliva e un carciofino,
incastonato nella mozzarella fusa. Un sogno.
Appunto, un sogno, sto sognando e mi si vedrà in
viso. Meglio ricomporsi subito e pensare ad altro.
Di aspiranti ne arrivano altri 3, tutti maschi, tutti
intimoriti. Forse è il loro primo colloquio, sono più
giovani di me e salutano deferenti e a bassa voce
come fossi l’amministratore delegato in persona.
Accenno un buongiorno e non li guardo nemmeno,
quando ho un colloquio mi mostro calma e
tranquilla ma è una finzione che non riuscirei a
sostenere se cominciassi a parlare con estranei
nervosi. Piuttosto mi impegno a compilare il solito
modulo aziendale, ripetendo per l’ennesima volta
sempre le stesse cose. Ormai ho l’impressione di
aver mandato il mio curriculum vitae a memoria,
non a livello concettuale ma esattamente virgola per
virgola, lettera per lettera, titoli compresi: dati
personali, istruzione e formazione… Non ne posso
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più. Ho persino quella paura tipica di chi debba
recitare una poesia e teme di bloccarsi a metà strada
senza parole in bocca, come se quella che sto
descrivendo nel modulo prestampato non fosse la
mia vita ma quella di una poetessa russa
dell’ottocento ed io l’avessi leggiucchiata in metro
soltanto mezz’ora prima dell’interrogazione.
Con tre lucenti monete da un euro mi sono
procurata quattro fototessera giuste per l’occasione.
Ne prendo una dalla borsetta Carpisa blu,
nonostante provengano dalla macchinetta della
stazione sono venute bene.
La incollo in alto a destra sulla prima pagina del
modulo, grazie alla colla stick gentilmente offerta
dalla multinazionale dei miei sogni. Terminato, ficco
lesta la penna nella borsa. Ormai è un’abitudine
maniacale: ad ogni colloquio io frego una penna.
Non ho mica tutti i torti. Faccio colloqui ovunque,
anche due tre per azienda, in diverse città. Pago
trasporti e lauti pranzi nel McDonald’s di turno, io
che normalmente con 6 euro compro il cibo
sufficiente a sopravvivere tre giorni. Perdo mattinate
intere del mio tempo svalutato, mi alzo prestissimo
per essere puntuale, la notte precedente ovviamente
non dormo o riposo male, e non mi merito
nemmeno una penna a sfera? Suvvia, almeno il
problema penne è depennato dalla mia lista di cose
assolutamente necessarie a condurre un’esistenza
quasi normale. Ne ho davvero tante, tutte con i
marchi più vari. Ho tutte le agenzie interinali, da
Adecco ad Obiettivo Lavoro passando per Manpower
e Trenkwalder. Ho quasi tutti i supermercati (ed un
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importante tassello è stato appena aggiunto alla
collezione), molte banche, diverse catene di
abbigliamento e qualche sindacato. Ne ho pure una
di una squadra di calcio. Cercavano una segretaria
per la sede direzionale, non mi hanno presa e 6 mesi
dopo erano già retrocessi in serie B. Ah!
Arriva il momento.
“Buongiorno Alice, io sono Chiara Barelli, capo
settore casse dell’ipermercato di Torino. Le dispiace
seguirmi?” sorride a bocca larga.
“Si!” ho risposto con un sorriso più largo del suo,
senza neanche rendermi conto di averle detto, non
volendo, che effettivamente si, mi scoccia questa
cosa del doverla seguire. Lei non ha colto l’incertezza
grammaticale ed ha continuato a sorridermi. La
seguo fino ad una stanza piccola e luminosa, dalle
tendine veneziane scorgo persino il lungo balcone
esterno.
“Se per lei non è un problema proporrei di darci
subito del tu, così chiacchieriamo in tutta
tranquillità.”
“Ma certo la… ti ringrazio. Va benissimo.”
“Bene Alice. Generalmente comincio da una
breve presentazione personale. Se sei d’accordo mi
presento e poi lo fai anche tu.”
“Certamente, si.”
“Dunque come già sai io mi chiamo Chiara,
lavoro per questa azienda da 13 anni e ricopro il
ruolo di capo settore. Ho cominciato come addetta
alla vendita, sono poi passata alla cassa per due
anni, in seguito sono stata promossa caporeparto e
adesso mi trovo qui, dividendomi tra il ruolo di capo
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settore ed il recruiting.” Ha concluso, si capisce dal
sorriso che si è allargato; è il mio turno.
“Io sono Alice, mi sono laureata in scienze
politiche ad indirizzo economico con una tesi sulle
performance di crescita del settore della grande
distribuzione organizzata in Italia e…”
“Infatti, scusa se ti interrompo, vedo dal tuo
curriculum la votazione di 110, complimenti!”
“Grazie, grazie mille. Dopo la laurea ho
cominciato ad avere le prime esperienze nel mondo
del lavoro. Sono stata agente immobiliare per un
anno ed ho anche avuto un breve contratto nella
GDO come repartista. Mi ritengo una persona
propositiva e seria, una persona che cerca sempre di
svolgere al meglio il proprio lavoro.” Schiudo le
labbra, sporgo la dentatura, sorrido più che posso.
“Qual è il motivo principale che ti ha spinta ad
inviarci il tuo curriculum vitae? Perché proprio
un’azienda della GDO?”
“Devo riconoscere di aver sempre nutrito un
particolare interesse per la grande distribuzione.
Come ti dicevo ho dedicato la mia tesi di laurea
proprio alla studio di quest’area.” Et voilà, non mi
tremano nemmeno le mani oggi, e vai!
“Già… Come sai, quando si giunge in un ambiente
nuovo il rischio di non essere accettati è alto. Tu
come credi di comportarti con colleghi che non siano
qualificati come te o che magari abbiano terminato
gli studi molto tempo fa? Secondo te c’è il rischio di
sembrare la solita neolaureata un po’ saccente e
poco collaborativa?” ho notato un lampo di malizia
adesso, ma il sorriso l’ha mascherata bene. Imposto
23
il cervello sulla modalità diplomazia e mi ripeto che
ogni domanda difficile ed ogni ammissione di lacune
devono trasformarsi in un celato elogio:
“No, in tutta sincerità non credo ci sia questo
rischio. Primo perché non è una cosa che, nelle
precedenti esperienze lavorative, si sia mai posta
come problema. Devo anzi dire di legare
generalmente bene con tutti i colleghi. Secondo
perché credo fermamente che, prima di ogni altra
cosa, venga un principio importante: il rispetto per
le persone. Ho l’abitudine a guardare chi mi sta
attorno prima di tutto come persona, poi come
collega, superiore, professore o lattaio. Capisco che
per alcune aziende questo non sia un discorso
accettabile, ma so bene che per la vostra lo è. Ho
letto sul sito internet che il rispetto per le persone,
siano esse dipendenti o clienti, ha per voi
un’importanza fondamentale, ed anche per questo
motivo ho deciso di inviarvi il mio curriculum”.
Devono essere andati veramente bene gli ultimi 2
minuti. Ho visto Chiara passare dal sorriso stampato
che, la do 10 a 1, è uno standard in queste selezioni,
lentamente ad un volto più ammorbidito, poi alle
sopracciglia riavvicinate di chi si stia interessando
davvero a ciò che ascolta. Mi sembra persino che il
suo umore, già buono prima, sia migliorato. Sembra
quasi interessata a questa conversazione, come non
fosse un lavoro che fa perché ne è costretta. Ottimo,
se continuo così finisce che mi auto applaudo.
“Uhm… dicevi delle tue esperienze lavorative:
quali ritieni siano state le più importanti?”
“Beh, sono state tante…”
24
“Diciamo che me ne basta una.”
“Si,
d’accordo.
Sicuramente
la
più
professionalizzante è stata l’esperienza al Piccolo
Market. Ero addetta al rifornimento degli scaffali ma
ho spesso sostituito una mia collega in cassa,
occupandomi di pagamenti contante e pos.”
“Vedo dal curriculum che è durata 3 mesi…”
“Era un lavoro stagionale in una zona turistica. E’
stato un periodo duro - immaginerai i ritmi di lavoro
in un supermercato in alta stagione – ma non c’è
stato giorno in cui non imparassi qualcosa. Alla fine
mi occupavo anche della gestione degli ordini
mediante terminalino e della comunicazione
scadenze all’azienda.”
“Ah bene, questo per noi è molto positivo.”
E’ una grande, questa Chiara. Una che non si
preoccupa di nascondere le proprie emozioni, ma
che ti sta ad ascoltare davvero. Accidenti, non mi era
ancora capitata un’esperienza così. Generalmente i
selezionatori utilizzano espressioni facciali che
ricordano da vicino gli Amici di Maria buttati fuori
dalla casa del Grande Fratello… (no, forse sto
facendo confusione, dovrei informarmi meglio sugli
ultimi programmi televisivi, diciamo dal 1996 ad
oggi) manca davvero poco che non mi sbadiglino in
faccia. Ma questa Chiara è diversa. La immagino al
caldo dei suoi riscaldamenti accesi, in un salone
scintillante di candele e piantane color rame, mentre
bacia i suoi bambini ed apparecchia per la cena. Di
bambini ne avrà almeno due, e forse quella lontana
leggerissima malinconia che le sto notando
nell’agendina di finta pelle e nei capelli castani
25
mossi non è nient’altro che voglia di giocare con loro
anziché con me.
“Passiamo alle domande un po’ più standard,
immagino le avrai sentite chissà quante volte.” E’
veramente dispiaciuta, da non crederci. “Parlami di
tre tuoi successi, anzi no, facciamo uno: parlami
almeno di una esperienza che ti ha reso
particolarmente orgogliosa.”
Quasi quasi oso, penso, vediamo se riesco a
rovinare il colloquio o a farmi assumere seduta
stante.
“Innanzitutto ci tengo a precisare che l’idea di
orgoglio non è che mi si addica molto. Per me è un
difetto, non un pregio. L’essere orgogliosi
presuppone un giudizio positivo su se stessi cui
deve, per forza di cose, contrapporsi un disvalore
presunto in qualcun altro. Io questo non lo
condivido. Diciamo che un successo può rendermi
felice, non orgogliosa.”
Per la prima volta vedo dipinto sul suo volto un
amo da pesca stilizzato. Non c’è dubbio: è un punto
interrogativo. Niente di preoccupante però, il suo
interesse è autentico, non mi sta guardando come
fossi una pazza, vuole proprio sapere a fondo come
la penso. Non è il caso di fermarsi: “Ricordo con
piacere la mia esperienza di lavoro all’estero. Sono
stata educatrice di giovani immigrati appartenenti a
bande di strada come Lating King o Nietos. La parte
più difficile è stata quella di elaborare un linguaggio
comune con ragazzi di 13 anni che come problema
principale non avevano quello di decidere quale
suoneria scaricare sul cellulare ma piuttosto quello
26
di scegliere una linea di metro adatta a portarli al
colloquio con la madre in carcere. Ecco: se proprio
dovessi usare la parola orgoglio lo farei per dire che
ancora oggi, via Facebook, mi mantengo in contatto
con alcuni dei miei ragazzi.”
“Complimenti anche per questo. Mi racconti
almeno un fallimento?”
“Mai avuti fallimenti. Ah ah, scherzo. Direi che il
fatto di trovarmi qui di fronte a te, per quanto tu
possa essere gentile e simpatica, non possa certo
essere considerato un successo. Ho 30 anni e non ho
ancora un lavoro nonostante negli anni
dell’Università non abbia mai lasciato nulla al caso.
Voglio dire: mi sono impegnata, ho sempre studiato
in modo serio e con sacrificio. Forse proprio per
questo non amo dare la colpa della mia situazione,
che è anche quella di molti miei coetanei, alla società
o alla sfortuna. Diciamo che me ne assumo tutta la
responsabilità, cercando di migliorarmi e sperando
di avere una opportunità nella vostra azienda.”
Ho fissato il suo naso aquilino insistentemente,
lei ha risposto con piccoli cenni affermativi del capo
ad ogni mia virgola. La cosa che più mi colpisce è il
suo portamento, anche in una situazione così
impersonale riesce a mostrare tutta la sua freschezza
senza scomporsi. Non si atteggia, è vestita di
autenticità genuina, non finge di essere interessata a
quello che dico. Ho l’impressione che se mi lasciassi
scappare qualche scempiaggine mi manderebbe
verso posti sconvenienti, tipo affanculo, come fosse
una sorella. Ha le mani ferme, le dita curate e la fede
vecchia di qualche anno, non più brillante come sarà
27
stata un tempo, direi almeno un decennio fa.
Nonostante ciò non è una figura statica, anzi
accompagna le sue parole con espressioni
interlocutorie e segni evidenti di complicità: le
suscito approvazioni continue, ma anche lei mi
farebbe lo stesso effetto se ci scambiassimo di posto.
Per un breve attimo ho anche creduto che fosse sul
punto di abbattere a picconate il suo ruolo
istituzionale di recruiter che non deve chiedere mai
e, allungato il busto in avanti, la scrivania bianca tra
noi, cominciasse a dirmi:
“Senti Alice, vorrei parlarti chiaramente. E’ una
assurdità il fatto che una ragazza sveglia e preparata
come te, a 30 anni, sia senza lavoro e venga qui a far
finta di essere realmente interessata a fare da
cassiera in un supermercato. Non provarci
nemmeno, a dirmi che sei un’appassionata del
settore dai tempi delle medie. Lavoro da anni e
posso dire con certezza che qui, di appassionato del
settore, non c’è nemmeno l’amministratore delegato.
Nonostante io non creda a nessuna delle belle parole
che hai usato tu mi sei simpatica. Darò un giudizio
positivo sulla tua candidatura, ma non pensare
affatto di essere riuscita a convincermi delle cose che
dici.”
E’ stato solo un attimo, non ha detto nulla, ha
sorriso con i soliti denti bianchi ed è rimasta in
silenzio. Poi:
“Non so se ti è già stato spiegato l’iter che
seguiremo.”
“Ehm no, sei la prima persona con cui parlo
oggi.”
28
“Bene, allora te lo spiego io. Stamattina sosterrai
due colloqui, ovviamente con diversi selezionatori. Il
primo possiamo già dire sia terminato, il secondo
comincerà tra qualche minuto. Abbiamo scelto
questa procedura perché crediamo che il confronto e
lo scambio di opinioni anche tra noi colleghi
dell’area risorse umane porti a risultati migliori, sia
in termini di scelta che di vera e propria tempistica.
Se ci pensi un attimo ti accorgi che è un buon modo
di procedere. Qualora infatti tu non risultassi idonea
secondo il mio giudizio, avresti sempre, come dire,
una seconda opportunità con il collega che mi
seguirà.”
“Si, è vero.” Pare non si sia mai vista una
disoccupata contraddire una recruiter.
“Come sai si tratta di un lavoro interessante e
stimolante, che ogni giorno ti mette a contatto con
centinaia di persone, ma che è anche molto duro. E’
per questo che noi cerchiamo persone che siano
dinamiche e attente, ovviamente propositive e che
posseggano doti di flessibilità e concentrazione.
Penso che gli ipermercati siano come delle vere e
proprie piazze aperte a tutti, e proprio per la loro
particolare natura spesso ci si trova ad affrontare
situazioni imprevedibili. Cerchiamo quindi persone
che imparino ad essere autonome, insomma persone
capaci. Chiediamo flessibilità in termini di orario ma
anche territoriale, nota bene che generalmente i
primi due anni saranno per te di assoluto
pendolarismo. La norma è che l’allievo capo reparto
venga inviato in varie regioni e rimanga in ogni
destinazione per circa sei mesi. Bisogna essere
29
insomma preparati a slegarsi dagli affetti… magari i
fidanzati ne soffriranno un po’.”
“Non c’è problema, sono single.” Riccardo
perdonami, una bugia detta a fin di bene non è
peccato.
“E’ brutto da dire, ma in fondo è meglio così. Ti
parlo per esperienza, abbiamo avuto dei casi di tuoi
coetanei che non hanno resistito alla lontananza e
dopo pochi mesi hanno abbandonato il loro
progetto. Come puoi comprendere ciò è per noi non
solo motivo di grande dispiacere ma anche un
problema economico, visto che dal nostro punto di
vista ogni allievo è un investimento. Impieghiamo
risorse senza risparmiarci e la perdita di un allievo
rappresenta in qualche modo il dover ricominciare
da capo un percorso.”
“Ci terrei a rassicurare l’azienda su questo punto:
la carriera è il mio primario obiettivo di vita. Sono
sicura che non mi farei distrarre da altro che non
fosse il mio lavoro.” La mia interruzione le è servita
per prendere fiato. Continua:
“Se oggi il risultato sarà positivo verrai chiamata
entro una settimana ed invitata ad una seconda
giornata di colloqui, stavolta nel tuo ipermercato di
destinazione. Potrebbe essere Milano come Trapani,
sia chiaro. In ogni caso conto di darti un feedback
entro una settimana, sia esso positivo che negativo.”
“Perfetto, quindi adesso torno in sala d’attesa?”
“No, no. Rimani qui, tra qualche minuto ti
raggiungerà uno dei miei colleghi per il secondo
colloquio. Io intanto ti saluto e ti auguro buona
fortuna.”
30
“Grazie, anche per la chiarezza. Buon lavoro.” Mi
sono alzata, le ho stretto la mano; agli occhi degli
impiegati che intravedo dalle porte aperte
dell’ufficio di fronte saremo sembrate due ricche
capitane d’industria incontratesi furtivamente per
discutere di segrete strategie
e progetti
d’espansione. Sento i tacchi della mia collega e
futura dipendente Chiara Barelli allontanarsi
ticchettando incerti nel corridoio lungo e bianco,
prima fastidiosi, poi sempre più flebili e infine
scomparsi del tutto dal mio campo uditivo.
Resto immobile. Il primo colloquio è
indubbiamente andato benissimo, adesso devo
cercare di mantenere la concentrazione e caricare a
testa bassa per la prossima mezz’ora. Come sempre:
tranquilla, ferma, cordiale. L’unico esperto di
marketing che abbia mai conosciuto, ai tempi della
mia carriera universitaria, sosteneva che il
linguaggio del corpo influisse per il 67% sul
messaggio veicolato. Non so se l’avesse appreso in
un qualche corso di specializzazione negli Stati Uniti
o più realisticamente letto su Marie Claire. Sarà il
caso comunque di inchiodarmi alla sedia e rimanere
ferma. Giù quelle mani! Mannaggia sembrano delle
eliche. Chiara è scomparsa e adesso mi prende
l’angoscia, ma perché non è rimasta qui con me?
Ogni volta che qualcosa sembra andare bene non ho
nemmeno il tempo di rendermene conto che tutto
cambia. Ma mannaggia alla… Calma, calma. E’
possibile che tutte le volte io debba imbiancarmi i
capelli dalla paura? Oh Madonna sento dei passi mi
sa che ci siamo il cuore mi sta sfondando il petto
31
angoscia pietà commiserazione aiuto soffoco! No,
andavano verso l’ufficio di fronte, non è ancora il
mio momento.
Piano piano, con calma, mi tranquillizzo. Cerco
una superficie nella quale possa specchiarmi per
controllare che il make-up abbia tenuto; la trovo in
un righello metallico che sta sulla scrivania, do una
controllata furtiva e lo rimetto a posto veloce. Per
poco non lo metto nella borsetta; desisto solo per
paura di eventuali telecamere.
Rimango invischiata nei miei ragionamenti e
nemmeno mi accorgo che intanto i primi dieci
minuti sono passati, poi altri dieci, poi ancora dieci e
sto sempre seduta in questa stanza vuota. Si saranno
dimenticati di me? Staranno preparando il contratto
di assunzione a tempo indeterminato, 14 mensilità a
2500 euro netti? Ragionandoci mi sgranchisco la
mano per la firma. Mi alzo e comincio a camminare
in circolo nei sedici metri quadri dell’ufficio,
nemmeno mi sfiora l’idea che in ognuna di queste
stanze ci siamo in questo stesso momento altre
ragazze come me, tutte aspiranti allieve capo reparto
settore casse, tutte più simpatiche, più dinamiche,
più flessibili e soprattutto più fighe di me. Sicuro per
questo, perché sta ancora sentendo qualcun’altra in
un'altra stanza, il mio selezionatore non è ancora
qui.
Do un’occhiata attraverso le bacchette bianche
della tendina e mi rilasso fissando i miei futuri
colleghi dell’amministrazione usciti per la pausa
sigaretta. Saranno tre o quattro, e tra questi ce n’è
una che mi colpisce subito. Non che abbia qualcosa
32
di particolare, ma è come se fosse estranea
all’ambiente, come venisse da altre e più complesse
situazioni,
completamente
decontestualizzata.
Eppure la vedo parlare e ridere come fosse legata
strettamente al gruppetto dei fumatori, come se
nessuno di loro fosse preso dalla mia stessa
sensazione. Allegria, la sua risata sfonda il vetro e mi
si ficca in testa fastidiosissima, specialmente in
questi momenti di angoscia. E’ sgraziata,
completamente scoordinata nei movimenti da
matriosca surgelata; sembra una di quelle ballerine
che si esibiscono durante le sagre di luglio nei
paesini di montagna, truccate magistralmente ma
con due tre chili di pancia che deborda dal fuseaux
nero da fitness center. Eppure veste bene, tailleur
grigio e camicetta bianca semplicissima, proprio
come piace a me, ed ha anche un trucco non molto
pesante, chic. Le scarpe sono di quelle da condanna
penale, per avere quei tacchetti io una martellata
alle vetrine in centro proverei a darla volentieri, di
notte.
Adesso esagera. Si sta facendo riprendere con il
cellulare mentre assieme ad uno dei fumatori grida
ridendo Italia unoo e alza il pollice da autostoppista.
Sono allibita, costernata, vomitata. Spiegazzata nel
mio amor proprio, insozzata nel mio senso
dell’onore. Prendo atto della cosa e rimango zitta.
Questa gente ha un lavoro ed io no. Questa gente ha
probabilmente un’auto ed io no, se escludo la Fiat
Uno scassata di Riccardo. Questa gente va a farsi
una pizza con gli amici, si nasconde sotto il tavolo,
poi sbuca fuori all’improvviso e grida Italia Unoo ed
33
io sto fuori dalla pizzeria a fregarmi gli avanzi
lasciati sui tavoli esterni. Avrei dovuto convertirmi al
Buddismo negli anni in cui era di moda, o almeno
partecipare ad un corso yoga organizzato dal
Comune, o anche solo comprare un manualetto di
autoterapia antistress per rimanere calma e
concentrata dopo la visione apocalittica che si è
appena consumata a due metri dalla mia sedia, con
solo una finestra chiusa ed una tenda a bacchette
bianche newyorkesi a farmi da scudo.
La fortuna è che sono andati via, la sfortuna è che
non avrò più nemmeno quell’orrida distrazione, e
sono qui da sola ormai da più di mezz’ora a
guardarmi la pancia piatta.
Ma è un rumore come di tacchi bassi che si
avvicinano, e poi di tailleur grigio e camicetta bianca
e della mia lingua che di colpo rinsecchisce quando
lei entra, mi tende la mano e dice:
“Sono Viola di Luzio, responsabile del personale.”
Una che dice Italia Unoo mi deve selezionare
mediante un colloquio conoscitivo. A me. E non è
nemmeno un uomo come mi aspettavo. Non ho il
tempo di uscire dalla fase rem, rispondo:
“Ciao, io sono Alice” e mi lancio in un sorriso
modello Penelope Cruz.
“Buongiorno, mi dispiace averla fatta attendere
ma non avevo ancora avuto comunicazioni riguardo
gli step di oggi.”
Non ha l’aria svagata di prima, è una statua di
professionalità ed abnegazione. Non sorride affatto e
non dà l’impressione di voler passare al tu, mentre
io per inerzia le ho subito detto ciao come fosse una
34
mia cugina in seconda. Forse è meglio se mi alzo
subito e me ne vado via, una figura così magra sarà
impossibile da recuperare.
“Non si preoccupi, non ho aspettato tanto in
fondo.” Solo tre quarti d’ora, per la verità.
“Cominciamo con una presentazione. Prego”
Questa è una cosa che ho già sentito. Rimango o mi
alzo? Vado a memoria:
“Io mi chiamo Alice, mi sono laureata in Scienze
Politiche ad indirizzo economico con una tesi sulle
performance di crescita del settore della grande
distribuzione in Italia…” sta sfogliando il mio cv,
aspetto arrivi al punto e mi faccia i complimenti per
il 110.
“Mhm… infatti vedo dal curriculum, 110, come
mai senza lode?” E che caspita vuoi che ti dica? Ma
che domanda è? Non lo so perché, magari perché la
sera prima l’Italia aveva perso agli Europei di calcio.
Cosa vuoi che ne sappia io?
“Beh, la commissione esaminatrice non avrà
ritenuto opportuno arricchire il mio voto con una
lode… Avranno pensato fosse sufficiente il 110.”
“Segua, segua, la ascolto” asciutta come una
scatoletta di carne senza gelatina. Seguo:
“Dopo la laurea sono subito entrata nel mondo
del lavoro” dopo la laurea non avevo nemmeno i
soldi per mangiare, avrei accettato anche di
prostituirmi se non avessi trovato subito qualcosa da
fare. “Sono stata agente immobiliare per un anno ed
ho anche avuto una breve esperienza nella GDO
come repartista.” Ho resistito un anno a lavorare
anche la domenica per un rimborso spese di 500
35
euro più provvigioni che non arrivavano mai. Ho
consumato la Fiat Uno di Riccardo a forza di
accompagnare gente a vedere appartamenti che non
si vendevano mai. Ho corroso tre paia di scarpe
suonando campanelli sempre con la stessa frase
scolpita in bocca: Buongiorno signora! Scusi se la
disturbo, sa mica se c’è qualche appartamento in
vendita da queste parti? Quando in ufficio i
creditori hanno cominciato ad essere più numerosi
dei clienti me ne sono andata. Poi ho fatto la schiava
in un supermercato: pulivo il sangue incrostato nelle
celle frigorifere della carne, mi spezzavo la schiena
in magazzino, regalavo all’azienda 4 ore al giorno di
straordinario obbligatorio non retribuito. Com’è
possibile? Con contratti settimanali è possibile. Sei
volte me li hanno rinnovati, il massimo consentito
per legge. Ero brava e zitta.
“Mi ritengo una persona solare e seria, una
persona che cerca sempre di svolgere al meglio il
proprio lavoro.” Non rido da due anni. Se solo
potessi
permettermelo
sprofonderei
nella
depressione più nera. Ma non posso, quindi sono
solo
profondamente,
maestosamente,
mastodonticamente incazzata con tutto e tutti. Non
mi stupirei nel vedermi strozzarti con la tua stessa
camicetta bianca mentre urli Italia Unoo.
“Perché ha scelto di inviare il suo curriculum
vitae proprio ad un’azienda della grande
distribuzione?” Ma sono le stesse identiche
domande di prima! Avranno un prestampato curato
per l’occasione, ma allora perché costringermi a
questa farsa? L’aspirante velina è freddissima e
36
annoiata, non fa nulla per nascondere il fatto di
essere profondamente scocciata dal colloquio.
Pronuncia una domanda, fa finta di ascoltarmi e
passa immediatamente alla successiva. Ha fretta,
forse deve girare qualche altro video da pubblicare
in bacheca sul suo Facebook.
“Devo riconoscere di aver sempre nutrito un
particolare interesse per la GDO. Come si può
vedere dal curriculum ho dedicato la mia tesi di
laurea proprio allo studio di questo settore.” Non è
che ho inviato il mio cv ad un’azienda della GDO, ho
inviato il mio cv a chiunque fosse titolare anche solo
di una partita IVA. Non ho nessun interesse
specifico per la mansione di cassiera, ma prima di
morire per denutrizione gradirei trovare un
brandello di lavoro, possibilmente legale. La scelta
della tesi non l’ho fatta io ovviamente, portami una
laureanda che ha avuto facoltà di scelta e vado via a
testa bassa e senza maglietta, non prima di aver
girato con te un video in cui gridiamo insieme Italia
Unoo.
“Nella nostra azienda lavoreresti con colleghi
molto meno qualificati di te… come pensi di essere
accolta? Non hai il timore di venire additata come
una giovane che puzzi ancora di Università?”
“No, non credo ci sia questo rischio. O almeno
non è una cosa che si sia mai posta come problema
nelle mie precedenti esperienze lavorative. Il fatto è
che io ho sempre avuto un gran rispetto delle
persone e questo generalmente viene apprezzato da
tutti i colleghi, qualificati o meno.” Calci in bocca: in
37
caso di problemi con i colleghi, calci in bocca. E tutto
per incanto si risolve.
“Qual è, tra le precedenti esperienze lavorative,
quella che ritieni più importante?”
“L’esperienza più professionalizzante è stata
sicuramente quella avuta nel campo della GDO.” Ed
anche il concerto degli U2 mi ha insegnato molto.
“Non molto significativa direi, vedo che è durata
solo tre mesi…”
“Tre mesi molto intensi! Si trattava di un lavoro
stagionale, in una zona turistica. E’ stato un periodo
duro - lei saprà ovviamente quali siano i ritmi
lavorativi in un supermercato in periodo di alta
stagione - ma non c’è stato giorno in cui non
imparassi qualcosa. Sono stata assunta con la
mansione di addetta al rifornimento scaffali e bla,
bla, bla…”
Nessun cenno di interesse né segnale di vita, se
non fosse per il suo respiro pesante potrei giudicarla
clinicamente morta da un quarto d’ora abbondante.
Ogni tanto rigira un foglio A4 tra le mani, adesso sta
cancellando qualcosa, magari depenna le domande e
la finiamo qua. Non so per chi delle due
rappresenterebbe un sollievo più grande. Ma no,
non lo fa, continua da copione.
“Adesso vorrei che mi raccontasse di una
situazione lavorativa che l’ha resa particolarmente
orgogliosa…” Quasi quasi le pianto un’oretta di
panegirico sull’orgoglio e… Ma no.
“Si. Ricordo con grandissimo orgoglio la mia
esperienza di lavoro all’estero, quando sono stata
educatrice in una ONG che si occupava di giovani di
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strada. E’ stata un’esperienza forte che mi ha
arricchita molto a livello umano e…”
“Quindi un’esperienza nel sociale.”
“Si. Dicevo…”
“Va bene, va bene così. Un suo fallimento?” Ma
porco mondo, non le importa nulla! Potrei dirle di
aver vinto Sanremo e mi sbadiglierebbe in faccia.
“Direi che il fatto di non avere un lavoro alla mia
età non può certo essere considerato un successo.
Non amo dare la colpa di questa mia situazione alla
società o alla sfortuna…”
“Ci mancherebbe.” Come ci mancherebbe? E’
chiaro che è tutta colpa di questa società strutturata
male e condotta peggio, e di questa sfiga che mi
porto dietro dalla nascita! E questa stronza mi dice
ci mancherebbe! Mi odia, le ricorderò una grande
amica che le avrà rubato il fidanzato o la matrigna
che da bambina la costringeva a lavare i piatti e le
impediva di uscire a giocare, sicuro. I pomeriggi li
passava davanti alla tv e ne ha guardata così tanta e
per così tanti anni che adesso dice sorridendo Italia
Unoo e si diverte davvero.
“…diciamo che me ne assumo ogni responsabilità,
sfruttando il tempo libero per migliorarmi e
sperando che la vostra azienda mi conceda
l’opportunità di dimostrare il mio valore.”
Le si sono distesi il volto ed il rossetto rosso, ma
non a causa delle mie ultime parole: sta realizzando
che tra 5 minuti uscirò per sempre da questo ufficio
ed entrerò spessissimo in questo supermercato.
Come cliente.
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“Le è già stata spiegata la nostra procedura di
selezione?” Ho la tentazione di rispondere di no solo
per farle un dispetto, così il rossetto rosso le ritorna
incartapecorito.
“Si, la dottoressa Barelli mi ha spiegato tutto
perfettamente.”
“Benissimo, allora io non la trattengo oltre. Il
profilo che noi ricerchiamo in realtà sarebbe
decisamente diverso dal suo. Cerchiamo persone che
magari siano meno qualificate ma che abbiano una
solida esperienza nella GDO.” Vabbè che c’entra,
anch’io sarei alla ricerca di un lavoro come si deve.
Veniamoci incontro: io rinuncio alle mie velleità e
voi accettate me.
“Come sa entro una settimana a partire da oggi
riceverà un nostro feedback.”
“Grazie mille allora, e buon lavoro.” Che sorrisi
falsi riesco a fare a volte.
“A lei. Le auguro una buona giornata.” Mi
accompagna alla porta.
Fine.
Scendo rapidamente giù per le scale, l’ascensore
non farebbe altro che ingigantire la sensazione di
nausea che sale. Adesso sono davvero stanca e
irritata, essere passata dall’esaltazione con la
splendida Chiara a questa specie di tiro al piattello
nel quale io non ero nemmeno il piattello mi ha
disarcionata.
Ho parcheggiato nell’area clienti, accanto alla fila
dei carrelli. In tasca ho una moneta, potrei
prenderne uno e dare un’occhiata ai prodotti in
offerta, penso. Poi rallento, guardo l’auto, mi fermo.
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La frase storica ha una gestazione di trenta,
quaranta secondi, poi è chiara in me: io lì dentro
entrerò solo come allieva capo reparto settore casse
o come cliente quando regaleranno qualcosa nelle
feste.
41
42
2.
La lettera mi aspetta nella buca.
Mentre io cercavo di garantirmi un futuro tra gli
uffici della multinazionale dei miei sogni lei era già
arrivata, e rinchiusa e immobile mi attendeva.
Nessuna buona novità chiaramente. Le buone
notizie arrivano via mail o cellulare, i rifiuti invece
riempiono la cassetta delle lettere.
Oggetto: domanda di impiego.
In riferimento alla Sua (mettono il maiuscolo
come se ti ridessero in faccia, venga, venga pure
dottoressa… oh, oh, oh… si accomodi pezza
d’idiota!) richiesta di impiego del 3 gennaio c.a., Le
comunichiamo che alla data odierna il nostro
organico è al completo. Abbiamo provveduto
tuttavia ad inserire il Suo nominativo tra quelli che
potranno essere contattati per eventuali future
necessità.
Ci è gradita l’occasione per porgere distinti saluti.
Entro in casa e butto il cappotto da un lato e le
chiavi dall’altro lasciando per terra la borsa. Ho
bisogno solo per un attimo del divano, voglio
rileggere con calma quest’ennesimo rifiuto, sdraiata.
Ci provo, ma non riesco a concentrarmi nemmeno
sulle quattro righe asciutte, la mia mente vaga verso
43
l’impiegato che deve averle prima intestate, poi
stampate, quindi portate nella stanza del direttore
generale per la firma. Vedo l’impiegato, cerco di
immaginarmelo per poterlo invidiare meglio e
concludo che mi piacerebbe davvero tanto, anzi
sarebbe un vero e proprio miraggio, essere assunta
per aprire i file in formato doc lettera di diniego,
intestarli di volta in volta con un nome diverso,
stamparli e poi portarli in stanza del dottor direttore
generale.
Sarei
un’autentica
stakanovista,
pluripremiata e disponibile con tutti i colleghi; mi
sveglierei ogni giorno sapendo di vestirmi e
truccarmi per il mio ufficio ideale, con la mia giusta
pace interiore, come a una parata di stelle.
Apro il cassetto e unisco questa alle altre decine,
il retro è pur sempre fatto di carta bianca A4 da
riutilizzare all’occorrenza, perlomeno nessuno mi
accuserà mai di indelicatezza verso la natura
selvaggia e matrigna.
Riccardo dovrebbe arrivare tra poco visto che la
lezione è alle 3. Ho avuto il tempo per lavarmi,
uscire per un colloquio, leggere una lettera di rifiuto
dell’istituto bancario dei miei sogni ma non quello
per preparare qualcosa da mangiare; oggi
inventeremo, con ogni probabilità.
Guardo la tv e rimango un attimo ferma, poi
l’accendo. Ormai non seguo più nemmeno i
telegiornali; preferisco piuttosto i venditori di
coperte e pentole delle piccole tv locali. I canali
nazionali parlano solo dei loro programmi tv,
completamente sganciati dalla realtà. Invece i
televenditori li sento vicini. Stanno immobili e
44
attaccati alla mia vita, concentrati su cose utilissime,
tutte necessarie ed importanti: dormire, mangiare,
asciugarsi dopo la doccia. Sono così cavillosi e
fondamentali per la vita di noi donne moderne,
meriterebbero uno stipendio fisso, altro che
trattamento provvigionale.
L’ascensore cigola sin dal piano seminterrato, poi
si fa sempre più prossimo e squillante. Ric apre la
porta.
“Buongiorno amore.”
“Ciao amore.” Siamo dolcissimi; siamo il ripieno
alla crema chantilly di un pandoro ai primi di
dicembre. Mi bacia.
“Stamattina non ho voluto svegliarti – dice –
dormivi pesantemente.”
“Si.”
“E stanotte ti rigiravi nel letto e parlavi nel
sonno.”
“Oddio: che ho detto?”
“Beh, non è che si capisse molto… qualcosa sulle
operazioni mi pare… Ssi, hai detto proprio
operazioni.”
“Operazioni tipo da sala operatoria? Cioè
interventi chirurgici?”
“Non saprei, io ricordo che hai detto operazioni
insieme ad altre parole mischiate e incomprensibili.”
Le operazioni aritmetiche! Il sogno della vecchia
che legge il libro di analisi matematica in bus!
“Senti Alice, bisognerebbe fare un po’ alla svelta.
Paolo mi ha anticipato la lezione di mezz’ora.”
“Ah. Bisogna almeno spazzare la casa prima…
Mangiamo dei sandwich, ti va?”
45
“Più o meno.”
Quando Riccardo, in un giorno di particolare
chiaroveggenza e lucidità mentale, ebbe l’idea di
vivere dando lezioni di chitarra classica io non gli
credevo minimamente. So com’è fatto, conosco i
suoi momenti di esaltazione ma purtroppo anche
quelli di disincanto, e generalmente questi ultimi
hanno frequenza maggiore dei primi. Poi però ho
notato come confezionava i suoi manifestini alla
stampante ed i suoi annunci su internet, l’ho visto
uscire di casa in tenuta da jogger Decathlon e
tappezzare prima l’intero quartiere, poi quello a
fianco, alla fine la maggior parte dei luoghi
d’interesse della città. Allora ho capito, aveva scelto:
anziché cameriere in nero laureato, insegnante
privato di chitarra, laureato ed ovviamente in nero; a
quanto pare non c’è speranza di fare le cose in chiaro
in questo Paese.
Ancor prima di cominciare aveva già collezionato
un articolo breve su un quotidiano che si stava
occupando di un’inchiesta sui giovani laureati e
disoccupati, raccontando una marea di falsità
improbabili sulla sua infanzia al numero 249 di
Marlove Street, a Wolton, Liverpool, e una
telefonata minacciosa dell’ufficio affissioni che più o
meno era terminata con un: Ma cosa me ne frega,
denunciatemi! Il giorno in cui avrò i soldi per
pagarvi la tassa di affissione smetterò di dare
lezioni!
Clic.
Le
minacce
erano
cessate
misteriosamente.
In pochi giorni il mio fidanzato Riccardo era
divenuto il maestro Riccardo, dieci euro per un’ora
46
di lezione, partendo da zero e direttamente sugli
accordi. La media dei guadagni è di cento euro a
settimana, che sarebbero 400 euro al mese, quasi
quanto un part-time come spalaneve: si può sperare,
finché siamo vivi. Certo, gli inconvenienti e le
scomodità
non
mancano.
Da
presidenti
dell’associazione disoccupati nullatenenti, senza
nessun altro che ci dia un aiuto a parte zia Rachela
con i suoi accappatoi improbabili, viviamo in un
monolocale ad ambiente unico. Non è niente affatto
male ma ha il piccolo inconveniente che durante le
lezioni io sono gentilmente invitata a trovarmi un
altro ricovero, tranne in quei giorni in cui fa troppo
freddo o non mi va proprio. Oggi è uno di quei
giorni: non ho voglia di andare al centro
commerciale alle due e mezza del pomeriggio,
l’intera mattinata mi è bastata.
Riccardo è più magro del solito, ha gli occhi
cerchiati ed è nervoso, anche se cerca di dissimulare.
Io però so come entrare nella sua testa, lo faccio
spesso: vivendo insieme a lui ho sviluppato questa
capacità e so che cosa pensa di ogni cosa che accade.
Adesso lo vedo che qualcosa non sta andando bene,
che la situazione comincia a sembrargli pesante e
non gli permette di riempire a fondo i polmoni. E’
chiuso in una macchina parcheggiata al sole
d’agosto, con i finestrini alzati. Si dimena nel
torpore del suo portafogli desolato mentre io che a
grandi linee ho capito tutto mi chiedo: cosa dirà,
esattamente, nella sua mente?
Alice è un po’ più magra del solito, me ne accorgo
dai seni. Dovremmo comprare più carne e smetterla
47
con questi toast ridicoli che secondo me ci
lasceranno senza denti né muscoli. Porca puttana
oggi ho solo Paolo, saranno dieci euro che non
coprono nemmeno un trentesimo dell’affitto. Sento
una rabbia che sta crescendo minuto dopo minuto,
ed anche Alice è inquieta. Si rigira nel sonno, si
addormenta tardi, ha scatti di violenza. Puttana
puttana puttana Eva. Sono almeno 20 giorni che
non chiamano dalla pizzeria. Non c’è clientela, ed io
che avrei fatto volentieri anche le pulizie sento il
culo che scorre sempre più veloce verso il pavimento
sporco. O m’invento qualcosa o qualcosa succederà
troppo in fretta.
In frigo c’è ancora qualche wurstel e delle
cipolline sottaceto, anche se non ho fame solo per il
fatto di dover risparmiare sul cibo mi si buca lo
stomaco. Ho la stessa sensazione di gastrite cronica
che deve aver avuto mio nonno, ma almeno lui
beveva ogni giorno come fosse San Martino.
Prendiamo il pan carré e lo scaldiamo sulla
bistecchiera che riga i wurstel misti di pollo,
tacchino e ingrediente segreto al 20 %, visto che,
stando alle percentuali degli ingredienti indicati
sulla confezione, manca giusto quel 20 % che non si
sa cosa sia. Ciononostante divoriamo tutto come
naufraghi al sole, spaccando longitudinalmente i
salsicciotti con le dita lavate e raccogliendo con un
cucchiaino le cipolline dalla boccetta, bellissime nel
loro essere quasi gratis e non terminare mai.
Inganniamo le nostre menti apparecchiando su di
un tavolino piccolo e basso. Ormai la tavola grande
la utilizza solo Riccardo quando ha delle frasi da
48
dettare ai suoi allievi, siano esse note teoriche sulla
formazione delle scale minori o stupidaggini che la
sua fantasia da prestigiatore inventa sul momento.
L’abitudine
l’abbiamo
persa
dopo
esserci
silenziosamente resi conto che i quadrati rossi e
bianchi della tovaglia cominciavano a mostrarsi
troppo, così scoperti sotto il peso di nessuna vivanda
che li nascondesse: troppo grande la tavola adatta a
quattro commensali, troppo piccole le cose da
mangiare, decisamente desolante il risultato. Così
siamo passati al tavolino basso di fronte al
televisore, che si riempie in un attimo e dà
l’impressione di un pranzo vero. Darei tutti i miei
libri di sociologia economica fotocopiati per un pollo
allo spiedo ricoperto d’olio sfrigolante e
bruciacchiato, immerso in una bacinella di patatine
fritte e crocché.
Mentre mastica svogliato all’ombra del divano, le
parole di Riccardo sfuggono somiglianti all’acqua
che gli spinge giù il boccone. Mi dice di quanto ha
fatto in mattinata, dei locali che a stento resistono a
quest’inverno. Stretto tra realtà così chiare ha
cessato di provarci: darà solo lezioni di chitarra
classica probabilmente, pregando in continuazione
quelli della pizzeria finché non decideranno di
richiamarlo per qualche serata extra. Racconta di
quanto il suo allievo sia bravo e di come finora abbia
fatto le cose per bene, incluso un arpeggio
abbastanza complesso ed una teoria sulla nascita di
un nuovo fascismo che con la chitarra ha poco in
comune. Le classi medie, sarebbe l’idea dell’allievo
Paolo, sono quelle che dalla crisi vedono profilarsi la
49
minaccia più grave, incomparabilmente più dannosa
rispetto ai danni che subiranno le classi estreme.
Quelle più alte, ricchi proprietari di beni reali e
finanziari, possono con degli accorgimenti ripararsi
dalla piena, anzi con un po’ di coraggio e fortuna
potrebbero anche ritrovarsi in breve tempo più
ricchi di 5 anni prima; le classi più basse, operai
senza proprietà o impiegati con l’affitto da pagare,
erano poveri prima e continueranno ad esserlo
anche dopo la crisi. Il problema – e qui il tono di
Riccardo si fa più grave - sono le classi medie che
tenderanno a scomparire. Ogni giorno decine di
famiglie benestanti rientrano nella soglia di
povertà… Ho idea di cosa voglia dire questo per
persone abituate alle ferie d’agosto? No che non ce
l’ho, e neppure la voglio avere – protesto - a me che
importa? E’ qui che sbaglio, mi ammonisce con
severità.
Persone che si vedano tolto ciò che fino al giorno
prima ritenevano fosse un loro diritto, il cinema, il
ristorante, l’amante, e che si compatiscano
scivolando verso culture e comportamenti che non
gli sono mai appartenuti, sono socialmente una
bomba con un timer made in China, potenzialmente
difettosa ma pericolosissima. Potrebbero ritenersi
pronti ad ogni cosa pur di non impoverire con
l’ufficiale giudiziario a pignorare i mobili, anche ad
accettare, anzi incoraggiare, una sterzata feroce
verso sistemi totalmente autoritari.
Figuriamoci, a me basterebbe il pollo allo spiedo
con le patatine e la pelle abbrustolita da mordere,
che goduria, non ho bisogno di un sistema fascista.
50
Pacchi marroni ripieni di confezioni di pasta sfoglia
io sogno, e spinaci e caciotte cotti insieme al vapore
asfissiante di una cucina che rimanga aperta tre
giorni consecutivi. Culatelli, salami e speck dell’ Alto
Adige, affogati in un getto continuo di polenta
bollente a riscaldare il mio petto tisico, nei giorni di
ghiaccio e neve sconfitti dal vino rosso di Lipari.
Arrosti, salsicce e champagne, per celebrare il
ritorno alla vita che avverrà prima o poi, così come il
sesso gioioso e invadente che in questa stagione si è
dileguato. Lumache, rane fritte e carote, condite con
un filo d’olio extravergine ed un filone di pane
pugliese, che puoi mangiare anche dopo una
settimana: è sempre buono e croccante.
Una barchetta a remi di due metri, piccolina,
ancorata al secondo piano nel balcone di casa e
ricolma di ostriche, scampi al forno e calamari
ripieni, belli caldi, e spaghetti cozze e vongole
fumanti nei piatti ancora sporchi di paella
valenciana. Un bel Can Freixenet da sorseggiare
ghiacciato, come si addice ad una vera signora e
infine
un
lungo,
potente
e
irresistibile,
assolutamente alieno da una vera signora che non
sarò mai, rutto genuino e rimbombante che dica al
posto mio: sono viva, ho mangiato anche oggi!
C’è la mia teoria, poi c’è quella di Paolo che ha la
sua teoria, seguita da alcune riflessioni sulle
pentatoniche, la teoria di Riccardo… Ma non
abbiamo una nostra teoria, che in momenti di
sconforto estremo sono convinta potrebbe donarci la
chiave del rebus. Deglutisco l’ultima cipollina e
metto l’opzione silenzioso al cellulare. Dovrebbe
51
chiamarmi il signor ragioniere per il volantinaggio di
domani, ma non importa perché il signor ragioniere
è così preciso nel suo lavoro da riuscire ad
organizzare tutto, dalla via da volantinare alle nove,
al numero di pezzi da lasciare in ogni cassetta della
pubblicità, al ritmo di camminata che noi ragazze
dovremmo tenere, tutto, tranne quando si tratta di
pagare. Lì nascono i problemi, le inesattezze, i
malintesi, con il risultato che l’ultima volta ho
dovuto attendere 6 mesi per avere i miei 157 euro.
Anche il ragioniere avrà una sua teoria, ovvio, sarà
che se delle ragazze pensano di poter ricavare
quanto necessitino per sopravvivere dai volantinaggi
non hanno capito nulla; deve essere un plus, dice lui,
un quid che aiuti ad integrare le mie entrate mensili.
Ergo, seguendo la teoria ricca di latinismi, se questi
pagamenti non sono indispensabili a vivere, le
giovani possono attendere con tranquillità due,
quattro, sei mesi. Ecco, questa è la teoria del
ragioniere, completamente opposta alla mia, in
definitiva. Che poi sarebbe la seguente: spero
proprio che il ragioniere mi chiami e non abbia
nessun’altra disponibile che non sia io che, nel più
assoluto silenzio, ricaverò un piacere sottile dal non
rispondere al suo nome lampeggiante dal display del
Nokia. So bene che quelle di negarsi al citofono o
non rispondere al cellulare siano delle enormi
vigliaccate. Ma dobbiamo cancellare questi schemi
mentali ed inventarcene di nuovi, se ci interessa la
nostra sopravvivenza. Tutti i comportamenti
educati, le buone maniere, i valori del rispetto
sempre e comunque, sono serviti a tenere in piedi
52
fino ad ora una società che oggi caccia via i suoi figli
senza svezzamento, lasciandoli in un bosco a cullarsi
al suono di una cantilena che ripete arrangiati.
Se è vero che crisi significhi cambiamento anche
l’abituale schema di valori dovrà mutare, e se
saremo capaci di sostituirne uno nostro potremo
provare a giocare anche noi, sennò siamo esclusi. Il
mio nuovo schema è questo: non ti rispondo al
cellulare signor ragioniere, non ti richiamo e non
spendo nemmeno i centesimi necessari ad inviarti
un sms, se per me non è assicurato al cento per
cento un guadagno immediato.
Non rispondo al telefono, non lascio il mio posto
alle vecchiette in bus, non pratico la raccolta
differenziata: io non partecipo fino a quando non
avrò la possibilità di scegliere se farlo o meno.
Due giorni fa ho comprato dei pomodori da
insalata in offerta. Il conto era di un euro e tre
centesimi ma la cassiera ha preferito avere solo un
euro, anziché cambiarmi una banconota. Ridendo le
ho detto “allora stasera festa grande!” ma ero
serissima, e lei che ha sorriso a sua volta non
immaginava che stavo solo fingendo fosse una
battuta, e che in realtà quei tre centesimi potevano
forse risolvermi un serio problema di bilancio in
quella giornata. Penso a quanti trucchi ho dovuto
escogitare per cercare di risparmiare quei due, tre
centesimi al giorno, e penso anche alle mie ex
colleghe di università. Quando le incontro mi
devono per forza parlare di quanto si sentano inutili
e depresse, a 30 anni mantenute dai genitori con i
quali sono ancora costrette a vivere, e di come
53
vorrebbero costruirsi una vita, con un uomo e dei
bambini, magari una casa, magari un solitario al
dito. A loro vorrei dire: lasciate perdere e
mantenetevi allegre, è molto meglio sentirsi inutili e
mantenute che trovarsi di fronte alla scelta più
brutta, quella da esaurimento nervoso… Un panino
oggi, o una bottiglietta d’acqua?
Anche le mie ex colleghe hanno bisogno di un
nuovo schema ideale, lo necessitano come l’acqua il
basilico d’estate. Dunque, con molta pace interiore,
come un gatto vecchio e sovrappeso che non si
muova più dal suo divano, approfittate della
situazione. Non è colpa vostra in fondo se le
generazioni che adesso vi rimproverano la mancanza
di coraggio e iniziativa hanno spolpato e digerito
tutte le vostre speranze fin dal giorno in cui siete
nate, senza offrirvene un pezzettino per giunta.
Siate come me, tutte dame di un castello al quale
hanno tagliato la corrente, a specchiarsi nel riflesso
della luna che si abbatte sulla pila di bollette non
pagate.
Nel nuovo ordine di idee è la donna che deve
spazzare casa, esattamente come in quello
precedente, perché il mio uomo deve, a suo dire,
prepararsi per la lezione. Che cosa preparerà poi, lui
solo lo sa; per mio conto non l’ho mai visto prendere
nemmeno un appunto ed ho il fondato sospetto che i
suoi argomenti di discussione altro non siano che
invenzioni estemporanee.
Tuttavia ramazzo in fretta, uno degli aspetti
positivi di una casa piccolina è appunto quello di
non dover perdere troppo tempo a lucidarla. Paolo
54
suona alle due e mezza spaccate, sale gli scalini a
quattro a quattro con la chitarra in spalla. Mi saluta
con calore, è simpatico e ritiene simpatica anche me,
me l’ha detto Riccardo in uno dei suoi sempre più
frequenti slanci introspettivi. Anche grazie a questa
liquidità nel loro rapporto io oggi rimango. Ormai si
comportano come fossero amici e l’imbarazzo di
vedere una terza persona stravaccata su un letto
mentre loro provano scale e riff può dirsi
definitivamente eliminato. Tra l’altro non li osservo
nemmeno più, mi sdraio semplicemente e socchiudo
gli occhi, seminascosta dall’ultimo grande acquisto
che la nostra coppia di fatto ha effettuato presso la
società della nettezza urbana: un separé antico,
come lo definiamo noi, che 99 persone su cento
chiamerebbero vecchio e 90 di queste getterebbero
con disgusto proprio là dove lo trovammo noi una
settimana fa (a Barcelona, sulla Rambla del Raval,
ogni sera c’è qualcuno che cerca il suo tesoro, si
avvicina furtivo ma risoluto, apre il cassonetto e tira
fuori la busta piena di pane indurito e
mangiabilissimo che sempre lo stesso ristorante per
turisti grassi ha appena buttato nella spazzatura).
Mi appiattisco contro la parete ed ho
l’impressione di dimagrire nell’operazione, i due
chitarristi hanno già cominciato a sciogliere le dita
con esercizi che il mio uomo senza molta fantasia ha
chiamato semplicemente unoduetrequattro.
“Dovresti alzare leggermente il pollice” dice
Riccardo serissimo.
“Si, scusami. E’ Alice che mi distrae da dietro il
separé” ribatte Paolo. Incrocio la sua immagine dalla
55
giuntura del separé e non rispondo, dopo questa
battuta continuerà la lezione come se non ci fossi, lo
fa tutte le volte. Anche se ho appena mangiato ho dei
capogiri violenti; sento che mi manca qualcosa di
potente: una iniezione di zuccheri o delle compresse
agli aminoacidi ramificati, magari una seria cura di
pillole di ferro per 80 giorni consecutivi. Fortuna
che la mia posizione è orizzontale, posso chiudere gli
occhi e far finta di nulla. Riccardo spiega la
paginetta che avrà scaricato da Wikipedia con la
stessa autorevolezza scientifica del capo di una
equipe di chirurghi di fama:
“La pentatonica è composta da cinque note, ed è
una delle scale più utilizzate nel rock e nel blues. La
sua facilità di esecuzione ci permette di giocare con
l’improvvisazione e ricavarne qualche semplice ma
soddisfacente riff in distorsione con l’elettrica.”
Ecco: meno male che oggi utilizzano solo chitarre
classiche.
“Come nelle altre che abbiamo imparato a
conoscere, anche qui la divisione è tra scala
maggiore e scala minore. Vediamo prima come si
costruisce la scala pentatonica maggiore” comincia
a porre l’accento su alcune parole più importanti,
rallentandone il ritmo. Il suo obiettivo è arrivare
illeso alla prima mezz’ora, da lì in avanti il percorso
sarà in discesa, per questo rallenta sulle parole che
chiudono il periodo, così il tempo passa indenne
“…poi passeremo alla scala pentatonica minore.”
Anche qui, su pentatonica e su minore ha
enfatizzato deciso.
56
“Comincerei subito con lo scrivere lo schema di
tutti e cinque i gradi della scala… ci servono un
foglio e una penna” e adesso tutti a cercare un foglio
ed una penna. Ne potrebbe tirar fuori decine, se solo
aprisse il cassetto delle lettere di diniego. Lo sa
benissimo che è pieno, ma fingerà di non riuscire a
trovare un foglio almeno fino a quando un altro
minuto non si sarà consegnato alla storia, sconfitto.
E’ un conto alla rovescia che lo distanzia dai 10 euro
sospirati più che una lezione dell’amore mio
intelligentissimo e scaltro.
“Dunque ecco la scala pentatonica maggiore.
Come vedi non è altro che una scala maggiore dalla
quale abbiamo cancellato il quarto ed il settimo
grado.” Paolo ne è entusiasta. Ho indovinato persino
un lampo di ammirazione nel suo sguardo da allievo,
come se ad inventare le pentatoniche fosse stato
proprio il mio Ric in persona.
“Se quindi volessimo trovare immediatamente
una pentatonica maggiore potremmo, per
semplicità, prendere a prestito dalla scala di Do
maggiore i gradi: primo, secondo, terzo, quinto e
sesto. Cioè, e questo ti invito a scriverlo, quelli
chiamati rispettivamente: tonica, sopratonica,
mediante, dominante e sopradominante.” Ecco la
dimostrazione scritta che il mio Ric è un truffatore
nato. Non c’era davvero alcun bisogno di questa
ulteriore specificazione per capire come si costruisca
una pentatonica. Lo so per certo, lui stesso l’ha
scoperto ieri che i vari gradi delle scale avevano
persino un nome. E adesso mi sento anche un po’ in
colpa per averlo giudicato male prima, mentre
57
spazzavo casa. Stava davvero preparando la lezione,
ripassava a memoria questo gran colpo di teatro dal
titolo lunghissimo: tonica-sopratonica-mediantedominante-sopradominante. Mi verrebbe da alzarmi
ed abbracciarlo da tergo, amore mio.
“Un pattern molto semplice, con tonica in Do
partendo dalla sesta corda è questo” e tira fuori un
foglietto che inviterà a ricopiare. Tre minuti ancora
sono sfuggiti per sempre. Poi cominciano, intanto
un raggio da fuori si stampa sul body della Eko di
Riccardo rendendo il tutto molto più scintillante, a
provare e riprovare su e giù per i manici delle due
chitarre. In pochi minuti il sound è quasi gradevole,
anche forse per via dei miei capogiri ipnotici.
“Per la pentatonica minore devi eliminare il
secondo ed il sesto grado, diminuendo di un
semitono il terzo ed il settimo. Ecco lo schema.”
Paolo ricopia con trasporto.
“Se volessimo fare un esempio partendo dalla
semplice tonalità utilizzata in precedenza, la relativa
scala pentatonica minore sarebbe quindi formata da
Do, Mi bemolle, Fa, Sol e Si bemolle.”
“Scusa Riccardo, non ho capito perché mettiamo
un Si bemolle invece di un Si.”
Ecco, come ogni volta arriva la domanda a
bruciapelo. Ho un brivido leggero che mi scompiglia
i peli chiarissimi ed invisibili del braccio destro,
come per una ventata d’incertezza che, lasciata per
sbaglio l’anta aperta e di sbieco, entrasse gelida in
questa stanza a posarsi sul mio braccio, e
rimbalzando sul separé si depositasse davanti agli
58
occhiali di Riccardo, oscurandone lo sguardo
sbigottito.
Ma lui sa bene come riscaldarsi, ha una tecnica
che fallisce solo in rari casi; l’ha imparato da uno dei
colleghi incontrati nei tanti lavoretti bimestrali, uno
di quelli che considera maestri di vita, un muratore
sessantenne ignorante come una scarpa ma di una
saggezza indù trascendentale.
“Quando qualcuno non ha capito una cosa che gli
hai appena spiegato – tuonava il muratore dall’alto
di un ponteggio appoggiato ad una montagna,
incrociando le gambe – ripetila ancora una volta,
con le stesse identiche parole, ma più lentamente ed
a voce più alta. Così parlò lu muratushra”.
Ed è proprio quello che adesso fa Riccardo
mentre il suo allievo, dapprima incerto, accenna un
piccolo movimento di assenso, un su e giù con la
testa che significa: non ho capito nulla un’altra volta
ma ho troppa vergogna per chiederti di ripetere. Io
cerco di sovrapporre i suoni, ho voglia di creare un
ambiente più piacevole; accendo l’mp3 e ascolto a
volume bassissimo Dear Prudence, con l’arpeggio
che sembra la sigla di un programma notturno in
onda su un pianeta di un altro sistema solare,
inventato da un qualche guru della radiofonia
dosando sapientemente argomenti di econometria,
alta moda e scale in la minore spiegate a voce alta
dal mio fidanzato. Ed è una lotta di volumi tra il
lettore con un solo auricolare funzionante e gli errori
ripetuti di Paolo, che parte dalla sesta corda quando
è il momento di suonare la quinta e dalla quinta
quando dovrebbe rimanere fermo. Riccardo non si
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scompone, se lo conosco bene – e lo conosco
benissimo – sta solo contando i minuti che lo
separano dal bottino quotidiano. Si direbbe anzi che
ogni svista dell’alunno non sia altro che una fresca
boccata di nebbia delle Dolomiti, per lui. Ha la
possibilità di continuare a spiegare la stessa cosa,
con le stesse parole, solo con un tono un po’ più alto,
per altri cinque minuti. Un dodicesimo di ora, 83
centesimi, non è del tutto male.
“Le scale pentatoniche richiedono poca fatica ma
possono regalarti delle soddisfazioni enormi, una
volta che le avrai assimilate. Io, se sei d’accordo e te
la senti, farei un piccolo passo avanti, in modo da
lasciarti un buon quantitativo di esercizi da svolgere
durante la settimana.” Paolo è d’accordo, non c’è
una volta che non sia d’accordo.
“Ok, allora aggiungiamo al nostro programma di
oggi anche la classica scala blues.” Sempre così, ha
gli ultimi dieci minuti e non sa come riempirli. Si
inventa degli approfondimenti sul momento, giuro
di averlo visto con i miei occhi ricavare ad orecchio
la melodia della vecchia pubblicità del Nescafé, tattarà tta taa-raa-ra, o inventare una canzone
d’amore stile Sanremo, partendo da tre accordi e un
articolo su Max, giusto perché mancavano dieci
minuti che non sapeva come riempire. Le annuncia
con tono gioioso anche, il paraculo. Dice e adesso
l’angolo del divertimento! E i suoi allievi, sorridenti
come bambini al circo, applaudono festanti.
“La scala blues non è nulla di complicato,
soprattutto dopo aver dominato le pentatoniche. Te
lo dico come fosse un gioco facile facile: prendi la
60
prima scala pentatonica maggiore che abbiamo
studiato. Ecco il nostro foglietto, come vedi abbiamo
la sequenza Do-Re-Mi-Sol-La. A questo punto ti
faccio una domanda: hai mai sentito parlare della
blue note?”
“Si, se non sbaglio è una nota che forma un
cromatismo.”
“Esatto! Aggiungiamo una blue note tra il
secondo ed il terzo grado ed avremo la scala blues.
Quindi aggiungerai un Mi bemolle tra il Re ed il Mi.
Non dirmi che è difficile…”
“No, effettivamente è abbastanza semplice.”
“Bene, allora proviamo.”
Ora: io di chitarra e teoria musicale ne so solo
quanto basta per scaricare da internet un testo con
accordi e provare a strimpellare ignobilmente un
pezzo che mi piaccia in modo particolare. Ragion per
cui non so se in verità tutte le cose che Riccardo
spiega siano vere, se lo siano solo in parte o se
magari in mezzo a solide pareti teoriche ci siano
mobili marci a buon mercato rubati ad una
discarica. La sua idea al riguardo è impeccabile: se
vengono da lui è perché ne sanno poco, quindi come
potrebbero mai accorgersi dei suoi errori? E poi –
termina sicuro – Wikipedia non sbaglia mai.
Ecco cosa siamo, noi due: una scienziata politica
aspirante cassiera di supermercato ed un ex
muratore laureato in legge che per vivere dice a tutti
di aver imparato a suonare la chitarra a Liverpool.
Entrambi innamorati, entrambi seguaci indefessi di
Tweety e Gatto Silvestro.
61
La lezione sembra consumare le sue ultime note;
mentre i due continuano a provare i loro giri
sbilenchi, passando senza timore da contesti
maggiori a scale minori derelitte e qualche suono blu
impenna le corde, l’idea arriva.
Dapprima appannata, e ne colgo solo qualche
sensazione di placida delizia, come quando una
foglia di basilico nel pomodoro in cottura si spacca
ed arriva in folata alle narici. Piacevolezza ignorante,
che arriva prima all’istinto e poi al raziocinio, ma in
ritardo, quando l’alito d’odore si sia già esaurito. Poi
il vetro si spanna e riesco a cogliere pezzi interi della
creatività che ha parcheggiato qui, sul mio
materasso a una piazza e mezza, condito con
lenzuola di Taipei. Vedo uno schermo, vedo i
monitorini accesi a indicare che la connessione è
virile, solida, in forma. Un blog vedo, e tanta gente
uguale a me che mi saluta. Colori vari, ed una penna
schizzata d’inchiostro simpaticissimo.
Infine l’idea si svela tanto completamente da
percepirne appieno i contorni netti e precisi: un
libro scriverò, un libro!
Com’è che, tra tutti questi schifosi giorni in fila
uno ad uno, manchevoli di grazia, di pane e di
poesia, bagnati da baci asciutti di sensualità, raccolti
nel fondo viscido delle boccette d’olive in salamoia,
sfregiati dai miei mal di testa di cartone, com’è, che
questa ispirazione l’ho avuta solo adesso?
Tutto è chiaro diamine, tutto è completo: la mia
gonna di stoffa increspata servirà ad asciugare le
parole versate per terra. Un libro, un diario, un
romanzo che parli di me, delle mie coperte fredde e
62
dell’alito del cane del direttore di banca che
conoscerei, se solo potessi aprire un conto. Un libro
a martello, a picchiare le teste pelate dei bruti, alla
Posta, in Comune, al multisala: raccolti a pensare
solamente a se stessi.
Un racconto nel quale io sola sia la regina.
Comparse e staffieri m’inciprieranno il naso ad
ogni momento ma io, io sola, sarò da scrutare.
Paffuti polletti giocheranno liberi nei miei giardini;
un balzo, un chiocco, un pernacchio. E poi tutti
dentro, a servire la notte come fosse rigata di nuvole
bianche ed alci stellati. La mattina scenderò dal mio
baldacchino argentato, con pizzi di seta e tendine a
fiori, correndo salterò le scale a quattro a quattro
con una chitarra in spalla, poi sarò dai miei adorabili
polli. E lì, imbracciata un’autentica Fender, ne
punterò uno, uno solo per quel giorno, e lo farò
arrotolato prima ancora di essere cotto, perché e così
che a me piace.
Un libro nel quale sia io la vigilessa del fuoco
chiamata a soccorrere un gatto incapace di scendere
da un albero, freddo ed impaurito. Sarò tanto gentile
da accoglierlo tra le mie braccia materne e calde e
poi, mentre nessuno guardi, con un movimento
veloce delle mani, lo adagerò delicata nell’imbocco
della cisterna. E lì morirà, affogato, per mano mia.
Sarò protagonista, regina di un tempo andato, a
cavallo di un asino sbilenco e gracile, innamorato di
una giumenta che non lo degni nemmeno di un peto
o di un filo di fieno marcito. Canterò il perché della
mia mancanza di voglia unita all’incazzatura per
essere viva ma non vegeta, con la stessa maestria che
63
un
cuoco
vecchio
e
sfatto
utilizzerebbe
nell’imburrare una fetta di toast, con la stessa
identica lucidità che un eroinomane impiegherebbe
nello snocciolare i nomi dei 7 re di Roma, di notte al
chiaro di un lampione.
Sarò purulenta e fragile, innamorata e triste,
spigolosa e docile nel mio intento peregrino di bere
un litro di benzina per sputarlo, dopo un mese, sul
fuoco degli inganni che ho ingoiato nei miei anni.
Io, trentenne sfracellata che si staglia senza posa
sullo schermo di chiunque, solo per dire: non mi
uccido! Rimango qua e ti solletico con il mio piedino
di fata fin quasi a farti male, di modo che tu implori
basta, basta, basta.
Scrivere un libro dunque.
Indossare per un’intera giornata dei jeans cinesi
più piccoli di 2 taglie. Notare segni evidenti di crisi
isterica già dopo un quarto d’ora e continuare a
soffrire, intanto la rabbia che cresce inquina le
buone maniere. Poi implodere, catturando in fogli
bianchi le espressioni più felici, le subordinate più
atletiche, i punti e virgola più arditi.
Il mio libro lo scriverò sul retro delle lettere con
cui gli istituti bancari mi comunicano le loro
completezze di organico, ho talmente tanta di quella
carta che potrei farne un kolossal. Ho ancora decine
di moduli per contratti da inviare via fax ai clienti,
memorie della mia precedente vita da agente di
vendita, sono sicura che la cosa mi regalerebbe una
soddisfazione sottile. E le penne? Almeno dieci ne
occorrono, senza contare quelle che potrei perdere e
quelle che non scrivono. Ne sceglierò alcune con i
64
nomi delle agenzie interinali, poi altre più esotiche
tipo Cisco Systems o Tecnocasa.
Voglio scriverlo a penna, su veri fogli di carta,
fatto da così tante pagine da beccarmi una tendinite
e riuscire a sentire il tonfo dell’unghia smaltata del
dito medio che cade per terra. Scriverò di notte,
penserò di giorno, riposerò solo alla fine. Perché
ogni pagina che riuscirò a riempire sarà un’ora in
più della mia vita futura e un anno in meno nella
condanna: trovare parole nuove ad ogni rigo che si
facesse avanti sopra il bianco dei fac-simile.
Dear Prudence suona per la terza volta nel mio
orecchio destro. Sembra dirmi ogni cosa, mostrarmi
quanto sia chiaro il confine tra foglio bianco e
scarabocchi a penna, tra essere e non essere mai
stata. Lasciare qualcosa di sé, che sia utile in ogni
caso, da leggere sotto un temporale, da utilizzare
come testimonianza quando una selezionatrice che
nel tempo libero gridi Italia Unoo chiedesse: “può
farmi un esempio concreto di un progetto che è
riuscita a portare a termine? Se vi è mai riuscita,
ovviamente.”
Rubare dello Svitol al supermercato, spruzzarlo
sui bulloni esagonali e scardinare la mia fantasia,
lasciarla libera di farmi dire ciò che voglio, e poi
scriverne. Scrivere anche Italia Unoo a lettere
d’argento, con il cacciavite a stella, sulla fiancata
verde petrolio di una bella Mini appartenente alla
mia selezionatrice preferita.
Questo farò, senza dubbio.
Manderò via Riccardo per 6 mesi, lo spedirò dai
parenti in Puglia a giocare a racchettoni sulla
65
spiaggia, non m’importa se è gennaio: possiede un
fisico talmente duro da resistere a questa e ad altre
sfide d’amore. Il monolocale rimarrà completamente
mio, libero da chitarre e scale armoniche zoppicanti,
odorante d’incenso come un altare sul quale poggerò
le mie carte, il dizionario, le penne ed i biscotti, per
poi scrivere di me, di lui, dell’altare e dei biscotti.
Pagine scorrevoli e semplici da leggere, mancanti di
parole forbite o espressioni desuete, capitoli che
abbiano peso specifico pari a zero, o così basso da
poterli versare su una padella piena d’olio di semi di
girasole bollente e vederli galleggiare comodi. Righe
da leggere in una giornata di pioggia al pc, con una
tazzina di caffè fumante in mano: così sgradevoli da
far venire voglia di versarne metà sulla tastiera e
metà sull’hard-disc attraverso lo sportellino aperto
del lettore dvd.
Parlerò di me e della mia vita, di Riccardo e dei
suoi allievi, con l’unico intento di far sentire chi
leggesse molto meglio di me, più intelligente, più
socievole, più ricco. Parlerò alle donne come me,
perché comunque toccherà sempre a noi tirare
avanti la carretta, mentre i maschi siano impegnati
nelle loro imprese fallimentari. Alla donne che come
me vedano svanire la propria freschezza, orfane di
shampoo al tiglio e fard di marca, di un paio di
scarpe decenti, di una borsa di pelle e di una vera
scopata romantica, almeno una volta al mese. Mi
abbiglierò da lanciatrice di giavellotto e con un filo
leggero di matita partirò alla carica come andassi
alla guerra. Prima nei fossati vuoti, poi nelle fogne
condite di topi, infine nelle pozzanghere dopo la
66
pioggia io cercherò il mio gioiello. E sarà un
periodare incerto, smozzicato e traboccante,
fastidioso, debole e ignorante.
Le situazioni mi sfuggiranno di mano, mentre i
personaggi m’implorano di fargli fare cose che non
avevo immaginato, oppure qualsiasi gesto pur di
non rimanere immobili. Poi, delusi, se ne andranno
per la loro strada togliendomi persino il saluto.
Senza stupire ad ogni costo, solo con la voglia netta
di parlare duramente di cose futili, criticare,
accoppare, e poi farmi trascinare come una scema
della voce materna di Zuzana Navarovà che cantava
Andělská, buttare via fogli e penne e rimanere ad
ascoltare: vorrei dormire dodici ore cullata dalla sua
voce. Svegliarmi, accendere la radio ed ascoltarla
ancora.
Il libro che ho deciso di scrivere sarà gratis,
ovviamente. Di inviarlo alle case editrici non se ne
parla. Non posso mica mandargli il retro dei moduli
prestampati scritti a penna, non credo che accettino
manoscritti via mail e poi non ho denaro né voglio
spenderne per francobolli e raccomandate. Senza
contare che io non pagherei mai per leggere cose
scritte da me, e non capisco perché gli altri
dovrebbero sentirne la necessità. E infine, in tutta
onestà, un ammasso di pagine che odorino di
cassonetto dei rifiuti ho paura dia consigli troppo
espliciti agli addetti delle case editrici, come dire,
che suggerisca di restituire l’opera al suo ambiente
naturale: fossati neri, pozzanghere, fogne. Che
serietà mostrerebbe un libro che parli di povertà che
costasse 12 euro in carta patinata?
67
Un libello a scrocco sarà, in internet, a
disposizione di tutti quelli che non studiano, non
escono con la fidanzata, non mangiano un panino,
non fanno jogging, non decorano l’albero di Natale
dopo essere sopravvissuti ad una fila da fine del
mondo per accaparrarselo, non bevono liquori, non
hanno nulla da cucinare né camicette da stirare, non
sistemano nulla in garage, non vanno in centro solo
per provare qualche gonna nuova, non odorano di
tonno e non hanno mai pescato, non portino
indietro un orologio al negoziante perché s’è fermato
esattamente 24 ore dopo l’acquisto (svizzero, non c’è
che dire), non innaffino gerani, menta o tulipani,
non guidino e non rinnovino la patente, non
giochino a tennis e non abbiano racchette da
incordare dopo un game violento, non abbiano
canali da risintonizzare perché non hanno comprato
nessun nuovo apparecchio televisivo, non abbiano
insomma nulla, nulla, null’altro da fare nella
maniera più assoluta.
Questa nuova, splendida trovata mi ha quasi fatto
passare il mal di testa, è un buon segno, mi fa già del
bene. Tu intanto continua così bello mio, che ormai
ci siamo. Ho avuto una fortuna immane ad averti
conosciuto. Certo, forse il fatto che di musica tu non
capisca veramente un cazzo ti ha aiutato, ma sta’
tranquillo: io sono qui per incasinarti ancor di più
quelle quattro cose che credi di sapere.
“Dovresti sciogliere il quarto dito con esercizi di
resistenza. Anziché l’unoduetrequattro comincia a
provare il trequattrounodue e viceversa…”
“Ok.”
68
“Si però Paolo, cerchiamo di capirci bene: lo devi
fare tutti i giorni, mezz’ora almeno. Ci siamo capiti?”
Certo che ci siamo capiti, ci capiamo sempre. Poi
però a casa tua non ti eserciti neppure per un
minuto, così la settimana successiva siamo sempre
punto e a capo. La qual cosa non è che non mi
interessi, anzi. Mi fa un enorme piacere, bello mio.
Dove lo trovo un altro che mi paga per ripetere
sempre le stesse cose e provare ogni martedì gli
stessi esercizi? Io ti devo ringraziare, amico mio
carissimo. Sei la prova vivente che io nella vita posso
pure avere culo, anche se solo per un’ora a
settimana. Mi spiace solo per Alice, povera mia
dolcissima, che stamattina si sarà stancata per il
colloquio e adesso non può nemmeno riposare in
pace. Ma è finita, amore mio, anche quest’ora è
andata via, tra poco mi sdraio accanto a te e ti
abbraccio per tutto il tempo. Vita mia, non le ho
nemmeno chiesto com’è andata, ma forse ho fatto
bene. E’ sempre nervosa dopo, è meglio lasciar
passare qualche ora, giusto per farle distendere i
nervi e riordinare i pensieri. Sono sicuro che se le
avessi domandato non avrebbe saputo cosa
rispondere; deve prima rifletterci, poi capirà se è
andata bene o male.
Chi se ne frega se è andato male, chi se ne frega.
Io finalmente ho un libro, una idea tutta mia cui
dedicarmi. Per prima cosa aprirò un blog che porti
lo stesso titolo del romanzo, poi comincerò a cercare
appassionati di lettura e, man mano che le pagine
crescono, li terrò aggiornati online sugli ultimi
sviluppi. Ho qualche esperienza, potrei persino
69
realizzare un sito in html e caricare lì il romanzo, si:
probabilmente è proprio quello che farò. Poi ci
sarebbe il mio metodo infallibile e segreto. Certo,
non è diabolico e raffinato quanto quello di
Riccardo, ma l’importante è il risultato finale
secondo me.
Lui è convinto di riuscire a sposare Carmen
Consoli. Già dal giorno successivo alle nozze
compreranno, coi soldi della cantantessa ovvio,
decine e decine di chitarre, delle marche più
sfavillanti e ricercate.
Infine arriverà il divorzio.
E lui, dall’alto dei suoi studi di giurisprudenza e
fiancheggiato da un suo amico avvocato, è convinto
di riuscire a farsi assegnare tutte le chitarre,
adducendo il fatto di essere maestro privato di
chitarra e di aver utilizzato quel tesoro come bene
strumentale. Non so poi come ha pensato di
risolvere il problema della comunione de residuo o
della separazione dei beni, né come diavolo è
convinto di riuscire a sposare la fantastica Carmen.
E’ sicuro che vi riuscirà, e tanto deve bastarmi.
Il mio metodo è diverso.
E’, diciamo, leggermente più tecnologico e sicuro
e non prevede, almeno in una prima fase, la
presenza né di preti che mi sposino né di civilisti che
mi aiutino a divorziare. Io credo che elaborerò un
sito internet sul quale pubblicare il mio romanzo e
che sarò così brava nello sfruttare le possibilità
offerte dalla rete che vi giungeranno centinaia di
persone. Starà a loro poi decidere se dare
un’occhiata, se passare oltre subito subito, se
70
soffermarsi invece su qualche pagina, se addirittura
scaricare il file gratuito in pdf. Qualcuno, e lo
ringrazierò personalmente suonandogli alla porta
alle 3 di notte, nientemeno si spingerà ad accendere
la stampante e consumare mezza risma di carta
stampandolo. Una persona, una sola persona nel
mondo, sono convinta lo porterà persino in
copisteria per una rilegatura economica. Non sarò
io, sarà la zia Rachela. Lo farà leggere a tutte le sue
amiche, e chissà che non ne escano fuori dieci o
venti euro: sarebbe la luce, sarebbe bellissimo.
Bene, ottimo: ma gli altri? Come faranno a sapere
che esiste questo libro in rete, tra decine di altri,
tutti scritti meglio? E’ qui che il mio metodo si fa
interessante. Dunque: lo sfondo della home page
sarà bianco, il titolo sarà in grassetto nero, poi ci
sarà il link per scaricarlo in pdf, il contatore delle
visite, e poco altro. Ed è proprio questo poco altro
che mi renderà celebre: saranno centinaia di parole
corpo 8 scritte in colore bianco su sfondo bianco,
invisibili agli occhi ma indicizzate nei motori di
ricerca. Voglio che chiunque cerchi dei biglietti per il
concerto degli U2 a Bari non li trovi affatto, anche
perché non credo che gli U2 daranno mai un
concerto allo stadio San Nicola, piuttosto troveranno
il mio libro, e stampandolo potranno consolarsi per
il mancato concerto.
Utilizzerò una lista di tutte le provincie d’Italia e la
incollerò alle altre tag, è facile recuperarla: basta
andare su un qualsiasi sito di annunci e provare ad
inserirne uno. Magari con questa scusa potrei anche
spulciare tra le offerte di lavoro. Inserirò Agrigento
Alessandria Ancona Aosta Arezzo Ascoli Piceno Asti Avellino Bari Belluno Benevento
71
Bergamo Biella Bologna Bolzano Brescia Brindisi Cagliari Caltanissetta Campobasso
Caserta Catania Catanzaro Chieti Como Cosenza Cremona Crotone Cuneo Enna Ferrara
Firenze Foggia Forlì - Cesena Frosinone Genova Gorizia Grosseto Imperia Isernia La Spezia
L'aquila Latina Lecce Lecco Livorno Lodi Lucca Macerata Mantova Massa Carrara Matera
Messina Milano Modena Napoli Novara Nuoro Oristano Padova Palermo Parma Pavia
Perugia Pesaro e Urbino Pescara Piacenza Pisa Pistoia Pordenone Potenza Prato Ragusa
Ravenna Reggio Calabria Reggio Emilia Rieti Rimini Roma Rovigo Salerno Sassari Savona
Siena Siracusa Sondrio Taranto Teramo Terni Torino Trapani Trento Treviso Trieste Udine
Varese Venezia Verbano Cusio Ossola Vercelli Verona Vibo Valentia Vicenza Viterbo
e poi molti nomi di personaggi famosi tipo
Queen, Mika,
Loredana Bertè, Jennifer Lopez, Stevie Wonder, Tom Cruise, Russell Crowe, Sheryl Crow,
Julia Roberts, Woody Allen, Mia Farrow, Madonna, Gesù Cristo, Krzysztof Kieślowski,
Vasco Rossi, San Siro, Nevio Scala, La Scala di Milano, Scala Mercalli, Luca Mercalli, Fabio
Fazio, Maurizio Milani, Lou Reed, Max Biaggi, Alessandro Del Piero, Francesco Totti,
Monica Vitti, Alberto Sordi, Carlo Verdone, Vittorio Gassman, Carlo Mazzacurati, Massimo
Boldi, Christian De Sica, Michelle Hunziker, Vanessa Incontrada, Claudio Bisio, Ficarra e
Picone, Franco e Ciccio, Franco Battiato, Alex Britti, Max Gazzè, Samuele e Pierluigi
Bersani, Deng Xiaoping, Cristina D’Avena, i Puffi, i Nirvana, Courtney Love, Andy García,
Pedro Almodovar, Javier Bardem, Julio Iglesias, Fernando Alonso, Flavio Briatore, Naomi
Campbell, Andy Warhol, Hugo Pratt, Sophia Loren, Juliette Binoche, Julie Delpy,
Gianmaria Testa, GianMarcoVenturi, Fabrizio Corona, Lily Cole, Pamela Anderson, Vittorio
Sgarbi, Manu Chao, Gabriel García Márquez, Tony Manero, Simon Le Bon, Spandau Ballet,
Duran Duran, Enrico Bertolino, Bruce Willis, Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Fiorello, Neri
Marcorè, Natalia Estrada, Gioele Dix, Gigi Proietti e Sabani, Romano Prodi, Vince Tempera,
Sanremo, Maria De Filippi, Amadeus, Carlo Conti, Roberto e Michele Saviano, Un posto al
sole, Whoopi Goldberg, Ingrid Bergman, Gerry Scotti e Calà, Diego Abatantuono, Lando
Buzzanca, Daniele Luttazzi, Antonello Venditti, Michele Santoro e Shakira.
Spero che bastino.
La lezione è sgocciolata via come il sudore di un
ramarro, Riccardo è stanco ma soddisfatto. Adesso i
due mettono in moto le lente procedure che li
porteranno ai saluti finali. Intanto il display del
cellulare si illumina, vedo la luce e penso: il
ragioniere, hi hi hi. Invece no mannaggia, è Silvia: la
mia vendetta è solo rimandata, signor ragioniere.
Non rispondo, prima o poi si stancherà. Infatti
desiste. Paolo ha conservato la chitarra nella
custodia nera imbottita, identica al primo regalo che
comprerò a Riccardo al mio prossimo impiego
mensile. Magari la prendo un po’ più resistente, se
su Ebay vinco un’asta a buon prezzo. Mi sembra
assurdo che uno che si guadagna da vivere grazie
alla sua chitarra debba sognare di notte una custodia
72
imbottita, e non di suonare sul palco con, non so, i
Green Day o Lola Ponce. Ma già, sono tante le cose
che mi sembrano assurde.
Il display si illumina ancora, stavolta è un sms:
“ciao alice sono silvia t devo parlare x favore fammi 1
squillo quando leggi questo sms”. Penso che se i
cellulari fossero dotati di un sistema in grado di
fornire una scarica a 10 mila volt ad ogni invio di un
messaggio senza virgole, il mondo sarebbe più bello
ed equo. D’accordo cara, aspetto che Paolo decida di
accorgersi che un’ora è già terminata da cinque
minuti abbondanti e ti do un segnale di vita.
Ma no, non se ne accorge. Finisce sempre così:
un’ora di lezione e due di dissertazioni filosofiche e
pagine di storia. Mi sembra di intuire che oggi
l’argomento sarà John Lennon ed i Beatles. Colgo
solo delle frasi a metà, sto veramente scocciandomi
qui dietro il separé. Accendo l’mp3 ad un volume più
alto di prima e immagino che debba esserci qualcosa
di realmente magico nella musica dei Queen perché
inaspettatamente decide di funzionare anche
l’auricolare sinistro. Grande miracolo! Almeno potrò
estraniarmi del tutto.
Ad occhi chiusi vedo già il blog con sfondo bianco
e rosso, se potessi spruzzerei anche un po’ di lilla.
Fantastico sui commenti, sulle persone che scrivono
cattiverie, su quelle che si complimentano per la
nobile iniziativa. Poi tante foto, e mi scopro a
percorrere lunghi tratti a piedi con la digitale in
mano alla ricerca di scatti, per nulla annoiata.
Fotografo scorci decisamente scomodi, erbacce che
crescono attorno a panchine in parchi ormai
73
frequentati solo da reietti, borseggiatori, cani
randagi. Scarafaggi impazziti, giusto un attimo
prima di essere schiacciati dal cameriere di un
ristorante il cui tavolo hanno scelto per l’ultimo
pasto. Catturo il sole direttamente puntandoci
contro l’obiettivo e non guardando – son mica
scema io. Intanto il risultato è gradevole, mille colori
dal bianco all’avana. Poi scatto una foto a un
bambino e rimango ferma a pensare, talmente in
profondità da dover cercare la prima panchina
coperta d’erba per sedermi. Guardo la foto, spengo,
riaccendo e riguardo ancora sullo schermino da 2
pollici.
Due
parole
mi
suggerisco,
così
insistentemente da essere costretta a pronunciarle a
bassa voce: mi somiglia. E’ una impressione
sbagliata, ma mi sconvolge. Il figlio che non ho e che
vorrei mi pungola il sedere con uno spillo da balia; è
un pensiero che scaccio mille volte l’anno per la sua
irrealizzabilità ma torna sempre, anche se non l’ho
chiesto. E sono mamma in quei momenti, mamma
senza un bambino, con la precisa sensazione di
tagliarmi un polpaccio pur di farlo mangiare, di
farmi acqua se ha sete, di addentare a morte un
pitbull che lo guardasse storto.
Ritraggo le coppie che hanno smesso di tenersi
per mano e nella foto appare una nebulizzazione
azzurra, invisibile altrove, che è la loro voglia
d’essere da qualsiasi altra parte, distanti l’uno
dall’altra. Scavalco recinzioni arrugginite e
raggiungo persone dimenticate, amori perduti e
rimasti a guardare ciò che non esiste più, passioni
infelici, ricordi convinti di essere in grado di
74
riportare tutto indietro, anche dopo mesi ed anni,
giacché mai in loro l’amore si è fatto ricordo. Vive,
come i germi che non puoi vedere ma che sai
esistere ed accrescersi, incuranti dei tuoi non so, non
ricordo più. E scatto e scatto, e mentre lo faccio
cerco di cogliere un’ espressione che non mi aspetto,
un segnale che mi dica: sto bene Alice, è tutto
apposto, non preoccuparti.
Tutti mi mancate, tutti.
Di foto ne inserirò centinaia, tanto che i
commenti
tenderanno
pericolosamente
ad
incentrarsi solo su queste. A quel punto interverrò in
prima persona a riportare l’attenzione sul vero scopo
del blog, il romanzo, perché è di quello e solo di
quello che bisognerà parlare. Avessi voluto un blog
dedicato alla fotografia l’avrei chiamato Scatta che ti
passa o una cosa così.
Il responsabile marketing del progetto, dal
momento che il libro sarà gratis, è vero, ma ciò non
significa che non sia necessaria una mente lucida ed
esperta che ne curi la diffusione, mi dirà che il
momento difficile dovrà ancora venire. Sarà il caso
di studiare seriamente una strategia di espansione e
decidere quale sia il nostro target di riferimento. Al
che io, piccina piccina e indolente, risponderò: tutti.
Che faccia da schiaffi che mi ritrovo.
Dovrebbero appendermi per le unghie dei piedi
smaltate, a testa in giù su una piattaforma
petrolifera incendiata sul mare in burrasca.
Meriterei un calcio in culo per ogni parola scritta
nel libro, un pizzicotto per ogni virgola.
75
Farebbero bene a gettarmi nella vasca dei pirañas
con tutte le scarpe. Le scarpe no, pietà, implorerei
io, e si, ribatterebbe il mio direttore marketing, uno
s’impegna, si fa un mazzo tanto da mane a sera per
promuovere il tuo libro di merda e quando ti si
chiede non dico una collaborazione, ma una parola
d’appoggio, mica un pompino, rispondi con l’aria
svagata di chi proprio non gliene importi un cazzo.
Si è innervosito, non c’è dubbio. Adesso fa questa
sfuriata e poi si calma, lo conosco; è dai tempi
dell’università che ha sempre avuto questa mente
geniale per la comunicazione, ci sa fare, è il suo
pregio. Il difetto è che basta una parola sbagliata,
una di troppo o a volte una non detta, per indurlo a
sbattermi al muro con violenza, ma è un pezzo di
pane, poi gli passa, non fa male a nessuno.
“Com’è che si chiamava la via della casa di
Mendips?”
“Marlowe street, Paolo, Liverpool. Non mi pare il
caso di ripeterlo ogni volta”
“Ecco, giusto! Marlowe street. Viveva con la zia
Susy.”
“ Mimì.”
“Mimì.”
“…”
“Sicuro si chiamasse Mimì?”
“Sicurissimo.”
“Mah. Io ricordavo Susy.”
“No. Si chiamava Mimì.”
“E Susy allora era la madre…”
“Non c’è nessuna Susy, la madre si chiamava
Julia. Ha scritto anche una canzone con quel titolo.
76
C’è un bell’ arpeggio che prima o poi studieremo
anche noi.”
“Senti Riccardo, l’ultimissima cosa: dimmi del
quinto Beatle, il produttore discografico.”
“Il grandissimo George Martin, della Emi. Ma la
cosa veramente importante è che i Beatles, nel loro
periodo tedesco, quando ancora si chiamavano
Quarryman, divisero il palco ad Amburgo con il
nostro Mino Reitano.”
“Ecco, si, questo me lo devo proprio segnare. Hai
un foglietto?”
Stavolta, se davvero riusciranno a raccattare un
foglietto, forse è finita. Infatti, dopo tre pacche sulle
spalle ripetute due volte ed un’ultima rinfrescata agli
esercizi da fare a casa; con un interludio di pochi
minuti sulla politica nazionale e le tre soluzioni da
adottare per salvare il Paese in un anno (questa
teoria Paolo la chiama “delle 4 esse”: sesso, sognare,
salario sociale); allargando l’orizzonte del discorso a
questioni scottanti di geopolitica e agli imperialismi
che negli ultimi cinquant’anni hanno impedito un
autentico sviluppo morale dei popoli; passando per
il campionato di calcio inglese, con nomi a me
sconosciuti ed incomprensibili ma di cui parla come
fossero cugini in seconda, Paolo decide di andare.
Il mio amore si butta sul letto, così goffo che fa
cadere il separé e mi colpisce con un gomito al
fianco. Urlo di dolore autentico. Mi abbraccia forte,
come se non ci fossimo più visti dai tempi delle
elementari, mi bacia.
“Amore mio oggi è stata veramente pesante” dice
sincero.
77
“Lo so amore, vieni qui dalla tua Alice che ti
faccio le coccole” e così dicendo gli sistemo la testa
sul mio seno e gli accarezzo i capelli.
I suoi cambiano a seconda delle ore del giorno: la
mattina sono perfetti, squadrati, leggermente
ingellati; il pomeriggio cominciano a scompigliarsi,
il gel regge sempre meno con il trascorrere delle ore
e le ciocche si distribuiscono in direzioni differenti.
E’ qui che li preferisco. La sera sono un ammasso
uniforme e confuso che nulla ha a che vedere con la
pettinatura da persone normali della stessa mattina.
Mentre si rigira e mi abbraccia continuo a
riflettere sul libro. E’ un flusso continuo di idee che
mi colano dall’ombelico come se avessi tolto
inavvertitamente un tappo di zinco dalla mia anima.
Se mai scriverò, mi dico, non andrò a fare la spesa,
non mi farò una doccia, non invierò nessun
curriculum vitae… che importa! Prima scrivere,
togliermi dalla testa quest’impellenza che mi
impedirebbe di dormire, poi vivere. Mi abbrutirò, mi
cresceranno peli ovunque, niente cerette né silk-epil,
puzzerò un tantino per giunta.
Facile baciarmi e accarezzarmi adesso, amore
mio, se mi ami veramente dovrai farlo anche quando
sarò nella mia fase creativa, con l’alito pesante e i
brufoli. Anche per questo lo manderò in Puglia: non
mi alletta affatto l’idea di farmi vedere orrenda, sono
sempre stata bella io.
Riccardo chiede: “Sei riuscita a rilassarti almeno
un po’?”
“Si, ho dormicchiato più che altro.”
78
“Pensavo ti disturbassimo, che non avresti
riposato per colpa mia. Mi togli un peso.”
Siamo rilassatissimi adesso, due ali di pipistrello
attaccate a testa in giù alle doghe del materasso, di
giorno. Chiudiamo gli occhi entrambi mentre il
tempo passa e non ci importa.
Il Nokia vibra e s’illumina ad intermittenza. E’
ancora Silvia, avevo dimenticato di rimettere la
suoneria. Stavolta rispondo.
79
80
3.
Tum-tà tumtumtà tutum tà tumtum ta-tatùm tà
tu tum-tà tumtumtà tupatumpà… il picchiare
metropolitano mi sfonda la testa, ma quando tali
musichette si suonano da sole non posso farci
niente, non riesco a mandarle via. Anche i colori
avranno la loro importanza, nel concerto che mi si
sta caricando dentro, tra fronte e nuca. Quando
l’aria si colora di giallognolo, sempre a quest’ora del
pomeriggio, ho tutta la stanchezza della giornata
condensata nelle mattonelle del marciapiede
garibaldino. Ogni metro che percorre la Fiat Uno è
un sussulto, tumtùm, tumtùm, che spinge i miei
dolci zigomi fermi contro la pelle delle guance
traballanti. Ho caldo, infagottata nel cappotto di zia
Rachela, ma tuttavia non abbastanza da spezzarmi i
pensieri, sempre fissi lì in avanti, come i miei occhi
impiastricciati dal sonno pomeridiano. A tratti li
socchiudo, ma li spalanco subito ad ogni tumtum.
Poi di nuovo stringo le palpebre, per un attimo
soltanto. Io sono bella, in questi casi. Già il sole
stenta a mostrarsi, e questo sarà pure un ottimo
punto a mio favore: la penombra mi giova, ed ancor
più le luci dei lampioni che si accendono.
81
Poi il mio volto stanco è più allettante, stimola la
voglia di proteggere, almeno agli uomini che ho
conosciuto. Il fard mi maschera, la cipria mi sbianca,
le labbra rosse m’intarsiano. Non c’è che dire, son
proprio bella. Ho persino delle foglie d’oro al posto
di alcune ciocche dei capelli che posso scuotere
quando voglio, tanto lo so bene che ritorneranno al
loro posto, mossi e perfetti come prima, senza nodi.
Silvia non è bella, ma è la mia amica, e quindi è
più che bella.
Si è troppo ingrassata negli ultimi tempi, e il suo
volto ha qualche riflesso di quei disperati e depressi
clochard che incontri nella linea rossa della metro,
di notte. Ha i suoi difetti, ma le manca la cattiveria:
per questo è amica mia. Mi aspetta già seduta al
tavolino tondo e vecchio.
Ha insistito, ha insistito tantissimo per vedermi
qui, io che ho l’impressione di non essere più entrata
in un bar dagli esami di maturità. La differenza tra
quelle come me e le persone normali sta in una
tazzina di caffè. Ho calcolato che se andassi a
prenderne uno ogni mattina, dal lunedì al venerdì,
sarei costretta a rimanere digiuna per quasi due
mesi l’anno. Non so, è una idea allettante alla fin
fine, potrei scegliere agosto e febbraio, o aprile e
novembre, o magari con tantissimo coraggio due
mesi consecutivi come giugno e luglio o ottobre e
novembre.
Per questo io al bar non ci sono più andata da
anni, ed è un problema che sembri riguardare solo i
baristi, o almeno a me non è ancora capitato di
sentire discorsi allarmati delle mie vicine di casa su
82
questa tematica. Invece personalmente lo giudico di
una gravità eccezionale. Primo perché per
convincermi Silvia ha dovuto usare la frase misticomagica ti offro un caffè; secondo perché devo
ammettere di provare un certo disagio, da quando
sono qui seduta. E’ come se tutti mi osservassero ed
io avessi paura di far qualche figura di merda,
mentre so benissimo che non mi sta osservando
nessuno. Quando perdi l’abitudine cambi forse
senza accorgertene, e qualcosa di sicuro si smarrisce,
in questo caso sembra non si trovi più da nessuna
parte la parte conviviale di me: vorrei essere a casa
mia, sul divano, o al pc per compilare form online o
al massimo alle poste, col mio bel numerino e le
anziane signore che parlano dei loro fantastici nipoti
superdotati e di successo.
Ma sono qui, e mi sa che devo affrontare il
cameriere che arriva.
Solo per il fatto di aver scelto, tra le decine che
avevamo a disposizione, il suo bar, deve avergli
suggerito il permesso di prendere confidenza:
“E cosa portiamo a queste due belle signorine?”
“Qualcosa di poco alcolico per favore. Sa, oggi io e
la Silvia ci sposiamo e stasera dovremo essere
presentabili per il ricevimento. Poi, lei mi capisce,
ho intenzione di possederla per tutta la notte, quindi
meglio rimanere sobrie, no?” avrò risposto chissà
quando e dove. Adesso e qui ho solo ordinato un
caffè e un marocchino con la stessa letizia di una che
sta per presentarsi all’esame di statistica
psicometrica per la terza volta. E’ bastato, il
cameriere playboy ha perso tutta la sua loquacità.
83
Mi fanno pena, questi tizi che cercano di farsi
piacere mandando a memoria le quattro regolette di
un manuale preso a due euro su una bancarella. Non
mi giustifico neanche dicendo che loro non abbiano
capito nulla dei sentimenti e delle inclinazioni di noi
donne, o altre scemenze. Al contrario, io son
convinta che questi, di noi donne, abbiano capito
proprio tutto: vogliamo proprio quello che loro
sanno, che si trova più o meno proprio sotto
l’incrocio delle diagonali dell’uomo da un euro. Ma,
attenzione, non in un bar… non quando abbiamo
delle cose da discutere con le nostre amiche…
Silvia è sofferente, te ne accorgi dagli occhi. Le si
illuminano troppo spesso, per immediati istanti, poi
tornano alla loro opacità solita. Quei riflessi ti
dicono solo: ho bisogno. Di che cosa lo puoi
aggiungere a tuo piacimento, certa che non ti
spingerai troppo lontano dalla realtà, qualunque
cosa tu dica.
Questo mi fa stare meglio. E’ puerile, lo so, ma mi
aiuta. Perché anche i miei occhi lampeggiano
ininterrottamente per tutto il tempo. E vedere
questo strazio negli altri mi convince ancora di più
della mia idea fissa, e cioè che nessuno, in fondo, sia
soddisfatto. Nessuno. Gli occhi marroni di Silvia
curano i miei, che per un attimo saranno meno
disperati e pazzi. Li curano mentre mi racconta
sempre le stesse cose delle stesse persone, da anni: il
suo fidanzano non fidanzato; Mario ha avuto un
incidente, non giocherà al torneo di maggio; Giulia,
l’amante del Presidente è una stronza, ma comanda
lei. Peccato. Alberto… Come faccio a spiegarle che
84
voglio sapere di lei e non di quella gente multi
localizzata che la attornia? Interessati un poco a te
stessa, le dico. Gli occhi le si illuminano ancora,
siamo entrate in sintonia, ma è un attimo. Ha
trovato eccitante d’un tratto il poter parlare di sé, ha
assaporato il mio interesse, poi però la sua mente
deve aver concluso che il racconto sarebbe stato ben
breve, e le ha opacizzato lo sguardo.
Cos’hai amica mia, quand’è successo che ti ho
persa?
La osservo a fondo nei suoi gesti, cerco di capire
dai singoli movimenti tutto ciò che vorrei chiederle.
Lo faccio d’istinto: col tempo ho imparato a
dissimulare, tanto che lei sembra non accorgersi di
quanto la stia studiando.
“Dovrò trovarlo prima o poi qualcuno che sappia
dirmi cosa fare, no?” E’ nervosa, rigira il tizzone che
ha in mano per rendere la punta conica, demolendo
la cenere tra le pareti della tazzina del caffè. Fsss.
“Certo che lo troverai. E come ogni volta non
ascolterai i suoi consigli. Non l’hai mai fatto con
nessuno” le rispondo distrattamente.
“Vabbè ora è diverso. Anzi, ora sono diversa”. E’
vero, è un po’ peggiorata. Me ne sono accorta al
primo ciao: è una donna che cammina senza
direzione. Lei va, ma il suo è un andare illogico,
quindi è come se non andasse. L’ha già detto che
cerca un mentore, ma non posso essere io.
Minchia Silvia, hai proprio sbagliato periodo,
non riesco ad ordinare nemmeno due caffè,
figuriamoci la tua esistenza ho pensato di dirle. Al
solito le mie frasi rivelatrici restano mie e basta.
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“Non so spiegarlo – la sigaretta spolpata fino al
filtro ingiallito ed umido – ma sono sempre stata
impegnata a costruire la facciata del mio bel castello:
Silvia allegra, Silvia intelligente, Silvia gran
lavoratrice… Ma è come se questa graziosa
impalcatura solare – la voce comincia a mostrare
qualche sbalzo traditore, la mano destra è instabile
con l’accendino - fosse crollata di colpo. Beh, c’è una
grossa novità, non c’era niente nel mio bel castello.
E’ vuoto, buio e vecchio. Crollata la facciata crollato
il resto. E crollo anch’io.”
Si è sfogata ed io sono contenta di esserle servita,
anche se non so dire niente in questo momento, e
rimango a fissarla inarcando la testa. Non per molto
però, mi sto accorgendo che il suo sguardo mi riesce
difficile, a combatterci contro. Penso ad altro,
guardo altro.
Sullo sfondo di questo bar stanno attaccate due
figure sedute. Ridono. A volte lui si fa più vicino, in
un gioco di marcamenti e ritorni, a volte le sfiora la
mano destra. Lei sembra un tantino imbarazzata ma
ride lo stesso ogni volta in cui lui sceglie il suo
orecchio, come spettatore unico di trovate geniali e
battute brillanti. Il maschio finge, l’ho visto fare una
caterva di volte. Indossa una giacca verde militare a
tre bottoni, ma ha anche dei mocassini, sotto il
tavolino, e le due cose non si accordano tra loro. Per
questo ho capito che finge: recita la parte dello
spirito libero e anarchico ma non è bravo perché
tradisce
comportamenti
galanti
che
lo
spersonalizzano. L’ho visto: quando la coppia è
entrata, Silvia parlava di non so quale impalcatura
86
solare, lui ha spostato la sedia per farla accomodare.
Ecco, si è svelato da solo. La ragazza non sarà una
buona osservatrice ma si vede da lontano che lui non
è ciò che vuol sembrare. Scommetterei che nel
portafogli, tra i biglietti da 50 euro ed un
preservativo scaduto, conserva il tesserino di un
qualche body fitness center. E’ molto probabile, ha le
gambe asciutte. Lei le gambe invece le ha grassocce,
ma si accompagnano bene al seno esagerato ed alla
fascia verde acqua che porta tra i capelli mossi e
scuri.
Dai cara, ascolta ancora un poco questa
pantomima, sta quasi per finire; poi potrete dirvi
intimi e partire da una piattaforma più elevata. Di
questo passo ancora due scalini e salirete sul
baldacchino tutto vostro, d’oro a sette carati. Dai
campione, cerca di non far spegnere la discussione,
trova un nuovo argomento, cerca la sua complicità:
non vedi che ti sta aiutando? Si capisce che ha voglia
d’agevolare il tutto, perché secondo me non è
stupida e l’ha capito due anni luce fa che sei un falso.
Magari ben fatto, ma comunque un falso, di quelli
prodotti in serie e griffati in un momento successivo.
Sai qual è la novità che non ti aspetti? E’ che a lei
non importa un micron che tu sia sincero o no. No,
lei vuole essere portata a letto, come si faceva una
volta. Ma ha un problema: non può dirtelo subito,
deve prima sorbirsi duecento metri delle tue parole
inutili. Stai tranquillo comunque: ormai è fatta. Ti
sta chiedendo di offrirle una Marlboro, e tu non hai
più nemmeno bisogno di chiederti come fare.
“Come faccio?” mi silura Silvia.
87
“Già, come fai?” dico io tornata alla realtà.
“Ma tu mi stai ascoltando?”
No che non ti ascolto, amica mia, e se dovessi
spiegarti il perché sarebbe tutto tempo perso
stracciato sotto gli stivali della tua mancanza
d’acutezza. Io ti ho persa, sorella problematica, ma
tu hai perso me.
Il juke-box ripete Radio Ga Ga, nella versione in
studio del 1984. Siamo già alla terza volta e la cosa
non mi infastidisce per nulla. Preferirei due ore di
Freddie Mercury ad altri venti minuti di Silvia. Ma –
ancora – perché, amica mia?
Forse il fatto che tu non rispettassi te stessa,
credendo di poter vivere bene solo accontentando gli
altri, ecco, forse questa tua auto-mancanza di
rispetto io l’ho assorbita negli anni e lontanissima
dal comprenderla sono adesso pronta a
sgocciolartela sui vestiti e le orecchie, strizzando la
spugna del nostro legame inumidito. Qualcosa è
terminato tra noi, aiutato dal ritmo dei giorni che
passavano e dalle nostre esperienze opposte.
Potremo
forse
tornare
a
fingere
quella
corrispondenza d’intendimenti di cui andavamo
davvero fiere, ma mai sarà la stessa cosa, perché è
imbroglio il nostro affiatamento, come quello dei
due al tavolo in fondo.
“Si che ti ascolto… E’ che sto pensando.”
“A cosa?”
“Al tuo castello, ovvio.”
“Voglio che non esista più, il mio castello.”
“Ed invece deve continuare ad esistere. Sarebbe
un errore irrimediabile abbatterlo.”
88
“Perché? Io ho capito tutto, non continuerò più
nulla come prima.”
“Continuerai invece.”
“Perché?”
“Perché non sei pronta adesso né lo sarai in
futuro. Ci vuole troppo coraggio e una buona dose di
incoscienza e tu non possiedi né l’uno né l’altra.”
“Alice, tu mi stai guardando con disprezzo.”
“No, è solo consapevolezza. Nessuno di noi può
cambiare, nessuno cambia mai veramente. Ciò che
sei non lo scegli tu, ma è il frutto dei tuoi personali
avvenimenti di tutta una vita. Accettalo e soffrirai
meno” e farai soffrire meno anche me, che invece di
stare ad ascoltare questi dialoghi da fiction potrei
magari dedicarmi un attimo a risolvere il problema
della mia prossima cena.
“Io non voglio continuare… Io sto male, lo
capisci? Io non sorrido più…”
“Allora piangi, che ti fa bene.”
Piange silenziosa sul tavolino di legno a buon
mercato e non ci pensa nemmeno, a strappare dal
contenitore una dozzina di questi fazzoletti da bar
buoni a nulla, men che meno a detergere il pianto.
Lo sappiamo entrambe che ormai non cambierà più
nulla. Al massimo qualche memorabile giornata
fuori dai normali canoni della legalità morale ma
mai, neppure per un attimo, il seme del mutamento
fruttificherà nella sua esistenza.
Mentre osservo quei due rivoli di fiume salato
scendergli dalle sacche lacrimali penso che l’unico
sfizio che le rimane è questo. Il pianto, che potrà
chiedere in dono ogni volta che vorrà, lei che si è
89
ingabbiata da sola in un’esistenza ipocrita e che
tuttavia riesce a sputar fuori dagli occhi tutti gli stati
d’animo più oscuri, sfogandosi. Adesso frigna e
vorrebbe da me una qualche frase che le sistemi
tutto, ed io dovrei costringere il mio cervello ad
elaborare parole accomodanti, per poi rimanere
esausta e priva di lucidità per tutto il giorno. No, mia
amica, non lo farò.
Troppe volte mi hai assorbita lasciandomi
esausta, troppe volte abbiamo scambiato le nostre
inclinazioni, la tua al pianto la mia al riso, troppe
volte tornavo a casa scura come il sapore dello
yogurt andato a male, per te.
Adesso basta Silvia, non sarò più il tuo porto
tranquillo e rassicurante, mai più, voglio
semplicemente essere un’aurora che non ti si addice,
e splendere per conto mio. Non ho più bisogno di te
e con il tempo imparerai anche tu a non affidarti alle
mie braccia che troppe volte ti hanno trattenuta
dall’accasciarti esanime. Possiamo bere tutta la
notte, possiamo parlare e ridere sino all’alba,
possiamo piangere a Natale davanti a un film, ma
non possiamo più guardarci come sempre abbiamo
fatto, quasi scambiandoci le proiezioni di noi stesse.
Non più. Adesso io sono solamente io, non io come
tu, e tu, forse lo scopro in ritardo, me non lo sei stata
mai.
Non credere che venga su facile, tutto questo
ragionar così. Sto piangendo cara, sto gemendo e
gridando, ma solo imbacuccata dentro la mia calotta
cranica, ecco perché non puoi sentirmi.
Sto
incenerendo nel mio caminetto tutti i ricordi che ho
90
di te, e si stanno sciogliendo in lacrime di sangue che
cola sul pavimento e sul tavolino del bar. Si consuma
qui e adesso il funerale della nostra intesa eterna, e i
caffè appena confezionati dal barman inconsapevole
sono incenso, i fazzolettini di velina petali di
ghirlande, mentre le tue parole sovraccariche di
egoismo celebrano quest’atea funzione. I pianti e le
disperazioni li metto tutti io, come ho già pensato di
dirti.
Qualcosa di spaventosamente simile all’errore
intanto accade al tavolo in fondo.
Persa nelle mie parole sincere mi ero un attimo
distratta dal filmino dei futuri sposi contenti. Dopo
la terza boccata, proprio mentre ingrossava la nube
lieve di fumo biancastro, mi sono attardata sulle
mani del barman che preparava la macchina del
caffè espresso, velocissimo. Mani callose, ho intuito
subito, o comunque insensibili al calore, visto che si
è versato mezza tazzina bollente su un palmo senza
imprecare. Azzardo che quella del barista non sia, o
non sia stata, l’unica sua professione. Forse fabbro,
mi dico aiutata dal precedente del caffè. Ha le
braccia da Bud Spencer e il viso di Ernest
Hemingway, chissà che effetto fa con una doppietta
in pugno. Mi dico che è affascinante, dopotutto, per
una povera donna in cerca d’amore e permesso di
soggiorno. Sorride a tutti, e l’ho scoperto a sorridere
anche da solo, spalle ai clienti, mentre smanettava
col caffè, fischiando al ritmo di una improbabile
Malafemmena.
Ma è il tavolo in fondo, il teatro del vero e unico
accadimento di questo bar. Lui chissà per quanto
91
tempo aveva calcolato e predisposto nei suoi
pensieri quel gesto unico, chissà com’è che aveva
optato per quest’attimo e non per uno qualunque di
tutti i seguenti, chissà se l’aveva provata mai prima
d’oggi, la sua scena rosa western. La sicurezza, dopo
la sigaretta di lei, era ingigantita scommetto, e
questa
è
stata
una
delle
innumerevoli
concatenazioni di eventi che l’hanno condotto
all’errore irreparabile. Troppa sicurezza, per uno che
recita una parte non sua, vuol dire voglia d’affrettare
i tempi, anzi incapacità completa di allungarli
ancora ed attendere. Tutto ciò ed altro ancora, a
carico del fallimento dell’impostore. Aveva appena
appena fatto sfrigolare la brace, memoria di
sigaretta che fu, sul fondo umido della tazzina vuota,
lei che si stringeva nel maglioncino di velluto
arancio, trionfo di un seno invitante e
irraggiungibile. Forse proprio quell’immagine, o
magari il suono gassoso dello spegnersi di cicca, ha
lasciato che tutto il coraggio del seduttore rovinasse
la parata fino a quel punto perfetta in ogni suo dove.
Dev’essersi voltato di scatto, fissandola di fronte, gli
occhi alle labbra rossicce, esaltati. Mani e polsi
saldissimi che la afferrano veloce, strattonandola a
lui che avanza spedito. Il bacio violento, ed il
silenzio.
Poi però il suono esplode, e sono gli insulti di lei,
che non la diresti mai capace di certe sconcezze. Le
ho visto alzare nervosamente il braccio per un
attimo, giusto il tempo di descrivere una
improbabile forma irregolare nell’aria, prima di
quietarsi. Non bisogna aver studiato analisi
92
matematica o geometria non euclidea per capire che
si, stava proprio per picchiarlo, l’uomo che solo un
attimo prima era il più accreditato al Nastro
d’Argento delle sue mutandine rosa. Adesso non più
ovviamente, adesso è solo una povera merda, è solo
un fascio figlio di papà, puah, solo un ti faccio
spaccare la faccia dal mio fidanzato, lui quelli come
te li pesta un giorno si e l’altro pure, pezzo di merda
di un bastardo.
Dovevi aspettare ragazzo mio, è un quarto d’ora
che ti invio segnali luminosi con gli occhi, tutti in
codice morse, e tutti che dicono piano, fa’ piano,
ragazzo. C’eri quasi, lei si era smollata, ti aveva pure
chiesto una sigaretta, proprio lei che per il fatto di
chiederla vuol dire che non ce l’ha, e se non ce l’ha
non è una fumatrice incallita, e se non è una
fumatrice incallita fuma solo di rado, per celebrare
avvenimenti belli, brutti o momenti di inibizioni
perdute, e cioè adesso, coglione, adesso, è adesso
che stava ammainando le sue vele, pronta a farsi
trascinare da te e a tradire il suo uomo. E tu che fai?
Che mi combini mentre il ripiegamento si sta per
compiere lentamente? La baci qui in un bar davanti
a tutti! No, non si fa, non si fa, non si fa!
Regola numero uno: le battute pesanti sono
recuperabili, una gaffe fisica lo è un po’ meno ma
comunque lo è, l’aspetto pulito a volte lo è a volte no,
ma
assolutamente
non
è
recuperabile
l’atteggiamento frenetico da ho assoluto bisogno di
te, se non me la dai salto giù dal primo ponte anche
fosse di un torrente infangato e maleodorante. E tu,
ragazzo bello, nel torrente ci sei finito sorridendo, e
93
il torrente s’è mutato in un fiume di fango che ora
corteggia spudorato la tua gola e il naso, lo capisci?
Dimmi come ti senti…
Forza, vediamo se hai ancora voglia di raccontare
episodi magnificenti come facevi prima dalla tua
sedia da bar simile a un trono, con la cannuccia del
frappé a rappresentare decine di microfoni regolati
sul tuo io e sul tono della tua voce da statista, che
illustri al popolo la via più breve e semplice per
ricchezza e prosperità. Cosa ti succede, non hai più
voce? Facciamo come con i bimbi: t’è cascata la
lingua? Aaah, ma allora ce l’hai! E dimmi, dimmi
ancora, visto che ce l’hai, ed io lo so che ce l’hai
perché l’ho vista, perché diavolo gliel’hai cacciata in
bocca così, davanti a tutti? Bastava attendere un
momento più propizio alla tua buona stella,
rinunciare all’impeto del momento per vincere il
piatto grosso… Te lo dico io il perché. Tu soffri,
fratello mio, tu vuoi tutto e subito per paura della
fine. La tua, di questo bar e della cavalla profumata
che non avrai mai, a giudicare dai suoi insulti. Tu
sbagli, nel gioco a 52 carte che hai inventato non
avevi pensato al fattore tempo, e proprio tu che ne
eri il re hai perso la prima mano, e tutte le altre di
seguito. Ciò vuol dire una sola cosa, fratello mio, che
tu, ci creda o no, lo voglia o no, lo accetti o meno, al
tuo gioco ben architettato non sei adatto. Non lo sei
probabilmente stato mai, ma ti illudevi di poter
fingere come fanno i tuoi amici in Bmw, il sabato
sera, che sanno dire con voce perfettamente intonata
e adatta all’avvenimento d’accordo, ma adesso
andiamo a bere qualcosa in un pub, gli altri hanno
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detto che ci raggiungeranno dopo. Amico mio,
fratello mio, bimbo mio, mi dispiace: non ci sei né ci
sarai mai, non sei fatto della pezza adatta, né
riusciresti a comprarla con i tuoi mazzettini da 50
euro raccolti nel ferma soldi d’argento. Anche quello
ti porti dietro! Lo vedi, lo vedi, lo vedi che vuoi
darmi ragione per forza? Lo scorgo e quasi non ci
voglio credere: un ferma soldi. D’argento! L’avessi
tirato fuori prima, non avrei avuto bisogno di rubarti
i movimenti delle spalle, l’accento sicuro della voce,
gli attimi di finezza galante che nascondevi a forza
nel borsello di Gucci taroccato. Ovvio, prima non
avresti potuto mostrarlo, rischiavi la gaffe, ma
adesso… Adesso hai perso, e nel cassonetto mezzo
aperto qua fuori puoi placidamente buttarla, la tua
camicia verde militare acquistata per l’occasione.
Finirà sepolta tra gli avanzi morsicati dai clienti sazi
di questo bar, tra il packaging e le cicche rassettate,
tra la panna inacidita e i biscotti molli che nessuno
ha ordinato negli ultimi tre giorni. Passerà qualche
ora notturna in buona compagnia, mescolandosi
irrimediabilmente ai rifiuti liquidi e macchianti, poi,
all’alba, dei poveracci cascanti dal sonno la tireranno
su insieme al suo albergo temporaneo, che
vuoteranno. Da lì il passo sarà obbligato:
rimescolerà e incenerirà ben presto, esattamente
come le tue buone speranze di una serata di sesso
selvaggio, che guarderai al digitale terrestre, in
mancanza d’altro. Che vuoi farci, non era destino,
forse faresti bene a smettere di comportarti come ti
ha insegnato la tv, ma… non posso essere io, quella
che deve dirti cosa fare.
95
Silvia interrompe non so quale discorso su non so
quale massimo sistema. Dice:
“Ma ti rendi conto di quello che sta succedendo?”
“Cosa?”
“Lì in fondo, al tavolino dei due fidanzatini…”
“Quale tavolino?”
“Guarda! Possibile che tu non abbia visto nulla?”
“Ah, si, quelli. No, non mi ero accorta. Ascoltavo
te.”
Me lo sono chiesta tante volte: com’è che mi
distraggo in questo modo, perché mi interessano
tanto gli altri? Forse è perché sono sempre stata una
donna molto riflessiva ed ho molta fantasia. Mi
viene facile immaginare altro partendo da un
qualsiasi avvenimento, come se l’immagine che ho
davanti fosse in bianco e nero ed io la volessi
rendere in Full HD a milioni di colori. Il problema è
che alla fine credo moltissimo a quello che ho
immaginato, quasi per niente alla realtà. E’ così che
riesco a mentire e ad essere credibilissima, se voglio.
Probabilmente è un’ inclinazione con la quale sono
nata, perché a mia memoria non riesco ad
individuare nessuno che possa avermi insegnato a
farlo così bene. Se voglio posso far credere qualsiasi
cosa, inganno tutti tranne i cacciatori di teste,
mannaggia.
Il juke-box con i Queen ha smesso; accanto al
tavolino in fondo, quello della catastrofe, c’è un
palchetto alto non più di venti centimetri.
L’amplificatore è uno di quelli che Riccardo sogna la
notte mentre dorme ed il giorno quando non ha
niente da fare. Un uomo tarchiato, direi
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quarantenne, con un ridicolo orecchino al lobo
destro si siede, apre una custodia rigida, comincia a
smanettare sulle manopole. Si è seduto di fronte al
palchetto e dà le spalle a quello che con molta
probabilità, tra dieci minuti, sarà il suo pubblico
distratto. Visto così, grassoccio, quasi impacciato,
direi che è molto lontano dallo stereotipo del
chitarrista rock. Forse sarebbe il caso di scappare
adesso che non ha ancora cominciato.
Butto lì un “per caso ti sei ricordata di girare il
mio curriculum al tuo direttore del personale?” in
modo indiretto, come se la cosa fosse scontata e non
m’interessasse poi molto. In realtà è il secondo
motivo che mi ha convinta ad accettare questo
invito, il primo è appunto il fatto che fossi invitata.
“Sssì…” dice, ma mi accorgo subito che vorrebbe
aggiungere qualcosa e si ferma per timore.
L’uomo con l’orecchino ridicolo intanto mi dà un
saggio di quanto io riesca a sbagliarmi
completamente, a volte: è bravissimo. Veloce,
caspita, una scheggia mentre accorda la sua Ibanez
ed accenna qualche fraseggio per regolare il
riverbero dell’amplificatore. Chissà cosa vorrà dirmi
Silvia, comincio a chiedermi.
“Si? Bene! Gli avrà dato un’occhiata, che dici?”
“Uhm, sinceramente ne dubito, dice sempre che
non è il momento, che arrivano troppi curriculum,
sai com’è, che non sa neppure dove metterli…
Comunque, magari in un momento di necessità…”
“Certo, certo. E’ ovvio, per me è già tanto quello
che hai fatto. Ti ringrazio davvero.”
97
“Ma dai! Aspettiamo che passi questo momento,
poi riprendo il discorso… Sennò io lì dentro – ride e
ammicca – che ci sto a fare?”
Rido, ringrazio ancora, ammicco anch’io. Ma non
mi ha detto tutto, la conosco troppo bene, tra non
molto qualcosa verrà fuori.
“Il fatto è che serviva una persona ma io non ho
detto nulla di te perché è un lavoro di merda che non
auguro a nessuno figuriamoci alla mia migliore
amica” ha esploso, rapidissima, come la frase fosse
un’unica,
lunghissima,
parola
tipo
supercalifragilistichespiralidoso o un’iscrizione
antica sul timpano di un tempio sacro.
Per me è come quando nei film vedi che hanno
sparato al protagonista ma lui, che non se n’è ancora
accorto e sente troppo bruciore per rendersene
conto, continua a muovere qualche passo. Infatti
sposto un attimo verso destra il capo, fisso negli
occhi il chitarrista che ha cominciato a cantare,
ritorno a guardare Silvia. Ed è fisso nel suo viso che
il protagonista si rende conto del colpo di pistola,
sfiora la camicia all’altezza dell’ombelico ma un po’
più a destra, osserva la mano sanguinante. Come
quando una botta in testa non ti consente di capire
se ti fa male o no, e tu stai lì come una vera demente,
e aspetti.
Poi una sola parola si disegna in me: addio.
Basta, mai più, è finita Silvia, addio per sempre.
E dirti addio non sarà il classico dirsi addio da
film stavolta, con treni che scorrono sullo sfondo,
fumo e luce bianca in primo piano. No. E’ il mio
intimo che si allontana da te e ti abbandona, per
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sempre. Non ho intenzione di svestirmi e ricoprirmi
dei tuoi convincimenti, proprio non voglio calarmi
in te. Certe cose ci sono o non ci sono, si sanno o no,
si sentono o meno. E se naturale sarebbe stato
sentirle, beh è stata una tua precisa scelta ignorarle.
Se scegli hai libertà, la stessa che all'istante ha preso
i miei pensieri che ti abbandoneranno.
Avresti dovuto capire, sarebbe stato umano, come
puro buonsenso. Ma non l’hai avuto mai tu, il
buonsenso. Cosa che mi avrebbe anche divertita,
una stagione fa. Ma adesso no cara, ora cazzi non ce
ne sono. Si parla di spesa nelle buste di plastica qui,
di supermercati e benzina super senza piombo a
1,49, pane, marmellate e prosciutto. Tu mi dici non
fa per te come chi ha già capito tutto e s’inorgoglisca
per questo.
Brutta stronza, io ho cenato con lo yogurt del Lidl
ieri sera, e tu mi affondi nel mio vomito di yogurt col
non fa per te che t’è spuntato dal fazzoletto sporco
del tuo labbro superiore di panna nel caffè. Non lo
sai cosa penso, perché se lo sapessi ti alzeresti da
questa seggiola scomoda, senz’altro. Senza guardare
dietro, senza pagare il marocchino, senza prendere
la borsa: scapperesti e basta. Veloce, poi un attimo
ferma, poi subito ancora rapida sopra pavimento,
tacchi e tavolini. L’uomo con l’orecchino è di fronte a
te, sta cantando Blues, blues man maledetto lui e le
sue mani, direbbe Riccardo. Ha nelle dita quella
leggerezza che il mio uomo cerca da sempre e trova
solo a volte, con fatica immensa e parole pesanti.
Canta assieme alle sue pentatoniche maggiori,
proprio quelle che Riccardo usa per vivere. E
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quando la sua voce si facesse più roca cantando Yes,
I’m poor blues, bluesman tu lo travolgeresti,
inciampando nel cavo jack da tre metri collegato
all’Ibanez da 600 euro. Tutto trascineresti con te,
ogni cosa su questo palchetto di venti centimetri
sarebbe travolta. Qualche goccia di sangue, è chiaro,
righerebbe le tue calze velate, strappate dalla tua
stessa velocità scontratasi con l’immanente
immobilità del tuo intorno. Colerebbe piano, e tu
nemmeno lo vedresti.
Fuori, a gonfiare i polmoni d’aria congelata, quasi
a farti male ad ogni respiro aggiuntivo. Piangendo
non riusciresti a trattenere la felicità per essere
riuscita a fuggire. Si, scapperesti. Perché io potrei
picchiarti a morte solo per quella moneta da due
euro che ti stai rigirando tra il pollice, l’indice e il
medio della mano destra.
Mostrerebbero a me un’ora di vita in più, due
euro. Un pacchetto di cracker, un litro di succo
d’ananas e quattro piccoli wurstel. Una goccia di vita
ancora, quando non avessi più forze, completamente
riversa sul pavimento freddo e nero della stazione
centrale, di notte. Mangerei velocissimamente,
strappando brandelli di wurstel e cracker
scoppiettante, riempiendo col succo più schifoso del
mondo il mio stomaco vuoto. Il resto riponendolo in
un sacco, di quelli di juta, lerci, permeabili a tutto.
E adesso mi sento male.
So cosa sarebbe meglio per me, dovrei deflagrare
in violenza muta e poi urlare immobile e spaccare
con un pugno il primo cellulare che mi capitasse
sottomano. Ma non lo faccio. Io implodo. Ed è come
100
se li sentissi, gli organi interni che si accartocciano, i
polmoni che si svuotano d’aria e si riempiono di
fumo stantio e veleno, lo stomaco che crolla su se
stesso e sul coltello che porta dentro. Sono sfinita,
mi accorgo di tremare impercettibilmente. Gli altri
qui attorno no, non se ne accorgono, hanno altre
direzioni le loro vite. Il maglione che comprano
potrà essere da 19 o 49 euro, dipenderà dal tessuto,
dal gusto, dalla vestibilità. Dopo aver aspettato
disciplinati in coda alla cassa, pagano 19 o 49 euro e
il caffè offerto all’amica per ringraziarla della
compagnia sarà quasi scontato; ed allora, ancora, 2 o
4 euro e settantacinque passeranno di mano
chiudendosi nel registratore di cassa del Bar
Goffredo mentre il Goffredo in questione staccherà
annoiato lo scontrino fiscale; e così sarà l’indomani,
e il weekend successivo, e poi l’altro, e l’altro, e la
primavera seguente, e l’autunno, e l’anno dopo, e poi
ancora.
Il mio maglione non costa 19 né 49 e nemmeno 9.
Il mio maglione non ci sarà, il mio maglione non
c’è mai stato e l’amica da portare al bar è questa
stronza che non ci ha provato nemmeno, a
raccomandarmi col suo capo. Mi dice:
“Cercavano una persona poco qualificata, da
mettere a fare fotocopie e rispondere al telefono,
senza alcuna possibilità di carriera: io non ti voglio
rovinare la vita!”
Tranquilla, è già completamente andata anche
senza il tuo intervento.
“Sai cosa succede nel mio ufficio, ai nuovi
arrivati? L’odio Alice, l’odio. Nessuno ha né la voglia
101
né il tempo di spiegarti, che so, il funzionamento del
fax. Poi, alla prima occasione critica, sta’ sicura che
attenderanno che il capo ti veda bene, in mezzo ai
tuoi cazzo di fogli che non saprai come faxare.
Comincerai ad agitarti e loro, tranquillissime,
chiederanno se per caso non ci sia qualche
problema. A quel punto il tuo fax lo invierà un’altra
collega, diciamo la signorina X, che avrà, in una sola
mossa, fatto due grandi opere: uno, ti avrà fatto fare
una gran figura di merda, due, si sarà messa in
mostra davanti al tuo capo, che penserà Guarda
quanto è collaborativa la signorina X con
quell’incapace di Alice, brava. Di te invece penserà
che sei un’imbranata senza speranza e comincerà a
vedere come normale il fatto di non rinnovare il tuo
contrattino a progetto part-time. No bella,
raccomanderei per un posto simile solo qualcuno
che odio profondamente. Invece a te io voglio bene.”
Questi vaneggiamenti li ho ascoltati poco, sono
stata più attratta da ciò che mi accadeva intorno.
Il ragazzo rifiutato è andato via da un po’, di
personaggi interessanti e stupidi come lui non ne ho
visti altri. C’è qualcuno che parla a voce un po’ più
alta del normale, ma nulla più. C’è invece questo Dio
con l’Ibanez in mano su quel palchetto, che suona e
non canta più. Prima aveva una voce non troppo
bassa ma profonda, di quelle che arrivano in fondo
alla stanza anche senza microfono. Certo, non era
avvolgente, ma quella punta di raucedine era
perfetta. So che fuma, l’ho visto dal vetro un attimo
fa, nella sua pausa di cinque minuti che ha trascorso
fuori nonostante questo sia uno dei pochi bar dotati
102
di sala fumatori. Secondo me lo fa apposta, fuma per
avere la voce un tantino strozzata. Cerco di capire
che accordi stia suonando, so che probabilmente
molti saranno di settima maggiore. Non è difficile,
anche perché ne prende davvero pochi in mezzo al
fiume di scale che sta spruzzando sul pubblico
disattento. E’ su un la settima, poi sol settima, poi si
settima, non so se minore o maggiore, non ricordo
mai come distinguere il si settima dal si minore
settima. Li segno sul fazzolettino plastificato del bar,
li voglio dare a Riccardo. Lui come minimo riuscirà a
disegnarci sopra due ore di lezione cioè venti
rispettabilissimi euro da racchiudere nel forziere del
nostro comodino. Fino al giorno successivo.
Silvia continua a parlare raccontando di quanto
sia infernale il suo ufficio, ma lo fa solo per
convincersi che non è stata un’azione infame
decidere volutamente di sprangare ogni mia
possibilità con la sua azienda. Si è ormai
sintonizzata sulla lunghezza d’onda dedicata agli
sfoghi degli impiegati frustrati e scontenti, ma non si
ha conoscenza di nessuna amica disoccupata che
l’abbia mai ascoltata. Per una persona senza lavoro
le lamentele degli impiegati sono come quelle di una
campionessa di surf che si lamenti del vento e di
come questo scompigli i ricci appena fonati. Non
scherziamo, non c’è da nulla da ascoltare, ringrazino
Dio in ginocchio se ciò non è causa di uno scatto
d’ira. Anche questi discorsi mi stanno tranciando a
colpi d’accetta, che Silvia si senta in dovere di
giustificare il suo mancato aiuto sentendosi in diritto
di spaccarmi le biglie che non ho con le frustrazioni
103
quotidiane del suo ufficio al primo piano di una ditta
che a me, anche grazie a lei, non verserà mai
nessuna busta paga.
Potrei piuttosto salutarla a modo mio, senza una
frase detta.
Ciao mia amica, e una sonnolenza sembra
insinuarsi, mentre medito le espressioni che ti
trasmetto. Ciao, è un lento addio il nostro, che voglio
bagnare d’immaturità e conformismo. Sarò
immatura, perché come i bambini che non si
arrendono al sonno e alla notte, quelle notti delle
feste, coi nuovi giochi a portata di mano, cercherò di
dilungare il tutto. E lo dilungo e stendo, questo
nostro finale senza scosse, proprio come dei titoli di
coda che durino quarantatre minuti. O un gelato
che più ne lecchi e più si accresca, nella tua cialda al
cacao. O, se preferisci, come una gomma che
cancelli, e cancelli, e cancelli, d’inverno alla luce
bianca della lampada, e cancelli in primavera i fogli
annacquati dai fotoni della nostra stella, e cancelli di
notte i tuoi errori a matita, e poi inghiotta di giorno
le tue lettere commerciali, e ancora cancelli e
cancelli: ma che resti intatta, per anni ed anni.
Proprio così rimarrò, immatura. Tu nulla
sospetterai, giacché è uguale al segno di una
giornata normale, con un caffè normale ed una
normale risata, questo a mai più risentirci. Non
comprenderai, perché in più sarò conformista, di
quel conformismo che mi porta a discutere con lo
stesso tono di sempre, a osservare le coppie al tavolo
vicino come sempre, a dire un cucchiaino solo di
zucchero grazie come sempre, nonostante tu mi
104
chieda sempre quanto? come se il rito traesse la sua
forza e consistenza solo per il fatto di essere
rinnovato ogni volta.
Mi gira la testa ti direi, se avessi scelto di
seguitare come niente fosse, ma al momento no, ho
scelto il contrario, e non ti dico niente di mio. Me lo
tengo per me tutto il mio mal di testa, ogni fitta,
tanto anche a rivelartelo il senso di dolore pulsante
non calerebbe affatto. Non sei più tu mentre
lasciamo lentamente tazzine, fazzolettini da bar e
tavolino, non lo sei più, mentre il bluesman fa
un’altra pausa al gusto neutro d’un bicchiere
d’acqua, non birra ma acqua, che mito. Ti guardo
con un rancore che via via s’ingrossa e poi svanisce
di colpo, ti odio con i tuoi progetti futuri e il tuo
conto in banca, e poi non mi interessi più.
Ti allontani e ti allontani, non sei più tu per me,
sei solo una lei come tutte le altre.
Ha lasciato i 30 centesimi di resto sul piattino di
finto argento e anch’io ho concordato che si,
effettivamente si era fatto un po’ tardi ed era meglio
andare. Non abbiamo parlato più di nulla. Ci
vediamo presto, chiamami mi raccomando. Come
no, sarai la prima persona che chiamerò non appena
avrò ricaricato la scheda, nel 2023.
Ho nella mano destra un’ idea che si chiama
pugno e mi piacerebbe tanto vederla stampata sui
suoi incisivi, ora come ora. Mi accorgo di barcollare
leggermente mentre lei fuma l’ultima sigaretta, in
piedi, appena fuori dall’ingresso luminoso. Spegne la
cicca sotto la suola, mi bacia sulla guancia e dice:
“Adesso è veramente tardi”.
105
Deve correre, correre. Il 60/N sarà lì tra quattro
minuti, ma prima lei avrà dovuto comprare sigarette
e biglietto. E deve ancora percorrere 200 metri.
Accelera il passo, il cuore comincia a stantuffare,
qualche goccia spunta sulla schiena levigata,
aumentando passo dopo passo, e adesso tra
maglietta, maglioncino, cappotto e carni è tutto un
velo sottile di sudore.
Entra, indica, paga, esce. Almeno nelle sue
intenzioni, perché in realtà ha due clienti davanti a
sé, e se per il primo chiedere Merit da 10 non è un
grosso impegno, la seconda, una donna piacevole sui
50, gambe fasciate da una gonna di velluto nero e
calze autoreggenti, ha dei seri problemi esistenziali o
è troppo accondiscendente e passiva sul lavoro. Le
sue frustrazioni quotidiane le scarica tutte sul
tabaccaio di fiducia, come se davvero non si
rendesse conto del fatto che si, davvero lui deve
occuparsi anche di altri clienti, e si, davvero Silvia
sta per perdere l’autobus, e si, davvero sarebbe il
caso di decidersi su quali diavolo di caramelle
indirizzerà la scelta. Finalmente chiede il biglietto,
dimentica le sigarette, esce veloce.
Il 60/N arriva puntuale, ma lei ce l’ha fatta,
adesso saranno trenta minuti lisci ed elastici verso
nord, come in una culla se nessuno disturberà, dal
momento che il sole bianco di gennaio è calato da un
bel po’ e le ombre sono ormai nere, nerissime. Quasi
si assopisce, riflettendo sul suo lettore mp3 e su
quanto sia figo con i titoli azzurri su sfondo nero. La
voce di vetro e felpe con cappuccio, sulla spiaggia in
106
ottobre, di Dolores dei Cranberries le giunge diretta
al cervelletto, non ci pensa neanche alle orecchie.
I'll be dreaming my dreams… with you dice, e lei
che l’ascolta non pensa affatto a nessun uomo e a
nessun amore, solo alla Mini che vuol farsi
comprare, pensa anche all’appartamento ed è
indecisa tra un finanziamento per la Mini o un
mutuo a tasso fisso per la casa.
Pensa anche al padre e a come si siano lasciati
l’ultima volta, pensa alla madre e a quando le
cucinava patatine fritte. Pensa alle loro delusioni in
tanti anni, al fatto che a vederla studiare non ci
siano riusciti, loro che avrebbero dato anni di ferie
per una foto insieme all’unica figlia, sulle scale della
facoltà, con tesi, fiori e tocco, lacrimanti e sorridenti.
Lei può riuscirci, troverà un modo per farsi dare
del contante, può convincerli che la casa sarebbe un
affare e si potrebbe persino risparmiare sulle tasse
vendendo quella al mare. Ci vanno pochissimo
ormai, non avrebbe alcun senso tenerla ancora. E
inoltre, quale soddisfazione più grande di quella di
vedere felice l’unica figlia? Su questo deve puntare,
sul fatto che è un affare e sulla soddisfazione che
loro potrebbero ricavare dal farla felice.
Comincerà lasciandosi scoprire più inquieta del
solito, ma senza esagerare, solo un tantino di
preoccupazione nelle pupille, come una linea di
matita leggera. Più avanti, magari la settimana
successiva, qualche parola equivoca dovrà scapparle
inavvertitamente dalla bocca, ma d’un tratto, en
passant, assolutamente non voluta. Qualcosa come
si, ci vorrebbe poco per stare bene. Con se stessi e
107
con gli altri e poi più nulla, appendendo i piatti
appena lavati alla rastrelliera. Continuerà così, tra
una smorfia ed un sospiro, tra una sillaba ed un
labbro storto, fin quando la madre preoccupata non
si avvicinerà a lei dicendo, gli occhi negli occhi:
“Silvia, vieni qui, sediamoci: cos’hai?”
“Nulla mamma, cosa vuoi che abbia?”
“Non rispondermi con una domanda. Forza, che
succede?”
“Ma niente…” poco, pochissimo, per nulla
incisiva.
“…”
E allora via, tappo e catenella possono scivolare
giù dal rossetto, finalmente accade, la madre ha
chiesto. Casa affare, mancanza di firma garante per
mutuo, infelicità, depressione, stress ma no,
assolutamente mai per prima nominerà la casa al
mare da vendere. Quello sarà un discorso più lungo
e complesso, esige un ragionamento delicato e
freddo, per ora andrà benissimo aver scardinato la
porta dell’incertezza sul ma cosa sta succedendo a
Silvia?
“Non mi succede niente, capita ogni tanto di non
sentirsi tanto bene.”
“Ma cosa ti senti, è qualcosa di salute? O Dio
Silvietta non mi far preoccupare!”
“No mamma, non è un problema di salute.
Almeno in senso stretto.”
“E’ per quel ragazzo? E’ così simpatico… Mi
sembra non dispiaccia nemmeno a tuo padre…” ha
fatto un cenno, leggero, d’intesa tra donne.
108
“See figurati. No, è che, da quanto tempo lavoro
mamma? Quattro, cinque anni? Tutti i giorni, tutti i
mesi, sono sempre chiusa in quell’ufficio. Non dico
non mi piaccia come lavoro, solo l’accumulo di stress
non riesco… a smaltirlo, ecco la parola esatta, non lo
smaltisco. Sono tutto il giorno là dentro, in quella
stanza che mi soffoca, in mezzo a quelle persone
inutili che sono le mie colleghe e davanti a quel
cazzo di computer che mi fa bruciare gli occhi. Mi
sento senz’aria mamma. Senz’aria.”
“Amore, io lo capisco che ci possano essere
momenti in cui quello che fai ogni giorno diventa
pesante, ho trent’anni di ufficio addosso io, lo so
bene. Ma tu sai quanto è importante ciò che stai
facendo e sai anche…”
“Si mamma, è chiaro, io non metto in discussione
nulla. Non voglio mica scappare, che credi. Solo ogni
tanto, di sera, mi piacerebbe tornare a casa e
sentirmi in un mio - e qui sottolineerà delicatamente
con un cambio di tono - ambiente, rilassante, un
ambiente che io ho sistemato a mio modo, proprio
come te e papà qui a casa.”
“Non è questo che senti quando torni a casa la
sera?”
“No mamma. Decisamente no.”
Si farà silenzio, ma solo per qualche minuto.
“Silvia, sai bene che io e papà abbiamo una sola
gioia nella vita e che questa gioia sei tu. Ho sempre
pensato che, a suo tempo, avresti avuto una casa
tutta tua. Ma devi avere pazienza, sei giovane, lavori
solo da quattro anni e mi sembra un po’ presto per
fare questi discorsi.”
109
“Il fatto è che tu non capisci un cazzo mamma! E’
da quattro anni che butto i miei soldi nel cesso
affittando quella catapecchia. Per chi mi rompo i
coglioni in ufficio? Per i miei padroni di casa, te lo
dico io! Non hai idea della rabbia che mi viene ogni
primo del mese, cinquecento euro buttati, non ci
voglio pensare porca di quella puttana!”
“Silvia!”
Silenzio.
“A cosa pensi? Vuoi comprare casa? Stai
pensando ad un mutuo? Parla Silvia, dimmelo!”
“Si, se non voglio continuare a pagare la retta
universitaria a quell’idiota del figlio dei miei padroni
di casa. E poi sarebbe un affare mamma, la vendono
perché si sono rovinati, la svendono sarebbe più
giusto dire.”
“Chi svende? Chi è questa gente?”
“I miei vicini. Lui l’hanno licenziato, figurati che
matto, s’era messo addosso un mutuo trentennale
con due figli piccoli. Si chiama Donati, non ce la fa a
pagare la rata, è disperato e svende al primo che gli
porta in tavola 180 mila euro. Io sono convinta che
potrei strappargliela per 160, non ci puoi credere
sono quattro vani e garage, è la fine del mondo
mamma, solo un anno fa l’avresti comprata a 230,
240 minimo.”
“Ma… io non lo so. Mi sembra troppo… ma è
sicuro che l’hanno licenziato?”
“Siii! Mamma risparmierei anche sulle
provvigioni dell’ agenzia immobiliare. Donati ha già
preso accordi con vari agenti ma a me l’ha detto
Luca del terzo piano e quindi non avrei nessun
110
vincolo con l’agenzia. Ci pensi? Quattro vani, garage
ed anche un terrazzo grande, grandissimo, non
faccio altro che pensare a quanto sarebbe contento
papà su quel terrazzo. Io già lo vedo, sdraiato
sull’amaca, al fresco, a primavera. Perché è chiaro
che io monterei l’amaca, non come quei deficienti
dei Donati che in terrazzo non si vedono mai. A
proposito mamma, ti volevo chiedere: ma il basilico
è facile da coltivare? O è meglio della menta? Tu che
dici?”
“Il basilico, al 100 per 100. Lo sai che a tuo padre
l’odore forte della menta dà fastidio…”
“Va bene mamma, come preferite, il basilico va
benissimo. E’ necessario innaffiarlo molto?”
“Si, in estate lo dovrai innaffiare ogni sera o
all’alba, prima che arrivi il caldo, mai in pieno sole.”
“Com’è che ho la mamma più bella del mondo?
Come farei senza di te mamma?”
“Come hai sempre fatto: tutto da sola.”
“Lo dirai a papà della casa?”
“Certo Silvietta, tutto quello che vuole la mia
piccola...”
Tutto andrà bene, come sempre.
Come per l’esame di maturità, quando era ormai
sicura la catastrofe e la salvezza arrivò, non si seppe
come, ma arrivò. Quell’anno le vacanze risultarono
stranamente ridotte per decisione inappellabile del
padre. Fu persino cancellato il fine settimana a
Firenze, scelta che mai nessuno in famiglia condivise
e comprese sino in fondo. Ma il papà, stanco e
sudato, in quelle notti d’estate sorrideva pensando
che si, era andata bene, Silvietta aveva preso il
111
diploma. E pazienza per il regalo costato un paio di
stipendi e che probabilmente la moglie del
Presidente non avrebbe mai indossato.
Lui non l’avrebbe mai saputo, ma il collier d’oro
bianco satinato la diretta interessata non lo vide mai
nemmeno in lontananza. Lo vide da vicinissimo
invece tal Giulia Palladi altrimenti detta la
puttanona, amante già storica, a soli 25 anni, del
Presidente. Lo sfoggiava orgogliosa e falsamente
noncurante due anni dopo, alla prima cena
aziendale cui partecipasse anche Silvia, neoassunta
contabile con funzioni di segreteria, quarto livello.
Anche quella notte d’estate, stanco e sudato, il
papà sorrideva da solo nel letto.
112
4.
La vedo allontanarsi verso il marciapiede a
destra; abbasso un attimo il capo a guardare le
chiavi che ho recuperato dalle tasche dei jeans,
punto nuovamente lo sguardo in avanti ma Silvia è
già sparita.
La sto ancora cercando con gli occhi quando
qualcuno mi si avvicina dicendo: “Tu dai un euro…
tu?” e mentre lo dice annuisce calorosamente come a
volermi trascinare e farmi rispondere si in
automatico. E’ un bambino. Il modo migliore per
spiegarmi è forse frugare nella borsa e tra un
kleenex, un orologio di plastica, il cellulare, il
portadocumenti con la patente, rintracciare una
caramella alla menta e porgergliela. Ed è quello che
faccio infatti. Sto quasi per allungare anche un
pacchetto di cracker che avevo dimenticato in una
tasca di lato ma il bimbo è velocissimo nel prendere
la caramella, stringersi nelle spalle e passare oltre,
decisamente deluso da me.
Questo mi infastidisce, mi fa venire su un netto
senso di nausea. E mi fa arrabbiare anche: non sono
una di quelle persone insensibili che in auto hanno
seri problemi nel lavaggio del vetro, non amo
passare per una intollerante, io darei la cittadinanza
113
a tutti, anzi abolirei confini nazionali e carte
d’identità. Sono cresciuta entusiasmandomi per
personaggi che gettavano una monetina e
rischiavano tutto in un colpo solo, capaci di donare
300 euro a chiunque pur di sostenere progetti in
Bangladesh… progetti bellissimi, ma bellissime sono
anche 300 cene, che è quello che riesco a farci io,
con 300 euro. Ecco perché mi ammalo di rabbia:
perché senza soldi non posso essere me stessa.
Mi vedo a lottare per la sopravvivenza con un
bimbo elemosinante e la cosa mi intristisce, non
perché mi veda ridotta troppo male, io, alta
espressione occidentale contemporanea, piuttosto
perché mai, mai, mai, in nessun caso, di fronte ad un
bimbo una donna dovrebbe poter sentirsi carnefice.
Immagino che nella lotta vincerebbe comunque lui
con morsi, calci e schiaffoni, e tutto ciò, come dire,
mi tranquillizza e distende.
Raggiungo la Fiat Uno che secondo il parere di
molti andrebbe rottamata. Intanto non v’è dubbio
che sia stata parcheggiata benissimo, e questo
qualcosa dovrebbe pur contare, in un mondo più
equo. Prima di mettere in moto uno zz zzz biascicato
mi dice due cose.
Primo, ho dimenticato di reinserire la suoneria al
cellulare, secondo, ho un nuovo messaggio da
leggere.
Spero ardentemente sia il ragioniere disperato,
che abbia bisogno di me per un volantinaggio
urgente per il quale sia persino disposto a pagare in
anticipo, così lo raggiungo subito, ritiro soldi e
volantini, percorro 300 metri in macchina, mi fermo
114
a destra al primo cassonetto dove deposito i
volantini uno per uno e me ne torno a casa a
guardarmi un film masterizzato con Ric, non prima
di essere passata velocemente a comprare due pizze
surgelate al discount. Invece è Riccardo: “Alice
preparati. Stasera ceniamo fuori. Ci vediamo a
casa tra un’ora. Ciao amore mio”.
Ora, so bene che per il 90% degli europei ricevere
un sms di questo tipo, in un pomeriggio d’inverno
un po’ meno freddo del mattino, appena usciti da un
bar dove si è sorseggiato un piacevole caffè con
un’amica, non sia nulla di straordinario. Ma siccome
io, se escludo i compleanni ed il giorno della laurea,
negli ultimi cinque anni a cena fuori con il mio uomo
ci sono stata per due volte, ed una era la sera della
finale dei mondiali a Berlino, un po’ mi incuriosisco
e turbo.
Il Superenalotto è la prima cosa che mi viene in
mente. Ma no, non gioca mai. La schedina allora. Il
discorso non cambia. Che abbia trovato cento euro
per terra? See, vabbé. Magari una valigia piena di
droga che ha già rivenduto, come nei film. Fantasie,
rischierebbe di farsi assassinare dai narcotrafficanti,
torturare dagli acquirenti e arrestare dall’Interpol,
tutto in rigoroso ordine cronologico. Magari l’hanno
assunto al negozio di scarpe! No, più facile la valigia
con la droga. Finalmente imposto la suoneria su
normale, getto il cellulare nella voragine della borsa
aperta e metto in moto.
L’idea che solo un paio d’ore fa sembrava cosa
fatta, la soluzione a tutti i problemi, quella di
diventare nota al grande pubblico con un blog ed un
115
romanzo gratuito distribuito via internet comincia a
farsi più buia delle montagne che scorgo tra un
palazzo e l’altro. Mi conosco troppo bene, arriverà il
momento del disincanto anche per la scrittura,
magari dopo due o tre sessioni di lavoro ininterrotto,
notte e giorno. So bene di essere capace di
dimenticarmi del pranzo e della cena pur di riempire
decine di fogli A4, arrivare davvero in fretta a pagina
116, poi vedere come la penna dia segni di squilibrio,
non trovarne un’altra che vada bene, troppo blu,
troppo dura, troppo macchiante, troppo chiara, e
decidere in un momento di smettere per dieci anni
se non per sempre. Dovrò resistere alla mia
maledetta inclinazione a trovare un alternativo e più
redditizio impiego a quei fogli di carta, resistere ad
autoconvincermi che sarebbe meglio utilizzarli come
tovaglia da pranzo monouso, piuttosto che
sminuzzati e pigiati con acqua come gesso per i
monti del Presepe o bruciati – già scritti, il libro
ormai finito – su una spiaggia in aprile per
risparmiare la carbonella necessaria a cuocere delle
pannocchie al barbecue. Lottare contro il mio
carattere tutto sbagliato e resistere, resistere,
resistere.
Gettare giù dal balcone il tavolino basso, quello
davanti al televisore, per evitare al mio manoscritto
la fine meno degna sotto piatti di wurstel e cipolline
sottaceto; convertirmi al culto di Zoroastro pur di
non costruire più Presepi sotto Natale; bagnarmi in
una vasca colma di alcool etilico, solo per il gusto di
togliermi l’idea di un barbecue in riva al mare ad
aprile.
116
Per strada si è ormai fatto buio e le luci delle auto
che incrocio m’infastidiscono ancora più di prima.
Cerco di concentrarmi, guidare bene ed arrivare a
casa nel minor tempo possibile. Ho pure lo stomaco
che fa gluglu, quel caffè mi sta mettendo ko e
sicuramente le parole di Silvia non mi hanno
aiutata. Forse è colpa di questo senso generale di
malessere se comincio a vedermi tra un po’, quando
nessuno stimolo, chissà, magari nemmeno il libro,
verrà incontro a soccorrermi e impegnarmi in
qualcosa. Nemmeno la voglia di farmi una doccia, di
alzarmi e provare un fard nuovo riuscirà a sfrattarmi
dal letto. Le lenzuola vecchie di giorni, i piatti
sporchi nel lavabo, sarò sorella delle migliaia di
coetanee tossiche che venti anni fa mi somigliavano.
Ma almeno loro si drogavano dichiarerebbe la zia
Rachela, sempre pronta a difendere la mia
generazione. Eh si zia, ma se è per questo io mica mi
prostituisco come molte di loro erano costrette a
fare… non azzardiamo paragoni non pertinenti, via.
La zia verrà a salvarmi, ne sono sicura. Sfonderà
la porta di casa, mi prenderà a schiaffi, urlerà, e poi
un abbraccio lunghissimo. Ancora un accappatoio,
uno shampoo al tiglio ed un docciaschiuma al
ginseng e tutto sarà risolto. Riccardo sarà
felicissimo, soprattutto per l’accappatoio. Ecco, forse
sarebbe stato meglio nascere venti anni prima, far
parte dei paninari o dei punk, rispondere a tutti: me
ne frego. Rompere le scatole dalla mattina alla sera
con la musica troppo alta, far parte di una gioventù
che prendeva a piene mani tutto quello che trovava,
e pretendere ancora di più. Era giusto così,
117
sicuramente più giusto che deambulare depressi e
senza soldi per lo yogurt, l’autentica eroina
contemporanea. Annullati come delle farfalle
sporche e puzzolenti, senz’ali. Abituati ormai
persino a parlare a bassa voce, a usare scusi come
intercalare, leggermente inclini a ritenersi un peso
per tutti, anche per i bambini che stanno crescendo
e che già a dieci anni sono più scaltri di noi e ci
considerano falliti della peggior specie: quelli
classificati all’ultimo posto senza nemmeno aver
cominciato a correre per mancanza di scarpette
ginniche. Senza lavoro siamo, senza soldi e senza
allegria. Non sappiamo nulla del mese prossimo,
siamo senza niente.
In pochi minuti sono a casa; salgo per le scale
velocemente, ho voglia di una doccia. Ho già deciso
per un rossetto leggero, esco gocciolante dal bagno,
friziono braccia busto e gambe con un asciugamano
pulito, mi vesto in fretta e accendo la lampada al
neon bianco.
Il viso è pulito, la pelle fresca è pronta per il rito
della crema idratante, effetto antilucidità, per pelli
normali. Zia Rachela, grazie: è un cosmetico da
donna di successo, mi fa quasi sentire bene. Sul
vasetto è scritto che da ora in poi non dovrò più
preoccuparmi degli effetti dell’esposizione al sole, al
vento ed allo smog. E’ come se le forze della natura
si fossero unite contro l’ elasticità della mia cute e la
zia, con le sue creme in regalo, mi proteggesse con
foga militare: c’è l’iris, ad azione protettiva basica,
l’hamamelis, che davvero è una parola che ho
aggiunto al mio vocabolario grazie al make-up, ad
118
effetto astringente sui pori e capace di assorbire il
sebo secreto in eccesso. C’è poi il biancospino, usato
per i suoi effetti calmanti e lenitivi, magari uno di
questi giorni lo provo nel caffè. Ma lo show,
l’esplosione goliardica, il non plus ultra è offerto da
un solo componente, il cui nome mi suggerisce
serate indimenticabili con fisarmoniche, violini e
amici urlanti nelle camicie bianche grondanti sudore
gioioso: l’olio di vinacciolo! Che miracolo della
scienza cosmetica, non si direbbe nemmeno che in
questo vasetto abbia la semplice funzione di idratare
a fondo. Ecco il mio unguento: 75 millilitri di pura,
autentica baldoria e vitalità ubriaca, un matrimonio
rom in grande stile.
La pasta dura del correttore mi dice che è già ora
di coprire le occhiaie paurosamente cresciute nelle
ultime ore. Scopro un accenno di brufolo due
centimetri sotto la pupilla sinistra: fatto.
Con il fondotinta scendo sul collo, lo stendo come
fosse crema e il movimento mi mette in pace con le
mani che si impiastricciano completamente.
Esagero con la cipria, il dischetto ne è
completamente impregnato, poi passo agli occhi.
Scelgo due tonalità di ombretto, scura all’attaccatura
delle ciglia, più chiara salendo verso il sopracciglio.
Un filo di matita ed un nulla di mascara: quasi
terminato. Con la matita disegno il contorno labbra,
stendo il rossetto ed ho veramente finito.
Sono velocissima nel trucco, arrabbiata anche
quando passo lo smalto.
Cos’è tutta questa ostilità che mi porto dentro?
Da dove viene? Se riuscissi ad isolare le melodie di
119
questa stanza, scomponendole in singole note da
ricongiungere alle mie orecchie, potrei forse
discernere un attimo, e decidere di non sentirle.
Certo, prima di riuscirci potrei persino impazzire.
Devo innanzitutto individuarle, una per una, con
pazienza e fantasia.
Qualcuno passa, là fuori. Tacchi e gonne che
frusciano musica nera che trilla da una radio a bassa
fedeltà. Ecco: queste le posso eliminare per prime,
non mi mancheranno;
sento un vento leggero e freddo che mi ghiaccia il
piede destro, e penso che anche quest’alito, per
poter fluire, dovrà pur emettere un qualche
diapason. Fuori il vento dunque, col suo freddo e
muto librare;
più facile è dimenticare all’istante il rumore di me
che mi muovo e della penna che cade, rimbalzando
nervosa come fosse un mortaretto. Ma ancora non
basta;
c’è almeno il flauto maligno dei granelli di polvere
che si posano sulla scrivania, sul pavimento di cotto,
persino sulle coperte pulite e troppo fresche;
c’è comunque il violino del mio respirare
contorto, ch’è testimone di tutto il malessere che mi
porto dentro e lo annota con pennino d’acciaio su
tavoletta di argilla fresca;
c’è, ancora, tutta la chitarra elettrificata dei colori
stridenti dei miei accostamenti artistici improbabili
e forzati.
Bisogna togliere, rimuovere tutto dalla stanza,
per potersi ascoltare. Ma prima la si deve
individuare, questa melodia contorta, e farsi vincere
120
dal suono, eliminare anche la lampada che ho acceso
per un attimo, giusto per il trucco, e che adesso fa
squillare i suoi elettroni uno per uno, alla ricerca del
mio udito fine.
Ho tolto tutto, non resta altro che me stessa.
E’ autentica rabbia la mia? Forse no, forse è solo
la mia disperazione che si traveste da mujaheddin
col coltello in bocca, pronto all’assalto, senza paura.
Forse è la mia noia che per continuare a
tormentarmi picchia contro le pareti dello stomaco e
stimola crampi. O magari è la mia sensibilità
stuprata da parole inutili e dalle falsità contente, che
si addormenta di giorno in apatia, per risvegliarsi di
notte ed impedirmi il sonno.
Ma, in fondo in fondo, qual è il problema
principale? Troppi pensieri, sparerebbe la zia
Rachela. La frugalità del vivere devi prima
metabolizzarla, per non fermarti a pensare. Eh si,
perché riflettere è bellissimo, ma ti dà anche un
mucchio di problemi che non ti saresti creata mai, se
Eva puttana non ci avessi pensato.
Riccardo era già al piano ma sul mezzanino ha
incontrato i vicini, per questo ha aspettato
rientrassero in casa prima di aprire la porta: aveva
paura girassi nuda per casa a gennaio. Al contrario
io sono già quasi pronta per la serata misteriosa, non
finisco nemmeno di dire allora, mi spieghi cos’è
questa novità della cena fuori? che il suo braccio
dritto puntato contro me mostra un volantino fresco
di stampa attaccato alla mano. L’intestazione è
promettente: a stampatello e in grassetto il titolo è
Nero di giorno. Segue un qualcosa che a distanza di
121
due metri mi appare come lo scudetto del Milan, poi
da più vicino il simbolo di una marca di phon per
capelli, infine scopro essere un quadro. Ancora più
interessante è il testo riportato sotto l’immagine:
INAUGURAZIONE MOSTRA
Sarà presente l’artista
Fantastica, dopo l’indicazione di luogo, giorno e
ora, è la frase finale scritta in caratteri microscopici:
a fine presentazione l’associazione culturale
Galleria d’Arte
offrirà a tutti i presenti un rinfresco
Che un’ Entità così complessa da impedirci di
comprenderla, che tutto ciò che ci circonda, che le
più alte ricerche mai sperimentate nel campo
biomedico, che l’Essere Assoluto, il Corano, la Torah
e la Bibbia, che Dio in persona e nelle sue ulteriori
forme vi conservino in salute e serenità in eterno,
amici dell’associazione culturale Galleria d’Arte. Mi
sembra di vedervi uno per uno, schierati come per
una foto ufficiale, tutti allegri, con sguardi vispi e
intelligenti, fasciati dalle vostre sciarpette eleganti
utilizzate con stile, caldi e accoglienti come dei
nonni affettuosi che mi riabbracciassero dopo un
anno di studio all’estero… Così vorrei ringraziarvi,
ad uno ad uno. L’idea di prostituirmi mi getterebbe
nello sconforto, in una nausea talmente assoluta da
durare per anni, ininterrotta. Ma se penso a voi, cari,
certo rimane lo sconforto, ma la nausea sembra
122
attenuarsi. Il miracolo avverrà amici miei, stasera si
mangia gratis.
“Stavo lasciando dei bigliettini al bar e mentre
esco vedo questo manifestino. L’ho staccato e messo
in tasca.” Anche lui è entusiasta, anche lui sente un
trasporto particolare verso quest’associazione
culturale appena scoperta.
“Ho incontrato Tarquini; stava rientrando a casa
ma ha detto che avrebbe volentieri scambiato
quattro parole con me. Quell’uomo è parecchio
strano ultimamente. Pensa che sua figlia di quindici
anni è stata presa come comparsa alla televisione ed
il suo agente – ha già un agente! – ha consigliato alla
famiglia di starle vicino e incoraggiarla perché in lei
vede tante qualità rare.”
“Uhm… Buono no?”
“No! Stanno seriamente pensando a trasferirsi a
Milano. Tutta la famiglia!”
“Addirittura.”
“La gente perde il raziocinio quando si tratta di
televisione. Tarquini sarebbe disposto a portare
tutta la famiglia in una città che ha sempre odiato
pur di insistere su questa cosa della figlia showgirl.
Che dovevo dire? Ero imbarazzato. Voleva sentirsi
dire della grande occasione che era e che ce la
faranno sicuramente, e questo gli ho detto.”
“Ma almeno la figlia la pagano?”
“Ecco il bello: no! Cioè, le pagano il viaggio e tutte
le spese. Ma non riceve un compenso per il suo
lavoro di comparsa.” Rivaluto l’onestà del
ragioniere, anche se con tanti sospiri lui alla fine i
soldi li dà. La gente a volte accetterebbe di tutto. Io e
123
Riccardo ne siamo un buon esempio. Ma Tarquini è
peggio: non solo fa lavorare la figlia gratis, è pure
contento. Uno di questi giorni le propongo di venire
qui a lucidare il bagno mentre io la riprendo. Magari
poi mettiamo il filmato su Youtube e diventa
famosa, povera stella. Datele il tempo di fare tutto
con calma! Datele la possibilità di studiare, provare
altre sensazioni. E poi di sentirsi completamente
fallita a 30 anni, proprio come me, quando in uno
studio televisivo non la prenderanno nemmeno
come addetta alle pulizie. Ma chissà come sarà il
mondo, quando lei avrà la mia età.
Per quella data io avrò finalmente imparato alla
perfezione l’inglese scritto e parlato, ne sono sicura.
A quel punto la lingua più richiesta sarà il cinese, e
quindi comincerò a studiare anche quello, che
parlerò alla perfezione il giorno della mia morte.
Avrò accumulato due anni di contributi in totale,
sarò grassa e così acida da non avere nessuna amica.
Sarò stata sfrattata una dozzina di volte ma non avrò
paura: così come oggi c’è la zia Rachela, tra 15 anni
sarà la figlia di Tarquini a venirmi in soccorso con
laute donazioni in accappatoi, shampoo e
docciaschiuma. A quel punto prenderò una valigia,
un paio di scarpe da running molto resistenti e
partirò a piedi verso la ricca regione del Sichuan.
Aprirò un negozio di accappatoi, shampoo e
docciaschiuma a basso costo accumulati negli anni e
da lì comincerà la fortuna della mia stirpe.
A parte questa, in tutta sincerità, altre soluzioni
non ne vedo.
Ah, già. Il romanzo.
124
Da quando ho capito che il problema della cena di
oggi era risolto mi è come passato di mente. Non che
il progetto non mi attiri più, ma mi ci sento più
vicina se non so come cenare ecco. La notizia del
miracolo mi ha rilassata, truccata così sono persino
più bella. Riccardo si avvicina diverse volte per
sentire il mio corpo attraverso il maglione di lana, io
lo abbraccio, poi gli sfioro il collo con la fronte. Ci
baciamo. Siamo arzilli, siamo in festa prima ancora
del banchetto. Mi fa fretta:
“Alice…” dice semplicemente e siccome, oltre ad
essere una donna parecchio intelligente, ho
sviluppato una certa telepatia verso il mio uomo, so
che vuol dire:
“Muoviti, voglio finire tutto io stasera.”
“Sono pronta, andiamo.”
Per strada non fa molto freddo. La sala è distante
non più di 2 chilometri e decidiamo di raggiungerla
passeggiando. Riccardo sembra saltellare con i piedi
fasciati dalle sue scarpe da tennis. E’ costretto ad
aspettarmi, io ho messo le scarpe eleganti e
cammino stabile ma più lenta. Nel buio rischiarato
ai fari dei Suv si sente l’andare molleggiato e
gommoso intervallato dai miei tac tac regolari.
“Vorrei una sigaretta” mi dice, ed io fingo di non
averlo sentito: è l’unico aspetto positivo della nostra
povertà. Solo a volte, magari per farsi un regalo di
compleanno o per celebrare un altro contratto di un
mese, decide che non avrà troppi sensi di colpa e ne
prende un pacchetto da dieci. Ma è raro, rarissimo,
per fortuna. E’ come se avessimo siglato un patto di
sangue, io e lui, dettato dall’istinto di conservazione
125
che ci domina: i soldi in eccesso, nella nostra
famiglia, vanno utilizzati principalmente per sfizi
culinari. Festeggiamo i compleanni con linguine agli
scampi decongelati, i nuovi contratti con antipasti di
mare, gli anniversari con astici interi. Tutto questo
interesse per la cucina l’ho sviluppato negli ultimi
tempi, prima rappresentava per me un’ opera
noiosa, da vecchie, assolutamente priva di ogni
interesse. Invece, da quando il cibo scarseggia, nella
mia vita l’aspetto alimentare è il più appassionante,
il più sensuale degli argomenti, l’ossessione più
grande. La teoria di Riccardo è che i programmi
televisivi gastronomici riscuotano grande successo
perché il Paese è pieno di gente che guarda pranzi
d’autore e mangia pizze surgelate. Io non lo so, non
ne sono sicura, non sono sicura di nulla oramai.
Prima si che tutto era chiaro, avevo più sicurezze io
che granelli di sabbia la spiaggia di Tropea. Rifiutavo
persino di entrare in un McDonald’s: combattevo
contro l’imperialismo globalizzante. In seguito ho
realizzato che se oggi il tuo pranzo dovrà costare un
euro non c’è nessun altro nel mondo che ti darà della
carne in cambio della tua moneta. McDonald’s lo
benedico per questo, e lo amo. Ed amo anche i
cappellini in regalo, i vassoi da vuotare e tutti quelli
che vi lavorano. E’ come se dentro avessi una
coscienza canterina che mi comanda e dice: devi
mangiare la carne Alice; la carne è importante
perché ti dà le proteine; queste rappresentano i
mattoni con i quali hai costruito i tuoi muscoli;
senza le proteine il tuo corpo digerirà i muscoli;
senza i muscoli non puoi stare in piedi, non puoi
126
camminare ed alla fine diventi brutta e muori.
Mangia la carne Alice, mangiala!
La mangio quindi, ma non c’è alcun piacere in
questo, la assumo come fosse una medicina nella
speranza che cessino i miei capogiri e le gambe mi
supportino ancora, almeno fino alla prossima sedia.
Chissà se anche oggi il cuore mi regge.
Come se negli ultimi cinque anni non fossi più
uscita da casa, mi meraviglio del fatto che a piedi, al
buio, all’ora di cena siamo gli unici a percorrere
questo tratto. Le ultime vetrine illuminate non
destano in me alcun interesse apparente. Poi però,
quando passiamo davanti al negozio di borse, i miei
tacchi s’incuneano al suolo.
“Soltanto un minuto!” supplico, e Riccardo sa
bene che a tutto posso resistere, persino a due ore di
solletico, persino ad un disco di sigle televisive se
proprio è necessario, ma ad una vetrina di borse
mai.
All’inizio non me ne piace nessuna. Guardando
meglio ne trovo due o tre, di pelle lucida, classiche,
che forse se fossi proprio costretta e pagata bene
potrei anche indossare ora stesso. Ne scopro di
nuove man mano che guardo e a ciascuna trovo una
giustificazione, una andrebbe bene con il cappotto
rosso, una per i colloqui, un’altra mi starebbe anche
se fossi completamente nuda, tanto che alla fine mi
piacciono tutte. Mi scopro a supplicare Riccardo di
portarmi via a forza e intanto che mi trascina
scherzando per il colletto io libero la fantasia in un
ritornello: scrivere un libro su questo stato di
indigenza non dichiarato ufficialmente, delle righe
127
nervose che parlino dell’ipocrisia di considerarci
normali. Mettere tutto online ed inserire talmente
tante tag da posizionarlo in prima pagina su ogni
motore di ricerca. Diventare famosa, stringere
amicizia con la figlia del Tarquini ed andare al
Maurizio Costanzo Show. E lì, sul palco, in attesa da
due ore con i fogli A4 in mano, sola nel teatro vuoto,
a luci spente, realizzare come il Maurizio Costanzo
Show in realtà non vada più in onda da tempo.
Prendere il primo treno verso casa.
Fare comunque tanti soldi, tornare qui davanti
alla vetrina, entrare in negozio con una valigia
pesante, consegnarla al proprietario che impazzirà
di gioia contando i biglietti da cento mentre io
prendo possesso del mio nuovo punto vendita e lo
allontano con un calcio leggero. Il vecchio
proprietario, non il negozio, quello sarà mio con
tutte le borse all’interno.
Queste riflessioni devono avermi rabbuiata nel
momento in cui ho realizzato fossero solo fantasie,
tanto che lui comincia a fare scempiaggini soltanto
per farmi ridere. Mi dà una spintarella, io gli rubo il
berretto. Ridiamo come due poveri scemi, ma siamo
innamorati e null’altro importa. Lui è più impulsivo
di me. Normalmente, nel momento in cui gli è
chiaro che non potrà comprarmi niente, si agita. Il
suo cuore comincia ad accelerare, se siamo in una
stanza in silenzio lo posso sentire senza nemmeno
mettere l’orecchio al petto, un rossore gli colora
fronte e zigomi. Qualche goccia di sudore lo
impernia, anche con questo freddo.
128
Stasera è diverso: ridacchia, si sposta, cammina
sulle panchine di cemento che incontriamo nella via.
Gli dico scendi, sembri uno scemo, ma in fondo
anche a me diverte questo spettacolo. E’
un’esibizione fatta in mio onore da un giocoliere
idiota che continua a saltellare e sghignazzare,
nonostante io ogni venti secondi dica: “Scemo!”
“Sono scemo io?” Fa lui minaccioso.
“Si!”
“No!”
“Si!”
“Ah si? Vuoi vedere davvero cos’è uno scemo?”
“No, mi basta questo, grazie.” Adesso ho paura
che esageri.
“Ed io te lo faccio vedere! Uno scemo è uno che
sale su una panchina e si mette ad urlare – mette le
due mani intorno alla bocca e comincia ad urlare
davvero –: Sono un coglione!”
“Ah, ah… Basta, basta così!” Non mi ascolta, so
bene che non avrebbe il coraggio di fare il demente
se incrociassimo qualcuno. Mi fa ridere però.
“Sono il coglione più grande di tutti!”
“Basta!”
“Sono talmente un coglione che un mio allievo si
è innamorato della mia ragazza, ed io invece di
pestarlo continuo a dargli lezioni private!”
“Cooome?”
“No tranquilla – mi dice a bassa voce - sto
inventando stupidaggini.” Un brivido di disgusto mi
aveva attraversato la schiena, le sue parole
sembravano vere.
“Bene, adesso basta” dico ridendo un po’ meno.
129
“Sono talmente coglione che la mia ragazza, qui a
fianco, la vedete? Io non riesco a scoparla! Non ce la
faccio, sono impotente” e mentre grida più forte che
può dall’alto dell’ultima panchina tra quelle in fila,
giunti quasi all’incrocio, sbucano un uomo distinto
ed un cane portato a passeggio. Sorpreso da ciò che
ha sentito l’uomo mi guarda negli occhi costernato.
Sembra dire mi spiace e si volta a guardare Riccardo
per un attimo, quindi prosegue col cane.
Quel coglione del mio fidanzato scende dalla
panchina sconsolato ed io lo abbraccio cianotica.
Scuote solo la testa e non commenta la sua figura
più che magra anoressica. E’ un bene essere già
arrivati, infatti dimentichiamo presto l’incidente che
avrebbe potuto distruggere la sua carriera politica
nell’improbabile caso in cui lui fosse stato uno
statista. A volte è quasi positivo, essere niente.
La struttura esterna è quasi bella, così ornata di
colonnine e persiane in legno bianco, o forse la sto
pensando come ad un ristorante gratuito e per
questo la giudico bene. I due piani del palazzone
devono essere stati rinfrescati da poco, ho come
l’impressione di sentire ancora attorno l’odore
chimico della vernice. L’impressione è quella di un
punto di luce in mezzo al buio della piccola piazza
circondata da alberi che sembrano risucchiare il
flebile barlume dei pochi lampioni. Il pianterreno lo
intravedo dal grande portone spalancato; il primo
piano ha quasi tutte le finestre sigillate, ma dalle
imposte rimaste aperte riesco ad adocchiare i
lampadari di una brillantezza esasperante.
130
All’ingresso non c’è molta gente, una signorina
accogliente in tailleur blu ci informa che la sala è già
gremita e sarebbe meglio affrettarsi per non perdersi
il meglio: l’ artista ha già cominciato a parlare.
“Sapessi quanto ce ne frega non saresti così
cordiale” mi sussurra Riccardo all’orecchio sinistro.
Io ridacchio, piano. Abbiamo quasi varcato la soglia,
siamo proprio accanto al cavalletto che preannuncia
la serata quando una certezza macabra si fa strada in
me. Mi tocco le tasche del cappotto, apro la borsa,
tasto i pantaloni: niente.
“Riccardo, mi sa che ho dimenticato a casa il
cellulare” dico in ambasce, più che altro per la
reazione che mi aspetto da lui.
“E beh, pazienza. Entriamo.”
“No, senza il cellulare io non vado da nessuna
parte.”
“Ma stai scherzando, chi vuoi che ti chiami?”
“Sto aspettando una risposta per un lavoro.”
“Alice, aspetti una risposta da due anni. Sono le
otto, gli uffici hanno già chiuso ormai, non ti
chiamerà nessuno per questa sera.”
“Riccardo per favore, mi sento più tranquilla ad
averlo qui con me.”
Non ce la faccio, vivo costantemente legata al
cellulare, aspettando che squilli. Ne sono
dipendente. Posso dimenticare di reinserire la
suoneria, posso addirittura non sapere di averlo con
la batteria scarica e ignorare si sia spento, ma non
posso non tenerlo qui con me. La chiamata arriverà,
prima o poi.
131
“Vado e torno subito. Tu aspettami qui” dico
agitata.
“Ma stai ferma, dove vai con quei tacchi? Vado io,
faccio prima, porca puttana!”
“Grazie amore, grazie! Allora, dev’ essere rimasto
nell’altra borsa, quella che avevo nel pomeriggio
quando sono uscita con Silvia, quella blu, te la
ricordi?”
“Si, si” ed è già lontano, incazzato come Jennifer
Aniston il giorno delle nozze tra Brad Pitt e Angelina
Jolie.
“Ti aspetto qui fuori” dico ad alta voce. Noto il
gesto di stizza, dandomi le spalle mi ha mandata a
quel paese con il braccio.
Nella piazzetta antistante l’ingresso c’è un
monumento. Mi siedo sul marmo della base e
aspetto.
Per una volta che si mangia lei ha dimenticato il
cellulare a casa. E chi corre come un ossesso per
riprenderlo? Chi vola per raggiungere la sala prima
che finiscano tutto? Il coglione, ovvio! Stavolta mi ha
fatto proprio incazzare. Uno cerca di sforzarsi, di
fare di tutto per allontanare questa miseria infame e
lei che fa? Non collabora, non c’è, non ha testa,
dimentica il telefono a casa! Come se la chiamasse
qualcuno poi, che minchia. Mi dice aspettami qua,
vado e torno, ma lo sa benissimo che io, da vero
coglione, non lo permetterei. Ma basta, qua le cose
devono cambiare, questa è l’ultima volta. Dimentichi
il telefono a casa? Arrangiati! Tu vai a riprendertelo,
io intanto entro e chi s’è visto s’è visto… Ma porca di
quella, ci mancava anche il camion della spazzatura,
132
siii, daaai, passate tutti, è una fiera, anche il
vecchietto in bici. Ma che cazzo ci fa un vecchietto in
bici a quest’ora? Chiaro: spende in osteria la
pensione che gli pago con le mie trattenute,
bastardo. Quasi quasi lo butto giù con un calcio e gli
frego la bici. See, quello come minimo è armato. Le
chiavi, dove minchia le ho messe le chiavi? Ah ecco,
il portone. E apriti affanculo! Ascensore. E’ al
quarto, no, meglio a piedi. Scale. Porta. Borsa.
Cellulare del cazzo. Giù via, avranno già finito tutto.
Ho fameee!
Di nuovo questa strada, è la terza volta in
mezz’ora, vai vai, galoppa mia piccola Nike tarocca.
Uff, quasi ci siamo, ancora un chilometro ed è fatta…
A che punto sarà Riccardo in questo momento?
In qualche modo dovrò ricompensarlo. C’è uno che
passa e guarda, io faccio finta di nulla ma lui
continua ad osservarmi. Mi alzo e gli vado incontro:
“Avresti una sigaretta, per cortesia?”
“Certo” risponde lui, già pronto a chiedermi
l’amicizia sul Facebook di questa piazzetta. Tira
fuori l’accendino ma lo blocco:
“No, non l’accendo adesso. E’ per dopo. Ciao
ciao.” Non mi saluta neanche mentre corro incontro
al mio uomo che sta arrivando. Se mangerà bene e
vedrà la sigaretta l’arrabbiatura gli passerà prima
dell’alba. Lo bacio e lo ringrazio ancora, poi
entriamo.
…per mettere in chiaro una cosa sin dall’inizio:
questa è senza dubbio alcuno né possibilità d’error
remoto qualcosa di molto vicino alla giornata più
straordinaria che avrei mai potuto vivere in 53 anni,
133
invece mi pare proprio non sia successo nulla!
(applausi, immediatamente individuato il tavolo).
Ah, Ah, Ah! Perdonate la battuta, ma quando si ha a
che fare ogni giorno con il surrealismo è il minimo
che possa capitarvi!
In genere non mi sbilancio nelle mie glosse, non
tingo di retorica le lettere e le parole e le frasi che
scalpitano per uscire dalla mia bocca. Le sento
esplodere nel mio cervello, e cercarsi un passaggio
che sia il più diretto possibile tra le mie corde vocali,
come sgomitassero tra loro (farnetica. Meglio, sono
tutti attenti e guardano verso lui ipnotizzati).
Questo mi sta succedendo, in quella pseudo
seduta psicanalitica da pochi euro che è l’iconografia
oggi.
Però il fatto è questo: che non voglio annoiare
nessuno dilungandomi sulle tinte più estreme dei
miei stati d’animo più che confusi, da qualche tempo
in qua. Basti solo siffatto argomento dunque, e cioè
che la moka che ho nel cervello sembra una
vaporiera e pressa sempre più forte tra le pareti della
scatola d’ossa. E di conseguenza il discorrer
potrebbe risultare quantomeno impastato e
miscugliato (secondo me questa parola non esiste, a
casa controllo sul dizionario) come di chi abbia
paura che tutto possa dileguarsi d’improvviso, non
so se avete presente; che poi è quello di cui ho
esattamente paura io in questo momento. Di tutto
ciò, di tutto il cianfrusame strampalato che mi verrà
in mente e che dirò, anche se non so con chi
esattamente, mi scuso (brusio confuso e sommesso,
afferrate le prime patatine di nascosto).
134
Vi è mai capitato di stare svegli tutta la notte e poi
fermarvi ad aspettare l’alba? Tipo, chessò, su un
terrazzo spazioso che aprisse la vostra vista al mare
vicinissimo ed allo strapiombo sulla destra? Questa
è l’immagine che ricordo, di una splendida alba di
qualche mese fa. Il mare sembrava fermo, la sua luce
faticando ad arrivare alla mia vista giacché vera alba
ancora non c’era, e più che altro mi pareva
d’osservare un quadro si surrealista, ma senza
elementi che fossero troppo distanti da una
tranquilla e rassicurante realtà assonnata.
Ma non dilunghiamo.
E’ che mi piacciono le albe, lo si sarà capito
(applauso e tartina con maionese, olivetta e cotto).
Fu in quell’occasione che scoprii una cosa
importante, o perlomeno che a me parve d’estremo
interesse. Quando già la luce arriva dall’ultima linea
del mare e quel chiarore così incerto si diffonde
nell’aria, con un po’ d’attenzione si può vedere la
notte che è già lontana. Ti dà un senso
d’onnipotenza l’osservare la notte che fugge mentre
(aranciata e salsiccetta pepata, due dischi) si è
immersi nel giorno… Certo, mi spiego meglio,
comprendo lo scetticismo che intuisco dai vostri
volti, sto creando un po’ di confusione.
E’ vero, ho un gran difetto (Naaa! Spumante!):
credo sempre che chi mi ascolta già sappia di cosa io
parli, e non eccedo in chiarezza, a volte. Ciò che
intendevo prima è che le nuvole, quelle che stanno
dalla parte opposta al sole sorgente, possiedono una
curiosa particolarità. Non ci avete mai fatto caso?
Per un lasso abbastanza lungo di tempo, sono nere.
135
Dunque: possono forse esistere delle nuvole nere? E’
evidente che no, non possono. Ebbene, quella è la
notte, ovvero, un piccolo pezzetto di notte che non si
è ancora arresa alla nuova tirannia del giorno.
Mi sembra una grande scoperta questa, per una
persona di soli 53 anni (tranquillo, hai tempo per
renderti conto anche di quanto inutile sia la tua
esistenza. Patatine, olive ascolane, vol-au-vent e
ancora spumante). E’ per questo che titolo della
mostra è “Nero di giorno” ed il nero ha una
presenza così manifesta, quasi soffocante, in queste
opere che vedete e, spero, apprezzerete. Grazie
(applausi, adesso forse si comincia a mangiare sul
serio).
Io non credo che la verità si possa (ha
ricominciato, dietrofront!) nascondere a lungo,
nell’arte. Non ci credo per niente. E’ un fatto di
tempo: a poco a poco piccoli indizi vengono fuori,
prima pochi elementi, poi altri sempre più chiari si
aggiungono, fino a completare il quadro veritiero di
ciò che in precedenza si sarebbe voluto,
miseramente, nascondere (spumante, spumante,
spumante. Panzerottino). Ad esempio, se in questo
momento nessuno di voi mi vedesse né sentisse,
cosa direbbe nei miei confronti? (probabilmente che
questo prosciutto emana un odore un po’ troppo
forte, forse è vecchio come te) Chi sono io, per voi?
(la nostra cena) Sono un sogno? (uhm, no,
decisamente) Un’invenzione? (si, ma potevano
anche inventarti meglio) Un essere umano? (non lo
darei per scontato. Trancio di pizza, adesso la
ragazza del catering mi ha guardato davvero male.
136
Le ho sorriso. L’importante è che non ci notino gli
altri, altrimenti cominciano tutti ad avvicinarsi al
tavolo). E, in caso quest’ultima descrizione mi
appartenesse, io, inteso come occhio che guarda i
miei paesaggi, sarei donna o uomo? (non per dire,
ma di veri uomini io fino ad ora ne ho conosciuti
pochi, non te la prendere. Spumante).
La notte e l’alba si diceva, e gli indizi.
Ce ne sono volute di albe osservate, ce ne sono
volute notti di sonno perse, affinché scoprissi ciò che
in verità erano quelle nuvole nere. Considero tutte le
albe che ho visto come degli indizi che hanno poi
portato la verità innanzi agli occhi e alla mente
(Cybercola gluglu). Qualcuno, qualcosa, ha voluto
che io lo scoprissi, questo trucco che serve a
smascherare la lotta tra la notte e il giorno. Se anche
non fosse la verità vera, ciò che io adesso credo delle
nuvole nere, bene anche questo sarebbe un altro
indizio che, un giorno, mi porterebbe a scoprire la
vera essenza dell’alba e del nero annuvolato. Le ho
raccontate in questa nuova collezione, le mie albe
splendide e insonni, con una accortezza: mai
pensare alle opere con eccessivo trasporto, ricordate,
la mente dietro i pennelli, mai il contrario
(tranquillo, non ci permetteremmo mai, Dio ce ne
scampi e liberi).
Grazie a tutti, adesso brindiamo insieme.
Quando il pubblico applaude abbiamo entrambi
le mani impegnate. Siamo partiti come degli evasi al
primo accenno gutturale del suo grazie a tutti,
adesso brindiamo insieme. Ci troviamo in pole
position, ognuno di noi riempie almeno tre piatti per
137
dei nipotini rimasti fuori a giocare, così affamati che
persino noi rimaniamo un po’ stupiti realizzando
come in realtà non siano mai esistiti. Il Cinzano va
giù che è un piacere, lo accolgo come la mia trachea
fosse un tubo di ferro di una fontana romana,
scorrevole. Io ho una certa discrezione dopo il terzo
piatto, Riccardo è impressionante invece. Non si
ferma più, mi è sembrato riempisse i tre piatti per
tre volte di seguito. Sono sicura che non mastica
affatto, butta giù come riempisse un sacco che non
sta dritto per quanto è vuoto. Accenno un amore,
forse così veloce ti fa male.
“Anche il piombo fa malissimo. – risponde – Non
per questo io mi sogno di andare a rompere i
coglioni ad un verniciatore in catena di montaggio.”
E’ l’unico nostro scambio di battute durante
l’assalto. Ho afferrato bene il significato del discorso,
sto zitta e continuo a bere più di prima. Insieme
siamo imbattibili: lui si dedica alla parte solida,
pizzette, arancinetti, tartine, patatine, piccoli
arrotolati, panzerottini, io dopo i primi piatti
raccolgo le mie povere cose e mi stabilisco
definitivamente nella valle di Bacco.
All’inizio la sala era piuttosto silenziosa; adesso,
man mano che il rinfresco si consuma e i bicchieri
vengono vuotati, il volume si è alzato. Come
bollicine in viaggio nei bicchieri la folla comincia a
farsi confusa, qualcuno scherza, altri ridono acuti.
Dentro di me il baccano comincia davvero a
spingersi verso livelli inaspettati; ho l’impressione di
non avere capogiri solo grazie alla colonna che mi
sostiene. Resto ferma, attaccata appunto alla
138
colonnina di fianco al tavolo, e continuo a brindare
da sola. Di tanto in tanto Riccardo mi passa uno
spuntino, ma saranno dieci minuti che accetto
esclusivamente quantità proporzionali: ad ogni
tartina, un bicchiere di spumante.
L’artista si è unito agli astanti e adesso i tappi
saltano lieti come fosse un matrimonio, due, tre,
quattro, non li conto. Ho l’impressione di aver
sentito distintamente ridere tutti all’unisono, e
comincio a ridere anch’io, sguaiata come una cagna
di nessuna razza. Forse esagero, due o tre si sono
voltati e mi hanno guardata un secondo, ma va bene
così. Riccardo continua a mangiare, anche se pare
cominci a scalare le marce. No, no, affatto, prosegue
come una vaporiera stantuffante, ha già quasi perso
ogni traccia di ritegno. Fino a un attimo fa riusciva a
mimetizzarsi abbastanza bene, colpiva e spariva. Di
seguito si è fatto più sfrontato, lo vedo distintamente
farsi largo a gomiti aperti, almeno due volte ha
assestato dei colpetti leggeri ai fianchi degli
avventori increduli. Però in quel caso la violenza ha
funzionato: gli lasciano subito spazio, si allontanano
come odorasse di sterco. Lo vedo soddisfatto, quel
velo di arrabbiatura che l’aveva colto a causa mia lo
ha abbandonato del tutto. Mi dice maaangiiiaaa e
ride, io che ridere e bere sono ormai le uniche due
cose che so fare. Ho paura mi chieda di prendere un
vassoio di pizzette e vuotarlo interamente nella
borsa, tanto che d’istinto tolgo il cappotto, la metto a
tracolla e richiudo il tutto, così non la vede e non gli
viene l’idea.
139
E’ un ballo con in mano i crostini, più fresco e
meno formale di una notte in discoteca. Non
diciamo nemmeno una parola a nessuno dei
presenti, eppure molti sarebbero disposti ad una
chiacchiera veloce. Ma noi no, danziamo coordinati
ma su valzer diversi, lui con piatti in mano ricolmi
ogni quattro minuti, io con la mia solitaria litania di
bollicine e capogiri bloccati da una colonna stile
impero. Ci amiamo così, carnali, distanti, con in
mano non cento carezze ma innumerevoli spuntini,
incalcolabili sorsi. Il sentimento sta crescendo così
tanto che mi scopro a pensare se ne usciamo vivi da
questi anni, mi faccio sposare da te e il solo
abbozzarsi dell’immagine nella mia mente mi
commuove. Ho gli occhi lucidi che si riflettono sul
vetro del flûte come due candeline poco prima di
essere spente da una bimbo: così come una bimba
sono innocente io, così come un bimbo è indifeso
Ric. Mi sento sciolta come il sugo delle pizzette, sono
languida come il Cinzano che frizza.
Amore, amore, amore ho dentro, come un buco
che risucchi me e tutto il resto, una forza di gravità
che attragga soffi leggeri, mani tese e tenerezze. Mi
sento donna matura, non più ragazza, e come donna
voglio comprendere e avvolgere, amare e riavere.
Sentire la vita che pulsa, mordere il miracolo che mi
gonfi la pancia.
Ho un desidero forte e trascurato di viaggi in auto
lunghi un anno, di campeggi che ci vedano soli, io ed
il mio uomo, in una tenda a baciarci le schiene, in
uno spiazzo a raccogliere funghi e violette. Di fiori
ho voglia, tanti da riempire una casa, quando lui mi
140
tratti come un autentico ammiratore appassionato.
Che si getti in un fiume per me, che mi rubi un
diamante. Che mi dica sposami Alice con baci
commossi.
I giorni si succedono ed io mi sento polarizzata
come fossi un magnete che viene spinto e cede. Mi
concedo con gioia, vitalità, allegria, trattenendo a
stento la linfa dei giorni che passano e corrono.
Sento l’amore che lui prova per me, e di questo
sentimento m’innamoro, se possibile, ancora di più.
Mischio le sue felpe alle mie calze, ammasso insieme
pantaloni, canotte e mutande. Tutto a noi due
appartiene, per terra a guardare il letto. Che
passione ho io, quanti chili di cioccolata fumante! Le
montagne ci osservano come due vacche impazzite.
A noi basta la nostra intesa, non cerchiamo altri
conforti, non invidiamo le coppie che programmano
tutto così a fondo da imparare subito a odiarsi con
professionalità. Siamo due gelati al cocco esposti al
sole che brucia ad agosto; ci disintegriamo in fretta
ma proprio questo ci unisce ancora di più ed alla fine
siamo una sola sostanza.
Riccardo mi manca anche quando è qui accanto.
Voglio abbracciarlo, gli voglio mangiare le
guance, aaahmm, lo voglio tutto per me. Ma lui è
una furia; rallenta cinque minuti e poi torna a
sbranare tutto con più foga di prima. Un anoressico
colto da crisi bulimica darebbe meno spettacolo.
Come per punirlo mi spingo a ricordare com’era
quando lo conobbi: magari più allegro, con dei
muscoli più tonici e la pelle più elastica, con più
capelli… Niente, non mi viene niente, mi sembra sia
141
sempre stato così e di non averlo mai amato tanto.
Se dividiamo vite così squallide vorrà pur dire che ci
amiamo davvero. Per questo lo sposerò, perché ci
amiamo e basta, per nessun altro motivo.
Il mio futuro sposo se ne infischia leggermente di
me, allora io riempio il bicchiere numero
centoventitre, che cavolo! Questa mancanza di
attenzioni, questo suo continuare a mangiare
mentre io mi sento così innamorata è sacrilego e mi
innervosisce. Per tranquillizzarmi bevo di nuovo, ma
bevendo mi agito ancora di più.
Il padrone di casa, l’artista delle albe nere è tra
noi. Lo guardo con riconoscenza, non fosse altro
perché
stasera
ha
risolto
un
trecentosessantacinquesimo del problema “cene
relative a quest’anno nero” e se non avesse mai
dipinto quelle albe non saremmo qui tutti insieme,
allegri e gonfi. I convenuti qui intorno gli porgono le
mani, commentano i quadri e regalano complimenti.
Io che dei quadri mi sono ricordata soltanto adesso
un po’ mi vergogno. C’è un piccolo gruppo di
giovani, un ragazzo gli si para davanti dicendo Papà,
che bella serata! ed ha uno sguardo sanissimo,
guance belle e nutrite, sorriso radioso e camicia
militare.
Il ragazzo del bar! Quello ricoperto d’insulti
accanto al palchetto! Ha un’aria talmente familiare
che devo trattenermi dall’avvicinarmi e tendergli le
braccia. Questa è proprio una di quelle coincidenze
da film, come se ad un tratto dovesse per forza
accadere qualcosa. Riccardo niente, non pervenuto.
Se escludo qualche ruttino insonorizzato potrei ben
142
dire di essere venuta da sola ad ammirare le albe
scure.
Sono arrabbiata. Mi sento abbandonata, triste ed
ho pure scambiato per un amico uno che oggi ho
visto al bar, il figlio di un artista, uno che ha le
guance elastiche, che va in piscina, che in spiaggia
può ripararsi all’ombra del suo estratto conto. Uno
col ferma soldi in argento e la camicia militare. Non
riesco neppure più a bere, sono completamente
ubriaca e incazzata. Oddio, mi è presa l’ubriacatura
violenta, capisco da sola che è meglio andare. Lo
dico a Riccardo che fa finta di non sentirmi. E’
passato ai dolcini, me ne mette uno in bocca intero
cantando Su di noi, nemmeno una nuvolaaa.
In pochi minuti tutto si fa confuso, meno chiaro
nei dettagli, più difficile da inquadrare.
So solo che il figlio del pittore mi è accanto e dice
ad alta voce, riferendosi a Riccardo che ha un pezzo
di torta di mele in una mano e un cannolicchio di
ricotta nell’altra:
“Ma chi è ‘sto pezzente?”
Lui è alla mia sinistra, i suoi amici ridono di Ric,
il flûte è nella mia mano destra. Percorre 180 gradi
di circonferenza con una velocità che assomma in sé
tutta la rabbia, l’ubriachezza, l’attesa e l’umiliazione
di questi giorni scoloriti e si va a infrangere sulla sua
bocca, scoppiettando sui denti.
Non ho il tempo di fare null’altro, Riccardo,
lucidissimo, mi ha già presa per un braccio e mi
trascina via correndo, mentre ancora nessuno si è
reso conto di quanto sia accaduto. Riesco appena a
dare un’occhiata scappando, e la mia attenzione è
143
catturata dai pezzettini di vetro per terra più che
dalla mia vittima incredula con le mani alla bocca.
Sanguina, e forse un po’ sanguina anche la mia
mano, a giudicare dal calore attaccaticcio che sento.
La gente che prima guardava con un malcelato senso
di pena, mentre scappiamo ha sentito un timore
tramutatosi in vera e propria paura dell’ignoto. A me
i frammenti di vetro sparsi per terra hanno suggerito
delle immagini antiche. Ho pensato a una retina
piena di biglie trasparenti, proprio quelle che avevo
da bambina, e mi sono vista a comprarne di nuove,
tornare in sala e tirarle in faccia al ragazzo una ed
una, ogni tiro dicendogli: “Stronzo!”
Scappiamo correndo, la sua mano destra a
tirarmi in avanti, e attraversiamo una stradina
stretta, poi un viale, poi corriamo ancora verso uno
spiazzo deserto. Partecipo ma è come se questa
corsa non mi riguardasse, come se stesse
succedendo ad un’altra persona che nemmeno
conosco, di essere tirata per il braccio nelle strade
vicino casa. Come se qualcuno che somiglia molto a
Riccardo dicesse ad una bella ragazza ubriaca che
somiglia un po’ a me:
“Sei completamente folle! Avrei dovuto scappare
da solo e lasciarti là dentro, porca puttana. Ma da
dov’è che ti vengono certi gesti? Li pensi prima o li
improvvisi? Porca Eva Alice tu ti devi fare
controllare, domani andiamo al centro igiene
mentale: non stai bene Alice, tu non stai bene!
Madonna… E se gli hai rotto un dente? Ma come fa
una persona a stare vicino a te senza finire in
carcere? Come fa? Io non lo capisco, qualcuno me lo
144
deve spiegare. Un momento prima sei tranquilla, ti
diverti, ridi, ed un momento dopo sei un’altra
persona, diventi seria e spacchi la faccia a uno
sconosciuto. Perché era uno sconosciuto quello,
vero? Non è che c’è qualcosa che dovrei sapere,
qualcosa che non mi hai detto di te e di quel
poveraccio? Guarda, sono sicuro che ci avranno già
individuato e una volante ci starà cercando. Ti
becchi sei mesi come minimo, e a me daranno
l’affidamento ai servizi sociali. Non ci posso credere
porca mignotta. Ma come si fa? Come si fa? Una
pazza sei, una pazza. Hai perso la ragione e non me
ne sono accorto, è colpa mia. Dovevo capirlo subito,
quando sono cominciati quegli scatti d’ira che hai a
volte. Non erano normali, no! Era segno che
cominciavi a sbarellare Alice, si!
Ma forse tu sana di mente non lo sei stata mai.
Non ce le siamo mica scordate le tue aspirazioni, che
credi? La sua convinzione di essere una bravissima
attrice, l’artista abbiamo signori miei, facciamole un
inchino. Abbiamo qui con noi Julia Roberts, in
attesa del prossimo film manda i curriculum ai
supermercati! Una fallita sei, una fallita peggio degli
altri! Io almeno ci provo a portare dei soldi a casa, tu
neanche per il cazzo! Due cose sei capace di fare: i
colloqui e i colpi di testa come quello di prima.
Di’: te lo ricordi quando dovevi fare la regista, no,
no, rispondi! Te lo ricordi di quanto c’hai fatto due
palle tante a tutti? Avessi portato a casa due lire!
Sempre a fare cazzate, mai una cosa seria! Ma già,
cosa volevamo aspettarci da una che sceglie scienze
politiche ad indirizzo politico-economico? La
145
classica laurea di chi non sa cosa vuole fare da
grande. Eri convinta te lo spiegassero all’università
cosa dovevi fare vero? Poi hai visto che nessuno
aveva la minima idea e scommetto che ci sei pure
rimasta male, povera cretina.
Ah già, tu volevi fare la professoressa. Poi vi siete
accorti che avevano escluso la vostra laurea
dall’insegnamento senza dirvi niente, con un decreto
di cinque anni prima di cui non sapeva nulla
nessuno, nemmeno il ministro! Siete proprio degli
scienziati politici, mi fate ridere! Ma tu lo sai che per
poter lavorare ho dovuto togliere la laurea dal mio
curriculum? M’hanno fatto due palle così
ripetendomi per venti anni che dovevo studiare per
garantirmi un futuro, poi ai colloqui mi guardano
come uno squilibrato aspettando solo il momento
giusto per dire Lei è troppo qualificato per questa
posizione. Ed io a spiegargli in tutti i modi che ho
due mani, due braccia ed un culo come tutti gli altri
anche se sono dottore in legge. Sono pentito Alice,
sono pentito di aver preso quella cazzo di laurea.
Spiegamelo tu, tu che sei una scienziata della
politica, che assurdità è un Paese in cui ci si debba
vergognare di aver studiato?
Bella mia è meglio che tu te ne renda conto: sei
una povera pazza, e pure ingenua. Sei convinta che
le tue aziende ti chiameranno, che passerai alla
selezione successiva ed in fondo, anche se lo
nascondi, credi che un giorno entrerai anche in
banca e magari farai carriera. E’ tardi Alice, hai 30
anni ed è tardi! Quando si libereranno dei posti
saranno già tutti occupati, e se ne rimanesse anche
146
solo uno libero ti troveresti davanti migliaia di
ragazze più giovani e più intelligenti di te. Fattene
una ragione. Ma già, a te non frega nulla di rovinarti
la vita e di rovinarla anche a me. Tanto c’è sempre
qui il tuo fidanzato coglione che torna a casa a
prenderti un cellulare che non squilla mai. Non
squilla mai Alice, mai. Tu lo sai perché non ti ho
ancora chiesto nulla del colloquio di stamattina, eh,
lo sai? Perché è andato bene cara, è andato
benissimo il colloquio di stamattina, lo so!
Vanno sempre bene i colloqui, ci mancherebbe.
Poi però quel cellulare di merda non squilla mai,
scelgono sempre qualcun’altra, sempre. Alice basta.
Renditi conto che così la cosa non funziona. Basta
colloqui, basta cazzate, non si scherza più. Siamo
stati fortunati fino ad ora, ma se ci venisse
un’influenza non potremmo comprarci nemmeno la
Tachipirina. E tu vai a dare bicchierate in faccia alla
gente!”
Ho subito la sua sfuriata, dalla prima all’ultima
parola, in silenzio e con gli occhi di un daino poco
prima di essere trasformato in ottimo panno per
auto. L’ho guardato con tutta l’attenzione che mi
concedeva la mia mente scombussolata dallo
spumante. Senza una parola, cercando di non
sottolineare con alcuna espressione facciale i suoi
giudizi più duri, sono rimasta più seria e tranquilla
possibile: avessi avuto un impianto accanto,
probabilmente avrei caricato sul piatto un disco di
Leo Ferrè. Mi sono insomma mostrata com’era
giusto, addolorata, dispiaciuta, bastonata, fino a
quando i molari dell’arcata destra non hanno
147
cominciato a mordere la guancia. Un suono
gutturale viene da lontano; lo soffoco, ma è troppo
tardi, per me e per Riccardo: esplodiamo in risate
irrefrenabili. Rimaniamo subito senza respiro, rossi
in volto, aggrappati l’una all’altro come le foglioline
della nostra piantina di basilico. Rido a bocca aperta
e sento il freddo ghiacciarmi i denti mentre stringo
nel cappotto le mani gelate. Eppure mani e denti
sono gli unici due punti infreddoliti: il resto del
corpo è caldo, accaldato anzi, e qualche goccia di
sudore scende persino tra i capelli. Continuo a
cercare colonne che mi sostengano, non mi fido delle
mie gambe, affatto. Raggiungiamo degli alberi in
un’altra piazzetta ridendo continuamente, più che il
camminare è il ridere a sospingerci. Solo qui mi
accorgo di avere un taglietto all’indice della mano
destra, ma è talmente piccolo che il sangue si è già
raggrumato. Prendo dei fazzoletti comunque,
Riccardo li bagna ad una fontanella e mi cura con
perizia. Sono tranquilla, ma ho paura di quel che
sarà. Le mie ubriacature si palesano a ondate: prima
mi gira tutto, poi sono violenta, poi rido o piango o
le due cose contemporaneamente, poi mi calmo,
magari mi addormento per mezz’ora. Mi risveglio e
rido o piango, lancio qualcosa addosso a qualcuno,
scappo, rido o piango ancora, infine mi addormento
e resto a letto ventiquattr’ore. Ho una voglia
irrefrenabile di spingere Riccardo ed atterrarlo, ed è
quello che faccio. Lui si aggrappa al mio braccio e
per non cadere do un balzo in avanti.
Riprendiamo le nostre risate da dove le avevamo
interrotte, più sbilenchi di prima, fino a quando il
148
volto di lui si fa serissimo e grave ed io continuo a
guardarlo ridendo con la bocca spalancata:
“Hanno chiamato i carabinieri” dice preoccupato.
Effettivamente si sente una sirena non molto
lontana.
“Ma daaai! Non sarà per noi, non si è fatto
niente!” dico più per convincere lui che perché lo
creda davvero.
“Basta ridere cazzo! Andiamo a casa, se ci trovano
in strada ci riconoscono subito.”
Impedire ad un’ubriaca di ridere mentre questa si
trovi in piena crisi di ridarella non fa altro che farla
ridere ancora di più. Ed il brutto è che, ridendo io,
nemmeno Riccardo riesce a trattenersi e ride
incazzato e impaurito.
Vuole raggiungere il nostro appartamento, la sua
mente lucida gli suggerisce che sarà meglio così. Per
me è indifferente, potrebbe venire giù una colata
lavica e l’accoglierei a braccia conserte, con
curiosità. Mi strattona ancora e mi tira in direzione
di casa; io gli porgo la mano sinistra, l’altra è un po’
dolorante. Nella tasca del cappotto ritrovo la
sigaretta che avevo recuperato prima di entrare: si è
spezzata, adesso ne ho due. Le getto via ma non sono
io: è la sbornia che lo fa per me.
Corriamo così, nella notte fredda, ridendo e
scappando.
149
150
5.
Rido così tanto correndo che cado e trascino
anche lui per terra, ad un metro dal cassonetto
dell’immondizia. Il terreno è umido e attaccaticcio e
se rifletto un attimo sui milioni di sacchetti
sgocciolanti che negli anni son passati da qua
capisco anche il perché. La puzza è così intensa che
d’istinto copriamo nasi e bocche con le mani, ma né
io né lui abbiamo la forza per rialzarci. Ridendo
ancora ci guardiamo negli occhi, io gli assesto un
pugno leggero, lui mi spinge la testa. Facciamo finta
di nulla ma ognuno di noi sa esattamente cosa stia
pensando l’altro nello stesso momento: se qui, in
mezzo alle buste schifose, ci fosse qualcosa da
recuperare, un tesoretto vendibile?
Scoprire me stessa nei suoi sguardi mi amareggia
e mi detta esattamente cosa io sia diventata, riga per
riga. La consapevolezza è così piena che ad un certo
punto smettiamo di ridere, prima io, poi lui. Siamo
seri, serissimi.
Avvolti dal fetore e dai residui di cibo vecchio ci
immaginiamo a frugare come iene in cerca di
carogne, e abbiamo paura l’uno dell’altra e per noi
stessi. Il cuore batte più veloce, il rossore risale in
viso, la mia mano ferita accenna un tremore.
151
Poi le lacrime; comincio io ma lui, come non
aspettasse altro, mi segue come una palla rotolante
in discesa, che mi raggiunge subito e mi sorpassa in
strazi e lamenti. Si ferma solo in fondo, sottoterra.
Facciamo che c’è stato un incidente stradale e
dell’acqua, non so se per la pioggia o per i radiatori
spaccati delle auto distrutte. Facciamo che ci sono
una mamma ed una bambina, bionda e pienotta, da
mordere di baci. Facciamo che adesso la mamma è
per terra. Facciamo anche che è morta.
La bambina no, facciamo che è sotto shock tra le
braccia dei primi soccorritori, un barbiere e il suo
cliente con la schiuma in viso. Un capannello si è
creato in fretta, è un giorno di marzo e una zona
trafficata, così che tutti si sono sistemati in cerchio
attorno al disastro. Facciamo che la bambina d’un
tratto si ridesti dal suo trauma e scappi gridando
mamma! verso il cadavere della donna.
Facciamo che lo faccia piangendo, facciamo che
cerchino di trattenerla, altre mamme tra le donne,
ma non riescano. Facciamo che l’abbracci e pianga, e
facciamo che comincino a piangere anche gli altri.
Comincia la prima donna, quella che dopo il
barbiere l’aveva presa tra le sue braccia protettrici.
Poi piange anche un vecchio ed elegante uomo, poi
tre ragazzi non andati a scuola, poi una bidella nel
suo giorno di libertà. Piange un camionista,
piangono gli infermieri sull’ambulanza, un
centrocampista dell’Udinese, un musicista della
metro, un netturbino ed un operatore fiscale di un
Caaf di Grosseto. Piange anche un gatto che passava
di là, e tre formiche.
152
La bambina è sul corpo della madre morta, e
piangendo la bacia. E mentre la prima donna, che
stringeva la bambina fino ad un minuto prima, cerca
di riportarla a sé, facciamo che accada qualcosa che
normalmente non esiste. Facciamo che tutte le
lacrime si riuniscano in una piccola onda, e scivolata
sotto il corpo faccia rialzare la donna morta, non
tanto, solo un poco, quel poco che basti per mettersi
a sedere sull’asfalto e stringere la piccola, e
accarezzarla.
Facciamo che la madre morta, nello stupore
generale dica: “Lasciatela un attimo, il tempo di un
ultimo abbraccio” e lo dica piangendo.
Facciamo che le lacrime di tutti avvolgano tutto e
tutti e che questa sia la scena più triste mai pensata,
mai vissuta, mai sognata.
Facciamo che le lacrime comincino ad essere
troppe, litri su litri, e che anche il resto della città
stia piangendo. E poi le altre città, e gli altri Paesi, e
il mondo e i mondi interi piangano. E si alzi il mare
poi, fatto di pianto e tristezza e malinconia infiniti.
Ed il cielo con questo si confonda, e le autostrade e i
porti. Che le nuvole si gonfino di pianto e poi
collassino in temporali di lamenti.
E tutti, tutti, tutti, tutti piangiamo ed
anneghiamo, nel nostro immenso mare di lacrime.
Rimaniamo così, abbracciati in silenzio, due
condannati senza speranza di grazia. Il marciapiede
è il nostro duro giaciglio, la luce bianca del lampione
la torretta di controllo. Indietro volgiamo lo
sguardo, a come eravamo ed a come avremmo
153
voluto essere. Non necessariamente ricchi e felici
ogni giorno, ma almeno senza la paura di morire per
mancanza di proteine.
Avrei voluto gioire della gioia degli altri, e invece
mi sorprendo ad odiarli, augurando loro di scendere
al mio piano interrato più in fretta possibile. Questo
veleno che ho dentro intossica me prima di tutto, e
mi fa vivere male, come ammalata.
Non ho voglia di stare con gli altri, anzi li evito in
tutti i modi. Posso sorprendermi a dipingere un
quadretto di vacanze al mare, risate e corse sulla
spiaggia, divertita da tutti come un vero animale
sociale. Dura poco però, ecco battere il cuore, ecco
salire la rabbia a disseccare il mare mentre sento
l’impeto condannarmi a bruciare quell’immagine,
come fosse la foto di un fidanzato antico che
disprezzo. Ogni cosa sembra avere meno importanza
dei miei bisogni primari, ogni parola di un’amica,
ogni desiderio di un bambino ed ogni espressione
che non sia la mia la bollo come inutile e irritante.
Appartengo ad una generazione di asociali perché
l’indigenza nascosta distrugge i rapporti tra le
persone, riducendoli a tanti Adesso non posso,
magari ti chiamo la prossima volta. Lo scambio, il
confronto, il tenersi compagnia sono riflessi dei
diamanti dell’esistenza, il motivo autentico del
perché siamo nati. Ci tengono in vita, ci rendono
persone. Ma a noi, che persone non siamo più, tali
riflessi sono stati oscurati.
Non riesco più nemmeno a godermi un film,
figuriamoci stare in spiaggia d’estate. Metto su un
dvd e per i primi 20 minuti tutto è normale, guardo
154
quella meraviglia umana che è Brad Pitt, quegli 85
chili di fascino liquido condensatisi in George
Clooney, quella trascendenza divina emanata dal
volto di Jude Law, quell’istinto materno che mi
prende quando ho davanti Matt Damon, e tutto mi
piace e mi appassiona. Poi magari i due protagonisti
partono per una vacanza e comincio a pensare: con
quali soldi? Come fanno? Vanno a cena ed io sola mi
chiedo: e adesso chi pagherà il conto? Scompare di
colpo tutta la languida voglia di fidanzarmeli tutti e
rimango sola con la mia collera gelida.
Non avrei dovuto colpire quel ragazzo, lo so bene.
Sono sincera però: è come se avessi tagliato il labbro
superiore ad ognuno dei presenti e mi sento meglio,
liberata. Poi domani verranno i rimorsi, c’è tempo.
Ne ho tantissimo io, non so che farmene di tutte
quelle ore che passano sempre troppo lentamente.
Riccardo è diverso, è più raro che perda la testa.
Sarà perché conosce il codice civile e quello penale
ed è abituato ad interpretare ogni comportamento
con il contrappasso della pena inflitta. E’
autocontrollo o paura? Forse il confine è più labile di
quanto io pensi, forse lui è più maturo di me in
fondo. Ma ci trasciniamo allo stesso modo, anche se
lui lo fa con più speranza ed energia. Spera sempre,
lo so. Può dirmi di non credere a niente, può
simulare che non gliene importi, ma l’attesa
fiduciosa lui non l’abbandona.
Mi ricordo di quando lo conobbi, ad una festa.
Quella sera avevo completato il mio primo biennio
da scienziata politica ma la cosa che più mi attraeva
era un libro di accordi di Rino Gaetano, caduto da
155
uno scaffale della padrona di casa. Riccardo mi vide,
cercò di ricordare in quali altri posti mi avesse
incontrata prima d’allora, mentre lo faceva gli
sovvenne che ogni volta gli ero piaciuta abbastanza,
si accorse che quella sera gli piacevo ancora di più e
sedette. Si presentò e non parlò d’altro che non fosse
la vita di Rino Gaetano, l’infanzia in Sardegna, la
droga ed il carcere, la fuga a Kathmandu, gli amori
omosessuali ed il trionfo in America al seguito dei
Pink Floyd. Tutto assolutamente e rigorosamente
falso dalla prima consonante all’ultima vocale, con il
nobile e romantico scopo di farmi ridere, perché
ridendo gli parevo più bella, mi disse. Me ne
innamorai anch’io, non subito, ma fu amore.
Schiarisce il nero del catrame in grigio
pulitissimo che non sembrerebbe asfalto, a prima
vista. La luna è visibile e ci accompagna, posso
sentire la sua luce ad occhi chiusi sulla mia faccia.
Prego Riccardo di lasciarmi un attimo riprendere
fiato perché è certo che una ulteriore ondata mi sta
cogliendo. La mia mente associa un oggetto ad un
altro passando da un’immagine ad un’altra
completamente avulsa dalla precedente. Noto il
grigiore dell’asfalto colorato dalla luna e penso alle
lavagne di scuola, la cosa più simile al bitume che la
mia mente ebbra mi suggerisca. Sono talmente
ubriaca che ho bisogno di un altro codice
interpretativo per esprimermi e capire. Catalogo
oggetti e sensazioni in un elenco che mi pare
naturalissimo scrivere a gesso bianco sulla lavagna,
e inconsciamente lo accetto con tranquillità, come
fosse normale scrivere una lista di visioni su una
156
lavagna inesistente. E’ tutto un catalogare, a partire
dalla polvere che mi ha insozzata accanto al
cassonetto. Che schifo.
Prendo il primo gessetto bianco e scrivo: lavare a
fondo pantaloni di velluto e maglioncino. L’idea
delle albe nere riesce persino a turbarmi, mi chiedo
se ci sia un orario adatto per vederle meglio; chiaro:
all’alba. Per essere sicura di non dimenticarlo scrivo
albe nere e aggiungo anche: pioggia. Infatti piove,
pioviggina. Però più che lentamente, quasi a non
accorgersene, come a dire: “Ma chi è che m’ha
sputato in testa dal sesto piano?” e poi in realtà non
ci sono né sesti piani né palazzi. Solo il muro
d’intonaco bianchiccio che adesso costeggiamo,
infinito come se corresse anche lui, e si fermasse
solo quando intravedo un cancello arancio. Come si
fa a verniciare d’arancio un cancello? Protesterei con
Riccardo se solo riuscissi a parlare. Lo scrivo sulla
mia lavagna. Insomma: di palazzi alti sei piani non
ce ne sono. Quindi la goccia sullo zigomo destro non
è saliva, è pioggia.
Infatti piove, pioviggina. Più che lentamente.
Gesso bianco su lavagna color asfalto, scrivere:
Piove, pioviggina. Più che lentamente.
Burp, quanto sono ubriaca. Ma perché è andata a
finire così? Ci fosse almeno quella stronza sulla
quale vomitare. Scrivo: mai più rispondere al
telefono a Silvia. Mi fermo, ci penso bene e aggiungo
quella stronza di Silvia e metto un punto così tondo
e così marcato da spezzare in quattro il gessetto.
Raccolgo da terra ognuno dei quattro piccoli
gessetti ed invento un nuovo elenco. Il titolo è: Cosa
157
posso fare io. Quattro cose posso scegliere tra le
migliaia di possibilità, una per ogni gessetto. Decido
per: scrivere libri, cantare, insegnare nelle scuole,
candidarmi ed essere eletta alle amministrative.
Certo scrivere libri sarà pure facile, cantare sarà
pure facile, insegnare nelle scuole sarà pure facile,
essere eletta sarà facilissimo. Ma bisogna nascerci,
questo è il punto. Tutti nascono per qualcosa.
Io invece è come se fossi irrimediabilmente
attratta dalla scrittura, se non potessi farne a meno
nei giorni di sole e di pioggia, di vento e di bonaccia,
di notte e ad ora di pranzo, e poi mi ritrovassi seduta
ad una scrivania, con un miliardo di penne e
centomila fogli bianchi. Piove sui fogli che si
bagnano, ma piove anche sulle penne che non
scrivono, porca l’oca di un miliardo di penne ne
scrivesse una. Nulla, tutte scariche, vuote
d’inchiostro incatramato ai lati di quel tubicino che
se avessi proprietà di linguaggio chiamerei refill
senza bisogno di andare a cercare su internet o
chiedere a tutti qui intorno. Ma già, a parte Riccardo
non c’è nessun altro. Non scrivono, e questo solo
con carta e penna, se usassi un computer con tutta
quest’acqua salterebbe il cavo dell’alimentatore e
siccome sono saggia come una hooligan non avrei
nemmeno un gruppo di continuità. Scrittrice che
perde tutti gli scritti a causa di un temporale, fallita
prima ancora di iniziare, che bellezza.
Cantare. Neppure l’idea ne avrei, se solo mi
piacesse farlo. Ora che non mi importa avere la voce
di Amy Winehouse posso anche immaginarmi
seduta davanti a un falò sulla spiaggia, già
158
impossibile di suo, a scaldare l’ugola per tre, quattro,
anche cinque ore filate. Poi quando penso a me
stessa come una che per vivere potrebbe incidere
dischi, subito mi crolla la voce, mi si spezza la
melodia, mi si spacca il microfono congelato dalle
note. Mi pioverebbe in gola addirittura, ed io a
soffocare per le gocce andate di traverso e maledire
Amy Winehouse e quella cagna della sua amica che
un giorno le avrà pur detto - la piccola Amy non
avendo più di 11, 12 anni – hai una voce magnifica.
Perché è logico che un’amica così dovrà pure averla
avuta, ‘sta stronza. Quindi nulla di fatto, piove anche
sul microfono indurito dal gelo che l’acqua, poco a
poco, scongela. Lo scopro sempre più flaccido,
sempre di più… Bleah! Lo getto via, proprio accanto
alla mia feroce determinazione ad insegnare
letteratura o ingegneria dei materiali, o a
specializzarmi in teoria e pratica dell’apprendimento
con una ricerca sulle inflessioni dialettali dei
palermitani in Spagna. Quelli che dicono tengo que
dddecir con più D di Domodossola che se si
chiamasse Domododdola.
Ecco, sta tutta qui la mia risolutezza nel diventare
professoressa, sotto l’acqua che scroscia, sotto il
fango che comincia a colare dai marciapiedi leccati
dai cani di passaggio, accanto a quei 100 mila fogli
bianchi A4 ormai ridotti ad ammasso informe,
accanto al miliardo di penne che non scrivono ed al
microfono
fattosi
flaccidume
patentato
a
denominazione di origine controllata e garantita.
Cerco di ricordare, per quanto possa la mia
ragione completamente andata, per quale motivo io
159
non verrò mai eletta alle elezioni amministrative del
mio Comune. Ci penso ore, giorni, settimane, ad
ogni istante, ad ogni battito di ciglia, ad ogni limare
di unghie, fin quasi a non pensare a nient’altro,
dimenticando tutto il resto, mangiare, dormire,
lavarmi, telefonare, inviare curriculum vitae, fino a
farmi del male tra i capelli e la collana di perline
false turchesi. Perché non verrò mai eletta? Perché?
Forse perché per essere eletti sarebbe stato
necessario interessarsi alla vita politica del proprio
Comune già ai 16 anni. Magari farsi conoscere in
giro, stabilire contatti, nelle scuole, negli uffici, nelle
singole case, di modo che la sera a cena, sotto
elezioni, i commensali si domandassero curiosi:
“chissà se Alice è candidata?”. O magari perché,
ammettendo per un attimo che io fossi stata iscritta
ad un movimento giovanile già all’età di 16 anni,
adesso non avrei il denaro per affrontare una lunga,
lenta e difficile campagna elettorale? Oppure magari
perché, compiendo io tutti gli altri requisiti, al
momento della scelta delle candidature il partito, il
mio partito, quello per il quale avrei volentieri
lottato tutta una vita, sacrificando ad esso amori,
amicizie e ferie pagate, manovrato da una corrente a
me ostile, mettesse ai voti la mia candidatura e
riuscisse a tirarmi giù? O persino… e mi distruggo la
mente, mi guasto l’appetito, mi secco la pelle della
fronte cercando un motivo valido senza capire che
io, la soluzione all’enigma, la risposta al quesito, ce
l’avevo chiarissima davanti agli occhi. Ma non la
vedevo. Ed era cioè che a me, in fondo in fondo, non
me ne frega proprio un cavolo di un cavolo di un
160
niente del cavolo delle cavolo di elezioni
amministrative del cavolo che si svolgeranno nel
mio cavolo di Comune del cazzo. Ovvero: non
m’importa. E’ veramente difficile per me trovare
delle parole per spiegare quanto poco mi appassioni
la politica locale.
Cancello l’elenco, era ovvio non mi portasse a
nulla. Anzi, per fare un lavoro più completo giro la
lavagna in posizione orizzontale, che l’acqua la
inzuppi e cancelli tutti gli elenchi.
Sono la pars destruens del mio pensare ubriaco,
tutto cancello: le vecchie abitudini, le mie
convinzioni, le parole degli altri. Via, via, a colare dai
lati, gesso bianco che non servi a nulla. Un reset
totale, uno 00:00 da cui ripartire, insieme se ci sarà
qualcuno al mio fianco, da sola se così dovrà essere.
Che tutte le mie certezze se ne vadano assieme
all’acqua piovana, scivolando giù, verso il centro
della Terra. Che anche lì, chilometri e chilometri
sotto i miei piedi, ci sia qualcuno che per farmi un
favore sminuzzi le gocce di gesso che per casualità
rimanessero intere. All’atomo bisogna arrivare, al
quark delle frasi fatte.
Allora distruggere tutto, lavagna compresa.
Siamo cresciuti con il pupazzo rosa di Canale 5 e
adesso Bim Bum Bam va sezionato, masticato e
digerito. Dimentichiamoci semplicemente, senza
clamore, di tutte quelle facce che abbiamo visto ogni
giorno, ogni santissimo giorno, all’ora di pranzo,
rigirando la forchetta per raccogliere gli spaghetti al
basilico. Mai più spaghetti, d’accordo magari
161
qualche volta si, ma sradichiamo tassativamente
tutte le piante di basilico a portata di mano.
Mai più tg all’ora di pranzo, mai più giornali. Non
ci servono i pareri raccolti tra una cena a piazza
Navona ed una presentazione chic. Mio Dio, mai più
dire chic. Non voglio più parlare come mi ha
insegnato la tv, io dirò snob, non chic. Anzi no,
nemmeno snob, io non dirò nulla, sto zitta e basta,
che parlino gli altri così li zittisco con
un’occhiataccia.
Distruggere la discoteca il sabato sera e i cocktail
a dieci euro. Entrare con la riduzione donna,
accompagnata diamine, ovvio, e ballare per una
buona (perché buona? Normale!) mezz’ora. Fingere
di aver dimenticato l’ombretto in macchina e
guadagnare l’uscita, non tralasciando il gesto di farvi
apporre il timbro d’entrata dal personale
all’ingresso. Il consiglio è di offrire il braccio destro,
sempre. Rientrare. Danzare ancora per 15 minuti
esatti, facendo bene attenzione a non affaticarsi
troppo. Poi avvicinarsi lentamente alla consolle,
arrampicarsi per tre scalini, salutare il tizio accanto
al deejay come fosse un compagno delle elementari,
mettergli allegramente le braccia al collo e riempirlo
di baci, estrarre l’attrezzo dalla pochette e spaccare
tutto a martellate fino a quando il deejay non si sia
riavuto dallo shock. Tirare alla folla una piccola
manopolina del mixer volata via per caso,
appoggiare delicatamente il martello sul banco e
scappare velocissima verso la toilette. Raggiungere
al più presto l’esterno, possibilmente da una
finestrella. Poi rientrare, grazie al timbro
162
precedentemente apposto dal personale sul polso
destro.
Dirigersi speditamente verso il terzo lato bar,
adesso il più scoperto, visto che persino i barman
saranno stati distratti dall’accaduto. Saltare sul
bancone e rovesciare sul pavimento lucido quante
più bottiglie possibile. Poi arrendersi alle botte dei
superuomini della security, sperando nel frattempo
siano arrivati almeno i carabinieri, perché rimanere
nelle mani dello staff interno significherebbe
violenza sessuale ripetuta.
Distruggere l’immagine che ci si è fatti di sé.
Ogni giorno di ogni mese di ogni anno, ciò che mi
è passato attraverso, ciò che mi è capitato, mi ha
convinto di possedere un certo carattere. Bene:
distruggerlo. Io non sono il mio carattere, io non
voglio essere ciò che mi è capitato, semplicemente
perché io non l’ho mai scelto, tutto quello che ho
vissuto. Fosse stato per me, avrei portato una pecora
nell’appartamento di Bono Vox e lo avrei convinto a
tosarla con me. Poi ne sarebbe scaturito un disco e
nel booklet gli U2 avrebbero inserito la mia foto e
quella di Lucy, la pecorella. Ma ciò non è stato e mi
dispiace anche tantissimo, ma io non posso farci
niente.
Certo, sarebbe più facile procurarsi una pecora,
raggiungere Roma con la Uno scassata, pubblicare il
libro e scrivere di aver legato Lucy ai catenacci di
Moccia, a ponte Milvio. Già tosata (per mano di
Bono Vox), si potrebbe spargere la voce tra i precari
e i disoccupati della capitale e arrostirla seduta
stante, ancora incatenata alle frasi d’amore. Ecco un
163
amore serio, completo, così profondo da nutrirti,
così odoroso di pecora arrostita da inebriarti. Una
caterva di disoccupati senza mamme, papà e
paghette settimanali, tutti brillanti, che strappino
famelici i brandelli quasi cotti di Lucy e brucino, in
mezzo alla brace in cottura, i bolli auto e le
assicurazioni a mille euro l’anno per una Fiat Uno
scassata, il triplo del suo attuale valore di mercato
qualora fosse provvista di un borsellino dimenticato
con cento euro dentro.
Distruggere anche la Fiat Uno, tanto è così
scassata che basta una mezz’ora. Per la revisione
biennale Riccardo è tornato a casa con un preventivo
da film porno. Cuffiette scatola sterzo 47 euro,
marmitta 110, lampade di posizione 12, fascetta 4,
collaudo 75, perno sferico 99, totale mano d’opera
94,50, il tutto ivato per un totale di 530, scontato
500. Abbiamo chiesto se in cambio poteva andare
bene un rene sinistro.
Mangiamo poco e abbiamo fame di vivere e
correre sui prati: per questo accendiamo la tv e
guardiamo il campionato di serie A, dice Riccardo.
Bene, dico io, allora tagliamo con un paio di forbici
robuste, come per anni abbiamo visto fare alle carte
di credito non solvibili dei film americani, tutte le
card per le tv a pagamento. Tutto gratis vogliamo,
tutto in internet, per tutti.
Basta con i libri a pagamento. La cultura è una
goccia di sudore nebulizzata girovagante nell’aria, a
volte si posa su una farfalla, altre sul corpo infettato
di una mosca, comunque è sempre libera e
svolazzante. Non abita da me, è certo, ma non si
164
posa nemmeno in quegli uffici che non mi
assumeranno mai, o tra i capelli di un cantante rock
che canti in playback.
Ma, ecco: in fondo, dove abito? Non lo so
nemmeno io, sono cittadina del mondo, ho tante
suggestioni che mi tirano per la cintola del cappotto
ma non so da che parte sceglierò di andare.
Rimanere in Italia? Spaghetti, vino, mafia, vino,
cuccuruccuccù paloma. Ubriaca all’ennesimo livello,
non c’è che dire. Brava Alice, brava, un’altra serata
così e ti tolgono in anticipo i figli che ancora non hai
partorito. Ad infinitum te li tolgono, tu li fai e loro lì
pronti a prenderseli. Andare a vivere in Catalunya?
Mah! Si ma, a parte questo, dove stiamo andando
Ric? E’ buio, piove!
Mi sembra di essere a Barcelona, scendendo la
Rambla del Raval verso Carrer de Sant Ramon.
C’è un brusio continuo a qualsiasi ora del giorno e
della notte, ed un puzzo intenso di rifiuti macerati al
sole. Non corre nessuno, tutti camminano tranquilli,
ma sono così diversi l’uno dall’altro e percorrono
direzioni così opposte che è come se creassero
confusione così, solo per il fatto di esserci, senza
impegnarsi in particolari occupazioni. Anche tutta
questa gente macera al sole come i rifiuti, riesco ad
isolare mentalmente le loro gocce di sudore che
cadono, che inzuppano le camicie bianche, persino
le mutande e i calzini bagnati.
Gli odori non sono solo spiacevoli, ci sono anche i
pachistani che preparano i loro döner kebab, un
sogno adesso, nonostante sia ben bevuta ed abbia
mangiato di tutto. Li intravedo dal marciapiede, con
165
le salse allo yogurt, il pepe verde, le cipolle.
Qualcuno mi chiama con un fischio, mi volto e mi
dice “Vienes?”: mi scambiano spesso per una
prostituta e non hanno nemmeno molti torti. Non
per la mia condotta morale, figuriamoci, piuttosto
perché qui di putas è letteralmente pieno. Tutte
giovanissime, bianche, con gli occhi di vetro
luccicante di luce che non splende ma acceca. E’ un
fossato tra te e loro, quel baratro di pupille, tu che
non immagini neanche una piccola parte di tutti
quei chili di rifiuti macerati al sole che sono costrette
ad ingoiare ogni giorno della loro esistenza infelice.
E tutti continuano ad andare, senza correre, in
direzioni il più possibile opposte, come se quella
ingiustizia,
quell’infinita
miseria
che
puoi
intravedere sull’orlo di quegli occhi vitrei, in fondo
non li riguardi da vicino, e fosse solo qualcosa che
purtroppo avviene perché avviene, che è così perché
è così e basta.
E’ quello il momento in cui penso a quanto
quest’umanità sia colpevole, colpevole di tutto, e non
abbia e non meriti alcuna possibilità di redenzione.
Anch’io sono colpevole. Invece di andare da
qualcuna di queste ragazze, prenderla per un braccio
e dirle scappa con me, vieni via, da oggi ti nascondo
io. Lavorerò per te, ti manterrò, non dirmi
nemmeno come ti chiami, sto ancora cercando un
lavoro decente che mi faccia sentire realizzata e
felice. Sono una stronza anch’io alla fine, egoista né
più né meno degli altri, anche se ho parole dolci e
benevole nei confronti delle infelici. E allora? Con le
166
parole non è mai sopravvissuto nessuno, tantomeno
una prostituta sfruttata e prigioniera.
Poi mi fermo un attimo, rallento l’impeto, e
risolvo che in realtà le parole sono importantissime
e possono davvero cambiare tutto. Se usassimo
parole più pacate, toni meno accesi e volgari, magari
potremmo anche riscoprire un modo di vivere più
dignitoso. Si potrebbe cominciare a distruggere
qualche vocabolo. Si potrebbe provare ad eliminarne
uno, magari ne cadrebbero altri via via, scivolando
nell’oblio della storia. Se per esempio provassimo
con la parola confine probabilmente entro due o tre
giorni non avrebbero più senso parole come
straniero o clandestino. E magari con una reazione
a catena degna d’un terremoto dell’ottavo grado
anche alcuni ragionamenti delle mie ex colleghe
d’università verrebbero facilmente disintegrati.
Discorsi su questa diffidenza verso gli altri, su
questo orgoglio nazionale da coppa del mondo di
briscola, come fosse un pregio e non una pura
casualità essere nati in un posto piuttosto che in un
altro.
Possibile che non esista un monte altissimo e
raggiungibile solo in determinati mesi dell’anno?
Una montagna sacra frastagliata dal vento e
cristallizzata dal gelo, regno di una spelonca nella
quale un santone anziano abbia eletto dimora.
Pulmini in partenza ci conducano lieti alle pendici
del massiccio che nella bella stagione perde il suo
ghiaccio. Poi comincia l’arrampicata con corde,
picchetti, zaini e borse termiche, borracce, ramponi
e imbragature, panini e Nescafé, molto più dura di
167
quanto pensassimo ma comunque fattibile
nonostante io mi smagli una calza. Non sono la sola,
in realtà ho accanto due ragazze irlandesi, uno
spagnolo, cinquanta cinesi ed un tunisino che non
sapeva si dovesse percorrere a piedi l’ultimo
durissimo tratto ed era venuto con le infradito.
Ciononostante, sfiniti, giungiamo.
Ma il santone per cui siamo qui, l’unico uomo in
grado di darci risposte, nonostante la nostra
impresa, tace, non ci saluta nemmeno e segue nelle
occupazioni di sempre: raccogliere bacche, in special
modo. Tre giorni attendiamo, al sole che brucia di
giorno e alla neve che di notte ci ghiaccia, tre giorni.
Ma alla fine siamo premiati, io, le due irlandesi, il
ragazzo spagnolo, i cinquanta cinesi ed il tunisino
dai piedi di piombo: il mentore parla.
Ci dice: “Uomini stolti, non so cosa dire per farvi
capire che la strada è sbagliata. Cambiate i vostri
punti di riferimento, raddrizzate lo sguardo, voltate
la testa. Pensate soltanto se per ogni pisciata si
dovesse pagare una tassa!”
Ecco discendere l’illuminazione sulle nostre
menti offuscate, obnubilate, bastavano un po’ di
fantasia e meditazione, mi dico perplessa.
Non devo perdere la concentrazione. Anche se ho
dovuto fermarmi tre volte, con l’aiuto di Riccardo
siamo ormai quasi sottocasa. La pioggia non ha
smesso, ha continuato a cadere lenta e
nebulizzandosi nell’aria ci ha avvolti e rinfrescati. A
me a tratti fa l’effetto di un caffè e cornetto: mi
sveglio completamente, percorro 50 metri a passo
svelto, poi ripiombo nella mia atrofia etilica.
168
Reagisco alle mie gambe con un impeto che mi
risulterebbe molto utile il giorno in cui cominciassi
a scrivere il romanzo. Lo voglio proprio caldo,
incendiario si, incendiario dev’essere, ma con toni
pacati e carezze ogni tanto, come si addice a una
ragazza di trent’anni, né più bambina né ancora del
tutto signora. Riuscirò a scuotere me stessa prima di
farlo con gli altri? Uscire dai miei formalismi e
parlare in tono diretto, questo ci vuole. Ti voglio
infiammare, tu accenditi in fretta perché queste
pagine A4 riciclate non resisteranno a lungo. Ruba
un accendino dal bancone del tuo tabaccaio, no non
subito, aspetta solo che si volti a prenderti gli Avana
e rubalo, rubalo, ora! Poi di’, con la più olimpica
calma di sempre, no grazie, a pensarci bene il fumo
fa male. Comunque grazie lo stesso ed esci. Muoviti,
portalo qui, perché io sono sola e ti aspetto, ho
freddo e fame e se non arrivi finisce che ceno con
questi fogli. Li sminuzzo, li unisco all’acqua che non
smette di cadere o a quella salata di mare, mi rigiro
nella sabbia e me li caccio in bocca a pugni interi,
come coriandoli nutrienti.
Sbrigati e accenditi, di speranze, ma ancor più di
rabbia e sicurezza di poterlo vedere più distinto, il
tuo futuro che tuttavia tarda. Muoviti! Muoviti!
E se invece il mio periodare non piacesse?
E se io, aperto un blog per parlare del libro e
diffonderlo, cominciassi a ricevere commenti
denigratori, rimanendo vittima delle mia stessa idea
acuta? Un’arma a doppio taglio, una spada che
ferisce? Già lo vedo: qualcuno obietterà che il libro
in realtà è un libercolo, snocciolandone i difetti ad
169
uno ad uno con professionalità e chiarezza. Di come
non ci sia una sola, dicasi una, descrizione del cielo e
degli ambienti durante tutta la cavalcata, come se al
lettore, da essere inferiore qual è, non fosse dato
sapere in quale punto del mondo ci si trovi in questo
insopportabile romanzo, e dovesse solo stare lì a
sorbirsi tutti quei ragionamenti senza meritarsi
nemmeno una piccola azione, un gesto! Di come la
penna che ha scritto non si sia degnata di
approfondire un personaggio, limitandosi a
collezionare una serie di figure abbozzate e vuote,
con l’unico intento di riempire un faldone e
ritardarne la fine. Non parliamo poi di quest’io
narrante che a volte muta prospettiva, come fosse un
romanzo d’artista, ma lo fa solo quando l’artista in
questione se lo ricorda, e quindi il risultato, più che
un’opera d’arte, è un esercizio di stile tra l’altro
nemmeno riuscito.
Le annuso, critiche feroci di tal sorta, talmente
mirate da non lasciarmi scampo, inchiodandomi alla
mia dichiarata incapacità. Chiunque considererebbe
cosa normale l’abbattersi, il lasciar stare, e
inghiottendo qualche singhiozzo darebbe davvero
ragione alle critiche. Effettivamente, direbbe, hanno
piena ragione, se sto qui a trent’anni a risparmiare
20 centesimi mentre gli altri accendono mutui, sarà
anche perché non so scrivere, perlomeno non più del
mio benzinaio di fiducia. Raccoglierebbe quindi con
gli occhi lucidi ed una rete da pesca in petto le
pagine sparse nella stanza, gli appunti confusi, il
manoscritto intero. In un attimo l’addio per sempre
si consumerebbe, dalla stanza alla raccolta
170
differenziata della plastica. Si, altro che carta, nella
plastica getterebbe i fogli.
Ma io non lo farei.
Noterei il commento, spegnerei il pc e la abatjour e me ne andrei a dormire. La mattina, dopo il
caffè, risponderei: ma scusi, se davvero sentiva la
necessità di un romanzo che descrivesse il cielo e i
luoghi, un romanzo naturalista diciamo, con
personaggi scolpiti a fondo fin nei più pruriginosi
dettagli, persino con qualche eclatante azione,
qualche fuga di notte, qualche gesto violento,
qualche sonoro rutto, ma perché cazzo non se lo
scrive da solo, invece di rompere l’anima a me,
disoccupata e morta di fame?
Ecco, così va meglio, sfioro una pozzanghera e
sono persino pronta a cantare. Ma cosa? Non mi
viene in mente niente mentre a cento metri vedo già
il mio balcone, vorrà dire che canterò l’inutilità della
vittoria e l’apoteosi delle medaglie di legno.
Impiegarmi in una ditta che produca stufe a pellet e
semplicemente rispondere svogliata alle chiamate,
pochissime, durante le quattro ore di lavoro
quotidiano, questo farò. Tornare a casa e prepararmi
un Martini con l’olivetta, soddisfatta e beata per non
aver fatto nulla. Canterò l’inopportunità di una
carriera illuminata e dei sacrifici necessari per
avanzare in essa, canterò la mia saggezza per essere
giunta a queste parole: che il lavoro non abbia
alcuna importanza è una verità non accessibile a
tutti, e comunque non prima di anni di dura ricerca.
Ciò che importa è il denaro, non il lavoro.
171
Canterò l’opportunità di trarre da altro le proprie
soddisfazioni di essere umano, la cucina, il ballo, il
sesso, e gocciolante appena uscita dall’acqua
stendermi al sole su una spiaggia di pietra pomice.
Avete applaudito la flessibilità nel mercato del
lavoro, televisivi e contenti avete approvato i
contratti precari per i vostri figli, attenzione – mica
per voi – per i figli, vi siete difesi dalla crisi
radicandovi alle postazioni, bravi: adesso aspettatevi
un futuro in cui nessuno di noi faccia nulla per nulla.
Solo soldi vogliamo: teneteli pure voi i contratti,
rimanete tranquilli sulle vostre sedie rotanti da
ufficio. Soldi vogliamo, nient’altro: 20 euro per
cedere il posto agli anziani sul bus, 50 per non
lasciarvi cadere da un ponte, 1000 per avvertirvi se
arriva un tornado, sennò tutti zitti andremo a
rifugiarci in casa veloci.
Soldi vogliamo, non carriere. Prego: tenetele voi.
Riccardo mi sta insultando, le sue parole mi
entrano nel cervello come barchette che galleggino
in una gita al lago di Spumantia. Prima di capirne il
significato sono costretta ad eliminare decine di
finestre di pop-up che si aprono sul discorso
principale. C’è di tutto: oroscopi, previsioni meteo,
ultimi tg disponibili e tanta, tanta pubblicità.
Elimino tutto e rimane solo l’unica cosa che lui abbia
detto: “’Sta macchina sembra essere stata
parcheggiata da un alcolista anonimo, guarda come
l’hai messa storta.”
In verità la vedo drittissima, sarà che sono io
molto, molto, molto storta. Insiste sul fatto che è
necessario sistemarla bene adesso, prima che
172
qualcuno ad alta velocità ce ne porti via un pezzo.
Voglio andare a letto ma non sente ragioni, devo
forse vomitare ma vuole che gli tenga compagnia.
D’accordo, che m’importa, io ho il mio libro a cui
pensare.
In copertina forse potrei mettere una foto della
Fiat Uno scassata parcheggiata storta. Oppure di me
che, dal limite dell’area, batto un calcio di punizione,
io, unica donna nella seria A di calcio maschile: e
tutti gli italiani a guardare in tv, e tutti i calciatori e
pararsi le palle.
Lo intitolo Alice, di professione aspirante. Perché
io in pratica faccio quello di mestiere: un giorno
aspirante cassiera, un giorno aspirante bancaria, un
giorno aspirante infermiera e sempre e comunque
aspirante aria.
Penso al libro io, altroché. Al blog, al sito, al
silenzio iniziale. Poi piano, lentamente, i contatti che
crescono, qualche email che arriva… e alla fine la
sentirò la confusione. Un ronzio come di mille api
comincerà a infastidirmi a volume bassissimo,
s’innalzerà adagio, ogni giorno di più, sino a
raggiungere livelli per me impensabili. Non mi
abbandonerà più questo baccano, ogni giorno un
caffè con qualcuno, ogni minuto qualcosa da dire, io
che appartengo a quella generazione che non ha mai
potuto smettere di pensare in lire.
Arriverà anche per me la gloria, anch’io, un
giorno, potrò esser precaria!
Che sogni. Non so nemmeno se lo scriverò mai, il
libro.
173
Salgo in macchina dal lato passeggero e
nonostante il percorso sia lungo solo venti metri
abbasso il finestrino: aria, aria.
E poi se dovessi scrivere un libro mi ci vorrebbe
un sacco di tempo per riportarlo al pc, visto che
scrivo solo a penna. Una fatica che mi stancherebbe
subito. Dovrebbe essere un libro diverso, strambo,
persino senza fine. Si, senza fine, un libro
incompiuto. Sono io che decido, non lo faccio finire
il mio libro, oh! Tutto incompiuto voglio.
Che sia incompiuto il cinema, che lo siano i bei
dischi, le tragedie greche, che siano incompiuti tutti
i romanzi da ora in poi pubblicati.
Ma che si compiano, e comincino davvero,
finalmente, le nostre vite vere.
Scendo dall’auto dimenticando di tirare su il
cristallo, e i manifesti
NonFine
174
175
176
177
178
Sommario
Capitolo 1……………………………………… 7
Capitolo 2……………………………………… 43
Capitolo 3……………………………………… 81
Capitolo 4……………………………………… 113
Capitolo 5………………………………….….. 151
179
Finito di stampare il prossimo anno
in una copisteria di un Paese
che ancora non è stato fondato.
180
181
182