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Il presente ebook è rilasciato sotto la licenza Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate delle Creative Commons. Per conoscere le condizioni di questa licenza: creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/deed.it Alice senza niente – romanzo di Pietro De Viola 1a Edizione digitale ottobre 2010 La foto di copertina è del mio amico Jorge Rua Alice senza niente è un romanzo distribuito gratuitamente sul web. E’ impossibile sapere con certezza quante persone lo leggeranno. Voglio ringraziare sin da ora quanti saranno così cortesi da segnalarmi via email di averlo scaricato. [email protected] 2 blog alicesenzaniente.splinder.com siti alicesenzaniente.altervista.org wix.com/alicesenzaniente/alicesenzaniente facebook Pagina personale Alice senza niente Pagina ufficiale del romanzo Alice senza niente – Romanzo gratuito online twitter www.twitter.com/alicesenza mail [email protected] 3 4 a Maria 5 6 1. Sono seduta in pullman, a sinistra, proprio accanto al finestrino. Stamattina l’autista sembra aver perso tutta quella tranquillità e lentezza irrazionali che l’hanno sempre contraddistinto, da quando lo conosco io almeno. Corre. Pare mangiarsi la strada, questo carrozzone di lamiera sul quale sto seduta, ad ogni curva e ad ogni galleria. Rende quasi impossibile la lettura, con tutta quella luce fastidiosa da festival tecno. Lui, l’autista, non si preoccupa di nulla, nemmeno del doppio senso di marcia in alcuni tratti dell’ autostrada da terzo mondo, e corre. Prima, per un attimo, dallo specchietto mi è sembrato uscisse qualcosa di simile ad un ghigno che si stampava sulla sua faccia rugosa fatta di pelle secca. Per un attimo ho avuto paura e mi sono guardata intorno. Mi sento serena solo quando nessuno mi si è seduto accanto. In genere faccio di tutto per restare sola. Appena salita cerco subito il posto che secondo me allontanerebbe chiunque e mi ci siedo, adagio la mia borsa sul sedile di lato e ruoto la testa dalla parte opposta ai passeggeri in entrata. Mi vedono quasi assente credo, o magari pensano che la borsa 7 occupi il posto di qualcun altro e rinunciano a chiedere: “Signorina, è libero?” Magari andasse sempre così. I più fastidiosi sono certi buzzurri che si accomodano senza respirare, senza domandare nulla, così. A volte sono talmente distratta che mi riesce facile il non sentirli, e mi accorgo solo in seguito di avere accanto un autentico sconosciuto. Per questo metto la borsa, volenti o meno dovranno chiedere permesso prima di sedere ed io per assurdo potrei anche rispondere: “No mi dispiace, sto aspettando mia madre. Salirà alla prossima fermata.” Ma non ho risposto così cinque minuti fa, purtroppo. Mi si è avvicinata questa vecchietta vestita da confetto, tonda e tozza, sorridente e dall’aspetto familiare. Poveraccia, sembrava reggersi in piedi a stento, non potevo inventare nessuna scusa. Le ho fatto posto. L’avessi anche solo sospettato per un attimo che specie di vecchiaccia fosse, mi sarei alzata e diretta verso i sedili in fondo. Ride, parla in continuazione con tutti ad alta voce, come se in questo bus esistessero solo lei e la sua faccia felliniana, come se gli altri passeggeri avessero tutti la sua identica voglia di ridere e comunicarsi emozioni. Io invece sto male. Ho la solita nausea di ogni mattina, la stessa acidità di stomaco. Ad ogni curva che questo autista-valentinorossi taglia ghignando una nuova ondata di malessere mi sale fin su gli occhi e la testa. 8 Avrei bisogno di una bacinella per vomitare ed al solo pensiero sto peggio ancora. Cerco di distogliere l’attenzione dalle sue chiacchiere apocalittiche e poso gli occhi in linea retta sul dorso nero del sedile che mi sta davanti. C’è un Giulia ti amo a caratteri microscopici che uno studente poco sicuro di sé deve aver impresso ormai anni fa, a giudicare dalle condizioni pessime del bianco della scritta a vernice di scolorina. Accanto c’è una rosa così netta e definita che vista da lontano potrebbe sembrare vera. Poi vedo solo bianco. E’ un attimo, e sono come ricoperta da un drappo bianco. Mi giro di lato, la vecchia continua a gracchiare e ridere, stavolta ha proprio fatto amicizia con uno studente di una qualche ingegneria e parlano di analisi. E’ così fastidiosa e invadente che non ha alcuna vergogna nel chiedere in prestito il libro. “Per imparare qualcosa di nuovo” dice. Ma cosa vuoi imparare a quell’età? protesto in silenzio, io che adesso soffro anche di razzismo estemporaneo dovuto al malumore. Comincia a leggere ad alta voce intere pagine di assiomi, teoremi e dimostrazioni incomprensibili, ed ha la faccia di chi stia proprio intendendo ciò che legge. Sembra che nessuno ne sia disturbato, anzi sui sedili posteriori scopro altre pensionate che, come lei, ridono e parlano e ridono e leggono libri di matematica e ancora ridono dietro il loro trucco pesante e le mammelle sfatte abbondanti che dondolano nel borotalco. Tutto il bus è un circo ed io sto male, mentre gli adulti cominciano a piangere, i bambini ridono e gli studenti in cravattino si baciano tra loro. 9 Una maledetta mano invisibile le passa un libro di economia politica, ed è la fine. Comincia a riassumermi all’orecchio destro, rapidissima, tutto il programma di microeconomia. Parte dagli assiomi letti nel volume, si inarca sull’abc dello studio di una funzione e poi si lancia col trapezio sulla teoria del consumatore, domanda e offerta e relative funzioni, vincolo di bilancio, curve d’indifferenza, saggi marginali e… si ferma. Si sarà stancata? No! Ricomincia: elasticità della domanda, elasticità incrociata rispetto al prezzo di un altro bene, persino con l’elasticità rispetto al reddito cerca di sfondarmi il timpano! Tira fuori la lingua, dà una leccata agile al mio lobo destro e segue con lo studio dei mercati perfettamente concorrenziali, il monopolio e l’oligopolio. Gli isoquanti e le rette di isocosto! Non finisce più! Ancora bianco. Stavolta disegna un arco di 180 gradi sul mio volto disteso, ed al centro c’è proprio il lampadario di bambù intrecciato. E’ come se fossi sbalzata in avanti verso l’altro sedile, quello del Giulia ti amo, ma non sento dolore. Vedo la vecchiaccia rotolare per lo stretto corridoio, i bambini strillare, altri dire Mio Dio. Guardo di lato, fuori: abbiamo proprio messo di sotto qualcuno. Comincio a tremare, una ragazza dicono due manager spettinati che stavano facendo l’amore. Ma povera penso io, ma non fa niente, tanto non aveva colloqui oggi dice l’autista, ah beh allora fanno tutti in coro e lo recitano come fosse un rosario, sembrano mille monaci tibetani raccolti in 10 preghiera: Ah beh allora Ah beh allora Ah beh allora Ah beh allora Ah beh allora… Poi ancora bianco, e ne sono proprio invasa da questa massa di lenzuola del mio letto freddo a due piazze. Guardo la sveglia: le sette. Che sogno goffo, sono veramente arrabbiata con me stessa. Il modo meno corretto di cominciare la giornata. Non mi piace dovermi alzare con un brutto sogno ancora vivo in testa, continuerei a dormire sino a quando non ne arrivassero altri, dolci e belli, come quelli che facevo anni fa, ai tempi del liceo. Ho sempre bisogno di un minuto buono al risveglio, giusto per rendermi conto di dove mi trovi, di chi sia io e del perché debba alzarmi a quest’ora, stamattina. Dopo aver trovato le mie risposte mi sento già più pronta per affrontare la giornata, ma con questo freddo oggi è pesante abbandonare le coperte. Riccardo è già uscito per il jogging e non ho sentito nulla, mi avrà vista dormire profondamente e avrà pensato fosse meglio non chiamarmi. Lui si che si alza presto, corre e torna a casa più riposato di prima. Per me qualsiasi orario è sbagliato per svegliarsi la mattina. Di pomeriggio sarebbe meglio anzi no, di notte, io preferirei alzarmi di notte, perché man mano che passano le ore carburo di più e le idee migliori fioccano che è una bellezza. Non posso permettermi il lusso di continuare a riflettere su sogni ed orari: orizzontale come sono, col cuscino che mi accarezza la nuca, rischierei di riaddormentarmi senza avere il tempo di accorgermene. E’ una situazione dura e senza soluzione la mia, devo violentarmi per togliermi dal 11 petto queste foglie autunnali su sfondo marroncino costituitesi in coperta trapuntata, e togliermi dal letto. Viste così da vicino, con la faccia supina sul materasso e gli occhi a seguire le linee sbilenche del pavimento, le mie ciabatte sembrano molto più grandi del loro 38. Azzarderei una misura 40. Bellissime. Di un giallo lussurioso che dà forma compiuta ad un piccolo cammello, no è un dromedario, e ad un fusto arboreo di palma. Mi sembra quasi di non meritarmele, queste ciabatte cinesi da 2 euro. Me le metto ai piedi e vado ad alzare la serranda. La stanza comincia a farsi luminosa di luce naturale, l’unica che non mi innervosisca negli ultimi tempi. La mia miopia è andata peggiorando: non sopporto la luce elettrica, ho bisogno di chiarore autentico. La giornata non sembrerebbe di quelle peggiori. E’ nuvolo certo, il che è anche accettabile pensando a questa fine di gennaio freddo, ma non piove. Le macchine già sputano gas neri all’incrocio tra Corso Cavour e il grande viale Vittoriano; ne intravedo gli occupanti se mi metto gli occhiali. Ogni ora ha la sua categoria di guidatori d’auto. Questo è il momento di chi è ancora in orario e vuole rimanerci, a giudicare dalle espressioni che riserva al semaforo qui sotto che non si decide a farsi verde. Tra mezz’ora vedrò madri e padri portare zaini colorati con i figli attaccati, come fossero accessori di quelle specie di borse da viaggio alla fine del mondo. Un attimo 12 dopo arriveranno impiegati diretti ai loro uffici pieni di carte e di voglia di tornarsene a casa. La signora del pane non è ancora passata. Di solito alle sette e un quarto ha già completato i quattro palazzi dell’incrocio e la vedo allontanarsi col suo furgone rosso verso lo strappo di Via Garibaldi. E’ bionda, ma di un biondo estremamente appassito, che scolorito e stopposo non la rende né affascinante né luminosa. Eppure è ancora giovane, nonostante i suoi modi comunichino qualcosa di molto vicino alla stanchezza di vivere. Sento i capelli gonfiarsi d’acqua fino a quando la testa non ne è piena. Diventano pesanti, poi le gocce cominciano a uscire dai lati e scivolare verso altre parti di me; in un attimo sono completamente zuppa d’acqua calda. Non è affatto un’incantevole cerimonia del bagno ma piuttosto uno strattone shockante al mio sonno, ed infatti in venti secondi sono sveglia del tutto. Shampoo al tiglio e camomilla dolce per non spezzare neanche uno dei miei capelli chiari che cerco di curare meglio che posso. Docciaschiuma al ginseng per tutto il mio metro e settantacinque di pelle liscia tendente al vellutato, come Ric ripete spesso. Insapono le braccia ed il collo, i seni, il ventre; poi scendo giù per le gambe fino ai piedi di un biancore spaventevole stamattina. Mi bastano ancora pochi istanti e sono avvolta nell’accappatoio rosa molto kitsch già di suo, ma che evidentemente non era sufficiente per il suo ideatore, il quale per completare il tutto ha voluto aggiungere delle margherite enormi ricamate, di modo che, quando per puro caso, in un pomeriggio 13 d’un ottobre fa, una zia fosse passata davanti ad una vetrina del centro, un passante avrebbe potuto udire tali parole: “Ma quant’è douce st’accappatoio! Pare fatto apposta per Alice, vediamo quanto costa”. Venti euro non spaventano la zia Rachela, grazie a Dio. La zia Rachela è figlia di un errore. Il suo nome in verità era Rachele, ma nel 1936 un refuso dell’ufficio anagrafe non era cosa infrequente. Tutti l’hanno sempre chiamata Rachele ma io, da quando ho scoperto che la sua carta d’identità non mentiva, uso il suo nome ufficiale. Si è arrabbiata un po’ ma solo all’inizio, ormai sono anni che la sua nipote preferita le cambia una vocale. Sapevo non sarebbe durata a lungo, la tranquilla zia si è trascinata incolume alla sua bella età anche grazie ad un vero patto di non aggressione con il mondo esterno. Mai una malattia seria, mai un incidente, mai un profondo dispiacere, la zia Rachela. Di contro: mai un tonfo al ventricolo destro, mai un’allegria sfrenata, mai qualcuno che le spaccasse lo stomaco d’amore, per quanto ne sappia. Sta a guardare dalla finestra lucidando la teiera d’inox anche se le immagini che girano all’esterno sono le stesse ormai da anni, nulla cambia. Ma lei si bea del tempo e lucida. Quando la sento bussare alla porta è per me la fine di un sogno fatato: quello di essere padrona di me stessa, senza lei che, nell’ordine, apra il freezer per controllare che gli alimenti siano incellofanati bene, controlli la cassetta della posta, stacchi le mie prese di corrente sovraccariche per evitare che il mio computer s’incendi per corto circuito, controlli con fare 14 nazionalsocialista che il wc non riporti incrostazioni di sorta, lustri in modo delicato ma deciso l’unica bomboniera d’argento che ho in casa, sorpresa gradita di un matrimonio, mentre invece io vorrei che lo sporco e gli acari la disintegrassero in polvere 725. Questa è la zia Rachela, un concentrato di frasi del tipo: “Hai mangiato oggi?” “Quando pensi di dare la cera?” “Avresti bisogno di un nuovo ferro da stiro.” “Cerca di usare solo olio extravergine di oliva!” “Che bella donna sei diventata, Riccardo deve stare attento, hi hi hi!” Se ci penso è un prezzo basso da pagare. In cambio mi regala shampoo al tiglio, docciaschiuma al ginseng e accappatoi rosa. Questo mese ho compilato 193 form online su siti aziendali alla voce lavora con noi. Ho scritto 193 volte il mio cognome e nome. Per 193 volte ho indicato indirizzo, numero civico, cap, città, provincia di residenza e di domicilio (da non indicare qualora quest’ultima coincidesse con l’indirizzo di residenza. Non coincideva). Per 193 volte ho indicato il mio numero di cellulare ed ho lasciato in bianco il box relativo al numero di telefono fisso, mentre sempre 193 sono state le volte in cui ho aggiunto il mio indirizzo email e la data di nascita. Poi, 193 volte, sono passata alla seconda fase: istruzione e formazione. Il mio diploma di maturità classica conseguito nel 1999 con un voto di 84 centesimi presso l’Istituto (ed ho messo il nome 15 dell’Istituto) della mia città (ed ho messo il nome della città) è apparso per 193 volte, esattamente lo stesso numero di volte in cui ho inserito la mia laurea in Scienze Politiche indirizzo politicoeconomico vecchio ordinamento, conseguita presso la mia Università (ed ho messo il nome della città della mia Università) con il voto dirompente di 110 centodecimi. Niente lode. Che conosco ottimamente lo spagnolo, meno bene l’inglese ed a livello scolastico il francese l’ho specificato 193 volte. Per 193 volte ho scritto di aver avuto un’esperienza di studio all’estero durata 6 mesi. Per 193 volte ho cliccato sulla freccetta a destra e sono placidamente passata alla sezione Precedenti esperienze lavorative. In un supermercato come addetta al reparto e cassiera ho lavorato 193 volte, lo stesso numero come venditrice telefonica di linee adsl e agente immobiliare. Per 193 volte sono inoltre stata babysitter presso varie referenziate buone famiglie. Le competenze acquisite sono state il mio forte ben 193 volte: realmente più esperta di un agente Cia di stanza a Düsseldorf. So programmare in html, conosco quasi tutto il pacchetto Office e OpenOffice. So usare alla perfezione programmi come Nero, Photoshop, Corel Draw e simili, ho persino qualche rudimento nel montaggio di filmati. Cucino abbastanza bene, so lavorare a maglia, i vetri delle finestre li faccio splendere come diamanti. Ho esperienza nel commercio elettronico in quanto venditrice Ebay di tutto ciò che trovo gratis in giro. 16 Conosco anche il sistema operativo Linux ed almeno tre programmi per la gestione della posta. So inoltre abbozzare qualche passo di habanera e accennare parecchi accordi di chitarra insegnatimi da Riccardo. Chiaro, tutto questo l’ho segnalato per 193 volte. Ho indicato tutta Italia tra le preferenze territoriali 193 volte, esattamente lo stesso numero di volte in cui ho riempito con le mie frasi mistiche il box vuoto dedicato alle motivazioni: “Crescita professionale e umana in un’azienda altamente strutturata come la vostra. Grande desiderio di imparare con abnegazione ed umiltà e mettere al servizio le mie doti di responsabilità e passione già utilizzate negli anni di studio universitario in Italia ed all’estero”. Ho anche inviato 96 email ad altrettanti istituti bancari e mi sono recata al Centro per l’impiego tutti i mercoledì e venerdì pomeriggio. Sono anche stata in 4 agenzie di lavoro interinale. Questo mese ho fatto questo, e siamo ancora al 25. Le mie 193 compilazioni a qualcosa hanno portato. Sono seduta al primo piano della multinazionale dei miei sogni e aspetto. La posizione per la quale ho passato la maggior parte dei sabato sera dei miei 20 anni a studiare ha il nome pomposo di Allievi capo reparto settore casse. Per me è un gergo facile facile per dire che fai la cassiera per un anno, poi, se hai esagerato con gli straordinari gratuiti, se oltre a far da cassiera non ti sei preoccupata quando c’era da lustrare casse, scaffali e 17 gabinetti, se nel frattempo il supermercato della tua multinazionale non è stato acquisito da un’altra azienda ancora più multi della tua attuale multi, se non ti hanno licenziata e, infine, se non è stato dichiarato fallimento per mancanza di liquidità, forse diventi capo reparto. A quel punto sarai personalmente responsabile di una serie di fattori che sconosci e sui quali non hai nessun potere, hai 100 euro mensili in più in busta paga e rischi il licenziamento ogni giorno. Ma è un gergo anche per dire che sarebbero 1000 euro al mese, il che per me significherebbe un aumento di quelli che noi economiste siamo solite definire ad elasticità infinita, visto che attualmente parto dalla cifra di zero euro mensili lordi. Non penso nemmeno a cosa potrei farci, con 1000 euro mensili. Una gonna alla Sisley prima cosa. Di un colore che non deve andare bene per tutte le occasioni, non voglio più comprare vestiti da utilizzare per 5 anni, voglio una gonna a fisarmonica di cotone leggero anche se siamo a gennaio, a fiori azzurri su sfondo blu scuro. La indosso subito, esco dal negozio e a fine giornata, giuro, se mi assumono, la butto via. Poi le scarpe. Due paia. No! Cinque paia, cinque. Un paio con tacchi a spillo, rosse, elegantissime. Un paio di anfibi da smaltare e attrezzare subito con lacci colorati. Un paio basse scamosciate. Un paio di stivali di pelle nera da 200 euro minimo. Un paio da tennis comode comode. 18 Tre maglioncini, un bel cappottino, qualche completino intimo. Poi voglio un piumone di vera piuma d’oca, il freddo la notte ci disturba il sonno nonostante i nostri bollenti spiriti. Voglio riempire il carrello con così tanto cibo da bloccarne le rotelline, il peso dev’essere talmente tanto che non deve andare più né avanti né indietro. Di lato si deve muovere il mio carrello, girando su se stesso. Chiamo un mio futuro collega ad aiutarmi, così socializzo. Voglio che la cassiera impieghi otto minuti di orologio a passare la mia spesa al lettore ottico, voglio che le si infiammi il tunnel carpale e poi dica, sudaticcia: duecentoventisette euro e novantatre centesimi. E voglio fare invidia e rabbia a tutta la gente in fila che dopo aver aspettato otto minuti è pure costretta a vedere quanto io sia lenta nell’estrarre due banconote da 100, una da 20 ed una da 10. Li voglio sentire sbuffare dietro di me come non hanno mai fatto, visto che le mie sono sempre state spese da 15, 18 euro al massimo. Non ho più comprato un libro da 3 anni, voglio entrare in libreria e afferrare il primo che mi capiti e sperare che faccia schifo, tipo quei romanzi con protagoniste disoccupate sfigate coincidenti con l’io narrante o quei manuali con diete straordinarie a base di carote ed ossobuco. Ecco, anche un vassoio di carote da un chilo e sette - ottocento grammi di ossobuco. Faccio il pieno alla Fiat Uno, poi vado in una concessionaria e con la prima busta paga firmo subito la richiesta per un finanziamento per una Y10 nuova, celeste. Do fuoco alla Uno e a bordo della Y10 19 passo a prendere Riccardo che avrà già capito dove lo porterò. Negozio di strumenti musicali e lì la famosa frase da film: “Scegli pure la chitarra che preferisci. E’ un regalo amore mio.” E le sue lacrime, e l’abbraccio, e i baci. Poi visto che, in caso, a tagliare le spese c’è sempre tempo, la pizza. La pizza! In una pizzeria vera, una vera pizza in una pizzeria vera! Non di quelle surgelate a 50 centesimi l’una in offerta, né quelle a due euro l’una di marca. Una pizza vera, durante un vero sabato sera, con un forno a legna vero, un vero pizzaiolo bagnato di sudore, una cameriera che mastica la gomma ed un pelo pettorale del pizzaiolo tra un’oliva e un carciofino, incastonato nella mozzarella fusa. Un sogno. Appunto, un sogno, sto sognando e mi si vedrà in viso. Meglio ricomporsi subito e pensare ad altro. Di aspiranti ne arrivano altri 3, tutti maschi, tutti intimoriti. Forse è il loro primo colloquio, sono più giovani di me e salutano deferenti e a bassa voce come fossi l’amministratore delegato in persona. Accenno un buongiorno e non li guardo nemmeno, quando ho un colloquio mi mostro calma e tranquilla ma è una finzione che non riuscirei a sostenere se cominciassi a parlare con estranei nervosi. Piuttosto mi impegno a compilare il solito modulo aziendale, ripetendo per l’ennesima volta sempre le stesse cose. Ormai ho l’impressione di aver mandato il mio curriculum vitae a memoria, non a livello concettuale ma esattamente virgola per virgola, lettera per lettera, titoli compresi: dati personali, istruzione e formazione… Non ne posso 20 più. Ho persino quella paura tipica di chi debba recitare una poesia e teme di bloccarsi a metà strada senza parole in bocca, come se quella che sto descrivendo nel modulo prestampato non fosse la mia vita ma quella di una poetessa russa dell’ottocento ed io l’avessi leggiucchiata in metro soltanto mezz’ora prima dell’interrogazione. Con tre lucenti monete da un euro mi sono procurata quattro fototessera giuste per l’occasione. Ne prendo una dalla borsetta Carpisa blu, nonostante provengano dalla macchinetta della stazione sono venute bene. La incollo in alto a destra sulla prima pagina del modulo, grazie alla colla stick gentilmente offerta dalla multinazionale dei miei sogni. Terminato, ficco lesta la penna nella borsa. Ormai è un’abitudine maniacale: ad ogni colloquio io frego una penna. Non ho mica tutti i torti. Faccio colloqui ovunque, anche due tre per azienda, in diverse città. Pago trasporti e lauti pranzi nel McDonald’s di turno, io che normalmente con 6 euro compro il cibo sufficiente a sopravvivere tre giorni. Perdo mattinate intere del mio tempo svalutato, mi alzo prestissimo per essere puntuale, la notte precedente ovviamente non dormo o riposo male, e non mi merito nemmeno una penna a sfera? Suvvia, almeno il problema penne è depennato dalla mia lista di cose assolutamente necessarie a condurre un’esistenza quasi normale. Ne ho davvero tante, tutte con i marchi più vari. Ho tutte le agenzie interinali, da Adecco ad Obiettivo Lavoro passando per Manpower e Trenkwalder. Ho quasi tutti i supermercati (ed un 21 importante tassello è stato appena aggiunto alla collezione), molte banche, diverse catene di abbigliamento e qualche sindacato. Ne ho pure una di una squadra di calcio. Cercavano una segretaria per la sede direzionale, non mi hanno presa e 6 mesi dopo erano già retrocessi in serie B. Ah! Arriva il momento. “Buongiorno Alice, io sono Chiara Barelli, capo settore casse dell’ipermercato di Torino. Le dispiace seguirmi?” sorride a bocca larga. “Si!” ho risposto con un sorriso più largo del suo, senza neanche rendermi conto di averle detto, non volendo, che effettivamente si, mi scoccia questa cosa del doverla seguire. Lei non ha colto l’incertezza grammaticale ed ha continuato a sorridermi. La seguo fino ad una stanza piccola e luminosa, dalle tendine veneziane scorgo persino il lungo balcone esterno. “Se per lei non è un problema proporrei di darci subito del tu, così chiacchieriamo in tutta tranquillità.” “Ma certo la… ti ringrazio. Va benissimo.” “Bene Alice. Generalmente comincio da una breve presentazione personale. Se sei d’accordo mi presento e poi lo fai anche tu.” “Certamente, si.” “Dunque come già sai io mi chiamo Chiara, lavoro per questa azienda da 13 anni e ricopro il ruolo di capo settore. Ho cominciato come addetta alla vendita, sono poi passata alla cassa per due anni, in seguito sono stata promossa caporeparto e adesso mi trovo qui, dividendomi tra il ruolo di capo 22 settore ed il recruiting.” Ha concluso, si capisce dal sorriso che si è allargato; è il mio turno. “Io sono Alice, mi sono laureata in scienze politiche ad indirizzo economico con una tesi sulle performance di crescita del settore della grande distribuzione organizzata in Italia e…” “Infatti, scusa se ti interrompo, vedo dal tuo curriculum la votazione di 110, complimenti!” “Grazie, grazie mille. Dopo la laurea ho cominciato ad avere le prime esperienze nel mondo del lavoro. Sono stata agente immobiliare per un anno ed ho anche avuto un breve contratto nella GDO come repartista. Mi ritengo una persona propositiva e seria, una persona che cerca sempre di svolgere al meglio il proprio lavoro.” Schiudo le labbra, sporgo la dentatura, sorrido più che posso. “Qual è il motivo principale che ti ha spinta ad inviarci il tuo curriculum vitae? Perché proprio un’azienda della GDO?” “Devo riconoscere di aver sempre nutrito un particolare interesse per la grande distribuzione. Come ti dicevo ho dedicato la mia tesi di laurea proprio alla studio di quest’area.” Et voilà, non mi tremano nemmeno le mani oggi, e vai! “Già… Come sai, quando si giunge in un ambiente nuovo il rischio di non essere accettati è alto. Tu come credi di comportarti con colleghi che non siano qualificati come te o che magari abbiano terminato gli studi molto tempo fa? Secondo te c’è il rischio di sembrare la solita neolaureata un po’ saccente e poco collaborativa?” ho notato un lampo di malizia adesso, ma il sorriso l’ha mascherata bene. Imposto 23 il cervello sulla modalità diplomazia e mi ripeto che ogni domanda difficile ed ogni ammissione di lacune devono trasformarsi in un celato elogio: “No, in tutta sincerità non credo ci sia questo rischio. Primo perché non è una cosa che, nelle precedenti esperienze lavorative, si sia mai posta come problema. Devo anzi dire di legare generalmente bene con tutti i colleghi. Secondo perché credo fermamente che, prima di ogni altra cosa, venga un principio importante: il rispetto per le persone. Ho l’abitudine a guardare chi mi sta attorno prima di tutto come persona, poi come collega, superiore, professore o lattaio. Capisco che per alcune aziende questo non sia un discorso accettabile, ma so bene che per la vostra lo è. Ho letto sul sito internet che il rispetto per le persone, siano esse dipendenti o clienti, ha per voi un’importanza fondamentale, ed anche per questo motivo ho deciso di inviarvi il mio curriculum”. Devono essere andati veramente bene gli ultimi 2 minuti. Ho visto Chiara passare dal sorriso stampato che, la do 10 a 1, è uno standard in queste selezioni, lentamente ad un volto più ammorbidito, poi alle sopracciglia riavvicinate di chi si stia interessando davvero a ciò che ascolta. Mi sembra persino che il suo umore, già buono prima, sia migliorato. Sembra quasi interessata a questa conversazione, come non fosse un lavoro che fa perché ne è costretta. Ottimo, se continuo così finisce che mi auto applaudo. “Uhm… dicevi delle tue esperienze lavorative: quali ritieni siano state le più importanti?” “Beh, sono state tante…” 24 “Diciamo che me ne basta una.” “Si, d’accordo. Sicuramente la più professionalizzante è stata l’esperienza al Piccolo Market. Ero addetta al rifornimento degli scaffali ma ho spesso sostituito una mia collega in cassa, occupandomi di pagamenti contante e pos.” “Vedo dal curriculum che è durata 3 mesi…” “Era un lavoro stagionale in una zona turistica. E’ stato un periodo duro - immaginerai i ritmi di lavoro in un supermercato in alta stagione – ma non c’è stato giorno in cui non imparassi qualcosa. Alla fine mi occupavo anche della gestione degli ordini mediante terminalino e della comunicazione scadenze all’azienda.” “Ah bene, questo per noi è molto positivo.” E’ una grande, questa Chiara. Una che non si preoccupa di nascondere le proprie emozioni, ma che ti sta ad ascoltare davvero. Accidenti, non mi era ancora capitata un’esperienza così. Generalmente i selezionatori utilizzano espressioni facciali che ricordano da vicino gli Amici di Maria buttati fuori dalla casa del Grande Fratello… (no, forse sto facendo confusione, dovrei informarmi meglio sugli ultimi programmi televisivi, diciamo dal 1996 ad oggi) manca davvero poco che non mi sbadiglino in faccia. Ma questa Chiara è diversa. La immagino al caldo dei suoi riscaldamenti accesi, in un salone scintillante di candele e piantane color rame, mentre bacia i suoi bambini ed apparecchia per la cena. Di bambini ne avrà almeno due, e forse quella lontana leggerissima malinconia che le sto notando nell’agendina di finta pelle e nei capelli castani 25 mossi non è nient’altro che voglia di giocare con loro anziché con me. “Passiamo alle domande un po’ più standard, immagino le avrai sentite chissà quante volte.” E’ veramente dispiaciuta, da non crederci. “Parlami di tre tuoi successi, anzi no, facciamo uno: parlami almeno di una esperienza che ti ha reso particolarmente orgogliosa.” Quasi quasi oso, penso, vediamo se riesco a rovinare il colloquio o a farmi assumere seduta stante. “Innanzitutto ci tengo a precisare che l’idea di orgoglio non è che mi si addica molto. Per me è un difetto, non un pregio. L’essere orgogliosi presuppone un giudizio positivo su se stessi cui deve, per forza di cose, contrapporsi un disvalore presunto in qualcun altro. Io questo non lo condivido. Diciamo che un successo può rendermi felice, non orgogliosa.” Per la prima volta vedo dipinto sul suo volto un amo da pesca stilizzato. Non c’è dubbio: è un punto interrogativo. Niente di preoccupante però, il suo interesse è autentico, non mi sta guardando come fossi una pazza, vuole proprio sapere a fondo come la penso. Non è il caso di fermarsi: “Ricordo con piacere la mia esperienza di lavoro all’estero. Sono stata educatrice di giovani immigrati appartenenti a bande di strada come Lating King o Nietos. La parte più difficile è stata quella di elaborare un linguaggio comune con ragazzi di 13 anni che come problema principale non avevano quello di decidere quale suoneria scaricare sul cellulare ma piuttosto quello 26 di scegliere una linea di metro adatta a portarli al colloquio con la madre in carcere. Ecco: se proprio dovessi usare la parola orgoglio lo farei per dire che ancora oggi, via Facebook, mi mantengo in contatto con alcuni dei miei ragazzi.” “Complimenti anche per questo. Mi racconti almeno un fallimento?” “Mai avuti fallimenti. Ah ah, scherzo. Direi che il fatto di trovarmi qui di fronte a te, per quanto tu possa essere gentile e simpatica, non possa certo essere considerato un successo. Ho 30 anni e non ho ancora un lavoro nonostante negli anni dell’Università non abbia mai lasciato nulla al caso. Voglio dire: mi sono impegnata, ho sempre studiato in modo serio e con sacrificio. Forse proprio per questo non amo dare la colpa della mia situazione, che è anche quella di molti miei coetanei, alla società o alla sfortuna. Diciamo che me ne assumo tutta la responsabilità, cercando di migliorarmi e sperando di avere una opportunità nella vostra azienda.” Ho fissato il suo naso aquilino insistentemente, lei ha risposto con piccoli cenni affermativi del capo ad ogni mia virgola. La cosa che più mi colpisce è il suo portamento, anche in una situazione così impersonale riesce a mostrare tutta la sua freschezza senza scomporsi. Non si atteggia, è vestita di autenticità genuina, non finge di essere interessata a quello che dico. Ho l’impressione che se mi lasciassi scappare qualche scempiaggine mi manderebbe verso posti sconvenienti, tipo affanculo, come fosse una sorella. Ha le mani ferme, le dita curate e la fede vecchia di qualche anno, non più brillante come sarà 27 stata un tempo, direi almeno un decennio fa. Nonostante ciò non è una figura statica, anzi accompagna le sue parole con espressioni interlocutorie e segni evidenti di complicità: le suscito approvazioni continue, ma anche lei mi farebbe lo stesso effetto se ci scambiassimo di posto. Per un breve attimo ho anche creduto che fosse sul punto di abbattere a picconate il suo ruolo istituzionale di recruiter che non deve chiedere mai e, allungato il busto in avanti, la scrivania bianca tra noi, cominciasse a dirmi: “Senti Alice, vorrei parlarti chiaramente. E’ una assurdità il fatto che una ragazza sveglia e preparata come te, a 30 anni, sia senza lavoro e venga qui a far finta di essere realmente interessata a fare da cassiera in un supermercato. Non provarci nemmeno, a dirmi che sei un’appassionata del settore dai tempi delle medie. Lavoro da anni e posso dire con certezza che qui, di appassionato del settore, non c’è nemmeno l’amministratore delegato. Nonostante io non creda a nessuna delle belle parole che hai usato tu mi sei simpatica. Darò un giudizio positivo sulla tua candidatura, ma non pensare affatto di essere riuscita a convincermi delle cose che dici.” E’ stato solo un attimo, non ha detto nulla, ha sorriso con i soliti denti bianchi ed è rimasta in silenzio. Poi: “Non so se ti è già stato spiegato l’iter che seguiremo.” “Ehm no, sei la prima persona con cui parlo oggi.” 28 “Bene, allora te lo spiego io. Stamattina sosterrai due colloqui, ovviamente con diversi selezionatori. Il primo possiamo già dire sia terminato, il secondo comincerà tra qualche minuto. Abbiamo scelto questa procedura perché crediamo che il confronto e lo scambio di opinioni anche tra noi colleghi dell’area risorse umane porti a risultati migliori, sia in termini di scelta che di vera e propria tempistica. Se ci pensi un attimo ti accorgi che è un buon modo di procedere. Qualora infatti tu non risultassi idonea secondo il mio giudizio, avresti sempre, come dire, una seconda opportunità con il collega che mi seguirà.” “Si, è vero.” Pare non si sia mai vista una disoccupata contraddire una recruiter. “Come sai si tratta di un lavoro interessante e stimolante, che ogni giorno ti mette a contatto con centinaia di persone, ma che è anche molto duro. E’ per questo che noi cerchiamo persone che siano dinamiche e attente, ovviamente propositive e che posseggano doti di flessibilità e concentrazione. Penso che gli ipermercati siano come delle vere e proprie piazze aperte a tutti, e proprio per la loro particolare natura spesso ci si trova ad affrontare situazioni imprevedibili. Cerchiamo quindi persone che imparino ad essere autonome, insomma persone capaci. Chiediamo flessibilità in termini di orario ma anche territoriale, nota bene che generalmente i primi due anni saranno per te di assoluto pendolarismo. La norma è che l’allievo capo reparto venga inviato in varie regioni e rimanga in ogni destinazione per circa sei mesi. Bisogna essere 29 insomma preparati a slegarsi dagli affetti… magari i fidanzati ne soffriranno un po’.” “Non c’è problema, sono single.” Riccardo perdonami, una bugia detta a fin di bene non è peccato. “E’ brutto da dire, ma in fondo è meglio così. Ti parlo per esperienza, abbiamo avuto dei casi di tuoi coetanei che non hanno resistito alla lontananza e dopo pochi mesi hanno abbandonato il loro progetto. Come puoi comprendere ciò è per noi non solo motivo di grande dispiacere ma anche un problema economico, visto che dal nostro punto di vista ogni allievo è un investimento. Impieghiamo risorse senza risparmiarci e la perdita di un allievo rappresenta in qualche modo il dover ricominciare da capo un percorso.” “Ci terrei a rassicurare l’azienda su questo punto: la carriera è il mio primario obiettivo di vita. Sono sicura che non mi farei distrarre da altro che non fosse il mio lavoro.” La mia interruzione le è servita per prendere fiato. Continua: “Se oggi il risultato sarà positivo verrai chiamata entro una settimana ed invitata ad una seconda giornata di colloqui, stavolta nel tuo ipermercato di destinazione. Potrebbe essere Milano come Trapani, sia chiaro. In ogni caso conto di darti un feedback entro una settimana, sia esso positivo che negativo.” “Perfetto, quindi adesso torno in sala d’attesa?” “No, no. Rimani qui, tra qualche minuto ti raggiungerà uno dei miei colleghi per il secondo colloquio. Io intanto ti saluto e ti auguro buona fortuna.” 30 “Grazie, anche per la chiarezza. Buon lavoro.” Mi sono alzata, le ho stretto la mano; agli occhi degli impiegati che intravedo dalle porte aperte dell’ufficio di fronte saremo sembrate due ricche capitane d’industria incontratesi furtivamente per discutere di segrete strategie e progetti d’espansione. Sento i tacchi della mia collega e futura dipendente Chiara Barelli allontanarsi ticchettando incerti nel corridoio lungo e bianco, prima fastidiosi, poi sempre più flebili e infine scomparsi del tutto dal mio campo uditivo. Resto immobile. Il primo colloquio è indubbiamente andato benissimo, adesso devo cercare di mantenere la concentrazione e caricare a testa bassa per la prossima mezz’ora. Come sempre: tranquilla, ferma, cordiale. L’unico esperto di marketing che abbia mai conosciuto, ai tempi della mia carriera universitaria, sosteneva che il linguaggio del corpo influisse per il 67% sul messaggio veicolato. Non so se l’avesse appreso in un qualche corso di specializzazione negli Stati Uniti o più realisticamente letto su Marie Claire. Sarà il caso comunque di inchiodarmi alla sedia e rimanere ferma. Giù quelle mani! Mannaggia sembrano delle eliche. Chiara è scomparsa e adesso mi prende l’angoscia, ma perché non è rimasta qui con me? Ogni volta che qualcosa sembra andare bene non ho nemmeno il tempo di rendermene conto che tutto cambia. Ma mannaggia alla… Calma, calma. E’ possibile che tutte le volte io debba imbiancarmi i capelli dalla paura? Oh Madonna sento dei passi mi sa che ci siamo il cuore mi sta sfondando il petto 31 angoscia pietà commiserazione aiuto soffoco! No, andavano verso l’ufficio di fronte, non è ancora il mio momento. Piano piano, con calma, mi tranquillizzo. Cerco una superficie nella quale possa specchiarmi per controllare che il make-up abbia tenuto; la trovo in un righello metallico che sta sulla scrivania, do una controllata furtiva e lo rimetto a posto veloce. Per poco non lo metto nella borsetta; desisto solo per paura di eventuali telecamere. Rimango invischiata nei miei ragionamenti e nemmeno mi accorgo che intanto i primi dieci minuti sono passati, poi altri dieci, poi ancora dieci e sto sempre seduta in questa stanza vuota. Si saranno dimenticati di me? Staranno preparando il contratto di assunzione a tempo indeterminato, 14 mensilità a 2500 euro netti? Ragionandoci mi sgranchisco la mano per la firma. Mi alzo e comincio a camminare in circolo nei sedici metri quadri dell’ufficio, nemmeno mi sfiora l’idea che in ognuna di queste stanze ci siamo in questo stesso momento altre ragazze come me, tutte aspiranti allieve capo reparto settore casse, tutte più simpatiche, più dinamiche, più flessibili e soprattutto più fighe di me. Sicuro per questo, perché sta ancora sentendo qualcun’altra in un'altra stanza, il mio selezionatore non è ancora qui. Do un’occhiata attraverso le bacchette bianche della tendina e mi rilasso fissando i miei futuri colleghi dell’amministrazione usciti per la pausa sigaretta. Saranno tre o quattro, e tra questi ce n’è una che mi colpisce subito. Non che abbia qualcosa 32 di particolare, ma è come se fosse estranea all’ambiente, come venisse da altre e più complesse situazioni, completamente decontestualizzata. Eppure la vedo parlare e ridere come fosse legata strettamente al gruppetto dei fumatori, come se nessuno di loro fosse preso dalla mia stessa sensazione. Allegria, la sua risata sfonda il vetro e mi si ficca in testa fastidiosissima, specialmente in questi momenti di angoscia. E’ sgraziata, completamente scoordinata nei movimenti da matriosca surgelata; sembra una di quelle ballerine che si esibiscono durante le sagre di luglio nei paesini di montagna, truccate magistralmente ma con due tre chili di pancia che deborda dal fuseaux nero da fitness center. Eppure veste bene, tailleur grigio e camicetta bianca semplicissima, proprio come piace a me, ed ha anche un trucco non molto pesante, chic. Le scarpe sono di quelle da condanna penale, per avere quei tacchetti io una martellata alle vetrine in centro proverei a darla volentieri, di notte. Adesso esagera. Si sta facendo riprendere con il cellulare mentre assieme ad uno dei fumatori grida ridendo Italia unoo e alza il pollice da autostoppista. Sono allibita, costernata, vomitata. Spiegazzata nel mio amor proprio, insozzata nel mio senso dell’onore. Prendo atto della cosa e rimango zitta. Questa gente ha un lavoro ed io no. Questa gente ha probabilmente un’auto ed io no, se escludo la Fiat Uno scassata di Riccardo. Questa gente va a farsi una pizza con gli amici, si nasconde sotto il tavolo, poi sbuca fuori all’improvviso e grida Italia Unoo ed 33 io sto fuori dalla pizzeria a fregarmi gli avanzi lasciati sui tavoli esterni. Avrei dovuto convertirmi al Buddismo negli anni in cui era di moda, o almeno partecipare ad un corso yoga organizzato dal Comune, o anche solo comprare un manualetto di autoterapia antistress per rimanere calma e concentrata dopo la visione apocalittica che si è appena consumata a due metri dalla mia sedia, con solo una finestra chiusa ed una tenda a bacchette bianche newyorkesi a farmi da scudo. La fortuna è che sono andati via, la sfortuna è che non avrò più nemmeno quell’orrida distrazione, e sono qui da sola ormai da più di mezz’ora a guardarmi la pancia piatta. Ma è un rumore come di tacchi bassi che si avvicinano, e poi di tailleur grigio e camicetta bianca e della mia lingua che di colpo rinsecchisce quando lei entra, mi tende la mano e dice: “Sono Viola di Luzio, responsabile del personale.” Una che dice Italia Unoo mi deve selezionare mediante un colloquio conoscitivo. A me. E non è nemmeno un uomo come mi aspettavo. Non ho il tempo di uscire dalla fase rem, rispondo: “Ciao, io sono Alice” e mi lancio in un sorriso modello Penelope Cruz. “Buongiorno, mi dispiace averla fatta attendere ma non avevo ancora avuto comunicazioni riguardo gli step di oggi.” Non ha l’aria svagata di prima, è una statua di professionalità ed abnegazione. Non sorride affatto e non dà l’impressione di voler passare al tu, mentre io per inerzia le ho subito detto ciao come fosse una 34 mia cugina in seconda. Forse è meglio se mi alzo subito e me ne vado via, una figura così magra sarà impossibile da recuperare. “Non si preoccupi, non ho aspettato tanto in fondo.” Solo tre quarti d’ora, per la verità. “Cominciamo con una presentazione. Prego” Questa è una cosa che ho già sentito. Rimango o mi alzo? Vado a memoria: “Io mi chiamo Alice, mi sono laureata in Scienze Politiche ad indirizzo economico con una tesi sulle performance di crescita del settore della grande distribuzione in Italia…” sta sfogliando il mio cv, aspetto arrivi al punto e mi faccia i complimenti per il 110. “Mhm… infatti vedo dal curriculum, 110, come mai senza lode?” E che caspita vuoi che ti dica? Ma che domanda è? Non lo so perché, magari perché la sera prima l’Italia aveva perso agli Europei di calcio. Cosa vuoi che ne sappia io? “Beh, la commissione esaminatrice non avrà ritenuto opportuno arricchire il mio voto con una lode… Avranno pensato fosse sufficiente il 110.” “Segua, segua, la ascolto” asciutta come una scatoletta di carne senza gelatina. Seguo: “Dopo la laurea sono subito entrata nel mondo del lavoro” dopo la laurea non avevo nemmeno i soldi per mangiare, avrei accettato anche di prostituirmi se non avessi trovato subito qualcosa da fare. “Sono stata agente immobiliare per un anno ed ho anche avuto una breve esperienza nella GDO come repartista.” Ho resistito un anno a lavorare anche la domenica per un rimborso spese di 500 35 euro più provvigioni che non arrivavano mai. Ho consumato la Fiat Uno di Riccardo a forza di accompagnare gente a vedere appartamenti che non si vendevano mai. Ho corroso tre paia di scarpe suonando campanelli sempre con la stessa frase scolpita in bocca: Buongiorno signora! Scusi se la disturbo, sa mica se c’è qualche appartamento in vendita da queste parti? Quando in ufficio i creditori hanno cominciato ad essere più numerosi dei clienti me ne sono andata. Poi ho fatto la schiava in un supermercato: pulivo il sangue incrostato nelle celle frigorifere della carne, mi spezzavo la schiena in magazzino, regalavo all’azienda 4 ore al giorno di straordinario obbligatorio non retribuito. Com’è possibile? Con contratti settimanali è possibile. Sei volte me li hanno rinnovati, il massimo consentito per legge. Ero brava e zitta. “Mi ritengo una persona solare e seria, una persona che cerca sempre di svolgere al meglio il proprio lavoro.” Non rido da due anni. Se solo potessi permettermelo sprofonderei nella depressione più nera. Ma non posso, quindi sono solo profondamente, maestosamente, mastodonticamente incazzata con tutto e tutti. Non mi stupirei nel vedermi strozzarti con la tua stessa camicetta bianca mentre urli Italia Unoo. “Perché ha scelto di inviare il suo curriculum vitae proprio ad un’azienda della grande distribuzione?” Ma sono le stesse identiche domande di prima! Avranno un prestampato curato per l’occasione, ma allora perché costringermi a questa farsa? L’aspirante velina è freddissima e 36 annoiata, non fa nulla per nascondere il fatto di essere profondamente scocciata dal colloquio. Pronuncia una domanda, fa finta di ascoltarmi e passa immediatamente alla successiva. Ha fretta, forse deve girare qualche altro video da pubblicare in bacheca sul suo Facebook. “Devo riconoscere di aver sempre nutrito un particolare interesse per la GDO. Come si può vedere dal curriculum ho dedicato la mia tesi di laurea proprio allo studio di questo settore.” Non è che ho inviato il mio cv ad un’azienda della GDO, ho inviato il mio cv a chiunque fosse titolare anche solo di una partita IVA. Non ho nessun interesse specifico per la mansione di cassiera, ma prima di morire per denutrizione gradirei trovare un brandello di lavoro, possibilmente legale. La scelta della tesi non l’ho fatta io ovviamente, portami una laureanda che ha avuto facoltà di scelta e vado via a testa bassa e senza maglietta, non prima di aver girato con te un video in cui gridiamo insieme Italia Unoo. “Nella nostra azienda lavoreresti con colleghi molto meno qualificati di te… come pensi di essere accolta? Non hai il timore di venire additata come una giovane che puzzi ancora di Università?” “No, non credo ci sia questo rischio. O almeno non è una cosa che si sia mai posta come problema nelle mie precedenti esperienze lavorative. Il fatto è che io ho sempre avuto un gran rispetto delle persone e questo generalmente viene apprezzato da tutti i colleghi, qualificati o meno.” Calci in bocca: in 37 caso di problemi con i colleghi, calci in bocca. E tutto per incanto si risolve. “Qual è, tra le precedenti esperienze lavorative, quella che ritieni più importante?” “L’esperienza più professionalizzante è stata sicuramente quella avuta nel campo della GDO.” Ed anche il concerto degli U2 mi ha insegnato molto. “Non molto significativa direi, vedo che è durata solo tre mesi…” “Tre mesi molto intensi! Si trattava di un lavoro stagionale, in una zona turistica. E’ stato un periodo duro - lei saprà ovviamente quali siano i ritmi lavorativi in un supermercato in periodo di alta stagione - ma non c’è stato giorno in cui non imparassi qualcosa. Sono stata assunta con la mansione di addetta al rifornimento scaffali e bla, bla, bla…” Nessun cenno di interesse né segnale di vita, se non fosse per il suo respiro pesante potrei giudicarla clinicamente morta da un quarto d’ora abbondante. Ogni tanto rigira un foglio A4 tra le mani, adesso sta cancellando qualcosa, magari depenna le domande e la finiamo qua. Non so per chi delle due rappresenterebbe un sollievo più grande. Ma no, non lo fa, continua da copione. “Adesso vorrei che mi raccontasse di una situazione lavorativa che l’ha resa particolarmente orgogliosa…” Quasi quasi le pianto un’oretta di panegirico sull’orgoglio e… Ma no. “Si. Ricordo con grandissimo orgoglio la mia esperienza di lavoro all’estero, quando sono stata educatrice in una ONG che si occupava di giovani di 38 strada. E’ stata un’esperienza forte che mi ha arricchita molto a livello umano e…” “Quindi un’esperienza nel sociale.” “Si. Dicevo…” “Va bene, va bene così. Un suo fallimento?” Ma porco mondo, non le importa nulla! Potrei dirle di aver vinto Sanremo e mi sbadiglierebbe in faccia. “Direi che il fatto di non avere un lavoro alla mia età non può certo essere considerato un successo. Non amo dare la colpa di questa mia situazione alla società o alla sfortuna…” “Ci mancherebbe.” Come ci mancherebbe? E’ chiaro che è tutta colpa di questa società strutturata male e condotta peggio, e di questa sfiga che mi porto dietro dalla nascita! E questa stronza mi dice ci mancherebbe! Mi odia, le ricorderò una grande amica che le avrà rubato il fidanzato o la matrigna che da bambina la costringeva a lavare i piatti e le impediva di uscire a giocare, sicuro. I pomeriggi li passava davanti alla tv e ne ha guardata così tanta e per così tanti anni che adesso dice sorridendo Italia Unoo e si diverte davvero. “…diciamo che me ne assumo ogni responsabilità, sfruttando il tempo libero per migliorarmi e sperando che la vostra azienda mi conceda l’opportunità di dimostrare il mio valore.” Le si sono distesi il volto ed il rossetto rosso, ma non a causa delle mie ultime parole: sta realizzando che tra 5 minuti uscirò per sempre da questo ufficio ed entrerò spessissimo in questo supermercato. Come cliente. 39 “Le è già stata spiegata la nostra procedura di selezione?” Ho la tentazione di rispondere di no solo per farle un dispetto, così il rossetto rosso le ritorna incartapecorito. “Si, la dottoressa Barelli mi ha spiegato tutto perfettamente.” “Benissimo, allora io non la trattengo oltre. Il profilo che noi ricerchiamo in realtà sarebbe decisamente diverso dal suo. Cerchiamo persone che magari siano meno qualificate ma che abbiano una solida esperienza nella GDO.” Vabbè che c’entra, anch’io sarei alla ricerca di un lavoro come si deve. Veniamoci incontro: io rinuncio alle mie velleità e voi accettate me. “Come sa entro una settimana a partire da oggi riceverà un nostro feedback.” “Grazie mille allora, e buon lavoro.” Che sorrisi falsi riesco a fare a volte. “A lei. Le auguro una buona giornata.” Mi accompagna alla porta. Fine. Scendo rapidamente giù per le scale, l’ascensore non farebbe altro che ingigantire la sensazione di nausea che sale. Adesso sono davvero stanca e irritata, essere passata dall’esaltazione con la splendida Chiara a questa specie di tiro al piattello nel quale io non ero nemmeno il piattello mi ha disarcionata. Ho parcheggiato nell’area clienti, accanto alla fila dei carrelli. In tasca ho una moneta, potrei prenderne uno e dare un’occhiata ai prodotti in offerta, penso. Poi rallento, guardo l’auto, mi fermo. 40 La frase storica ha una gestazione di trenta, quaranta secondi, poi è chiara in me: io lì dentro entrerò solo come allieva capo reparto settore casse o come cliente quando regaleranno qualcosa nelle feste. 41 42 2. La lettera mi aspetta nella buca. Mentre io cercavo di garantirmi un futuro tra gli uffici della multinazionale dei miei sogni lei era già arrivata, e rinchiusa e immobile mi attendeva. Nessuna buona novità chiaramente. Le buone notizie arrivano via mail o cellulare, i rifiuti invece riempiono la cassetta delle lettere. Oggetto: domanda di impiego. In riferimento alla Sua (mettono il maiuscolo come se ti ridessero in faccia, venga, venga pure dottoressa… oh, oh, oh… si accomodi pezza d’idiota!) richiesta di impiego del 3 gennaio c.a., Le comunichiamo che alla data odierna il nostro organico è al completo. Abbiamo provveduto tuttavia ad inserire il Suo nominativo tra quelli che potranno essere contattati per eventuali future necessità. Ci è gradita l’occasione per porgere distinti saluti. Entro in casa e butto il cappotto da un lato e le chiavi dall’altro lasciando per terra la borsa. Ho bisogno solo per un attimo del divano, voglio rileggere con calma quest’ennesimo rifiuto, sdraiata. Ci provo, ma non riesco a concentrarmi nemmeno sulle quattro righe asciutte, la mia mente vaga verso 43 l’impiegato che deve averle prima intestate, poi stampate, quindi portate nella stanza del direttore generale per la firma. Vedo l’impiegato, cerco di immaginarmelo per poterlo invidiare meglio e concludo che mi piacerebbe davvero tanto, anzi sarebbe un vero e proprio miraggio, essere assunta per aprire i file in formato doc lettera di diniego, intestarli di volta in volta con un nome diverso, stamparli e poi portarli in stanza del dottor direttore generale. Sarei un’autentica stakanovista, pluripremiata e disponibile con tutti i colleghi; mi sveglierei ogni giorno sapendo di vestirmi e truccarmi per il mio ufficio ideale, con la mia giusta pace interiore, come a una parata di stelle. Apro il cassetto e unisco questa alle altre decine, il retro è pur sempre fatto di carta bianca A4 da riutilizzare all’occorrenza, perlomeno nessuno mi accuserà mai di indelicatezza verso la natura selvaggia e matrigna. Riccardo dovrebbe arrivare tra poco visto che la lezione è alle 3. Ho avuto il tempo per lavarmi, uscire per un colloquio, leggere una lettera di rifiuto dell’istituto bancario dei miei sogni ma non quello per preparare qualcosa da mangiare; oggi inventeremo, con ogni probabilità. Guardo la tv e rimango un attimo ferma, poi l’accendo. Ormai non seguo più nemmeno i telegiornali; preferisco piuttosto i venditori di coperte e pentole delle piccole tv locali. I canali nazionali parlano solo dei loro programmi tv, completamente sganciati dalla realtà. Invece i televenditori li sento vicini. Stanno immobili e 44 attaccati alla mia vita, concentrati su cose utilissime, tutte necessarie ed importanti: dormire, mangiare, asciugarsi dopo la doccia. Sono così cavillosi e fondamentali per la vita di noi donne moderne, meriterebbero uno stipendio fisso, altro che trattamento provvigionale. L’ascensore cigola sin dal piano seminterrato, poi si fa sempre più prossimo e squillante. Ric apre la porta. “Buongiorno amore.” “Ciao amore.” Siamo dolcissimi; siamo il ripieno alla crema chantilly di un pandoro ai primi di dicembre. Mi bacia. “Stamattina non ho voluto svegliarti – dice – dormivi pesantemente.” “Si.” “E stanotte ti rigiravi nel letto e parlavi nel sonno.” “Oddio: che ho detto?” “Beh, non è che si capisse molto… qualcosa sulle operazioni mi pare… Ssi, hai detto proprio operazioni.” “Operazioni tipo da sala operatoria? Cioè interventi chirurgici?” “Non saprei, io ricordo che hai detto operazioni insieme ad altre parole mischiate e incomprensibili.” Le operazioni aritmetiche! Il sogno della vecchia che legge il libro di analisi matematica in bus! “Senti Alice, bisognerebbe fare un po’ alla svelta. Paolo mi ha anticipato la lezione di mezz’ora.” “Ah. Bisogna almeno spazzare la casa prima… Mangiamo dei sandwich, ti va?” 45 “Più o meno.” Quando Riccardo, in un giorno di particolare chiaroveggenza e lucidità mentale, ebbe l’idea di vivere dando lezioni di chitarra classica io non gli credevo minimamente. So com’è fatto, conosco i suoi momenti di esaltazione ma purtroppo anche quelli di disincanto, e generalmente questi ultimi hanno frequenza maggiore dei primi. Poi però ho notato come confezionava i suoi manifestini alla stampante ed i suoi annunci su internet, l’ho visto uscire di casa in tenuta da jogger Decathlon e tappezzare prima l’intero quartiere, poi quello a fianco, alla fine la maggior parte dei luoghi d’interesse della città. Allora ho capito, aveva scelto: anziché cameriere in nero laureato, insegnante privato di chitarra, laureato ed ovviamente in nero; a quanto pare non c’è speranza di fare le cose in chiaro in questo Paese. Ancor prima di cominciare aveva già collezionato un articolo breve su un quotidiano che si stava occupando di un’inchiesta sui giovani laureati e disoccupati, raccontando una marea di falsità improbabili sulla sua infanzia al numero 249 di Marlove Street, a Wolton, Liverpool, e una telefonata minacciosa dell’ufficio affissioni che più o meno era terminata con un: Ma cosa me ne frega, denunciatemi! Il giorno in cui avrò i soldi per pagarvi la tassa di affissione smetterò di dare lezioni! Clic. Le minacce erano cessate misteriosamente. In pochi giorni il mio fidanzato Riccardo era divenuto il maestro Riccardo, dieci euro per un’ora 46 di lezione, partendo da zero e direttamente sugli accordi. La media dei guadagni è di cento euro a settimana, che sarebbero 400 euro al mese, quasi quanto un part-time come spalaneve: si può sperare, finché siamo vivi. Certo, gli inconvenienti e le scomodità non mancano. Da presidenti dell’associazione disoccupati nullatenenti, senza nessun altro che ci dia un aiuto a parte zia Rachela con i suoi accappatoi improbabili, viviamo in un monolocale ad ambiente unico. Non è niente affatto male ma ha il piccolo inconveniente che durante le lezioni io sono gentilmente invitata a trovarmi un altro ricovero, tranne in quei giorni in cui fa troppo freddo o non mi va proprio. Oggi è uno di quei giorni: non ho voglia di andare al centro commerciale alle due e mezza del pomeriggio, l’intera mattinata mi è bastata. Riccardo è più magro del solito, ha gli occhi cerchiati ed è nervoso, anche se cerca di dissimulare. Io però so come entrare nella sua testa, lo faccio spesso: vivendo insieme a lui ho sviluppato questa capacità e so che cosa pensa di ogni cosa che accade. Adesso lo vedo che qualcosa non sta andando bene, che la situazione comincia a sembrargli pesante e non gli permette di riempire a fondo i polmoni. E’ chiuso in una macchina parcheggiata al sole d’agosto, con i finestrini alzati. Si dimena nel torpore del suo portafogli desolato mentre io che a grandi linee ho capito tutto mi chiedo: cosa dirà, esattamente, nella sua mente? Alice è un po’ più magra del solito, me ne accorgo dai seni. Dovremmo comprare più carne e smetterla 47 con questi toast ridicoli che secondo me ci lasceranno senza denti né muscoli. Porca puttana oggi ho solo Paolo, saranno dieci euro che non coprono nemmeno un trentesimo dell’affitto. Sento una rabbia che sta crescendo minuto dopo minuto, ed anche Alice è inquieta. Si rigira nel sonno, si addormenta tardi, ha scatti di violenza. Puttana puttana puttana Eva. Sono almeno 20 giorni che non chiamano dalla pizzeria. Non c’è clientela, ed io che avrei fatto volentieri anche le pulizie sento il culo che scorre sempre più veloce verso il pavimento sporco. O m’invento qualcosa o qualcosa succederà troppo in fretta. In frigo c’è ancora qualche wurstel e delle cipolline sottaceto, anche se non ho fame solo per il fatto di dover risparmiare sul cibo mi si buca lo stomaco. Ho la stessa sensazione di gastrite cronica che deve aver avuto mio nonno, ma almeno lui beveva ogni giorno come fosse San Martino. Prendiamo il pan carré e lo scaldiamo sulla bistecchiera che riga i wurstel misti di pollo, tacchino e ingrediente segreto al 20 %, visto che, stando alle percentuali degli ingredienti indicati sulla confezione, manca giusto quel 20 % che non si sa cosa sia. Ciononostante divoriamo tutto come naufraghi al sole, spaccando longitudinalmente i salsicciotti con le dita lavate e raccogliendo con un cucchiaino le cipolline dalla boccetta, bellissime nel loro essere quasi gratis e non terminare mai. Inganniamo le nostre menti apparecchiando su di un tavolino piccolo e basso. Ormai la tavola grande la utilizza solo Riccardo quando ha delle frasi da 48 dettare ai suoi allievi, siano esse note teoriche sulla formazione delle scale minori o stupidaggini che la sua fantasia da prestigiatore inventa sul momento. L’abitudine l’abbiamo persa dopo esserci silenziosamente resi conto che i quadrati rossi e bianchi della tovaglia cominciavano a mostrarsi troppo, così scoperti sotto il peso di nessuna vivanda che li nascondesse: troppo grande la tavola adatta a quattro commensali, troppo piccole le cose da mangiare, decisamente desolante il risultato. Così siamo passati al tavolino basso di fronte al televisore, che si riempie in un attimo e dà l’impressione di un pranzo vero. Darei tutti i miei libri di sociologia economica fotocopiati per un pollo allo spiedo ricoperto d’olio sfrigolante e bruciacchiato, immerso in una bacinella di patatine fritte e crocché. Mentre mastica svogliato all’ombra del divano, le parole di Riccardo sfuggono somiglianti all’acqua che gli spinge giù il boccone. Mi dice di quanto ha fatto in mattinata, dei locali che a stento resistono a quest’inverno. Stretto tra realtà così chiare ha cessato di provarci: darà solo lezioni di chitarra classica probabilmente, pregando in continuazione quelli della pizzeria finché non decideranno di richiamarlo per qualche serata extra. Racconta di quanto il suo allievo sia bravo e di come finora abbia fatto le cose per bene, incluso un arpeggio abbastanza complesso ed una teoria sulla nascita di un nuovo fascismo che con la chitarra ha poco in comune. Le classi medie, sarebbe l’idea dell’allievo Paolo, sono quelle che dalla crisi vedono profilarsi la 49 minaccia più grave, incomparabilmente più dannosa rispetto ai danni che subiranno le classi estreme. Quelle più alte, ricchi proprietari di beni reali e finanziari, possono con degli accorgimenti ripararsi dalla piena, anzi con un po’ di coraggio e fortuna potrebbero anche ritrovarsi in breve tempo più ricchi di 5 anni prima; le classi più basse, operai senza proprietà o impiegati con l’affitto da pagare, erano poveri prima e continueranno ad esserlo anche dopo la crisi. Il problema – e qui il tono di Riccardo si fa più grave - sono le classi medie che tenderanno a scomparire. Ogni giorno decine di famiglie benestanti rientrano nella soglia di povertà… Ho idea di cosa voglia dire questo per persone abituate alle ferie d’agosto? No che non ce l’ho, e neppure la voglio avere – protesto - a me che importa? E’ qui che sbaglio, mi ammonisce con severità. Persone che si vedano tolto ciò che fino al giorno prima ritenevano fosse un loro diritto, il cinema, il ristorante, l’amante, e che si compatiscano scivolando verso culture e comportamenti che non gli sono mai appartenuti, sono socialmente una bomba con un timer made in China, potenzialmente difettosa ma pericolosissima. Potrebbero ritenersi pronti ad ogni cosa pur di non impoverire con l’ufficiale giudiziario a pignorare i mobili, anche ad accettare, anzi incoraggiare, una sterzata feroce verso sistemi totalmente autoritari. Figuriamoci, a me basterebbe il pollo allo spiedo con le patatine e la pelle abbrustolita da mordere, che goduria, non ho bisogno di un sistema fascista. 50 Pacchi marroni ripieni di confezioni di pasta sfoglia io sogno, e spinaci e caciotte cotti insieme al vapore asfissiante di una cucina che rimanga aperta tre giorni consecutivi. Culatelli, salami e speck dell’ Alto Adige, affogati in un getto continuo di polenta bollente a riscaldare il mio petto tisico, nei giorni di ghiaccio e neve sconfitti dal vino rosso di Lipari. Arrosti, salsicce e champagne, per celebrare il ritorno alla vita che avverrà prima o poi, così come il sesso gioioso e invadente che in questa stagione si è dileguato. Lumache, rane fritte e carote, condite con un filo d’olio extravergine ed un filone di pane pugliese, che puoi mangiare anche dopo una settimana: è sempre buono e croccante. Una barchetta a remi di due metri, piccolina, ancorata al secondo piano nel balcone di casa e ricolma di ostriche, scampi al forno e calamari ripieni, belli caldi, e spaghetti cozze e vongole fumanti nei piatti ancora sporchi di paella valenciana. Un bel Can Freixenet da sorseggiare ghiacciato, come si addice ad una vera signora e infine un lungo, potente e irresistibile, assolutamente alieno da una vera signora che non sarò mai, rutto genuino e rimbombante che dica al posto mio: sono viva, ho mangiato anche oggi! C’è la mia teoria, poi c’è quella di Paolo che ha la sua teoria, seguita da alcune riflessioni sulle pentatoniche, la teoria di Riccardo… Ma non abbiamo una nostra teoria, che in momenti di sconforto estremo sono convinta potrebbe donarci la chiave del rebus. Deglutisco l’ultima cipollina e metto l’opzione silenzioso al cellulare. Dovrebbe 51 chiamarmi il signor ragioniere per il volantinaggio di domani, ma non importa perché il signor ragioniere è così preciso nel suo lavoro da riuscire ad organizzare tutto, dalla via da volantinare alle nove, al numero di pezzi da lasciare in ogni cassetta della pubblicità, al ritmo di camminata che noi ragazze dovremmo tenere, tutto, tranne quando si tratta di pagare. Lì nascono i problemi, le inesattezze, i malintesi, con il risultato che l’ultima volta ho dovuto attendere 6 mesi per avere i miei 157 euro. Anche il ragioniere avrà una sua teoria, ovvio, sarà che se delle ragazze pensano di poter ricavare quanto necessitino per sopravvivere dai volantinaggi non hanno capito nulla; deve essere un plus, dice lui, un quid che aiuti ad integrare le mie entrate mensili. Ergo, seguendo la teoria ricca di latinismi, se questi pagamenti non sono indispensabili a vivere, le giovani possono attendere con tranquillità due, quattro, sei mesi. Ecco, questa è la teoria del ragioniere, completamente opposta alla mia, in definitiva. Che poi sarebbe la seguente: spero proprio che il ragioniere mi chiami e non abbia nessun’altra disponibile che non sia io che, nel più assoluto silenzio, ricaverò un piacere sottile dal non rispondere al suo nome lampeggiante dal display del Nokia. So bene che quelle di negarsi al citofono o non rispondere al cellulare siano delle enormi vigliaccate. Ma dobbiamo cancellare questi schemi mentali ed inventarcene di nuovi, se ci interessa la nostra sopravvivenza. Tutti i comportamenti educati, le buone maniere, i valori del rispetto sempre e comunque, sono serviti a tenere in piedi 52 fino ad ora una società che oggi caccia via i suoi figli senza svezzamento, lasciandoli in un bosco a cullarsi al suono di una cantilena che ripete arrangiati. Se è vero che crisi significhi cambiamento anche l’abituale schema di valori dovrà mutare, e se saremo capaci di sostituirne uno nostro potremo provare a giocare anche noi, sennò siamo esclusi. Il mio nuovo schema è questo: non ti rispondo al cellulare signor ragioniere, non ti richiamo e non spendo nemmeno i centesimi necessari ad inviarti un sms, se per me non è assicurato al cento per cento un guadagno immediato. Non rispondo al telefono, non lascio il mio posto alle vecchiette in bus, non pratico la raccolta differenziata: io non partecipo fino a quando non avrò la possibilità di scegliere se farlo o meno. Due giorni fa ho comprato dei pomodori da insalata in offerta. Il conto era di un euro e tre centesimi ma la cassiera ha preferito avere solo un euro, anziché cambiarmi una banconota. Ridendo le ho detto “allora stasera festa grande!” ma ero serissima, e lei che ha sorriso a sua volta non immaginava che stavo solo fingendo fosse una battuta, e che in realtà quei tre centesimi potevano forse risolvermi un serio problema di bilancio in quella giornata. Penso a quanti trucchi ho dovuto escogitare per cercare di risparmiare quei due, tre centesimi al giorno, e penso anche alle mie ex colleghe di università. Quando le incontro mi devono per forza parlare di quanto si sentano inutili e depresse, a 30 anni mantenute dai genitori con i quali sono ancora costrette a vivere, e di come 53 vorrebbero costruirsi una vita, con un uomo e dei bambini, magari una casa, magari un solitario al dito. A loro vorrei dire: lasciate perdere e mantenetevi allegre, è molto meglio sentirsi inutili e mantenute che trovarsi di fronte alla scelta più brutta, quella da esaurimento nervoso… Un panino oggi, o una bottiglietta d’acqua? Anche le mie ex colleghe hanno bisogno di un nuovo schema ideale, lo necessitano come l’acqua il basilico d’estate. Dunque, con molta pace interiore, come un gatto vecchio e sovrappeso che non si muova più dal suo divano, approfittate della situazione. Non è colpa vostra in fondo se le generazioni che adesso vi rimproverano la mancanza di coraggio e iniziativa hanno spolpato e digerito tutte le vostre speranze fin dal giorno in cui siete nate, senza offrirvene un pezzettino per giunta. Siate come me, tutte dame di un castello al quale hanno tagliato la corrente, a specchiarsi nel riflesso della luna che si abbatte sulla pila di bollette non pagate. Nel nuovo ordine di idee è la donna che deve spazzare casa, esattamente come in quello precedente, perché il mio uomo deve, a suo dire, prepararsi per la lezione. Che cosa preparerà poi, lui solo lo sa; per mio conto non l’ho mai visto prendere nemmeno un appunto ed ho il fondato sospetto che i suoi argomenti di discussione altro non siano che invenzioni estemporanee. Tuttavia ramazzo in fretta, uno degli aspetti positivi di una casa piccolina è appunto quello di non dover perdere troppo tempo a lucidarla. Paolo 54 suona alle due e mezza spaccate, sale gli scalini a quattro a quattro con la chitarra in spalla. Mi saluta con calore, è simpatico e ritiene simpatica anche me, me l’ha detto Riccardo in uno dei suoi sempre più frequenti slanci introspettivi. Anche grazie a questa liquidità nel loro rapporto io oggi rimango. Ormai si comportano come fossero amici e l’imbarazzo di vedere una terza persona stravaccata su un letto mentre loro provano scale e riff può dirsi definitivamente eliminato. Tra l’altro non li osservo nemmeno più, mi sdraio semplicemente e socchiudo gli occhi, seminascosta dall’ultimo grande acquisto che la nostra coppia di fatto ha effettuato presso la società della nettezza urbana: un separé antico, come lo definiamo noi, che 99 persone su cento chiamerebbero vecchio e 90 di queste getterebbero con disgusto proprio là dove lo trovammo noi una settimana fa (a Barcelona, sulla Rambla del Raval, ogni sera c’è qualcuno che cerca il suo tesoro, si avvicina furtivo ma risoluto, apre il cassonetto e tira fuori la busta piena di pane indurito e mangiabilissimo che sempre lo stesso ristorante per turisti grassi ha appena buttato nella spazzatura). Mi appiattisco contro la parete ed ho l’impressione di dimagrire nell’operazione, i due chitarristi hanno già cominciato a sciogliere le dita con esercizi che il mio uomo senza molta fantasia ha chiamato semplicemente unoduetrequattro. “Dovresti alzare leggermente il pollice” dice Riccardo serissimo. “Si, scusami. E’ Alice che mi distrae da dietro il separé” ribatte Paolo. Incrocio la sua immagine dalla 55 giuntura del separé e non rispondo, dopo questa battuta continuerà la lezione come se non ci fossi, lo fa tutte le volte. Anche se ho appena mangiato ho dei capogiri violenti; sento che mi manca qualcosa di potente: una iniezione di zuccheri o delle compresse agli aminoacidi ramificati, magari una seria cura di pillole di ferro per 80 giorni consecutivi. Fortuna che la mia posizione è orizzontale, posso chiudere gli occhi e far finta di nulla. Riccardo spiega la paginetta che avrà scaricato da Wikipedia con la stessa autorevolezza scientifica del capo di una equipe di chirurghi di fama: “La pentatonica è composta da cinque note, ed è una delle scale più utilizzate nel rock e nel blues. La sua facilità di esecuzione ci permette di giocare con l’improvvisazione e ricavarne qualche semplice ma soddisfacente riff in distorsione con l’elettrica.” Ecco: meno male che oggi utilizzano solo chitarre classiche. “Come nelle altre che abbiamo imparato a conoscere, anche qui la divisione è tra scala maggiore e scala minore. Vediamo prima come si costruisce la scala pentatonica maggiore” comincia a porre l’accento su alcune parole più importanti, rallentandone il ritmo. Il suo obiettivo è arrivare illeso alla prima mezz’ora, da lì in avanti il percorso sarà in discesa, per questo rallenta sulle parole che chiudono il periodo, così il tempo passa indenne “…poi passeremo alla scala pentatonica minore.” Anche qui, su pentatonica e su minore ha enfatizzato deciso. 56 “Comincerei subito con lo scrivere lo schema di tutti e cinque i gradi della scala… ci servono un foglio e una penna” e adesso tutti a cercare un foglio ed una penna. Ne potrebbe tirar fuori decine, se solo aprisse il cassetto delle lettere di diniego. Lo sa benissimo che è pieno, ma fingerà di non riuscire a trovare un foglio almeno fino a quando un altro minuto non si sarà consegnato alla storia, sconfitto. E’ un conto alla rovescia che lo distanzia dai 10 euro sospirati più che una lezione dell’amore mio intelligentissimo e scaltro. “Dunque ecco la scala pentatonica maggiore. Come vedi non è altro che una scala maggiore dalla quale abbiamo cancellato il quarto ed il settimo grado.” Paolo ne è entusiasta. Ho indovinato persino un lampo di ammirazione nel suo sguardo da allievo, come se ad inventare le pentatoniche fosse stato proprio il mio Ric in persona. “Se quindi volessimo trovare immediatamente una pentatonica maggiore potremmo, per semplicità, prendere a prestito dalla scala di Do maggiore i gradi: primo, secondo, terzo, quinto e sesto. Cioè, e questo ti invito a scriverlo, quelli chiamati rispettivamente: tonica, sopratonica, mediante, dominante e sopradominante.” Ecco la dimostrazione scritta che il mio Ric è un truffatore nato. Non c’era davvero alcun bisogno di questa ulteriore specificazione per capire come si costruisca una pentatonica. Lo so per certo, lui stesso l’ha scoperto ieri che i vari gradi delle scale avevano persino un nome. E adesso mi sento anche un po’ in colpa per averlo giudicato male prima, mentre 57 spazzavo casa. Stava davvero preparando la lezione, ripassava a memoria questo gran colpo di teatro dal titolo lunghissimo: tonica-sopratonica-mediantedominante-sopradominante. Mi verrebbe da alzarmi ed abbracciarlo da tergo, amore mio. “Un pattern molto semplice, con tonica in Do partendo dalla sesta corda è questo” e tira fuori un foglietto che inviterà a ricopiare. Tre minuti ancora sono sfuggiti per sempre. Poi cominciano, intanto un raggio da fuori si stampa sul body della Eko di Riccardo rendendo il tutto molto più scintillante, a provare e riprovare su e giù per i manici delle due chitarre. In pochi minuti il sound è quasi gradevole, anche forse per via dei miei capogiri ipnotici. “Per la pentatonica minore devi eliminare il secondo ed il sesto grado, diminuendo di un semitono il terzo ed il settimo. Ecco lo schema.” Paolo ricopia con trasporto. “Se volessimo fare un esempio partendo dalla semplice tonalità utilizzata in precedenza, la relativa scala pentatonica minore sarebbe quindi formata da Do, Mi bemolle, Fa, Sol e Si bemolle.” “Scusa Riccardo, non ho capito perché mettiamo un Si bemolle invece di un Si.” Ecco, come ogni volta arriva la domanda a bruciapelo. Ho un brivido leggero che mi scompiglia i peli chiarissimi ed invisibili del braccio destro, come per una ventata d’incertezza che, lasciata per sbaglio l’anta aperta e di sbieco, entrasse gelida in questa stanza a posarsi sul mio braccio, e rimbalzando sul separé si depositasse davanti agli 58 occhiali di Riccardo, oscurandone lo sguardo sbigottito. Ma lui sa bene come riscaldarsi, ha una tecnica che fallisce solo in rari casi; l’ha imparato da uno dei colleghi incontrati nei tanti lavoretti bimestrali, uno di quelli che considera maestri di vita, un muratore sessantenne ignorante come una scarpa ma di una saggezza indù trascendentale. “Quando qualcuno non ha capito una cosa che gli hai appena spiegato – tuonava il muratore dall’alto di un ponteggio appoggiato ad una montagna, incrociando le gambe – ripetila ancora una volta, con le stesse identiche parole, ma più lentamente ed a voce più alta. Così parlò lu muratushra”. Ed è proprio quello che adesso fa Riccardo mentre il suo allievo, dapprima incerto, accenna un piccolo movimento di assenso, un su e giù con la testa che significa: non ho capito nulla un’altra volta ma ho troppa vergogna per chiederti di ripetere. Io cerco di sovrapporre i suoni, ho voglia di creare un ambiente più piacevole; accendo l’mp3 e ascolto a volume bassissimo Dear Prudence, con l’arpeggio che sembra la sigla di un programma notturno in onda su un pianeta di un altro sistema solare, inventato da un qualche guru della radiofonia dosando sapientemente argomenti di econometria, alta moda e scale in la minore spiegate a voce alta dal mio fidanzato. Ed è una lotta di volumi tra il lettore con un solo auricolare funzionante e gli errori ripetuti di Paolo, che parte dalla sesta corda quando è il momento di suonare la quinta e dalla quinta quando dovrebbe rimanere fermo. Riccardo non si 59 scompone, se lo conosco bene – e lo conosco benissimo – sta solo contando i minuti che lo separano dal bottino quotidiano. Si direbbe anzi che ogni svista dell’alunno non sia altro che una fresca boccata di nebbia delle Dolomiti, per lui. Ha la possibilità di continuare a spiegare la stessa cosa, con le stesse parole, solo con un tono un po’ più alto, per altri cinque minuti. Un dodicesimo di ora, 83 centesimi, non è del tutto male. “Le scale pentatoniche richiedono poca fatica ma possono regalarti delle soddisfazioni enormi, una volta che le avrai assimilate. Io, se sei d’accordo e te la senti, farei un piccolo passo avanti, in modo da lasciarti un buon quantitativo di esercizi da svolgere durante la settimana.” Paolo è d’accordo, non c’è una volta che non sia d’accordo. “Ok, allora aggiungiamo al nostro programma di oggi anche la classica scala blues.” Sempre così, ha gli ultimi dieci minuti e non sa come riempirli. Si inventa degli approfondimenti sul momento, giuro di averlo visto con i miei occhi ricavare ad orecchio la melodia della vecchia pubblicità del Nescafé, tattarà tta taa-raa-ra, o inventare una canzone d’amore stile Sanremo, partendo da tre accordi e un articolo su Max, giusto perché mancavano dieci minuti che non sapeva come riempire. Le annuncia con tono gioioso anche, il paraculo. Dice e adesso l’angolo del divertimento! E i suoi allievi, sorridenti come bambini al circo, applaudono festanti. “La scala blues non è nulla di complicato, soprattutto dopo aver dominato le pentatoniche. Te lo dico come fosse un gioco facile facile: prendi la 60 prima scala pentatonica maggiore che abbiamo studiato. Ecco il nostro foglietto, come vedi abbiamo la sequenza Do-Re-Mi-Sol-La. A questo punto ti faccio una domanda: hai mai sentito parlare della blue note?” “Si, se non sbaglio è una nota che forma un cromatismo.” “Esatto! Aggiungiamo una blue note tra il secondo ed il terzo grado ed avremo la scala blues. Quindi aggiungerai un Mi bemolle tra il Re ed il Mi. Non dirmi che è difficile…” “No, effettivamente è abbastanza semplice.” “Bene, allora proviamo.” Ora: io di chitarra e teoria musicale ne so solo quanto basta per scaricare da internet un testo con accordi e provare a strimpellare ignobilmente un pezzo che mi piaccia in modo particolare. Ragion per cui non so se in verità tutte le cose che Riccardo spiega siano vere, se lo siano solo in parte o se magari in mezzo a solide pareti teoriche ci siano mobili marci a buon mercato rubati ad una discarica. La sua idea al riguardo è impeccabile: se vengono da lui è perché ne sanno poco, quindi come potrebbero mai accorgersi dei suoi errori? E poi – termina sicuro – Wikipedia non sbaglia mai. Ecco cosa siamo, noi due: una scienziata politica aspirante cassiera di supermercato ed un ex muratore laureato in legge che per vivere dice a tutti di aver imparato a suonare la chitarra a Liverpool. Entrambi innamorati, entrambi seguaci indefessi di Tweety e Gatto Silvestro. 61 La lezione sembra consumare le sue ultime note; mentre i due continuano a provare i loro giri sbilenchi, passando senza timore da contesti maggiori a scale minori derelitte e qualche suono blu impenna le corde, l’idea arriva. Dapprima appannata, e ne colgo solo qualche sensazione di placida delizia, come quando una foglia di basilico nel pomodoro in cottura si spacca ed arriva in folata alle narici. Piacevolezza ignorante, che arriva prima all’istinto e poi al raziocinio, ma in ritardo, quando l’alito d’odore si sia già esaurito. Poi il vetro si spanna e riesco a cogliere pezzi interi della creatività che ha parcheggiato qui, sul mio materasso a una piazza e mezza, condito con lenzuola di Taipei. Vedo uno schermo, vedo i monitorini accesi a indicare che la connessione è virile, solida, in forma. Un blog vedo, e tanta gente uguale a me che mi saluta. Colori vari, ed una penna schizzata d’inchiostro simpaticissimo. Infine l’idea si svela tanto completamente da percepirne appieno i contorni netti e precisi: un libro scriverò, un libro! Com’è che, tra tutti questi schifosi giorni in fila uno ad uno, manchevoli di grazia, di pane e di poesia, bagnati da baci asciutti di sensualità, raccolti nel fondo viscido delle boccette d’olive in salamoia, sfregiati dai miei mal di testa di cartone, com’è, che questa ispirazione l’ho avuta solo adesso? Tutto è chiaro diamine, tutto è completo: la mia gonna di stoffa increspata servirà ad asciugare le parole versate per terra. Un libro, un diario, un romanzo che parli di me, delle mie coperte fredde e 62 dell’alito del cane del direttore di banca che conoscerei, se solo potessi aprire un conto. Un libro a martello, a picchiare le teste pelate dei bruti, alla Posta, in Comune, al multisala: raccolti a pensare solamente a se stessi. Un racconto nel quale io sola sia la regina. Comparse e staffieri m’inciprieranno il naso ad ogni momento ma io, io sola, sarò da scrutare. Paffuti polletti giocheranno liberi nei miei giardini; un balzo, un chiocco, un pernacchio. E poi tutti dentro, a servire la notte come fosse rigata di nuvole bianche ed alci stellati. La mattina scenderò dal mio baldacchino argentato, con pizzi di seta e tendine a fiori, correndo salterò le scale a quattro a quattro con una chitarra in spalla, poi sarò dai miei adorabili polli. E lì, imbracciata un’autentica Fender, ne punterò uno, uno solo per quel giorno, e lo farò arrotolato prima ancora di essere cotto, perché e così che a me piace. Un libro nel quale sia io la vigilessa del fuoco chiamata a soccorrere un gatto incapace di scendere da un albero, freddo ed impaurito. Sarò tanto gentile da accoglierlo tra le mie braccia materne e calde e poi, mentre nessuno guardi, con un movimento veloce delle mani, lo adagerò delicata nell’imbocco della cisterna. E lì morirà, affogato, per mano mia. Sarò protagonista, regina di un tempo andato, a cavallo di un asino sbilenco e gracile, innamorato di una giumenta che non lo degni nemmeno di un peto o di un filo di fieno marcito. Canterò il perché della mia mancanza di voglia unita all’incazzatura per essere viva ma non vegeta, con la stessa maestria che 63 un cuoco vecchio e sfatto utilizzerebbe nell’imburrare una fetta di toast, con la stessa identica lucidità che un eroinomane impiegherebbe nello snocciolare i nomi dei 7 re di Roma, di notte al chiaro di un lampione. Sarò purulenta e fragile, innamorata e triste, spigolosa e docile nel mio intento peregrino di bere un litro di benzina per sputarlo, dopo un mese, sul fuoco degli inganni che ho ingoiato nei miei anni. Io, trentenne sfracellata che si staglia senza posa sullo schermo di chiunque, solo per dire: non mi uccido! Rimango qua e ti solletico con il mio piedino di fata fin quasi a farti male, di modo che tu implori basta, basta, basta. Scrivere un libro dunque. Indossare per un’intera giornata dei jeans cinesi più piccoli di 2 taglie. Notare segni evidenti di crisi isterica già dopo un quarto d’ora e continuare a soffrire, intanto la rabbia che cresce inquina le buone maniere. Poi implodere, catturando in fogli bianchi le espressioni più felici, le subordinate più atletiche, i punti e virgola più arditi. Il mio libro lo scriverò sul retro delle lettere con cui gli istituti bancari mi comunicano le loro completezze di organico, ho talmente tanta di quella carta che potrei farne un kolossal. Ho ancora decine di moduli per contratti da inviare via fax ai clienti, memorie della mia precedente vita da agente di vendita, sono sicura che la cosa mi regalerebbe una soddisfazione sottile. E le penne? Almeno dieci ne occorrono, senza contare quelle che potrei perdere e quelle che non scrivono. Ne sceglierò alcune con i 64 nomi delle agenzie interinali, poi altre più esotiche tipo Cisco Systems o Tecnocasa. Voglio scriverlo a penna, su veri fogli di carta, fatto da così tante pagine da beccarmi una tendinite e riuscire a sentire il tonfo dell’unghia smaltata del dito medio che cade per terra. Scriverò di notte, penserò di giorno, riposerò solo alla fine. Perché ogni pagina che riuscirò a riempire sarà un’ora in più della mia vita futura e un anno in meno nella condanna: trovare parole nuove ad ogni rigo che si facesse avanti sopra il bianco dei fac-simile. Dear Prudence suona per la terza volta nel mio orecchio destro. Sembra dirmi ogni cosa, mostrarmi quanto sia chiaro il confine tra foglio bianco e scarabocchi a penna, tra essere e non essere mai stata. Lasciare qualcosa di sé, che sia utile in ogni caso, da leggere sotto un temporale, da utilizzare come testimonianza quando una selezionatrice che nel tempo libero gridi Italia Unoo chiedesse: “può farmi un esempio concreto di un progetto che è riuscita a portare a termine? Se vi è mai riuscita, ovviamente.” Rubare dello Svitol al supermercato, spruzzarlo sui bulloni esagonali e scardinare la mia fantasia, lasciarla libera di farmi dire ciò che voglio, e poi scriverne. Scrivere anche Italia Unoo a lettere d’argento, con il cacciavite a stella, sulla fiancata verde petrolio di una bella Mini appartenente alla mia selezionatrice preferita. Questo farò, senza dubbio. Manderò via Riccardo per 6 mesi, lo spedirò dai parenti in Puglia a giocare a racchettoni sulla 65 spiaggia, non m’importa se è gennaio: possiede un fisico talmente duro da resistere a questa e ad altre sfide d’amore. Il monolocale rimarrà completamente mio, libero da chitarre e scale armoniche zoppicanti, odorante d’incenso come un altare sul quale poggerò le mie carte, il dizionario, le penne ed i biscotti, per poi scrivere di me, di lui, dell’altare e dei biscotti. Pagine scorrevoli e semplici da leggere, mancanti di parole forbite o espressioni desuete, capitoli che abbiano peso specifico pari a zero, o così basso da poterli versare su una padella piena d’olio di semi di girasole bollente e vederli galleggiare comodi. Righe da leggere in una giornata di pioggia al pc, con una tazzina di caffè fumante in mano: così sgradevoli da far venire voglia di versarne metà sulla tastiera e metà sull’hard-disc attraverso lo sportellino aperto del lettore dvd. Parlerò di me e della mia vita, di Riccardo e dei suoi allievi, con l’unico intento di far sentire chi leggesse molto meglio di me, più intelligente, più socievole, più ricco. Parlerò alle donne come me, perché comunque toccherà sempre a noi tirare avanti la carretta, mentre i maschi siano impegnati nelle loro imprese fallimentari. Alla donne che come me vedano svanire la propria freschezza, orfane di shampoo al tiglio e fard di marca, di un paio di scarpe decenti, di una borsa di pelle e di una vera scopata romantica, almeno una volta al mese. Mi abbiglierò da lanciatrice di giavellotto e con un filo leggero di matita partirò alla carica come andassi alla guerra. Prima nei fossati vuoti, poi nelle fogne condite di topi, infine nelle pozzanghere dopo la 66 pioggia io cercherò il mio gioiello. E sarà un periodare incerto, smozzicato e traboccante, fastidioso, debole e ignorante. Le situazioni mi sfuggiranno di mano, mentre i personaggi m’implorano di fargli fare cose che non avevo immaginato, oppure qualsiasi gesto pur di non rimanere immobili. Poi, delusi, se ne andranno per la loro strada togliendomi persino il saluto. Senza stupire ad ogni costo, solo con la voglia netta di parlare duramente di cose futili, criticare, accoppare, e poi farmi trascinare come una scema della voce materna di Zuzana Navarovà che cantava Andělská, buttare via fogli e penne e rimanere ad ascoltare: vorrei dormire dodici ore cullata dalla sua voce. Svegliarmi, accendere la radio ed ascoltarla ancora. Il libro che ho deciso di scrivere sarà gratis, ovviamente. Di inviarlo alle case editrici non se ne parla. Non posso mica mandargli il retro dei moduli prestampati scritti a penna, non credo che accettino manoscritti via mail e poi non ho denaro né voglio spenderne per francobolli e raccomandate. Senza contare che io non pagherei mai per leggere cose scritte da me, e non capisco perché gli altri dovrebbero sentirne la necessità. E infine, in tutta onestà, un ammasso di pagine che odorino di cassonetto dei rifiuti ho paura dia consigli troppo espliciti agli addetti delle case editrici, come dire, che suggerisca di restituire l’opera al suo ambiente naturale: fossati neri, pozzanghere, fogne. Che serietà mostrerebbe un libro che parli di povertà che costasse 12 euro in carta patinata? 67 Un libello a scrocco sarà, in internet, a disposizione di tutti quelli che non studiano, non escono con la fidanzata, non mangiano un panino, non fanno jogging, non decorano l’albero di Natale dopo essere sopravvissuti ad una fila da fine del mondo per accaparrarselo, non bevono liquori, non hanno nulla da cucinare né camicette da stirare, non sistemano nulla in garage, non vanno in centro solo per provare qualche gonna nuova, non odorano di tonno e non hanno mai pescato, non portino indietro un orologio al negoziante perché s’è fermato esattamente 24 ore dopo l’acquisto (svizzero, non c’è che dire), non innaffino gerani, menta o tulipani, non guidino e non rinnovino la patente, non giochino a tennis e non abbiano racchette da incordare dopo un game violento, non abbiano canali da risintonizzare perché non hanno comprato nessun nuovo apparecchio televisivo, non abbiano insomma nulla, nulla, null’altro da fare nella maniera più assoluta. Questa nuova, splendida trovata mi ha quasi fatto passare il mal di testa, è un buon segno, mi fa già del bene. Tu intanto continua così bello mio, che ormai ci siamo. Ho avuto una fortuna immane ad averti conosciuto. Certo, forse il fatto che di musica tu non capisca veramente un cazzo ti ha aiutato, ma sta’ tranquillo: io sono qui per incasinarti ancor di più quelle quattro cose che credi di sapere. “Dovresti sciogliere il quarto dito con esercizi di resistenza. Anziché l’unoduetrequattro comincia a provare il trequattrounodue e viceversa…” “Ok.” 68 “Si però Paolo, cerchiamo di capirci bene: lo devi fare tutti i giorni, mezz’ora almeno. Ci siamo capiti?” Certo che ci siamo capiti, ci capiamo sempre. Poi però a casa tua non ti eserciti neppure per un minuto, così la settimana successiva siamo sempre punto e a capo. La qual cosa non è che non mi interessi, anzi. Mi fa un enorme piacere, bello mio. Dove lo trovo un altro che mi paga per ripetere sempre le stesse cose e provare ogni martedì gli stessi esercizi? Io ti devo ringraziare, amico mio carissimo. Sei la prova vivente che io nella vita posso pure avere culo, anche se solo per un’ora a settimana. Mi spiace solo per Alice, povera mia dolcissima, che stamattina si sarà stancata per il colloquio e adesso non può nemmeno riposare in pace. Ma è finita, amore mio, anche quest’ora è andata via, tra poco mi sdraio accanto a te e ti abbraccio per tutto il tempo. Vita mia, non le ho nemmeno chiesto com’è andata, ma forse ho fatto bene. E’ sempre nervosa dopo, è meglio lasciar passare qualche ora, giusto per farle distendere i nervi e riordinare i pensieri. Sono sicuro che se le avessi domandato non avrebbe saputo cosa rispondere; deve prima rifletterci, poi capirà se è andata bene o male. Chi se ne frega se è andato male, chi se ne frega. Io finalmente ho un libro, una idea tutta mia cui dedicarmi. Per prima cosa aprirò un blog che porti lo stesso titolo del romanzo, poi comincerò a cercare appassionati di lettura e, man mano che le pagine crescono, li terrò aggiornati online sugli ultimi sviluppi. Ho qualche esperienza, potrei persino 69 realizzare un sito in html e caricare lì il romanzo, si: probabilmente è proprio quello che farò. Poi ci sarebbe il mio metodo infallibile e segreto. Certo, non è diabolico e raffinato quanto quello di Riccardo, ma l’importante è il risultato finale secondo me. Lui è convinto di riuscire a sposare Carmen Consoli. Già dal giorno successivo alle nozze compreranno, coi soldi della cantantessa ovvio, decine e decine di chitarre, delle marche più sfavillanti e ricercate. Infine arriverà il divorzio. E lui, dall’alto dei suoi studi di giurisprudenza e fiancheggiato da un suo amico avvocato, è convinto di riuscire a farsi assegnare tutte le chitarre, adducendo il fatto di essere maestro privato di chitarra e di aver utilizzato quel tesoro come bene strumentale. Non so poi come ha pensato di risolvere il problema della comunione de residuo o della separazione dei beni, né come diavolo è convinto di riuscire a sposare la fantastica Carmen. E’ sicuro che vi riuscirà, e tanto deve bastarmi. Il mio metodo è diverso. E’, diciamo, leggermente più tecnologico e sicuro e non prevede, almeno in una prima fase, la presenza né di preti che mi sposino né di civilisti che mi aiutino a divorziare. Io credo che elaborerò un sito internet sul quale pubblicare il mio romanzo e che sarò così brava nello sfruttare le possibilità offerte dalla rete che vi giungeranno centinaia di persone. Starà a loro poi decidere se dare un’occhiata, se passare oltre subito subito, se 70 soffermarsi invece su qualche pagina, se addirittura scaricare il file gratuito in pdf. Qualcuno, e lo ringrazierò personalmente suonandogli alla porta alle 3 di notte, nientemeno si spingerà ad accendere la stampante e consumare mezza risma di carta stampandolo. Una persona, una sola persona nel mondo, sono convinta lo porterà persino in copisteria per una rilegatura economica. Non sarò io, sarà la zia Rachela. Lo farà leggere a tutte le sue amiche, e chissà che non ne escano fuori dieci o venti euro: sarebbe la luce, sarebbe bellissimo. Bene, ottimo: ma gli altri? Come faranno a sapere che esiste questo libro in rete, tra decine di altri, tutti scritti meglio? E’ qui che il mio metodo si fa interessante. Dunque: lo sfondo della home page sarà bianco, il titolo sarà in grassetto nero, poi ci sarà il link per scaricarlo in pdf, il contatore delle visite, e poco altro. Ed è proprio questo poco altro che mi renderà celebre: saranno centinaia di parole corpo 8 scritte in colore bianco su sfondo bianco, invisibili agli occhi ma indicizzate nei motori di ricerca. Voglio che chiunque cerchi dei biglietti per il concerto degli U2 a Bari non li trovi affatto, anche perché non credo che gli U2 daranno mai un concerto allo stadio San Nicola, piuttosto troveranno il mio libro, e stampandolo potranno consolarsi per il mancato concerto. Utilizzerò una lista di tutte le provincie d’Italia e la incollerò alle altre tag, è facile recuperarla: basta andare su un qualsiasi sito di annunci e provare ad inserirne uno. Magari con questa scusa potrei anche spulciare tra le offerte di lavoro. Inserirò Agrigento Alessandria Ancona Aosta Arezzo Ascoli Piceno Asti Avellino Bari Belluno Benevento 71 Bergamo Biella Bologna Bolzano Brescia Brindisi Cagliari Caltanissetta Campobasso Caserta Catania Catanzaro Chieti Como Cosenza Cremona Crotone Cuneo Enna Ferrara Firenze Foggia Forlì - Cesena Frosinone Genova Gorizia Grosseto Imperia Isernia La Spezia L'aquila Latina Lecce Lecco Livorno Lodi Lucca Macerata Mantova Massa Carrara Matera Messina Milano Modena Napoli Novara Nuoro Oristano Padova Palermo Parma Pavia Perugia Pesaro e Urbino Pescara Piacenza Pisa Pistoia Pordenone Potenza Prato Ragusa Ravenna Reggio Calabria Reggio Emilia Rieti Rimini Roma Rovigo Salerno Sassari Savona Siena Siracusa Sondrio Taranto Teramo Terni Torino Trapani Trento Treviso Trieste Udine Varese Venezia Verbano Cusio Ossola Vercelli Verona Vibo Valentia Vicenza Viterbo e poi molti nomi di personaggi famosi tipo Queen, Mika, Loredana Bertè, Jennifer Lopez, Stevie Wonder, Tom Cruise, Russell Crowe, Sheryl Crow, Julia Roberts, Woody Allen, Mia Farrow, Madonna, Gesù Cristo, Krzysztof Kieślowski, Vasco Rossi, San Siro, Nevio Scala, La Scala di Milano, Scala Mercalli, Luca Mercalli, Fabio Fazio, Maurizio Milani, Lou Reed, Max Biaggi, Alessandro Del Piero, Francesco Totti, Monica Vitti, Alberto Sordi, Carlo Verdone, Vittorio Gassman, Carlo Mazzacurati, Massimo Boldi, Christian De Sica, Michelle Hunziker, Vanessa Incontrada, Claudio Bisio, Ficarra e Picone, Franco e Ciccio, Franco Battiato, Alex Britti, Max Gazzè, Samuele e Pierluigi Bersani, Deng Xiaoping, Cristina D’Avena, i Puffi, i Nirvana, Courtney Love, Andy García, Pedro Almodovar, Javier Bardem, Julio Iglesias, Fernando Alonso, Flavio Briatore, Naomi Campbell, Andy Warhol, Hugo Pratt, Sophia Loren, Juliette Binoche, Julie Delpy, Gianmaria Testa, GianMarcoVenturi, Fabrizio Corona, Lily Cole, Pamela Anderson, Vittorio Sgarbi, Manu Chao, Gabriel García Márquez, Tony Manero, Simon Le Bon, Spandau Ballet, Duran Duran, Enrico Bertolino, Bruce Willis, Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Fiorello, Neri Marcorè, Natalia Estrada, Gioele Dix, Gigi Proietti e Sabani, Romano Prodi, Vince Tempera, Sanremo, Maria De Filippi, Amadeus, Carlo Conti, Roberto e Michele Saviano, Un posto al sole, Whoopi Goldberg, Ingrid Bergman, Gerry Scotti e Calà, Diego Abatantuono, Lando Buzzanca, Daniele Luttazzi, Antonello Venditti, Michele Santoro e Shakira. Spero che bastino. La lezione è sgocciolata via come il sudore di un ramarro, Riccardo è stanco ma soddisfatto. Adesso i due mettono in moto le lente procedure che li porteranno ai saluti finali. Intanto il display del cellulare si illumina, vedo la luce e penso: il ragioniere, hi hi hi. Invece no mannaggia, è Silvia: la mia vendetta è solo rimandata, signor ragioniere. Non rispondo, prima o poi si stancherà. Infatti desiste. Paolo ha conservato la chitarra nella custodia nera imbottita, identica al primo regalo che comprerò a Riccardo al mio prossimo impiego mensile. Magari la prendo un po’ più resistente, se su Ebay vinco un’asta a buon prezzo. Mi sembra assurdo che uno che si guadagna da vivere grazie alla sua chitarra debba sognare di notte una custodia 72 imbottita, e non di suonare sul palco con, non so, i Green Day o Lola Ponce. Ma già, sono tante le cose che mi sembrano assurde. Il display si illumina ancora, stavolta è un sms: “ciao alice sono silvia t devo parlare x favore fammi 1 squillo quando leggi questo sms”. Penso che se i cellulari fossero dotati di un sistema in grado di fornire una scarica a 10 mila volt ad ogni invio di un messaggio senza virgole, il mondo sarebbe più bello ed equo. D’accordo cara, aspetto che Paolo decida di accorgersi che un’ora è già terminata da cinque minuti abbondanti e ti do un segnale di vita. Ma no, non se ne accorge. Finisce sempre così: un’ora di lezione e due di dissertazioni filosofiche e pagine di storia. Mi sembra di intuire che oggi l’argomento sarà John Lennon ed i Beatles. Colgo solo delle frasi a metà, sto veramente scocciandomi qui dietro il separé. Accendo l’mp3 ad un volume più alto di prima e immagino che debba esserci qualcosa di realmente magico nella musica dei Queen perché inaspettatamente decide di funzionare anche l’auricolare sinistro. Grande miracolo! Almeno potrò estraniarmi del tutto. Ad occhi chiusi vedo già il blog con sfondo bianco e rosso, se potessi spruzzerei anche un po’ di lilla. Fantastico sui commenti, sulle persone che scrivono cattiverie, su quelle che si complimentano per la nobile iniziativa. Poi tante foto, e mi scopro a percorrere lunghi tratti a piedi con la digitale in mano alla ricerca di scatti, per nulla annoiata. Fotografo scorci decisamente scomodi, erbacce che crescono attorno a panchine in parchi ormai 73 frequentati solo da reietti, borseggiatori, cani randagi. Scarafaggi impazziti, giusto un attimo prima di essere schiacciati dal cameriere di un ristorante il cui tavolo hanno scelto per l’ultimo pasto. Catturo il sole direttamente puntandoci contro l’obiettivo e non guardando – son mica scema io. Intanto il risultato è gradevole, mille colori dal bianco all’avana. Poi scatto una foto a un bambino e rimango ferma a pensare, talmente in profondità da dover cercare la prima panchina coperta d’erba per sedermi. Guardo la foto, spengo, riaccendo e riguardo ancora sullo schermino da 2 pollici. Due parole mi suggerisco, così insistentemente da essere costretta a pronunciarle a bassa voce: mi somiglia. E’ una impressione sbagliata, ma mi sconvolge. Il figlio che non ho e che vorrei mi pungola il sedere con uno spillo da balia; è un pensiero che scaccio mille volte l’anno per la sua irrealizzabilità ma torna sempre, anche se non l’ho chiesto. E sono mamma in quei momenti, mamma senza un bambino, con la precisa sensazione di tagliarmi un polpaccio pur di farlo mangiare, di farmi acqua se ha sete, di addentare a morte un pitbull che lo guardasse storto. Ritraggo le coppie che hanno smesso di tenersi per mano e nella foto appare una nebulizzazione azzurra, invisibile altrove, che è la loro voglia d’essere da qualsiasi altra parte, distanti l’uno dall’altra. Scavalco recinzioni arrugginite e raggiungo persone dimenticate, amori perduti e rimasti a guardare ciò che non esiste più, passioni infelici, ricordi convinti di essere in grado di 74 riportare tutto indietro, anche dopo mesi ed anni, giacché mai in loro l’amore si è fatto ricordo. Vive, come i germi che non puoi vedere ma che sai esistere ed accrescersi, incuranti dei tuoi non so, non ricordo più. E scatto e scatto, e mentre lo faccio cerco di cogliere un’ espressione che non mi aspetto, un segnale che mi dica: sto bene Alice, è tutto apposto, non preoccuparti. Tutti mi mancate, tutti. Di foto ne inserirò centinaia, tanto che i commenti tenderanno pericolosamente ad incentrarsi solo su queste. A quel punto interverrò in prima persona a riportare l’attenzione sul vero scopo del blog, il romanzo, perché è di quello e solo di quello che bisognerà parlare. Avessi voluto un blog dedicato alla fotografia l’avrei chiamato Scatta che ti passa o una cosa così. Il responsabile marketing del progetto, dal momento che il libro sarà gratis, è vero, ma ciò non significa che non sia necessaria una mente lucida ed esperta che ne curi la diffusione, mi dirà che il momento difficile dovrà ancora venire. Sarà il caso di studiare seriamente una strategia di espansione e decidere quale sia il nostro target di riferimento. Al che io, piccina piccina e indolente, risponderò: tutti. Che faccia da schiaffi che mi ritrovo. Dovrebbero appendermi per le unghie dei piedi smaltate, a testa in giù su una piattaforma petrolifera incendiata sul mare in burrasca. Meriterei un calcio in culo per ogni parola scritta nel libro, un pizzicotto per ogni virgola. 75 Farebbero bene a gettarmi nella vasca dei pirañas con tutte le scarpe. Le scarpe no, pietà, implorerei io, e si, ribatterebbe il mio direttore marketing, uno s’impegna, si fa un mazzo tanto da mane a sera per promuovere il tuo libro di merda e quando ti si chiede non dico una collaborazione, ma una parola d’appoggio, mica un pompino, rispondi con l’aria svagata di chi proprio non gliene importi un cazzo. Si è innervosito, non c’è dubbio. Adesso fa questa sfuriata e poi si calma, lo conosco; è dai tempi dell’università che ha sempre avuto questa mente geniale per la comunicazione, ci sa fare, è il suo pregio. Il difetto è che basta una parola sbagliata, una di troppo o a volte una non detta, per indurlo a sbattermi al muro con violenza, ma è un pezzo di pane, poi gli passa, non fa male a nessuno. “Com’è che si chiamava la via della casa di Mendips?” “Marlowe street, Paolo, Liverpool. Non mi pare il caso di ripeterlo ogni volta” “Ecco, giusto! Marlowe street. Viveva con la zia Susy.” “ Mimì.” “Mimì.” “…” “Sicuro si chiamasse Mimì?” “Sicurissimo.” “Mah. Io ricordavo Susy.” “No. Si chiamava Mimì.” “E Susy allora era la madre…” “Non c’è nessuna Susy, la madre si chiamava Julia. Ha scritto anche una canzone con quel titolo. 76 C’è un bell’ arpeggio che prima o poi studieremo anche noi.” “Senti Riccardo, l’ultimissima cosa: dimmi del quinto Beatle, il produttore discografico.” “Il grandissimo George Martin, della Emi. Ma la cosa veramente importante è che i Beatles, nel loro periodo tedesco, quando ancora si chiamavano Quarryman, divisero il palco ad Amburgo con il nostro Mino Reitano.” “Ecco, si, questo me lo devo proprio segnare. Hai un foglietto?” Stavolta, se davvero riusciranno a raccattare un foglietto, forse è finita. Infatti, dopo tre pacche sulle spalle ripetute due volte ed un’ultima rinfrescata agli esercizi da fare a casa; con un interludio di pochi minuti sulla politica nazionale e le tre soluzioni da adottare per salvare il Paese in un anno (questa teoria Paolo la chiama “delle 4 esse”: sesso, sognare, salario sociale); allargando l’orizzonte del discorso a questioni scottanti di geopolitica e agli imperialismi che negli ultimi cinquant’anni hanno impedito un autentico sviluppo morale dei popoli; passando per il campionato di calcio inglese, con nomi a me sconosciuti ed incomprensibili ma di cui parla come fossero cugini in seconda, Paolo decide di andare. Il mio amore si butta sul letto, così goffo che fa cadere il separé e mi colpisce con un gomito al fianco. Urlo di dolore autentico. Mi abbraccia forte, come se non ci fossimo più visti dai tempi delle elementari, mi bacia. “Amore mio oggi è stata veramente pesante” dice sincero. 77 “Lo so amore, vieni qui dalla tua Alice che ti faccio le coccole” e così dicendo gli sistemo la testa sul mio seno e gli accarezzo i capelli. I suoi cambiano a seconda delle ore del giorno: la mattina sono perfetti, squadrati, leggermente ingellati; il pomeriggio cominciano a scompigliarsi, il gel regge sempre meno con il trascorrere delle ore e le ciocche si distribuiscono in direzioni differenti. E’ qui che li preferisco. La sera sono un ammasso uniforme e confuso che nulla ha a che vedere con la pettinatura da persone normali della stessa mattina. Mentre si rigira e mi abbraccia continuo a riflettere sul libro. E’ un flusso continuo di idee che mi colano dall’ombelico come se avessi tolto inavvertitamente un tappo di zinco dalla mia anima. Se mai scriverò, mi dico, non andrò a fare la spesa, non mi farò una doccia, non invierò nessun curriculum vitae… che importa! Prima scrivere, togliermi dalla testa quest’impellenza che mi impedirebbe di dormire, poi vivere. Mi abbrutirò, mi cresceranno peli ovunque, niente cerette né silk-epil, puzzerò un tantino per giunta. Facile baciarmi e accarezzarmi adesso, amore mio, se mi ami veramente dovrai farlo anche quando sarò nella mia fase creativa, con l’alito pesante e i brufoli. Anche per questo lo manderò in Puglia: non mi alletta affatto l’idea di farmi vedere orrenda, sono sempre stata bella io. Riccardo chiede: “Sei riuscita a rilassarti almeno un po’?” “Si, ho dormicchiato più che altro.” 78 “Pensavo ti disturbassimo, che non avresti riposato per colpa mia. Mi togli un peso.” Siamo rilassatissimi adesso, due ali di pipistrello attaccate a testa in giù alle doghe del materasso, di giorno. Chiudiamo gli occhi entrambi mentre il tempo passa e non ci importa. Il Nokia vibra e s’illumina ad intermittenza. E’ ancora Silvia, avevo dimenticato di rimettere la suoneria. Stavolta rispondo. 79 80 3. Tum-tà tumtumtà tutum tà tumtum ta-tatùm tà tu tum-tà tumtumtà tupatumpà… il picchiare metropolitano mi sfonda la testa, ma quando tali musichette si suonano da sole non posso farci niente, non riesco a mandarle via. Anche i colori avranno la loro importanza, nel concerto che mi si sta caricando dentro, tra fronte e nuca. Quando l’aria si colora di giallognolo, sempre a quest’ora del pomeriggio, ho tutta la stanchezza della giornata condensata nelle mattonelle del marciapiede garibaldino. Ogni metro che percorre la Fiat Uno è un sussulto, tumtùm, tumtùm, che spinge i miei dolci zigomi fermi contro la pelle delle guance traballanti. Ho caldo, infagottata nel cappotto di zia Rachela, ma tuttavia non abbastanza da spezzarmi i pensieri, sempre fissi lì in avanti, come i miei occhi impiastricciati dal sonno pomeridiano. A tratti li socchiudo, ma li spalanco subito ad ogni tumtum. Poi di nuovo stringo le palpebre, per un attimo soltanto. Io sono bella, in questi casi. Già il sole stenta a mostrarsi, e questo sarà pure un ottimo punto a mio favore: la penombra mi giova, ed ancor più le luci dei lampioni che si accendono. 81 Poi il mio volto stanco è più allettante, stimola la voglia di proteggere, almeno agli uomini che ho conosciuto. Il fard mi maschera, la cipria mi sbianca, le labbra rosse m’intarsiano. Non c’è che dire, son proprio bella. Ho persino delle foglie d’oro al posto di alcune ciocche dei capelli che posso scuotere quando voglio, tanto lo so bene che ritorneranno al loro posto, mossi e perfetti come prima, senza nodi. Silvia non è bella, ma è la mia amica, e quindi è più che bella. Si è troppo ingrassata negli ultimi tempi, e il suo volto ha qualche riflesso di quei disperati e depressi clochard che incontri nella linea rossa della metro, di notte. Ha i suoi difetti, ma le manca la cattiveria: per questo è amica mia. Mi aspetta già seduta al tavolino tondo e vecchio. Ha insistito, ha insistito tantissimo per vedermi qui, io che ho l’impressione di non essere più entrata in un bar dagli esami di maturità. La differenza tra quelle come me e le persone normali sta in una tazzina di caffè. Ho calcolato che se andassi a prenderne uno ogni mattina, dal lunedì al venerdì, sarei costretta a rimanere digiuna per quasi due mesi l’anno. Non so, è una idea allettante alla fin fine, potrei scegliere agosto e febbraio, o aprile e novembre, o magari con tantissimo coraggio due mesi consecutivi come giugno e luglio o ottobre e novembre. Per questo io al bar non ci sono più andata da anni, ed è un problema che sembri riguardare solo i baristi, o almeno a me non è ancora capitato di sentire discorsi allarmati delle mie vicine di casa su 82 questa tematica. Invece personalmente lo giudico di una gravità eccezionale. Primo perché per convincermi Silvia ha dovuto usare la frase misticomagica ti offro un caffè; secondo perché devo ammettere di provare un certo disagio, da quando sono qui seduta. E’ come se tutti mi osservassero ed io avessi paura di far qualche figura di merda, mentre so benissimo che non mi sta osservando nessuno. Quando perdi l’abitudine cambi forse senza accorgertene, e qualcosa di sicuro si smarrisce, in questo caso sembra non si trovi più da nessuna parte la parte conviviale di me: vorrei essere a casa mia, sul divano, o al pc per compilare form online o al massimo alle poste, col mio bel numerino e le anziane signore che parlano dei loro fantastici nipoti superdotati e di successo. Ma sono qui, e mi sa che devo affrontare il cameriere che arriva. Solo per il fatto di aver scelto, tra le decine che avevamo a disposizione, il suo bar, deve avergli suggerito il permesso di prendere confidenza: “E cosa portiamo a queste due belle signorine?” “Qualcosa di poco alcolico per favore. Sa, oggi io e la Silvia ci sposiamo e stasera dovremo essere presentabili per il ricevimento. Poi, lei mi capisce, ho intenzione di possederla per tutta la notte, quindi meglio rimanere sobrie, no?” avrò risposto chissà quando e dove. Adesso e qui ho solo ordinato un caffè e un marocchino con la stessa letizia di una che sta per presentarsi all’esame di statistica psicometrica per la terza volta. E’ bastato, il cameriere playboy ha perso tutta la sua loquacità. 83 Mi fanno pena, questi tizi che cercano di farsi piacere mandando a memoria le quattro regolette di un manuale preso a due euro su una bancarella. Non mi giustifico neanche dicendo che loro non abbiano capito nulla dei sentimenti e delle inclinazioni di noi donne, o altre scemenze. Al contrario, io son convinta che questi, di noi donne, abbiano capito proprio tutto: vogliamo proprio quello che loro sanno, che si trova più o meno proprio sotto l’incrocio delle diagonali dell’uomo da un euro. Ma, attenzione, non in un bar… non quando abbiamo delle cose da discutere con le nostre amiche… Silvia è sofferente, te ne accorgi dagli occhi. Le si illuminano troppo spesso, per immediati istanti, poi tornano alla loro opacità solita. Quei riflessi ti dicono solo: ho bisogno. Di che cosa lo puoi aggiungere a tuo piacimento, certa che non ti spingerai troppo lontano dalla realtà, qualunque cosa tu dica. Questo mi fa stare meglio. E’ puerile, lo so, ma mi aiuta. Perché anche i miei occhi lampeggiano ininterrottamente per tutto il tempo. E vedere questo strazio negli altri mi convince ancora di più della mia idea fissa, e cioè che nessuno, in fondo, sia soddisfatto. Nessuno. Gli occhi marroni di Silvia curano i miei, che per un attimo saranno meno disperati e pazzi. Li curano mentre mi racconta sempre le stesse cose delle stesse persone, da anni: il suo fidanzano non fidanzato; Mario ha avuto un incidente, non giocherà al torneo di maggio; Giulia, l’amante del Presidente è una stronza, ma comanda lei. Peccato. Alberto… Come faccio a spiegarle che 84 voglio sapere di lei e non di quella gente multi localizzata che la attornia? Interessati un poco a te stessa, le dico. Gli occhi le si illuminano ancora, siamo entrate in sintonia, ma è un attimo. Ha trovato eccitante d’un tratto il poter parlare di sé, ha assaporato il mio interesse, poi però la sua mente deve aver concluso che il racconto sarebbe stato ben breve, e le ha opacizzato lo sguardo. Cos’hai amica mia, quand’è successo che ti ho persa? La osservo a fondo nei suoi gesti, cerco di capire dai singoli movimenti tutto ciò che vorrei chiederle. Lo faccio d’istinto: col tempo ho imparato a dissimulare, tanto che lei sembra non accorgersi di quanto la stia studiando. “Dovrò trovarlo prima o poi qualcuno che sappia dirmi cosa fare, no?” E’ nervosa, rigira il tizzone che ha in mano per rendere la punta conica, demolendo la cenere tra le pareti della tazzina del caffè. Fsss. “Certo che lo troverai. E come ogni volta non ascolterai i suoi consigli. Non l’hai mai fatto con nessuno” le rispondo distrattamente. “Vabbè ora è diverso. Anzi, ora sono diversa”. E’ vero, è un po’ peggiorata. Me ne sono accorta al primo ciao: è una donna che cammina senza direzione. Lei va, ma il suo è un andare illogico, quindi è come se non andasse. L’ha già detto che cerca un mentore, ma non posso essere io. Minchia Silvia, hai proprio sbagliato periodo, non riesco ad ordinare nemmeno due caffè, figuriamoci la tua esistenza ho pensato di dirle. Al solito le mie frasi rivelatrici restano mie e basta. 85 “Non so spiegarlo – la sigaretta spolpata fino al filtro ingiallito ed umido – ma sono sempre stata impegnata a costruire la facciata del mio bel castello: Silvia allegra, Silvia intelligente, Silvia gran lavoratrice… Ma è come se questa graziosa impalcatura solare – la voce comincia a mostrare qualche sbalzo traditore, la mano destra è instabile con l’accendino - fosse crollata di colpo. Beh, c’è una grossa novità, non c’era niente nel mio bel castello. E’ vuoto, buio e vecchio. Crollata la facciata crollato il resto. E crollo anch’io.” Si è sfogata ed io sono contenta di esserle servita, anche se non so dire niente in questo momento, e rimango a fissarla inarcando la testa. Non per molto però, mi sto accorgendo che il suo sguardo mi riesce difficile, a combatterci contro. Penso ad altro, guardo altro. Sullo sfondo di questo bar stanno attaccate due figure sedute. Ridono. A volte lui si fa più vicino, in un gioco di marcamenti e ritorni, a volte le sfiora la mano destra. Lei sembra un tantino imbarazzata ma ride lo stesso ogni volta in cui lui sceglie il suo orecchio, come spettatore unico di trovate geniali e battute brillanti. Il maschio finge, l’ho visto fare una caterva di volte. Indossa una giacca verde militare a tre bottoni, ma ha anche dei mocassini, sotto il tavolino, e le due cose non si accordano tra loro. Per questo ho capito che finge: recita la parte dello spirito libero e anarchico ma non è bravo perché tradisce comportamenti galanti che lo spersonalizzano. L’ho visto: quando la coppia è entrata, Silvia parlava di non so quale impalcatura 86 solare, lui ha spostato la sedia per farla accomodare. Ecco, si è svelato da solo. La ragazza non sarà una buona osservatrice ma si vede da lontano che lui non è ciò che vuol sembrare. Scommetterei che nel portafogli, tra i biglietti da 50 euro ed un preservativo scaduto, conserva il tesserino di un qualche body fitness center. E’ molto probabile, ha le gambe asciutte. Lei le gambe invece le ha grassocce, ma si accompagnano bene al seno esagerato ed alla fascia verde acqua che porta tra i capelli mossi e scuri. Dai cara, ascolta ancora un poco questa pantomima, sta quasi per finire; poi potrete dirvi intimi e partire da una piattaforma più elevata. Di questo passo ancora due scalini e salirete sul baldacchino tutto vostro, d’oro a sette carati. Dai campione, cerca di non far spegnere la discussione, trova un nuovo argomento, cerca la sua complicità: non vedi che ti sta aiutando? Si capisce che ha voglia d’agevolare il tutto, perché secondo me non è stupida e l’ha capito due anni luce fa che sei un falso. Magari ben fatto, ma comunque un falso, di quelli prodotti in serie e griffati in un momento successivo. Sai qual è la novità che non ti aspetti? E’ che a lei non importa un micron che tu sia sincero o no. No, lei vuole essere portata a letto, come si faceva una volta. Ma ha un problema: non può dirtelo subito, deve prima sorbirsi duecento metri delle tue parole inutili. Stai tranquillo comunque: ormai è fatta. Ti sta chiedendo di offrirle una Marlboro, e tu non hai più nemmeno bisogno di chiederti come fare. “Come faccio?” mi silura Silvia. 87 “Già, come fai?” dico io tornata alla realtà. “Ma tu mi stai ascoltando?” No che non ti ascolto, amica mia, e se dovessi spiegarti il perché sarebbe tutto tempo perso stracciato sotto gli stivali della tua mancanza d’acutezza. Io ti ho persa, sorella problematica, ma tu hai perso me. Il juke-box ripete Radio Ga Ga, nella versione in studio del 1984. Siamo già alla terza volta e la cosa non mi infastidisce per nulla. Preferirei due ore di Freddie Mercury ad altri venti minuti di Silvia. Ma – ancora – perché, amica mia? Forse il fatto che tu non rispettassi te stessa, credendo di poter vivere bene solo accontentando gli altri, ecco, forse questa tua auto-mancanza di rispetto io l’ho assorbita negli anni e lontanissima dal comprenderla sono adesso pronta a sgocciolartela sui vestiti e le orecchie, strizzando la spugna del nostro legame inumidito. Qualcosa è terminato tra noi, aiutato dal ritmo dei giorni che passavano e dalle nostre esperienze opposte. Potremo forse tornare a fingere quella corrispondenza d’intendimenti di cui andavamo davvero fiere, ma mai sarà la stessa cosa, perché è imbroglio il nostro affiatamento, come quello dei due al tavolo in fondo. “Si che ti ascolto… E’ che sto pensando.” “A cosa?” “Al tuo castello, ovvio.” “Voglio che non esista più, il mio castello.” “Ed invece deve continuare ad esistere. Sarebbe un errore irrimediabile abbatterlo.” 88 “Perché? Io ho capito tutto, non continuerò più nulla come prima.” “Continuerai invece.” “Perché?” “Perché non sei pronta adesso né lo sarai in futuro. Ci vuole troppo coraggio e una buona dose di incoscienza e tu non possiedi né l’uno né l’altra.” “Alice, tu mi stai guardando con disprezzo.” “No, è solo consapevolezza. Nessuno di noi può cambiare, nessuno cambia mai veramente. Ciò che sei non lo scegli tu, ma è il frutto dei tuoi personali avvenimenti di tutta una vita. Accettalo e soffrirai meno” e farai soffrire meno anche me, che invece di stare ad ascoltare questi dialoghi da fiction potrei magari dedicarmi un attimo a risolvere il problema della mia prossima cena. “Io non voglio continuare… Io sto male, lo capisci? Io non sorrido più…” “Allora piangi, che ti fa bene.” Piange silenziosa sul tavolino di legno a buon mercato e non ci pensa nemmeno, a strappare dal contenitore una dozzina di questi fazzoletti da bar buoni a nulla, men che meno a detergere il pianto. Lo sappiamo entrambe che ormai non cambierà più nulla. Al massimo qualche memorabile giornata fuori dai normali canoni della legalità morale ma mai, neppure per un attimo, il seme del mutamento fruttificherà nella sua esistenza. Mentre osservo quei due rivoli di fiume salato scendergli dalle sacche lacrimali penso che l’unico sfizio che le rimane è questo. Il pianto, che potrà chiedere in dono ogni volta che vorrà, lei che si è 89 ingabbiata da sola in un’esistenza ipocrita e che tuttavia riesce a sputar fuori dagli occhi tutti gli stati d’animo più oscuri, sfogandosi. Adesso frigna e vorrebbe da me una qualche frase che le sistemi tutto, ed io dovrei costringere il mio cervello ad elaborare parole accomodanti, per poi rimanere esausta e priva di lucidità per tutto il giorno. No, mia amica, non lo farò. Troppe volte mi hai assorbita lasciandomi esausta, troppe volte abbiamo scambiato le nostre inclinazioni, la tua al pianto la mia al riso, troppe volte tornavo a casa scura come il sapore dello yogurt andato a male, per te. Adesso basta Silvia, non sarò più il tuo porto tranquillo e rassicurante, mai più, voglio semplicemente essere un’aurora che non ti si addice, e splendere per conto mio. Non ho più bisogno di te e con il tempo imparerai anche tu a non affidarti alle mie braccia che troppe volte ti hanno trattenuta dall’accasciarti esanime. Possiamo bere tutta la notte, possiamo parlare e ridere sino all’alba, possiamo piangere a Natale davanti a un film, ma non possiamo più guardarci come sempre abbiamo fatto, quasi scambiandoci le proiezioni di noi stesse. Non più. Adesso io sono solamente io, non io come tu, e tu, forse lo scopro in ritardo, me non lo sei stata mai. Non credere che venga su facile, tutto questo ragionar così. Sto piangendo cara, sto gemendo e gridando, ma solo imbacuccata dentro la mia calotta cranica, ecco perché non puoi sentirmi. Sto incenerendo nel mio caminetto tutti i ricordi che ho 90 di te, e si stanno sciogliendo in lacrime di sangue che cola sul pavimento e sul tavolino del bar. Si consuma qui e adesso il funerale della nostra intesa eterna, e i caffè appena confezionati dal barman inconsapevole sono incenso, i fazzolettini di velina petali di ghirlande, mentre le tue parole sovraccariche di egoismo celebrano quest’atea funzione. I pianti e le disperazioni li metto tutti io, come ho già pensato di dirti. Qualcosa di spaventosamente simile all’errore intanto accade al tavolo in fondo. Persa nelle mie parole sincere mi ero un attimo distratta dal filmino dei futuri sposi contenti. Dopo la terza boccata, proprio mentre ingrossava la nube lieve di fumo biancastro, mi sono attardata sulle mani del barman che preparava la macchina del caffè espresso, velocissimo. Mani callose, ho intuito subito, o comunque insensibili al calore, visto che si è versato mezza tazzina bollente su un palmo senza imprecare. Azzardo che quella del barista non sia, o non sia stata, l’unica sua professione. Forse fabbro, mi dico aiutata dal precedente del caffè. Ha le braccia da Bud Spencer e il viso di Ernest Hemingway, chissà che effetto fa con una doppietta in pugno. Mi dico che è affascinante, dopotutto, per una povera donna in cerca d’amore e permesso di soggiorno. Sorride a tutti, e l’ho scoperto a sorridere anche da solo, spalle ai clienti, mentre smanettava col caffè, fischiando al ritmo di una improbabile Malafemmena. Ma è il tavolo in fondo, il teatro del vero e unico accadimento di questo bar. Lui chissà per quanto 91 tempo aveva calcolato e predisposto nei suoi pensieri quel gesto unico, chissà com’è che aveva optato per quest’attimo e non per uno qualunque di tutti i seguenti, chissà se l’aveva provata mai prima d’oggi, la sua scena rosa western. La sicurezza, dopo la sigaretta di lei, era ingigantita scommetto, e questa è stata una delle innumerevoli concatenazioni di eventi che l’hanno condotto all’errore irreparabile. Troppa sicurezza, per uno che recita una parte non sua, vuol dire voglia d’affrettare i tempi, anzi incapacità completa di allungarli ancora ed attendere. Tutto ciò ed altro ancora, a carico del fallimento dell’impostore. Aveva appena appena fatto sfrigolare la brace, memoria di sigaretta che fu, sul fondo umido della tazzina vuota, lei che si stringeva nel maglioncino di velluto arancio, trionfo di un seno invitante e irraggiungibile. Forse proprio quell’immagine, o magari il suono gassoso dello spegnersi di cicca, ha lasciato che tutto il coraggio del seduttore rovinasse la parata fino a quel punto perfetta in ogni suo dove. Dev’essersi voltato di scatto, fissandola di fronte, gli occhi alle labbra rossicce, esaltati. Mani e polsi saldissimi che la afferrano veloce, strattonandola a lui che avanza spedito. Il bacio violento, ed il silenzio. Poi però il suono esplode, e sono gli insulti di lei, che non la diresti mai capace di certe sconcezze. Le ho visto alzare nervosamente il braccio per un attimo, giusto il tempo di descrivere una improbabile forma irregolare nell’aria, prima di quietarsi. Non bisogna aver studiato analisi 92 matematica o geometria non euclidea per capire che si, stava proprio per picchiarlo, l’uomo che solo un attimo prima era il più accreditato al Nastro d’Argento delle sue mutandine rosa. Adesso non più ovviamente, adesso è solo una povera merda, è solo un fascio figlio di papà, puah, solo un ti faccio spaccare la faccia dal mio fidanzato, lui quelli come te li pesta un giorno si e l’altro pure, pezzo di merda di un bastardo. Dovevi aspettare ragazzo mio, è un quarto d’ora che ti invio segnali luminosi con gli occhi, tutti in codice morse, e tutti che dicono piano, fa’ piano, ragazzo. C’eri quasi, lei si era smollata, ti aveva pure chiesto una sigaretta, proprio lei che per il fatto di chiederla vuol dire che non ce l’ha, e se non ce l’ha non è una fumatrice incallita, e se non è una fumatrice incallita fuma solo di rado, per celebrare avvenimenti belli, brutti o momenti di inibizioni perdute, e cioè adesso, coglione, adesso, è adesso che stava ammainando le sue vele, pronta a farsi trascinare da te e a tradire il suo uomo. E tu che fai? Che mi combini mentre il ripiegamento si sta per compiere lentamente? La baci qui in un bar davanti a tutti! No, non si fa, non si fa, non si fa! Regola numero uno: le battute pesanti sono recuperabili, una gaffe fisica lo è un po’ meno ma comunque lo è, l’aspetto pulito a volte lo è a volte no, ma assolutamente non è recuperabile l’atteggiamento frenetico da ho assoluto bisogno di te, se non me la dai salto giù dal primo ponte anche fosse di un torrente infangato e maleodorante. E tu, ragazzo bello, nel torrente ci sei finito sorridendo, e 93 il torrente s’è mutato in un fiume di fango che ora corteggia spudorato la tua gola e il naso, lo capisci? Dimmi come ti senti… Forza, vediamo se hai ancora voglia di raccontare episodi magnificenti come facevi prima dalla tua sedia da bar simile a un trono, con la cannuccia del frappé a rappresentare decine di microfoni regolati sul tuo io e sul tono della tua voce da statista, che illustri al popolo la via più breve e semplice per ricchezza e prosperità. Cosa ti succede, non hai più voce? Facciamo come con i bimbi: t’è cascata la lingua? Aaah, ma allora ce l’hai! E dimmi, dimmi ancora, visto che ce l’hai, ed io lo so che ce l’hai perché l’ho vista, perché diavolo gliel’hai cacciata in bocca così, davanti a tutti? Bastava attendere un momento più propizio alla tua buona stella, rinunciare all’impeto del momento per vincere il piatto grosso… Te lo dico io il perché. Tu soffri, fratello mio, tu vuoi tutto e subito per paura della fine. La tua, di questo bar e della cavalla profumata che non avrai mai, a giudicare dai suoi insulti. Tu sbagli, nel gioco a 52 carte che hai inventato non avevi pensato al fattore tempo, e proprio tu che ne eri il re hai perso la prima mano, e tutte le altre di seguito. Ciò vuol dire una sola cosa, fratello mio, che tu, ci creda o no, lo voglia o no, lo accetti o meno, al tuo gioco ben architettato non sei adatto. Non lo sei probabilmente stato mai, ma ti illudevi di poter fingere come fanno i tuoi amici in Bmw, il sabato sera, che sanno dire con voce perfettamente intonata e adatta all’avvenimento d’accordo, ma adesso andiamo a bere qualcosa in un pub, gli altri hanno 94 detto che ci raggiungeranno dopo. Amico mio, fratello mio, bimbo mio, mi dispiace: non ci sei né ci sarai mai, non sei fatto della pezza adatta, né riusciresti a comprarla con i tuoi mazzettini da 50 euro raccolti nel ferma soldi d’argento. Anche quello ti porti dietro! Lo vedi, lo vedi, lo vedi che vuoi darmi ragione per forza? Lo scorgo e quasi non ci voglio credere: un ferma soldi. D’argento! L’avessi tirato fuori prima, non avrei avuto bisogno di rubarti i movimenti delle spalle, l’accento sicuro della voce, gli attimi di finezza galante che nascondevi a forza nel borsello di Gucci taroccato. Ovvio, prima non avresti potuto mostrarlo, rischiavi la gaffe, ma adesso… Adesso hai perso, e nel cassonetto mezzo aperto qua fuori puoi placidamente buttarla, la tua camicia verde militare acquistata per l’occasione. Finirà sepolta tra gli avanzi morsicati dai clienti sazi di questo bar, tra il packaging e le cicche rassettate, tra la panna inacidita e i biscotti molli che nessuno ha ordinato negli ultimi tre giorni. Passerà qualche ora notturna in buona compagnia, mescolandosi irrimediabilmente ai rifiuti liquidi e macchianti, poi, all’alba, dei poveracci cascanti dal sonno la tireranno su insieme al suo albergo temporaneo, che vuoteranno. Da lì il passo sarà obbligato: rimescolerà e incenerirà ben presto, esattamente come le tue buone speranze di una serata di sesso selvaggio, che guarderai al digitale terrestre, in mancanza d’altro. Che vuoi farci, non era destino, forse faresti bene a smettere di comportarti come ti ha insegnato la tv, ma… non posso essere io, quella che deve dirti cosa fare. 95 Silvia interrompe non so quale discorso su non so quale massimo sistema. Dice: “Ma ti rendi conto di quello che sta succedendo?” “Cosa?” “Lì in fondo, al tavolino dei due fidanzatini…” “Quale tavolino?” “Guarda! Possibile che tu non abbia visto nulla?” “Ah, si, quelli. No, non mi ero accorta. Ascoltavo te.” Me lo sono chiesta tante volte: com’è che mi distraggo in questo modo, perché mi interessano tanto gli altri? Forse è perché sono sempre stata una donna molto riflessiva ed ho molta fantasia. Mi viene facile immaginare altro partendo da un qualsiasi avvenimento, come se l’immagine che ho davanti fosse in bianco e nero ed io la volessi rendere in Full HD a milioni di colori. Il problema è che alla fine credo moltissimo a quello che ho immaginato, quasi per niente alla realtà. E’ così che riesco a mentire e ad essere credibilissima, se voglio. Probabilmente è un’ inclinazione con la quale sono nata, perché a mia memoria non riesco ad individuare nessuno che possa avermi insegnato a farlo così bene. Se voglio posso far credere qualsiasi cosa, inganno tutti tranne i cacciatori di teste, mannaggia. Il juke-box con i Queen ha smesso; accanto al tavolino in fondo, quello della catastrofe, c’è un palchetto alto non più di venti centimetri. L’amplificatore è uno di quelli che Riccardo sogna la notte mentre dorme ed il giorno quando non ha niente da fare. Un uomo tarchiato, direi 96 quarantenne, con un ridicolo orecchino al lobo destro si siede, apre una custodia rigida, comincia a smanettare sulle manopole. Si è seduto di fronte al palchetto e dà le spalle a quello che con molta probabilità, tra dieci minuti, sarà il suo pubblico distratto. Visto così, grassoccio, quasi impacciato, direi che è molto lontano dallo stereotipo del chitarrista rock. Forse sarebbe il caso di scappare adesso che non ha ancora cominciato. Butto lì un “per caso ti sei ricordata di girare il mio curriculum al tuo direttore del personale?” in modo indiretto, come se la cosa fosse scontata e non m’interessasse poi molto. In realtà è il secondo motivo che mi ha convinta ad accettare questo invito, il primo è appunto il fatto che fossi invitata. “Sssì…” dice, ma mi accorgo subito che vorrebbe aggiungere qualcosa e si ferma per timore. L’uomo con l’orecchino ridicolo intanto mi dà un saggio di quanto io riesca a sbagliarmi completamente, a volte: è bravissimo. Veloce, caspita, una scheggia mentre accorda la sua Ibanez ed accenna qualche fraseggio per regolare il riverbero dell’amplificatore. Chissà cosa vorrà dirmi Silvia, comincio a chiedermi. “Si? Bene! Gli avrà dato un’occhiata, che dici?” “Uhm, sinceramente ne dubito, dice sempre che non è il momento, che arrivano troppi curriculum, sai com’è, che non sa neppure dove metterli… Comunque, magari in un momento di necessità…” “Certo, certo. E’ ovvio, per me è già tanto quello che hai fatto. Ti ringrazio davvero.” 97 “Ma dai! Aspettiamo che passi questo momento, poi riprendo il discorso… Sennò io lì dentro – ride e ammicca – che ci sto a fare?” Rido, ringrazio ancora, ammicco anch’io. Ma non mi ha detto tutto, la conosco troppo bene, tra non molto qualcosa verrà fuori. “Il fatto è che serviva una persona ma io non ho detto nulla di te perché è un lavoro di merda che non auguro a nessuno figuriamoci alla mia migliore amica” ha esploso, rapidissima, come la frase fosse un’unica, lunghissima, parola tipo supercalifragilistichespiralidoso o un’iscrizione antica sul timpano di un tempio sacro. Per me è come quando nei film vedi che hanno sparato al protagonista ma lui, che non se n’è ancora accorto e sente troppo bruciore per rendersene conto, continua a muovere qualche passo. Infatti sposto un attimo verso destra il capo, fisso negli occhi il chitarrista che ha cominciato a cantare, ritorno a guardare Silvia. Ed è fisso nel suo viso che il protagonista si rende conto del colpo di pistola, sfiora la camicia all’altezza dell’ombelico ma un po’ più a destra, osserva la mano sanguinante. Come quando una botta in testa non ti consente di capire se ti fa male o no, e tu stai lì come una vera demente, e aspetti. Poi una sola parola si disegna in me: addio. Basta, mai più, è finita Silvia, addio per sempre. E dirti addio non sarà il classico dirsi addio da film stavolta, con treni che scorrono sullo sfondo, fumo e luce bianca in primo piano. No. E’ il mio intimo che si allontana da te e ti abbandona, per 98 sempre. Non ho intenzione di svestirmi e ricoprirmi dei tuoi convincimenti, proprio non voglio calarmi in te. Certe cose ci sono o non ci sono, si sanno o no, si sentono o meno. E se naturale sarebbe stato sentirle, beh è stata una tua precisa scelta ignorarle. Se scegli hai libertà, la stessa che all'istante ha preso i miei pensieri che ti abbandoneranno. Avresti dovuto capire, sarebbe stato umano, come puro buonsenso. Ma non l’hai avuto mai tu, il buonsenso. Cosa che mi avrebbe anche divertita, una stagione fa. Ma adesso no cara, ora cazzi non ce ne sono. Si parla di spesa nelle buste di plastica qui, di supermercati e benzina super senza piombo a 1,49, pane, marmellate e prosciutto. Tu mi dici non fa per te come chi ha già capito tutto e s’inorgoglisca per questo. Brutta stronza, io ho cenato con lo yogurt del Lidl ieri sera, e tu mi affondi nel mio vomito di yogurt col non fa per te che t’è spuntato dal fazzoletto sporco del tuo labbro superiore di panna nel caffè. Non lo sai cosa penso, perché se lo sapessi ti alzeresti da questa seggiola scomoda, senz’altro. Senza guardare dietro, senza pagare il marocchino, senza prendere la borsa: scapperesti e basta. Veloce, poi un attimo ferma, poi subito ancora rapida sopra pavimento, tacchi e tavolini. L’uomo con l’orecchino è di fronte a te, sta cantando Blues, blues man maledetto lui e le sue mani, direbbe Riccardo. Ha nelle dita quella leggerezza che il mio uomo cerca da sempre e trova solo a volte, con fatica immensa e parole pesanti. Canta assieme alle sue pentatoniche maggiori, proprio quelle che Riccardo usa per vivere. E 99 quando la sua voce si facesse più roca cantando Yes, I’m poor blues, bluesman tu lo travolgeresti, inciampando nel cavo jack da tre metri collegato all’Ibanez da 600 euro. Tutto trascineresti con te, ogni cosa su questo palchetto di venti centimetri sarebbe travolta. Qualche goccia di sangue, è chiaro, righerebbe le tue calze velate, strappate dalla tua stessa velocità scontratasi con l’immanente immobilità del tuo intorno. Colerebbe piano, e tu nemmeno lo vedresti. Fuori, a gonfiare i polmoni d’aria congelata, quasi a farti male ad ogni respiro aggiuntivo. Piangendo non riusciresti a trattenere la felicità per essere riuscita a fuggire. Si, scapperesti. Perché io potrei picchiarti a morte solo per quella moneta da due euro che ti stai rigirando tra il pollice, l’indice e il medio della mano destra. Mostrerebbero a me un’ora di vita in più, due euro. Un pacchetto di cracker, un litro di succo d’ananas e quattro piccoli wurstel. Una goccia di vita ancora, quando non avessi più forze, completamente riversa sul pavimento freddo e nero della stazione centrale, di notte. Mangerei velocissimamente, strappando brandelli di wurstel e cracker scoppiettante, riempiendo col succo più schifoso del mondo il mio stomaco vuoto. Il resto riponendolo in un sacco, di quelli di juta, lerci, permeabili a tutto. E adesso mi sento male. So cosa sarebbe meglio per me, dovrei deflagrare in violenza muta e poi urlare immobile e spaccare con un pugno il primo cellulare che mi capitasse sottomano. Ma non lo faccio. Io implodo. Ed è come 100 se li sentissi, gli organi interni che si accartocciano, i polmoni che si svuotano d’aria e si riempiono di fumo stantio e veleno, lo stomaco che crolla su se stesso e sul coltello che porta dentro. Sono sfinita, mi accorgo di tremare impercettibilmente. Gli altri qui attorno no, non se ne accorgono, hanno altre direzioni le loro vite. Il maglione che comprano potrà essere da 19 o 49 euro, dipenderà dal tessuto, dal gusto, dalla vestibilità. Dopo aver aspettato disciplinati in coda alla cassa, pagano 19 o 49 euro e il caffè offerto all’amica per ringraziarla della compagnia sarà quasi scontato; ed allora, ancora, 2 o 4 euro e settantacinque passeranno di mano chiudendosi nel registratore di cassa del Bar Goffredo mentre il Goffredo in questione staccherà annoiato lo scontrino fiscale; e così sarà l’indomani, e il weekend successivo, e poi l’altro, e l’altro, e la primavera seguente, e l’autunno, e l’anno dopo, e poi ancora. Il mio maglione non costa 19 né 49 e nemmeno 9. Il mio maglione non ci sarà, il mio maglione non c’è mai stato e l’amica da portare al bar è questa stronza che non ci ha provato nemmeno, a raccomandarmi col suo capo. Mi dice: “Cercavano una persona poco qualificata, da mettere a fare fotocopie e rispondere al telefono, senza alcuna possibilità di carriera: io non ti voglio rovinare la vita!” Tranquilla, è già completamente andata anche senza il tuo intervento. “Sai cosa succede nel mio ufficio, ai nuovi arrivati? L’odio Alice, l’odio. Nessuno ha né la voglia 101 né il tempo di spiegarti, che so, il funzionamento del fax. Poi, alla prima occasione critica, sta’ sicura che attenderanno che il capo ti veda bene, in mezzo ai tuoi cazzo di fogli che non saprai come faxare. Comincerai ad agitarti e loro, tranquillissime, chiederanno se per caso non ci sia qualche problema. A quel punto il tuo fax lo invierà un’altra collega, diciamo la signorina X, che avrà, in una sola mossa, fatto due grandi opere: uno, ti avrà fatto fare una gran figura di merda, due, si sarà messa in mostra davanti al tuo capo, che penserà Guarda quanto è collaborativa la signorina X con quell’incapace di Alice, brava. Di te invece penserà che sei un’imbranata senza speranza e comincerà a vedere come normale il fatto di non rinnovare il tuo contrattino a progetto part-time. No bella, raccomanderei per un posto simile solo qualcuno che odio profondamente. Invece a te io voglio bene.” Questi vaneggiamenti li ho ascoltati poco, sono stata più attratta da ciò che mi accadeva intorno. Il ragazzo rifiutato è andato via da un po’, di personaggi interessanti e stupidi come lui non ne ho visti altri. C’è qualcuno che parla a voce un po’ più alta del normale, ma nulla più. C’è invece questo Dio con l’Ibanez in mano su quel palchetto, che suona e non canta più. Prima aveva una voce non troppo bassa ma profonda, di quelle che arrivano in fondo alla stanza anche senza microfono. Certo, non era avvolgente, ma quella punta di raucedine era perfetta. So che fuma, l’ho visto dal vetro un attimo fa, nella sua pausa di cinque minuti che ha trascorso fuori nonostante questo sia uno dei pochi bar dotati 102 di sala fumatori. Secondo me lo fa apposta, fuma per avere la voce un tantino strozzata. Cerco di capire che accordi stia suonando, so che probabilmente molti saranno di settima maggiore. Non è difficile, anche perché ne prende davvero pochi in mezzo al fiume di scale che sta spruzzando sul pubblico disattento. E’ su un la settima, poi sol settima, poi si settima, non so se minore o maggiore, non ricordo mai come distinguere il si settima dal si minore settima. Li segno sul fazzolettino plastificato del bar, li voglio dare a Riccardo. Lui come minimo riuscirà a disegnarci sopra due ore di lezione cioè venti rispettabilissimi euro da racchiudere nel forziere del nostro comodino. Fino al giorno successivo. Silvia continua a parlare raccontando di quanto sia infernale il suo ufficio, ma lo fa solo per convincersi che non è stata un’azione infame decidere volutamente di sprangare ogni mia possibilità con la sua azienda. Si è ormai sintonizzata sulla lunghezza d’onda dedicata agli sfoghi degli impiegati frustrati e scontenti, ma non si ha conoscenza di nessuna amica disoccupata che l’abbia mai ascoltata. Per una persona senza lavoro le lamentele degli impiegati sono come quelle di una campionessa di surf che si lamenti del vento e di come questo scompigli i ricci appena fonati. Non scherziamo, non c’è da nulla da ascoltare, ringrazino Dio in ginocchio se ciò non è causa di uno scatto d’ira. Anche questi discorsi mi stanno tranciando a colpi d’accetta, che Silvia si senta in dovere di giustificare il suo mancato aiuto sentendosi in diritto di spaccarmi le biglie che non ho con le frustrazioni 103 quotidiane del suo ufficio al primo piano di una ditta che a me, anche grazie a lei, non verserà mai nessuna busta paga. Potrei piuttosto salutarla a modo mio, senza una frase detta. Ciao mia amica, e una sonnolenza sembra insinuarsi, mentre medito le espressioni che ti trasmetto. Ciao, è un lento addio il nostro, che voglio bagnare d’immaturità e conformismo. Sarò immatura, perché come i bambini che non si arrendono al sonno e alla notte, quelle notti delle feste, coi nuovi giochi a portata di mano, cercherò di dilungare il tutto. E lo dilungo e stendo, questo nostro finale senza scosse, proprio come dei titoli di coda che durino quarantatre minuti. O un gelato che più ne lecchi e più si accresca, nella tua cialda al cacao. O, se preferisci, come una gomma che cancelli, e cancelli, e cancelli, d’inverno alla luce bianca della lampada, e cancelli in primavera i fogli annacquati dai fotoni della nostra stella, e cancelli di notte i tuoi errori a matita, e poi inghiotta di giorno le tue lettere commerciali, e ancora cancelli e cancelli: ma che resti intatta, per anni ed anni. Proprio così rimarrò, immatura. Tu nulla sospetterai, giacché è uguale al segno di una giornata normale, con un caffè normale ed una normale risata, questo a mai più risentirci. Non comprenderai, perché in più sarò conformista, di quel conformismo che mi porta a discutere con lo stesso tono di sempre, a osservare le coppie al tavolo vicino come sempre, a dire un cucchiaino solo di zucchero grazie come sempre, nonostante tu mi 104 chieda sempre quanto? come se il rito traesse la sua forza e consistenza solo per il fatto di essere rinnovato ogni volta. Mi gira la testa ti direi, se avessi scelto di seguitare come niente fosse, ma al momento no, ho scelto il contrario, e non ti dico niente di mio. Me lo tengo per me tutto il mio mal di testa, ogni fitta, tanto anche a rivelartelo il senso di dolore pulsante non calerebbe affatto. Non sei più tu mentre lasciamo lentamente tazzine, fazzolettini da bar e tavolino, non lo sei più, mentre il bluesman fa un’altra pausa al gusto neutro d’un bicchiere d’acqua, non birra ma acqua, che mito. Ti guardo con un rancore che via via s’ingrossa e poi svanisce di colpo, ti odio con i tuoi progetti futuri e il tuo conto in banca, e poi non mi interessi più. Ti allontani e ti allontani, non sei più tu per me, sei solo una lei come tutte le altre. Ha lasciato i 30 centesimi di resto sul piattino di finto argento e anch’io ho concordato che si, effettivamente si era fatto un po’ tardi ed era meglio andare. Non abbiamo parlato più di nulla. Ci vediamo presto, chiamami mi raccomando. Come no, sarai la prima persona che chiamerò non appena avrò ricaricato la scheda, nel 2023. Ho nella mano destra un’ idea che si chiama pugno e mi piacerebbe tanto vederla stampata sui suoi incisivi, ora come ora. Mi accorgo di barcollare leggermente mentre lei fuma l’ultima sigaretta, in piedi, appena fuori dall’ingresso luminoso. Spegne la cicca sotto la suola, mi bacia sulla guancia e dice: “Adesso è veramente tardi”. 105 Deve correre, correre. Il 60/N sarà lì tra quattro minuti, ma prima lei avrà dovuto comprare sigarette e biglietto. E deve ancora percorrere 200 metri. Accelera il passo, il cuore comincia a stantuffare, qualche goccia spunta sulla schiena levigata, aumentando passo dopo passo, e adesso tra maglietta, maglioncino, cappotto e carni è tutto un velo sottile di sudore. Entra, indica, paga, esce. Almeno nelle sue intenzioni, perché in realtà ha due clienti davanti a sé, e se per il primo chiedere Merit da 10 non è un grosso impegno, la seconda, una donna piacevole sui 50, gambe fasciate da una gonna di velluto nero e calze autoreggenti, ha dei seri problemi esistenziali o è troppo accondiscendente e passiva sul lavoro. Le sue frustrazioni quotidiane le scarica tutte sul tabaccaio di fiducia, come se davvero non si rendesse conto del fatto che si, davvero lui deve occuparsi anche di altri clienti, e si, davvero Silvia sta per perdere l’autobus, e si, davvero sarebbe il caso di decidersi su quali diavolo di caramelle indirizzerà la scelta. Finalmente chiede il biglietto, dimentica le sigarette, esce veloce. Il 60/N arriva puntuale, ma lei ce l’ha fatta, adesso saranno trenta minuti lisci ed elastici verso nord, come in una culla se nessuno disturberà, dal momento che il sole bianco di gennaio è calato da un bel po’ e le ombre sono ormai nere, nerissime. Quasi si assopisce, riflettendo sul suo lettore mp3 e su quanto sia figo con i titoli azzurri su sfondo nero. La voce di vetro e felpe con cappuccio, sulla spiaggia in 106 ottobre, di Dolores dei Cranberries le giunge diretta al cervelletto, non ci pensa neanche alle orecchie. I'll be dreaming my dreams… with you dice, e lei che l’ascolta non pensa affatto a nessun uomo e a nessun amore, solo alla Mini che vuol farsi comprare, pensa anche all’appartamento ed è indecisa tra un finanziamento per la Mini o un mutuo a tasso fisso per la casa. Pensa anche al padre e a come si siano lasciati l’ultima volta, pensa alla madre e a quando le cucinava patatine fritte. Pensa alle loro delusioni in tanti anni, al fatto che a vederla studiare non ci siano riusciti, loro che avrebbero dato anni di ferie per una foto insieme all’unica figlia, sulle scale della facoltà, con tesi, fiori e tocco, lacrimanti e sorridenti. Lei può riuscirci, troverà un modo per farsi dare del contante, può convincerli che la casa sarebbe un affare e si potrebbe persino risparmiare sulle tasse vendendo quella al mare. Ci vanno pochissimo ormai, non avrebbe alcun senso tenerla ancora. E inoltre, quale soddisfazione più grande di quella di vedere felice l’unica figlia? Su questo deve puntare, sul fatto che è un affare e sulla soddisfazione che loro potrebbero ricavare dal farla felice. Comincerà lasciandosi scoprire più inquieta del solito, ma senza esagerare, solo un tantino di preoccupazione nelle pupille, come una linea di matita leggera. Più avanti, magari la settimana successiva, qualche parola equivoca dovrà scapparle inavvertitamente dalla bocca, ma d’un tratto, en passant, assolutamente non voluta. Qualcosa come si, ci vorrebbe poco per stare bene. Con se stessi e 107 con gli altri e poi più nulla, appendendo i piatti appena lavati alla rastrelliera. Continuerà così, tra una smorfia ed un sospiro, tra una sillaba ed un labbro storto, fin quando la madre preoccupata non si avvicinerà a lei dicendo, gli occhi negli occhi: “Silvia, vieni qui, sediamoci: cos’hai?” “Nulla mamma, cosa vuoi che abbia?” “Non rispondermi con una domanda. Forza, che succede?” “Ma niente…” poco, pochissimo, per nulla incisiva. “…” E allora via, tappo e catenella possono scivolare giù dal rossetto, finalmente accade, la madre ha chiesto. Casa affare, mancanza di firma garante per mutuo, infelicità, depressione, stress ma no, assolutamente mai per prima nominerà la casa al mare da vendere. Quello sarà un discorso più lungo e complesso, esige un ragionamento delicato e freddo, per ora andrà benissimo aver scardinato la porta dell’incertezza sul ma cosa sta succedendo a Silvia? “Non mi succede niente, capita ogni tanto di non sentirsi tanto bene.” “Ma cosa ti senti, è qualcosa di salute? O Dio Silvietta non mi far preoccupare!” “No mamma, non è un problema di salute. Almeno in senso stretto.” “E’ per quel ragazzo? E’ così simpatico… Mi sembra non dispiaccia nemmeno a tuo padre…” ha fatto un cenno, leggero, d’intesa tra donne. 108 “See figurati. No, è che, da quanto tempo lavoro mamma? Quattro, cinque anni? Tutti i giorni, tutti i mesi, sono sempre chiusa in quell’ufficio. Non dico non mi piaccia come lavoro, solo l’accumulo di stress non riesco… a smaltirlo, ecco la parola esatta, non lo smaltisco. Sono tutto il giorno là dentro, in quella stanza che mi soffoca, in mezzo a quelle persone inutili che sono le mie colleghe e davanti a quel cazzo di computer che mi fa bruciare gli occhi. Mi sento senz’aria mamma. Senz’aria.” “Amore, io lo capisco che ci possano essere momenti in cui quello che fai ogni giorno diventa pesante, ho trent’anni di ufficio addosso io, lo so bene. Ma tu sai quanto è importante ciò che stai facendo e sai anche…” “Si mamma, è chiaro, io non metto in discussione nulla. Non voglio mica scappare, che credi. Solo ogni tanto, di sera, mi piacerebbe tornare a casa e sentirmi in un mio - e qui sottolineerà delicatamente con un cambio di tono - ambiente, rilassante, un ambiente che io ho sistemato a mio modo, proprio come te e papà qui a casa.” “Non è questo che senti quando torni a casa la sera?” “No mamma. Decisamente no.” Si farà silenzio, ma solo per qualche minuto. “Silvia, sai bene che io e papà abbiamo una sola gioia nella vita e che questa gioia sei tu. Ho sempre pensato che, a suo tempo, avresti avuto una casa tutta tua. Ma devi avere pazienza, sei giovane, lavori solo da quattro anni e mi sembra un po’ presto per fare questi discorsi.” 109 “Il fatto è che tu non capisci un cazzo mamma! E’ da quattro anni che butto i miei soldi nel cesso affittando quella catapecchia. Per chi mi rompo i coglioni in ufficio? Per i miei padroni di casa, te lo dico io! Non hai idea della rabbia che mi viene ogni primo del mese, cinquecento euro buttati, non ci voglio pensare porca di quella puttana!” “Silvia!” Silenzio. “A cosa pensi? Vuoi comprare casa? Stai pensando ad un mutuo? Parla Silvia, dimmelo!” “Si, se non voglio continuare a pagare la retta universitaria a quell’idiota del figlio dei miei padroni di casa. E poi sarebbe un affare mamma, la vendono perché si sono rovinati, la svendono sarebbe più giusto dire.” “Chi svende? Chi è questa gente?” “I miei vicini. Lui l’hanno licenziato, figurati che matto, s’era messo addosso un mutuo trentennale con due figli piccoli. Si chiama Donati, non ce la fa a pagare la rata, è disperato e svende al primo che gli porta in tavola 180 mila euro. Io sono convinta che potrei strappargliela per 160, non ci puoi credere sono quattro vani e garage, è la fine del mondo mamma, solo un anno fa l’avresti comprata a 230, 240 minimo.” “Ma… io non lo so. Mi sembra troppo… ma è sicuro che l’hanno licenziato?” “Siii! Mamma risparmierei anche sulle provvigioni dell’ agenzia immobiliare. Donati ha già preso accordi con vari agenti ma a me l’ha detto Luca del terzo piano e quindi non avrei nessun 110 vincolo con l’agenzia. Ci pensi? Quattro vani, garage ed anche un terrazzo grande, grandissimo, non faccio altro che pensare a quanto sarebbe contento papà su quel terrazzo. Io già lo vedo, sdraiato sull’amaca, al fresco, a primavera. Perché è chiaro che io monterei l’amaca, non come quei deficienti dei Donati che in terrazzo non si vedono mai. A proposito mamma, ti volevo chiedere: ma il basilico è facile da coltivare? O è meglio della menta? Tu che dici?” “Il basilico, al 100 per 100. Lo sai che a tuo padre l’odore forte della menta dà fastidio…” “Va bene mamma, come preferite, il basilico va benissimo. E’ necessario innaffiarlo molto?” “Si, in estate lo dovrai innaffiare ogni sera o all’alba, prima che arrivi il caldo, mai in pieno sole.” “Com’è che ho la mamma più bella del mondo? Come farei senza di te mamma?” “Come hai sempre fatto: tutto da sola.” “Lo dirai a papà della casa?” “Certo Silvietta, tutto quello che vuole la mia piccola...” Tutto andrà bene, come sempre. Come per l’esame di maturità, quando era ormai sicura la catastrofe e la salvezza arrivò, non si seppe come, ma arrivò. Quell’anno le vacanze risultarono stranamente ridotte per decisione inappellabile del padre. Fu persino cancellato il fine settimana a Firenze, scelta che mai nessuno in famiglia condivise e comprese sino in fondo. Ma il papà, stanco e sudato, in quelle notti d’estate sorrideva pensando che si, era andata bene, Silvietta aveva preso il 111 diploma. E pazienza per il regalo costato un paio di stipendi e che probabilmente la moglie del Presidente non avrebbe mai indossato. Lui non l’avrebbe mai saputo, ma il collier d’oro bianco satinato la diretta interessata non lo vide mai nemmeno in lontananza. Lo vide da vicinissimo invece tal Giulia Palladi altrimenti detta la puttanona, amante già storica, a soli 25 anni, del Presidente. Lo sfoggiava orgogliosa e falsamente noncurante due anni dopo, alla prima cena aziendale cui partecipasse anche Silvia, neoassunta contabile con funzioni di segreteria, quarto livello. Anche quella notte d’estate, stanco e sudato, il papà sorrideva da solo nel letto. 112 4. La vedo allontanarsi verso il marciapiede a destra; abbasso un attimo il capo a guardare le chiavi che ho recuperato dalle tasche dei jeans, punto nuovamente lo sguardo in avanti ma Silvia è già sparita. La sto ancora cercando con gli occhi quando qualcuno mi si avvicina dicendo: “Tu dai un euro… tu?” e mentre lo dice annuisce calorosamente come a volermi trascinare e farmi rispondere si in automatico. E’ un bambino. Il modo migliore per spiegarmi è forse frugare nella borsa e tra un kleenex, un orologio di plastica, il cellulare, il portadocumenti con la patente, rintracciare una caramella alla menta e porgergliela. Ed è quello che faccio infatti. Sto quasi per allungare anche un pacchetto di cracker che avevo dimenticato in una tasca di lato ma il bimbo è velocissimo nel prendere la caramella, stringersi nelle spalle e passare oltre, decisamente deluso da me. Questo mi infastidisce, mi fa venire su un netto senso di nausea. E mi fa arrabbiare anche: non sono una di quelle persone insensibili che in auto hanno seri problemi nel lavaggio del vetro, non amo passare per una intollerante, io darei la cittadinanza 113 a tutti, anzi abolirei confini nazionali e carte d’identità. Sono cresciuta entusiasmandomi per personaggi che gettavano una monetina e rischiavano tutto in un colpo solo, capaci di donare 300 euro a chiunque pur di sostenere progetti in Bangladesh… progetti bellissimi, ma bellissime sono anche 300 cene, che è quello che riesco a farci io, con 300 euro. Ecco perché mi ammalo di rabbia: perché senza soldi non posso essere me stessa. Mi vedo a lottare per la sopravvivenza con un bimbo elemosinante e la cosa mi intristisce, non perché mi veda ridotta troppo male, io, alta espressione occidentale contemporanea, piuttosto perché mai, mai, mai, in nessun caso, di fronte ad un bimbo una donna dovrebbe poter sentirsi carnefice. Immagino che nella lotta vincerebbe comunque lui con morsi, calci e schiaffoni, e tutto ciò, come dire, mi tranquillizza e distende. Raggiungo la Fiat Uno che secondo il parere di molti andrebbe rottamata. Intanto non v’è dubbio che sia stata parcheggiata benissimo, e questo qualcosa dovrebbe pur contare, in un mondo più equo. Prima di mettere in moto uno zz zzz biascicato mi dice due cose. Primo, ho dimenticato di reinserire la suoneria al cellulare, secondo, ho un nuovo messaggio da leggere. Spero ardentemente sia il ragioniere disperato, che abbia bisogno di me per un volantinaggio urgente per il quale sia persino disposto a pagare in anticipo, così lo raggiungo subito, ritiro soldi e volantini, percorro 300 metri in macchina, mi fermo 114 a destra al primo cassonetto dove deposito i volantini uno per uno e me ne torno a casa a guardarmi un film masterizzato con Ric, non prima di essere passata velocemente a comprare due pizze surgelate al discount. Invece è Riccardo: “Alice preparati. Stasera ceniamo fuori. Ci vediamo a casa tra un’ora. Ciao amore mio”. Ora, so bene che per il 90% degli europei ricevere un sms di questo tipo, in un pomeriggio d’inverno un po’ meno freddo del mattino, appena usciti da un bar dove si è sorseggiato un piacevole caffè con un’amica, non sia nulla di straordinario. Ma siccome io, se escludo i compleanni ed il giorno della laurea, negli ultimi cinque anni a cena fuori con il mio uomo ci sono stata per due volte, ed una era la sera della finale dei mondiali a Berlino, un po’ mi incuriosisco e turbo. Il Superenalotto è la prima cosa che mi viene in mente. Ma no, non gioca mai. La schedina allora. Il discorso non cambia. Che abbia trovato cento euro per terra? See, vabbé. Magari una valigia piena di droga che ha già rivenduto, come nei film. Fantasie, rischierebbe di farsi assassinare dai narcotrafficanti, torturare dagli acquirenti e arrestare dall’Interpol, tutto in rigoroso ordine cronologico. Magari l’hanno assunto al negozio di scarpe! No, più facile la valigia con la droga. Finalmente imposto la suoneria su normale, getto il cellulare nella voragine della borsa aperta e metto in moto. L’idea che solo un paio d’ore fa sembrava cosa fatta, la soluzione a tutti i problemi, quella di diventare nota al grande pubblico con un blog ed un 115 romanzo gratuito distribuito via internet comincia a farsi più buia delle montagne che scorgo tra un palazzo e l’altro. Mi conosco troppo bene, arriverà il momento del disincanto anche per la scrittura, magari dopo due o tre sessioni di lavoro ininterrotto, notte e giorno. So bene di essere capace di dimenticarmi del pranzo e della cena pur di riempire decine di fogli A4, arrivare davvero in fretta a pagina 116, poi vedere come la penna dia segni di squilibrio, non trovarne un’altra che vada bene, troppo blu, troppo dura, troppo macchiante, troppo chiara, e decidere in un momento di smettere per dieci anni se non per sempre. Dovrò resistere alla mia maledetta inclinazione a trovare un alternativo e più redditizio impiego a quei fogli di carta, resistere ad autoconvincermi che sarebbe meglio utilizzarli come tovaglia da pranzo monouso, piuttosto che sminuzzati e pigiati con acqua come gesso per i monti del Presepe o bruciati – già scritti, il libro ormai finito – su una spiaggia in aprile per risparmiare la carbonella necessaria a cuocere delle pannocchie al barbecue. Lottare contro il mio carattere tutto sbagliato e resistere, resistere, resistere. Gettare giù dal balcone il tavolino basso, quello davanti al televisore, per evitare al mio manoscritto la fine meno degna sotto piatti di wurstel e cipolline sottaceto; convertirmi al culto di Zoroastro pur di non costruire più Presepi sotto Natale; bagnarmi in una vasca colma di alcool etilico, solo per il gusto di togliermi l’idea di un barbecue in riva al mare ad aprile. 116 Per strada si è ormai fatto buio e le luci delle auto che incrocio m’infastidiscono ancora più di prima. Cerco di concentrarmi, guidare bene ed arrivare a casa nel minor tempo possibile. Ho pure lo stomaco che fa gluglu, quel caffè mi sta mettendo ko e sicuramente le parole di Silvia non mi hanno aiutata. Forse è colpa di questo senso generale di malessere se comincio a vedermi tra un po’, quando nessuno stimolo, chissà, magari nemmeno il libro, verrà incontro a soccorrermi e impegnarmi in qualcosa. Nemmeno la voglia di farmi una doccia, di alzarmi e provare un fard nuovo riuscirà a sfrattarmi dal letto. Le lenzuola vecchie di giorni, i piatti sporchi nel lavabo, sarò sorella delle migliaia di coetanee tossiche che venti anni fa mi somigliavano. Ma almeno loro si drogavano dichiarerebbe la zia Rachela, sempre pronta a difendere la mia generazione. Eh si zia, ma se è per questo io mica mi prostituisco come molte di loro erano costrette a fare… non azzardiamo paragoni non pertinenti, via. La zia verrà a salvarmi, ne sono sicura. Sfonderà la porta di casa, mi prenderà a schiaffi, urlerà, e poi un abbraccio lunghissimo. Ancora un accappatoio, uno shampoo al tiglio ed un docciaschiuma al ginseng e tutto sarà risolto. Riccardo sarà felicissimo, soprattutto per l’accappatoio. Ecco, forse sarebbe stato meglio nascere venti anni prima, far parte dei paninari o dei punk, rispondere a tutti: me ne frego. Rompere le scatole dalla mattina alla sera con la musica troppo alta, far parte di una gioventù che prendeva a piene mani tutto quello che trovava, e pretendere ancora di più. Era giusto così, 117 sicuramente più giusto che deambulare depressi e senza soldi per lo yogurt, l’autentica eroina contemporanea. Annullati come delle farfalle sporche e puzzolenti, senz’ali. Abituati ormai persino a parlare a bassa voce, a usare scusi come intercalare, leggermente inclini a ritenersi un peso per tutti, anche per i bambini che stanno crescendo e che già a dieci anni sono più scaltri di noi e ci considerano falliti della peggior specie: quelli classificati all’ultimo posto senza nemmeno aver cominciato a correre per mancanza di scarpette ginniche. Senza lavoro siamo, senza soldi e senza allegria. Non sappiamo nulla del mese prossimo, siamo senza niente. In pochi minuti sono a casa; salgo per le scale velocemente, ho voglia di una doccia. Ho già deciso per un rossetto leggero, esco gocciolante dal bagno, friziono braccia busto e gambe con un asciugamano pulito, mi vesto in fretta e accendo la lampada al neon bianco. Il viso è pulito, la pelle fresca è pronta per il rito della crema idratante, effetto antilucidità, per pelli normali. Zia Rachela, grazie: è un cosmetico da donna di successo, mi fa quasi sentire bene. Sul vasetto è scritto che da ora in poi non dovrò più preoccuparmi degli effetti dell’esposizione al sole, al vento ed allo smog. E’ come se le forze della natura si fossero unite contro l’ elasticità della mia cute e la zia, con le sue creme in regalo, mi proteggesse con foga militare: c’è l’iris, ad azione protettiva basica, l’hamamelis, che davvero è una parola che ho aggiunto al mio vocabolario grazie al make-up, ad 118 effetto astringente sui pori e capace di assorbire il sebo secreto in eccesso. C’è poi il biancospino, usato per i suoi effetti calmanti e lenitivi, magari uno di questi giorni lo provo nel caffè. Ma lo show, l’esplosione goliardica, il non plus ultra è offerto da un solo componente, il cui nome mi suggerisce serate indimenticabili con fisarmoniche, violini e amici urlanti nelle camicie bianche grondanti sudore gioioso: l’olio di vinacciolo! Che miracolo della scienza cosmetica, non si direbbe nemmeno che in questo vasetto abbia la semplice funzione di idratare a fondo. Ecco il mio unguento: 75 millilitri di pura, autentica baldoria e vitalità ubriaca, un matrimonio rom in grande stile. La pasta dura del correttore mi dice che è già ora di coprire le occhiaie paurosamente cresciute nelle ultime ore. Scopro un accenno di brufolo due centimetri sotto la pupilla sinistra: fatto. Con il fondotinta scendo sul collo, lo stendo come fosse crema e il movimento mi mette in pace con le mani che si impiastricciano completamente. Esagero con la cipria, il dischetto ne è completamente impregnato, poi passo agli occhi. Scelgo due tonalità di ombretto, scura all’attaccatura delle ciglia, più chiara salendo verso il sopracciglio. Un filo di matita ed un nulla di mascara: quasi terminato. Con la matita disegno il contorno labbra, stendo il rossetto ed ho veramente finito. Sono velocissima nel trucco, arrabbiata anche quando passo lo smalto. Cos’è tutta questa ostilità che mi porto dentro? Da dove viene? Se riuscissi ad isolare le melodie di 119 questa stanza, scomponendole in singole note da ricongiungere alle mie orecchie, potrei forse discernere un attimo, e decidere di non sentirle. Certo, prima di riuscirci potrei persino impazzire. Devo innanzitutto individuarle, una per una, con pazienza e fantasia. Qualcuno passa, là fuori. Tacchi e gonne che frusciano musica nera che trilla da una radio a bassa fedeltà. Ecco: queste le posso eliminare per prime, non mi mancheranno; sento un vento leggero e freddo che mi ghiaccia il piede destro, e penso che anche quest’alito, per poter fluire, dovrà pur emettere un qualche diapason. Fuori il vento dunque, col suo freddo e muto librare; più facile è dimenticare all’istante il rumore di me che mi muovo e della penna che cade, rimbalzando nervosa come fosse un mortaretto. Ma ancora non basta; c’è almeno il flauto maligno dei granelli di polvere che si posano sulla scrivania, sul pavimento di cotto, persino sulle coperte pulite e troppo fresche; c’è comunque il violino del mio respirare contorto, ch’è testimone di tutto il malessere che mi porto dentro e lo annota con pennino d’acciaio su tavoletta di argilla fresca; c’è, ancora, tutta la chitarra elettrificata dei colori stridenti dei miei accostamenti artistici improbabili e forzati. Bisogna togliere, rimuovere tutto dalla stanza, per potersi ascoltare. Ma prima la si deve individuare, questa melodia contorta, e farsi vincere 120 dal suono, eliminare anche la lampada che ho acceso per un attimo, giusto per il trucco, e che adesso fa squillare i suoi elettroni uno per uno, alla ricerca del mio udito fine. Ho tolto tutto, non resta altro che me stessa. E’ autentica rabbia la mia? Forse no, forse è solo la mia disperazione che si traveste da mujaheddin col coltello in bocca, pronto all’assalto, senza paura. Forse è la mia noia che per continuare a tormentarmi picchia contro le pareti dello stomaco e stimola crampi. O magari è la mia sensibilità stuprata da parole inutili e dalle falsità contente, che si addormenta di giorno in apatia, per risvegliarsi di notte ed impedirmi il sonno. Ma, in fondo in fondo, qual è il problema principale? Troppi pensieri, sparerebbe la zia Rachela. La frugalità del vivere devi prima metabolizzarla, per non fermarti a pensare. Eh si, perché riflettere è bellissimo, ma ti dà anche un mucchio di problemi che non ti saresti creata mai, se Eva puttana non ci avessi pensato. Riccardo era già al piano ma sul mezzanino ha incontrato i vicini, per questo ha aspettato rientrassero in casa prima di aprire la porta: aveva paura girassi nuda per casa a gennaio. Al contrario io sono già quasi pronta per la serata misteriosa, non finisco nemmeno di dire allora, mi spieghi cos’è questa novità della cena fuori? che il suo braccio dritto puntato contro me mostra un volantino fresco di stampa attaccato alla mano. L’intestazione è promettente: a stampatello e in grassetto il titolo è Nero di giorno. Segue un qualcosa che a distanza di 121 due metri mi appare come lo scudetto del Milan, poi da più vicino il simbolo di una marca di phon per capelli, infine scopro essere un quadro. Ancora più interessante è il testo riportato sotto l’immagine: INAUGURAZIONE MOSTRA Sarà presente l’artista Fantastica, dopo l’indicazione di luogo, giorno e ora, è la frase finale scritta in caratteri microscopici: a fine presentazione l’associazione culturale Galleria d’Arte offrirà a tutti i presenti un rinfresco Che un’ Entità così complessa da impedirci di comprenderla, che tutto ciò che ci circonda, che le più alte ricerche mai sperimentate nel campo biomedico, che l’Essere Assoluto, il Corano, la Torah e la Bibbia, che Dio in persona e nelle sue ulteriori forme vi conservino in salute e serenità in eterno, amici dell’associazione culturale Galleria d’Arte. Mi sembra di vedervi uno per uno, schierati come per una foto ufficiale, tutti allegri, con sguardi vispi e intelligenti, fasciati dalle vostre sciarpette eleganti utilizzate con stile, caldi e accoglienti come dei nonni affettuosi che mi riabbracciassero dopo un anno di studio all’estero… Così vorrei ringraziarvi, ad uno ad uno. L’idea di prostituirmi mi getterebbe nello sconforto, in una nausea talmente assoluta da durare per anni, ininterrotta. Ma se penso a voi, cari, certo rimane lo sconforto, ma la nausea sembra 122 attenuarsi. Il miracolo avverrà amici miei, stasera si mangia gratis. “Stavo lasciando dei bigliettini al bar e mentre esco vedo questo manifestino. L’ho staccato e messo in tasca.” Anche lui è entusiasta, anche lui sente un trasporto particolare verso quest’associazione culturale appena scoperta. “Ho incontrato Tarquini; stava rientrando a casa ma ha detto che avrebbe volentieri scambiato quattro parole con me. Quell’uomo è parecchio strano ultimamente. Pensa che sua figlia di quindici anni è stata presa come comparsa alla televisione ed il suo agente – ha già un agente! – ha consigliato alla famiglia di starle vicino e incoraggiarla perché in lei vede tante qualità rare.” “Uhm… Buono no?” “No! Stanno seriamente pensando a trasferirsi a Milano. Tutta la famiglia!” “Addirittura.” “La gente perde il raziocinio quando si tratta di televisione. Tarquini sarebbe disposto a portare tutta la famiglia in una città che ha sempre odiato pur di insistere su questa cosa della figlia showgirl. Che dovevo dire? Ero imbarazzato. Voleva sentirsi dire della grande occasione che era e che ce la faranno sicuramente, e questo gli ho detto.” “Ma almeno la figlia la pagano?” “Ecco il bello: no! Cioè, le pagano il viaggio e tutte le spese. Ma non riceve un compenso per il suo lavoro di comparsa.” Rivaluto l’onestà del ragioniere, anche se con tanti sospiri lui alla fine i soldi li dà. La gente a volte accetterebbe di tutto. Io e 123 Riccardo ne siamo un buon esempio. Ma Tarquini è peggio: non solo fa lavorare la figlia gratis, è pure contento. Uno di questi giorni le propongo di venire qui a lucidare il bagno mentre io la riprendo. Magari poi mettiamo il filmato su Youtube e diventa famosa, povera stella. Datele il tempo di fare tutto con calma! Datele la possibilità di studiare, provare altre sensazioni. E poi di sentirsi completamente fallita a 30 anni, proprio come me, quando in uno studio televisivo non la prenderanno nemmeno come addetta alle pulizie. Ma chissà come sarà il mondo, quando lei avrà la mia età. Per quella data io avrò finalmente imparato alla perfezione l’inglese scritto e parlato, ne sono sicura. A quel punto la lingua più richiesta sarà il cinese, e quindi comincerò a studiare anche quello, che parlerò alla perfezione il giorno della mia morte. Avrò accumulato due anni di contributi in totale, sarò grassa e così acida da non avere nessuna amica. Sarò stata sfrattata una dozzina di volte ma non avrò paura: così come oggi c’è la zia Rachela, tra 15 anni sarà la figlia di Tarquini a venirmi in soccorso con laute donazioni in accappatoi, shampoo e docciaschiuma. A quel punto prenderò una valigia, un paio di scarpe da running molto resistenti e partirò a piedi verso la ricca regione del Sichuan. Aprirò un negozio di accappatoi, shampoo e docciaschiuma a basso costo accumulati negli anni e da lì comincerà la fortuna della mia stirpe. A parte questa, in tutta sincerità, altre soluzioni non ne vedo. Ah, già. Il romanzo. 124 Da quando ho capito che il problema della cena di oggi era risolto mi è come passato di mente. Non che il progetto non mi attiri più, ma mi ci sento più vicina se non so come cenare ecco. La notizia del miracolo mi ha rilassata, truccata così sono persino più bella. Riccardo si avvicina diverse volte per sentire il mio corpo attraverso il maglione di lana, io lo abbraccio, poi gli sfioro il collo con la fronte. Ci baciamo. Siamo arzilli, siamo in festa prima ancora del banchetto. Mi fa fretta: “Alice…” dice semplicemente e siccome, oltre ad essere una donna parecchio intelligente, ho sviluppato una certa telepatia verso il mio uomo, so che vuol dire: “Muoviti, voglio finire tutto io stasera.” “Sono pronta, andiamo.” Per strada non fa molto freddo. La sala è distante non più di 2 chilometri e decidiamo di raggiungerla passeggiando. Riccardo sembra saltellare con i piedi fasciati dalle sue scarpe da tennis. E’ costretto ad aspettarmi, io ho messo le scarpe eleganti e cammino stabile ma più lenta. Nel buio rischiarato ai fari dei Suv si sente l’andare molleggiato e gommoso intervallato dai miei tac tac regolari. “Vorrei una sigaretta” mi dice, ed io fingo di non averlo sentito: è l’unico aspetto positivo della nostra povertà. Solo a volte, magari per farsi un regalo di compleanno o per celebrare un altro contratto di un mese, decide che non avrà troppi sensi di colpa e ne prende un pacchetto da dieci. Ma è raro, rarissimo, per fortuna. E’ come se avessimo siglato un patto di sangue, io e lui, dettato dall’istinto di conservazione 125 che ci domina: i soldi in eccesso, nella nostra famiglia, vanno utilizzati principalmente per sfizi culinari. Festeggiamo i compleanni con linguine agli scampi decongelati, i nuovi contratti con antipasti di mare, gli anniversari con astici interi. Tutto questo interesse per la cucina l’ho sviluppato negli ultimi tempi, prima rappresentava per me un’ opera noiosa, da vecchie, assolutamente priva di ogni interesse. Invece, da quando il cibo scarseggia, nella mia vita l’aspetto alimentare è il più appassionante, il più sensuale degli argomenti, l’ossessione più grande. La teoria di Riccardo è che i programmi televisivi gastronomici riscuotano grande successo perché il Paese è pieno di gente che guarda pranzi d’autore e mangia pizze surgelate. Io non lo so, non ne sono sicura, non sono sicura di nulla oramai. Prima si che tutto era chiaro, avevo più sicurezze io che granelli di sabbia la spiaggia di Tropea. Rifiutavo persino di entrare in un McDonald’s: combattevo contro l’imperialismo globalizzante. In seguito ho realizzato che se oggi il tuo pranzo dovrà costare un euro non c’è nessun altro nel mondo che ti darà della carne in cambio della tua moneta. McDonald’s lo benedico per questo, e lo amo. Ed amo anche i cappellini in regalo, i vassoi da vuotare e tutti quelli che vi lavorano. E’ come se dentro avessi una coscienza canterina che mi comanda e dice: devi mangiare la carne Alice; la carne è importante perché ti dà le proteine; queste rappresentano i mattoni con i quali hai costruito i tuoi muscoli; senza le proteine il tuo corpo digerirà i muscoli; senza i muscoli non puoi stare in piedi, non puoi 126 camminare ed alla fine diventi brutta e muori. Mangia la carne Alice, mangiala! La mangio quindi, ma non c’è alcun piacere in questo, la assumo come fosse una medicina nella speranza che cessino i miei capogiri e le gambe mi supportino ancora, almeno fino alla prossima sedia. Chissà se anche oggi il cuore mi regge. Come se negli ultimi cinque anni non fossi più uscita da casa, mi meraviglio del fatto che a piedi, al buio, all’ora di cena siamo gli unici a percorrere questo tratto. Le ultime vetrine illuminate non destano in me alcun interesse apparente. Poi però, quando passiamo davanti al negozio di borse, i miei tacchi s’incuneano al suolo. “Soltanto un minuto!” supplico, e Riccardo sa bene che a tutto posso resistere, persino a due ore di solletico, persino ad un disco di sigle televisive se proprio è necessario, ma ad una vetrina di borse mai. All’inizio non me ne piace nessuna. Guardando meglio ne trovo due o tre, di pelle lucida, classiche, che forse se fossi proprio costretta e pagata bene potrei anche indossare ora stesso. Ne scopro di nuove man mano che guardo e a ciascuna trovo una giustificazione, una andrebbe bene con il cappotto rosso, una per i colloqui, un’altra mi starebbe anche se fossi completamente nuda, tanto che alla fine mi piacciono tutte. Mi scopro a supplicare Riccardo di portarmi via a forza e intanto che mi trascina scherzando per il colletto io libero la fantasia in un ritornello: scrivere un libro su questo stato di indigenza non dichiarato ufficialmente, delle righe 127 nervose che parlino dell’ipocrisia di considerarci normali. Mettere tutto online ed inserire talmente tante tag da posizionarlo in prima pagina su ogni motore di ricerca. Diventare famosa, stringere amicizia con la figlia del Tarquini ed andare al Maurizio Costanzo Show. E lì, sul palco, in attesa da due ore con i fogli A4 in mano, sola nel teatro vuoto, a luci spente, realizzare come il Maurizio Costanzo Show in realtà non vada più in onda da tempo. Prendere il primo treno verso casa. Fare comunque tanti soldi, tornare qui davanti alla vetrina, entrare in negozio con una valigia pesante, consegnarla al proprietario che impazzirà di gioia contando i biglietti da cento mentre io prendo possesso del mio nuovo punto vendita e lo allontano con un calcio leggero. Il vecchio proprietario, non il negozio, quello sarà mio con tutte le borse all’interno. Queste riflessioni devono avermi rabbuiata nel momento in cui ho realizzato fossero solo fantasie, tanto che lui comincia a fare scempiaggini soltanto per farmi ridere. Mi dà una spintarella, io gli rubo il berretto. Ridiamo come due poveri scemi, ma siamo innamorati e null’altro importa. Lui è più impulsivo di me. Normalmente, nel momento in cui gli è chiaro che non potrà comprarmi niente, si agita. Il suo cuore comincia ad accelerare, se siamo in una stanza in silenzio lo posso sentire senza nemmeno mettere l’orecchio al petto, un rossore gli colora fronte e zigomi. Qualche goccia di sudore lo impernia, anche con questo freddo. 128 Stasera è diverso: ridacchia, si sposta, cammina sulle panchine di cemento che incontriamo nella via. Gli dico scendi, sembri uno scemo, ma in fondo anche a me diverte questo spettacolo. E’ un’esibizione fatta in mio onore da un giocoliere idiota che continua a saltellare e sghignazzare, nonostante io ogni venti secondi dica: “Scemo!” “Sono scemo io?” Fa lui minaccioso. “Si!” “No!” “Si!” “Ah si? Vuoi vedere davvero cos’è uno scemo?” “No, mi basta questo, grazie.” Adesso ho paura che esageri. “Ed io te lo faccio vedere! Uno scemo è uno che sale su una panchina e si mette ad urlare – mette le due mani intorno alla bocca e comincia ad urlare davvero –: Sono un coglione!” “Ah, ah… Basta, basta così!” Non mi ascolta, so bene che non avrebbe il coraggio di fare il demente se incrociassimo qualcuno. Mi fa ridere però. “Sono il coglione più grande di tutti!” “Basta!” “Sono talmente un coglione che un mio allievo si è innamorato della mia ragazza, ed io invece di pestarlo continuo a dargli lezioni private!” “Cooome?” “No tranquilla – mi dice a bassa voce - sto inventando stupidaggini.” Un brivido di disgusto mi aveva attraversato la schiena, le sue parole sembravano vere. “Bene, adesso basta” dico ridendo un po’ meno. 129 “Sono talmente coglione che la mia ragazza, qui a fianco, la vedete? Io non riesco a scoparla! Non ce la faccio, sono impotente” e mentre grida più forte che può dall’alto dell’ultima panchina tra quelle in fila, giunti quasi all’incrocio, sbucano un uomo distinto ed un cane portato a passeggio. Sorpreso da ciò che ha sentito l’uomo mi guarda negli occhi costernato. Sembra dire mi spiace e si volta a guardare Riccardo per un attimo, quindi prosegue col cane. Quel coglione del mio fidanzato scende dalla panchina sconsolato ed io lo abbraccio cianotica. Scuote solo la testa e non commenta la sua figura più che magra anoressica. E’ un bene essere già arrivati, infatti dimentichiamo presto l’incidente che avrebbe potuto distruggere la sua carriera politica nell’improbabile caso in cui lui fosse stato uno statista. A volte è quasi positivo, essere niente. La struttura esterna è quasi bella, così ornata di colonnine e persiane in legno bianco, o forse la sto pensando come ad un ristorante gratuito e per questo la giudico bene. I due piani del palazzone devono essere stati rinfrescati da poco, ho come l’impressione di sentire ancora attorno l’odore chimico della vernice. L’impressione è quella di un punto di luce in mezzo al buio della piccola piazza circondata da alberi che sembrano risucchiare il flebile barlume dei pochi lampioni. Il pianterreno lo intravedo dal grande portone spalancato; il primo piano ha quasi tutte le finestre sigillate, ma dalle imposte rimaste aperte riesco ad adocchiare i lampadari di una brillantezza esasperante. 130 All’ingresso non c’è molta gente, una signorina accogliente in tailleur blu ci informa che la sala è già gremita e sarebbe meglio affrettarsi per non perdersi il meglio: l’ artista ha già cominciato a parlare. “Sapessi quanto ce ne frega non saresti così cordiale” mi sussurra Riccardo all’orecchio sinistro. Io ridacchio, piano. Abbiamo quasi varcato la soglia, siamo proprio accanto al cavalletto che preannuncia la serata quando una certezza macabra si fa strada in me. Mi tocco le tasche del cappotto, apro la borsa, tasto i pantaloni: niente. “Riccardo, mi sa che ho dimenticato a casa il cellulare” dico in ambasce, più che altro per la reazione che mi aspetto da lui. “E beh, pazienza. Entriamo.” “No, senza il cellulare io non vado da nessuna parte.” “Ma stai scherzando, chi vuoi che ti chiami?” “Sto aspettando una risposta per un lavoro.” “Alice, aspetti una risposta da due anni. Sono le otto, gli uffici hanno già chiuso ormai, non ti chiamerà nessuno per questa sera.” “Riccardo per favore, mi sento più tranquilla ad averlo qui con me.” Non ce la faccio, vivo costantemente legata al cellulare, aspettando che squilli. Ne sono dipendente. Posso dimenticare di reinserire la suoneria, posso addirittura non sapere di averlo con la batteria scarica e ignorare si sia spento, ma non posso non tenerlo qui con me. La chiamata arriverà, prima o poi. 131 “Vado e torno subito. Tu aspettami qui” dico agitata. “Ma stai ferma, dove vai con quei tacchi? Vado io, faccio prima, porca puttana!” “Grazie amore, grazie! Allora, dev’ essere rimasto nell’altra borsa, quella che avevo nel pomeriggio quando sono uscita con Silvia, quella blu, te la ricordi?” “Si, si” ed è già lontano, incazzato come Jennifer Aniston il giorno delle nozze tra Brad Pitt e Angelina Jolie. “Ti aspetto qui fuori” dico ad alta voce. Noto il gesto di stizza, dandomi le spalle mi ha mandata a quel paese con il braccio. Nella piazzetta antistante l’ingresso c’è un monumento. Mi siedo sul marmo della base e aspetto. Per una volta che si mangia lei ha dimenticato il cellulare a casa. E chi corre come un ossesso per riprenderlo? Chi vola per raggiungere la sala prima che finiscano tutto? Il coglione, ovvio! Stavolta mi ha fatto proprio incazzare. Uno cerca di sforzarsi, di fare di tutto per allontanare questa miseria infame e lei che fa? Non collabora, non c’è, non ha testa, dimentica il telefono a casa! Come se la chiamasse qualcuno poi, che minchia. Mi dice aspettami qua, vado e torno, ma lo sa benissimo che io, da vero coglione, non lo permetterei. Ma basta, qua le cose devono cambiare, questa è l’ultima volta. Dimentichi il telefono a casa? Arrangiati! Tu vai a riprendertelo, io intanto entro e chi s’è visto s’è visto… Ma porca di quella, ci mancava anche il camion della spazzatura, 132 siii, daaai, passate tutti, è una fiera, anche il vecchietto in bici. Ma che cazzo ci fa un vecchietto in bici a quest’ora? Chiaro: spende in osteria la pensione che gli pago con le mie trattenute, bastardo. Quasi quasi lo butto giù con un calcio e gli frego la bici. See, quello come minimo è armato. Le chiavi, dove minchia le ho messe le chiavi? Ah ecco, il portone. E apriti affanculo! Ascensore. E’ al quarto, no, meglio a piedi. Scale. Porta. Borsa. Cellulare del cazzo. Giù via, avranno già finito tutto. Ho fameee! Di nuovo questa strada, è la terza volta in mezz’ora, vai vai, galoppa mia piccola Nike tarocca. Uff, quasi ci siamo, ancora un chilometro ed è fatta… A che punto sarà Riccardo in questo momento? In qualche modo dovrò ricompensarlo. C’è uno che passa e guarda, io faccio finta di nulla ma lui continua ad osservarmi. Mi alzo e gli vado incontro: “Avresti una sigaretta, per cortesia?” “Certo” risponde lui, già pronto a chiedermi l’amicizia sul Facebook di questa piazzetta. Tira fuori l’accendino ma lo blocco: “No, non l’accendo adesso. E’ per dopo. Ciao ciao.” Non mi saluta neanche mentre corro incontro al mio uomo che sta arrivando. Se mangerà bene e vedrà la sigaretta l’arrabbiatura gli passerà prima dell’alba. Lo bacio e lo ringrazio ancora, poi entriamo. …per mettere in chiaro una cosa sin dall’inizio: questa è senza dubbio alcuno né possibilità d’error remoto qualcosa di molto vicino alla giornata più straordinaria che avrei mai potuto vivere in 53 anni, 133 invece mi pare proprio non sia successo nulla! (applausi, immediatamente individuato il tavolo). Ah, Ah, Ah! Perdonate la battuta, ma quando si ha a che fare ogni giorno con il surrealismo è il minimo che possa capitarvi! In genere non mi sbilancio nelle mie glosse, non tingo di retorica le lettere e le parole e le frasi che scalpitano per uscire dalla mia bocca. Le sento esplodere nel mio cervello, e cercarsi un passaggio che sia il più diretto possibile tra le mie corde vocali, come sgomitassero tra loro (farnetica. Meglio, sono tutti attenti e guardano verso lui ipnotizzati). Questo mi sta succedendo, in quella pseudo seduta psicanalitica da pochi euro che è l’iconografia oggi. Però il fatto è questo: che non voglio annoiare nessuno dilungandomi sulle tinte più estreme dei miei stati d’animo più che confusi, da qualche tempo in qua. Basti solo siffatto argomento dunque, e cioè che la moka che ho nel cervello sembra una vaporiera e pressa sempre più forte tra le pareti della scatola d’ossa. E di conseguenza il discorrer potrebbe risultare quantomeno impastato e miscugliato (secondo me questa parola non esiste, a casa controllo sul dizionario) come di chi abbia paura che tutto possa dileguarsi d’improvviso, non so se avete presente; che poi è quello di cui ho esattamente paura io in questo momento. Di tutto ciò, di tutto il cianfrusame strampalato che mi verrà in mente e che dirò, anche se non so con chi esattamente, mi scuso (brusio confuso e sommesso, afferrate le prime patatine di nascosto). 134 Vi è mai capitato di stare svegli tutta la notte e poi fermarvi ad aspettare l’alba? Tipo, chessò, su un terrazzo spazioso che aprisse la vostra vista al mare vicinissimo ed allo strapiombo sulla destra? Questa è l’immagine che ricordo, di una splendida alba di qualche mese fa. Il mare sembrava fermo, la sua luce faticando ad arrivare alla mia vista giacché vera alba ancora non c’era, e più che altro mi pareva d’osservare un quadro si surrealista, ma senza elementi che fossero troppo distanti da una tranquilla e rassicurante realtà assonnata. Ma non dilunghiamo. E’ che mi piacciono le albe, lo si sarà capito (applauso e tartina con maionese, olivetta e cotto). Fu in quell’occasione che scoprii una cosa importante, o perlomeno che a me parve d’estremo interesse. Quando già la luce arriva dall’ultima linea del mare e quel chiarore così incerto si diffonde nell’aria, con un po’ d’attenzione si può vedere la notte che è già lontana. Ti dà un senso d’onnipotenza l’osservare la notte che fugge mentre (aranciata e salsiccetta pepata, due dischi) si è immersi nel giorno… Certo, mi spiego meglio, comprendo lo scetticismo che intuisco dai vostri volti, sto creando un po’ di confusione. E’ vero, ho un gran difetto (Naaa! Spumante!): credo sempre che chi mi ascolta già sappia di cosa io parli, e non eccedo in chiarezza, a volte. Ciò che intendevo prima è che le nuvole, quelle che stanno dalla parte opposta al sole sorgente, possiedono una curiosa particolarità. Non ci avete mai fatto caso? Per un lasso abbastanza lungo di tempo, sono nere. 135 Dunque: possono forse esistere delle nuvole nere? E’ evidente che no, non possono. Ebbene, quella è la notte, ovvero, un piccolo pezzetto di notte che non si è ancora arresa alla nuova tirannia del giorno. Mi sembra una grande scoperta questa, per una persona di soli 53 anni (tranquillo, hai tempo per renderti conto anche di quanto inutile sia la tua esistenza. Patatine, olive ascolane, vol-au-vent e ancora spumante). E’ per questo che titolo della mostra è “Nero di giorno” ed il nero ha una presenza così manifesta, quasi soffocante, in queste opere che vedete e, spero, apprezzerete. Grazie (applausi, adesso forse si comincia a mangiare sul serio). Io non credo che la verità si possa (ha ricominciato, dietrofront!) nascondere a lungo, nell’arte. Non ci credo per niente. E’ un fatto di tempo: a poco a poco piccoli indizi vengono fuori, prima pochi elementi, poi altri sempre più chiari si aggiungono, fino a completare il quadro veritiero di ciò che in precedenza si sarebbe voluto, miseramente, nascondere (spumante, spumante, spumante. Panzerottino). Ad esempio, se in questo momento nessuno di voi mi vedesse né sentisse, cosa direbbe nei miei confronti? (probabilmente che questo prosciutto emana un odore un po’ troppo forte, forse è vecchio come te) Chi sono io, per voi? (la nostra cena) Sono un sogno? (uhm, no, decisamente) Un’invenzione? (si, ma potevano anche inventarti meglio) Un essere umano? (non lo darei per scontato. Trancio di pizza, adesso la ragazza del catering mi ha guardato davvero male. 136 Le ho sorriso. L’importante è che non ci notino gli altri, altrimenti cominciano tutti ad avvicinarsi al tavolo). E, in caso quest’ultima descrizione mi appartenesse, io, inteso come occhio che guarda i miei paesaggi, sarei donna o uomo? (non per dire, ma di veri uomini io fino ad ora ne ho conosciuti pochi, non te la prendere. Spumante). La notte e l’alba si diceva, e gli indizi. Ce ne sono volute di albe osservate, ce ne sono volute notti di sonno perse, affinché scoprissi ciò che in verità erano quelle nuvole nere. Considero tutte le albe che ho visto come degli indizi che hanno poi portato la verità innanzi agli occhi e alla mente (Cybercola gluglu). Qualcuno, qualcosa, ha voluto che io lo scoprissi, questo trucco che serve a smascherare la lotta tra la notte e il giorno. Se anche non fosse la verità vera, ciò che io adesso credo delle nuvole nere, bene anche questo sarebbe un altro indizio che, un giorno, mi porterebbe a scoprire la vera essenza dell’alba e del nero annuvolato. Le ho raccontate in questa nuova collezione, le mie albe splendide e insonni, con una accortezza: mai pensare alle opere con eccessivo trasporto, ricordate, la mente dietro i pennelli, mai il contrario (tranquillo, non ci permetteremmo mai, Dio ce ne scampi e liberi). Grazie a tutti, adesso brindiamo insieme. Quando il pubblico applaude abbiamo entrambi le mani impegnate. Siamo partiti come degli evasi al primo accenno gutturale del suo grazie a tutti, adesso brindiamo insieme. Ci troviamo in pole position, ognuno di noi riempie almeno tre piatti per 137 dei nipotini rimasti fuori a giocare, così affamati che persino noi rimaniamo un po’ stupiti realizzando come in realtà non siano mai esistiti. Il Cinzano va giù che è un piacere, lo accolgo come la mia trachea fosse un tubo di ferro di una fontana romana, scorrevole. Io ho una certa discrezione dopo il terzo piatto, Riccardo è impressionante invece. Non si ferma più, mi è sembrato riempisse i tre piatti per tre volte di seguito. Sono sicura che non mastica affatto, butta giù come riempisse un sacco che non sta dritto per quanto è vuoto. Accenno un amore, forse così veloce ti fa male. “Anche il piombo fa malissimo. – risponde – Non per questo io mi sogno di andare a rompere i coglioni ad un verniciatore in catena di montaggio.” E’ l’unico nostro scambio di battute durante l’assalto. Ho afferrato bene il significato del discorso, sto zitta e continuo a bere più di prima. Insieme siamo imbattibili: lui si dedica alla parte solida, pizzette, arancinetti, tartine, patatine, piccoli arrotolati, panzerottini, io dopo i primi piatti raccolgo le mie povere cose e mi stabilisco definitivamente nella valle di Bacco. All’inizio la sala era piuttosto silenziosa; adesso, man mano che il rinfresco si consuma e i bicchieri vengono vuotati, il volume si è alzato. Come bollicine in viaggio nei bicchieri la folla comincia a farsi confusa, qualcuno scherza, altri ridono acuti. Dentro di me il baccano comincia davvero a spingersi verso livelli inaspettati; ho l’impressione di non avere capogiri solo grazie alla colonna che mi sostiene. Resto ferma, attaccata appunto alla 138 colonnina di fianco al tavolo, e continuo a brindare da sola. Di tanto in tanto Riccardo mi passa uno spuntino, ma saranno dieci minuti che accetto esclusivamente quantità proporzionali: ad ogni tartina, un bicchiere di spumante. L’artista si è unito agli astanti e adesso i tappi saltano lieti come fosse un matrimonio, due, tre, quattro, non li conto. Ho l’impressione di aver sentito distintamente ridere tutti all’unisono, e comincio a ridere anch’io, sguaiata come una cagna di nessuna razza. Forse esagero, due o tre si sono voltati e mi hanno guardata un secondo, ma va bene così. Riccardo continua a mangiare, anche se pare cominci a scalare le marce. No, no, affatto, prosegue come una vaporiera stantuffante, ha già quasi perso ogni traccia di ritegno. Fino a un attimo fa riusciva a mimetizzarsi abbastanza bene, colpiva e spariva. Di seguito si è fatto più sfrontato, lo vedo distintamente farsi largo a gomiti aperti, almeno due volte ha assestato dei colpetti leggeri ai fianchi degli avventori increduli. Però in quel caso la violenza ha funzionato: gli lasciano subito spazio, si allontanano come odorasse di sterco. Lo vedo soddisfatto, quel velo di arrabbiatura che l’aveva colto a causa mia lo ha abbandonato del tutto. Mi dice maaangiiiaaa e ride, io che ridere e bere sono ormai le uniche due cose che so fare. Ho paura mi chieda di prendere un vassoio di pizzette e vuotarlo interamente nella borsa, tanto che d’istinto tolgo il cappotto, la metto a tracolla e richiudo il tutto, così non la vede e non gli viene l’idea. 139 E’ un ballo con in mano i crostini, più fresco e meno formale di una notte in discoteca. Non diciamo nemmeno una parola a nessuno dei presenti, eppure molti sarebbero disposti ad una chiacchiera veloce. Ma noi no, danziamo coordinati ma su valzer diversi, lui con piatti in mano ricolmi ogni quattro minuti, io con la mia solitaria litania di bollicine e capogiri bloccati da una colonna stile impero. Ci amiamo così, carnali, distanti, con in mano non cento carezze ma innumerevoli spuntini, incalcolabili sorsi. Il sentimento sta crescendo così tanto che mi scopro a pensare se ne usciamo vivi da questi anni, mi faccio sposare da te e il solo abbozzarsi dell’immagine nella mia mente mi commuove. Ho gli occhi lucidi che si riflettono sul vetro del flûte come due candeline poco prima di essere spente da una bimbo: così come una bimba sono innocente io, così come un bimbo è indifeso Ric. Mi sento sciolta come il sugo delle pizzette, sono languida come il Cinzano che frizza. Amore, amore, amore ho dentro, come un buco che risucchi me e tutto il resto, una forza di gravità che attragga soffi leggeri, mani tese e tenerezze. Mi sento donna matura, non più ragazza, e come donna voglio comprendere e avvolgere, amare e riavere. Sentire la vita che pulsa, mordere il miracolo che mi gonfi la pancia. Ho un desidero forte e trascurato di viaggi in auto lunghi un anno, di campeggi che ci vedano soli, io ed il mio uomo, in una tenda a baciarci le schiene, in uno spiazzo a raccogliere funghi e violette. Di fiori ho voglia, tanti da riempire una casa, quando lui mi 140 tratti come un autentico ammiratore appassionato. Che si getti in un fiume per me, che mi rubi un diamante. Che mi dica sposami Alice con baci commossi. I giorni si succedono ed io mi sento polarizzata come fossi un magnete che viene spinto e cede. Mi concedo con gioia, vitalità, allegria, trattenendo a stento la linfa dei giorni che passano e corrono. Sento l’amore che lui prova per me, e di questo sentimento m’innamoro, se possibile, ancora di più. Mischio le sue felpe alle mie calze, ammasso insieme pantaloni, canotte e mutande. Tutto a noi due appartiene, per terra a guardare il letto. Che passione ho io, quanti chili di cioccolata fumante! Le montagne ci osservano come due vacche impazzite. A noi basta la nostra intesa, non cerchiamo altri conforti, non invidiamo le coppie che programmano tutto così a fondo da imparare subito a odiarsi con professionalità. Siamo due gelati al cocco esposti al sole che brucia ad agosto; ci disintegriamo in fretta ma proprio questo ci unisce ancora di più ed alla fine siamo una sola sostanza. Riccardo mi manca anche quando è qui accanto. Voglio abbracciarlo, gli voglio mangiare le guance, aaahmm, lo voglio tutto per me. Ma lui è una furia; rallenta cinque minuti e poi torna a sbranare tutto con più foga di prima. Un anoressico colto da crisi bulimica darebbe meno spettacolo. Come per punirlo mi spingo a ricordare com’era quando lo conobbi: magari più allegro, con dei muscoli più tonici e la pelle più elastica, con più capelli… Niente, non mi viene niente, mi sembra sia 141 sempre stato così e di non averlo mai amato tanto. Se dividiamo vite così squallide vorrà pur dire che ci amiamo davvero. Per questo lo sposerò, perché ci amiamo e basta, per nessun altro motivo. Il mio futuro sposo se ne infischia leggermente di me, allora io riempio il bicchiere numero centoventitre, che cavolo! Questa mancanza di attenzioni, questo suo continuare a mangiare mentre io mi sento così innamorata è sacrilego e mi innervosisce. Per tranquillizzarmi bevo di nuovo, ma bevendo mi agito ancora di più. Il padrone di casa, l’artista delle albe nere è tra noi. Lo guardo con riconoscenza, non fosse altro perché stasera ha risolto un trecentosessantacinquesimo del problema “cene relative a quest’anno nero” e se non avesse mai dipinto quelle albe non saremmo qui tutti insieme, allegri e gonfi. I convenuti qui intorno gli porgono le mani, commentano i quadri e regalano complimenti. Io che dei quadri mi sono ricordata soltanto adesso un po’ mi vergogno. C’è un piccolo gruppo di giovani, un ragazzo gli si para davanti dicendo Papà, che bella serata! ed ha uno sguardo sanissimo, guance belle e nutrite, sorriso radioso e camicia militare. Il ragazzo del bar! Quello ricoperto d’insulti accanto al palchetto! Ha un’aria talmente familiare che devo trattenermi dall’avvicinarmi e tendergli le braccia. Questa è proprio una di quelle coincidenze da film, come se ad un tratto dovesse per forza accadere qualcosa. Riccardo niente, non pervenuto. Se escludo qualche ruttino insonorizzato potrei ben 142 dire di essere venuta da sola ad ammirare le albe scure. Sono arrabbiata. Mi sento abbandonata, triste ed ho pure scambiato per un amico uno che oggi ho visto al bar, il figlio di un artista, uno che ha le guance elastiche, che va in piscina, che in spiaggia può ripararsi all’ombra del suo estratto conto. Uno col ferma soldi in argento e la camicia militare. Non riesco neppure più a bere, sono completamente ubriaca e incazzata. Oddio, mi è presa l’ubriacatura violenta, capisco da sola che è meglio andare. Lo dico a Riccardo che fa finta di non sentirmi. E’ passato ai dolcini, me ne mette uno in bocca intero cantando Su di noi, nemmeno una nuvolaaa. In pochi minuti tutto si fa confuso, meno chiaro nei dettagli, più difficile da inquadrare. So solo che il figlio del pittore mi è accanto e dice ad alta voce, riferendosi a Riccardo che ha un pezzo di torta di mele in una mano e un cannolicchio di ricotta nell’altra: “Ma chi è ‘sto pezzente?” Lui è alla mia sinistra, i suoi amici ridono di Ric, il flûte è nella mia mano destra. Percorre 180 gradi di circonferenza con una velocità che assomma in sé tutta la rabbia, l’ubriachezza, l’attesa e l’umiliazione di questi giorni scoloriti e si va a infrangere sulla sua bocca, scoppiettando sui denti. Non ho il tempo di fare null’altro, Riccardo, lucidissimo, mi ha già presa per un braccio e mi trascina via correndo, mentre ancora nessuno si è reso conto di quanto sia accaduto. Riesco appena a dare un’occhiata scappando, e la mia attenzione è 143 catturata dai pezzettini di vetro per terra più che dalla mia vittima incredula con le mani alla bocca. Sanguina, e forse un po’ sanguina anche la mia mano, a giudicare dal calore attaccaticcio che sento. La gente che prima guardava con un malcelato senso di pena, mentre scappiamo ha sentito un timore tramutatosi in vera e propria paura dell’ignoto. A me i frammenti di vetro sparsi per terra hanno suggerito delle immagini antiche. Ho pensato a una retina piena di biglie trasparenti, proprio quelle che avevo da bambina, e mi sono vista a comprarne di nuove, tornare in sala e tirarle in faccia al ragazzo una ed una, ogni tiro dicendogli: “Stronzo!” Scappiamo correndo, la sua mano destra a tirarmi in avanti, e attraversiamo una stradina stretta, poi un viale, poi corriamo ancora verso uno spiazzo deserto. Partecipo ma è come se questa corsa non mi riguardasse, come se stesse succedendo ad un’altra persona che nemmeno conosco, di essere tirata per il braccio nelle strade vicino casa. Come se qualcuno che somiglia molto a Riccardo dicesse ad una bella ragazza ubriaca che somiglia un po’ a me: “Sei completamente folle! Avrei dovuto scappare da solo e lasciarti là dentro, porca puttana. Ma da dov’è che ti vengono certi gesti? Li pensi prima o li improvvisi? Porca Eva Alice tu ti devi fare controllare, domani andiamo al centro igiene mentale: non stai bene Alice, tu non stai bene! Madonna… E se gli hai rotto un dente? Ma come fa una persona a stare vicino a te senza finire in carcere? Come fa? Io non lo capisco, qualcuno me lo 144 deve spiegare. Un momento prima sei tranquilla, ti diverti, ridi, ed un momento dopo sei un’altra persona, diventi seria e spacchi la faccia a uno sconosciuto. Perché era uno sconosciuto quello, vero? Non è che c’è qualcosa che dovrei sapere, qualcosa che non mi hai detto di te e di quel poveraccio? Guarda, sono sicuro che ci avranno già individuato e una volante ci starà cercando. Ti becchi sei mesi come minimo, e a me daranno l’affidamento ai servizi sociali. Non ci posso credere porca mignotta. Ma come si fa? Come si fa? Una pazza sei, una pazza. Hai perso la ragione e non me ne sono accorto, è colpa mia. Dovevo capirlo subito, quando sono cominciati quegli scatti d’ira che hai a volte. Non erano normali, no! Era segno che cominciavi a sbarellare Alice, si! Ma forse tu sana di mente non lo sei stata mai. Non ce le siamo mica scordate le tue aspirazioni, che credi? La sua convinzione di essere una bravissima attrice, l’artista abbiamo signori miei, facciamole un inchino. Abbiamo qui con noi Julia Roberts, in attesa del prossimo film manda i curriculum ai supermercati! Una fallita sei, una fallita peggio degli altri! Io almeno ci provo a portare dei soldi a casa, tu neanche per il cazzo! Due cose sei capace di fare: i colloqui e i colpi di testa come quello di prima. Di’: te lo ricordi quando dovevi fare la regista, no, no, rispondi! Te lo ricordi di quanto c’hai fatto due palle tante a tutti? Avessi portato a casa due lire! Sempre a fare cazzate, mai una cosa seria! Ma già, cosa volevamo aspettarci da una che sceglie scienze politiche ad indirizzo politico-economico? La 145 classica laurea di chi non sa cosa vuole fare da grande. Eri convinta te lo spiegassero all’università cosa dovevi fare vero? Poi hai visto che nessuno aveva la minima idea e scommetto che ci sei pure rimasta male, povera cretina. Ah già, tu volevi fare la professoressa. Poi vi siete accorti che avevano escluso la vostra laurea dall’insegnamento senza dirvi niente, con un decreto di cinque anni prima di cui non sapeva nulla nessuno, nemmeno il ministro! Siete proprio degli scienziati politici, mi fate ridere! Ma tu lo sai che per poter lavorare ho dovuto togliere la laurea dal mio curriculum? M’hanno fatto due palle così ripetendomi per venti anni che dovevo studiare per garantirmi un futuro, poi ai colloqui mi guardano come uno squilibrato aspettando solo il momento giusto per dire Lei è troppo qualificato per questa posizione. Ed io a spiegargli in tutti i modi che ho due mani, due braccia ed un culo come tutti gli altri anche se sono dottore in legge. Sono pentito Alice, sono pentito di aver preso quella cazzo di laurea. Spiegamelo tu, tu che sei una scienziata della politica, che assurdità è un Paese in cui ci si debba vergognare di aver studiato? Bella mia è meglio che tu te ne renda conto: sei una povera pazza, e pure ingenua. Sei convinta che le tue aziende ti chiameranno, che passerai alla selezione successiva ed in fondo, anche se lo nascondi, credi che un giorno entrerai anche in banca e magari farai carriera. E’ tardi Alice, hai 30 anni ed è tardi! Quando si libereranno dei posti saranno già tutti occupati, e se ne rimanesse anche 146 solo uno libero ti troveresti davanti migliaia di ragazze più giovani e più intelligenti di te. Fattene una ragione. Ma già, a te non frega nulla di rovinarti la vita e di rovinarla anche a me. Tanto c’è sempre qui il tuo fidanzato coglione che torna a casa a prenderti un cellulare che non squilla mai. Non squilla mai Alice, mai. Tu lo sai perché non ti ho ancora chiesto nulla del colloquio di stamattina, eh, lo sai? Perché è andato bene cara, è andato benissimo il colloquio di stamattina, lo so! Vanno sempre bene i colloqui, ci mancherebbe. Poi però quel cellulare di merda non squilla mai, scelgono sempre qualcun’altra, sempre. Alice basta. Renditi conto che così la cosa non funziona. Basta colloqui, basta cazzate, non si scherza più. Siamo stati fortunati fino ad ora, ma se ci venisse un’influenza non potremmo comprarci nemmeno la Tachipirina. E tu vai a dare bicchierate in faccia alla gente!” Ho subito la sua sfuriata, dalla prima all’ultima parola, in silenzio e con gli occhi di un daino poco prima di essere trasformato in ottimo panno per auto. L’ho guardato con tutta l’attenzione che mi concedeva la mia mente scombussolata dallo spumante. Senza una parola, cercando di non sottolineare con alcuna espressione facciale i suoi giudizi più duri, sono rimasta più seria e tranquilla possibile: avessi avuto un impianto accanto, probabilmente avrei caricato sul piatto un disco di Leo Ferrè. Mi sono insomma mostrata com’era giusto, addolorata, dispiaciuta, bastonata, fino a quando i molari dell’arcata destra non hanno 147 cominciato a mordere la guancia. Un suono gutturale viene da lontano; lo soffoco, ma è troppo tardi, per me e per Riccardo: esplodiamo in risate irrefrenabili. Rimaniamo subito senza respiro, rossi in volto, aggrappati l’una all’altro come le foglioline della nostra piantina di basilico. Rido a bocca aperta e sento il freddo ghiacciarmi i denti mentre stringo nel cappotto le mani gelate. Eppure mani e denti sono gli unici due punti infreddoliti: il resto del corpo è caldo, accaldato anzi, e qualche goccia di sudore scende persino tra i capelli. Continuo a cercare colonne che mi sostengano, non mi fido delle mie gambe, affatto. Raggiungiamo degli alberi in un’altra piazzetta ridendo continuamente, più che il camminare è il ridere a sospingerci. Solo qui mi accorgo di avere un taglietto all’indice della mano destra, ma è talmente piccolo che il sangue si è già raggrumato. Prendo dei fazzoletti comunque, Riccardo li bagna ad una fontanella e mi cura con perizia. Sono tranquilla, ma ho paura di quel che sarà. Le mie ubriacature si palesano a ondate: prima mi gira tutto, poi sono violenta, poi rido o piango o le due cose contemporaneamente, poi mi calmo, magari mi addormento per mezz’ora. Mi risveglio e rido o piango, lancio qualcosa addosso a qualcuno, scappo, rido o piango ancora, infine mi addormento e resto a letto ventiquattr’ore. Ho una voglia irrefrenabile di spingere Riccardo ed atterrarlo, ed è quello che faccio. Lui si aggrappa al mio braccio e per non cadere do un balzo in avanti. Riprendiamo le nostre risate da dove le avevamo interrotte, più sbilenchi di prima, fino a quando il 148 volto di lui si fa serissimo e grave ed io continuo a guardarlo ridendo con la bocca spalancata: “Hanno chiamato i carabinieri” dice preoccupato. Effettivamente si sente una sirena non molto lontana. “Ma daaai! Non sarà per noi, non si è fatto niente!” dico più per convincere lui che perché lo creda davvero. “Basta ridere cazzo! Andiamo a casa, se ci trovano in strada ci riconoscono subito.” Impedire ad un’ubriaca di ridere mentre questa si trovi in piena crisi di ridarella non fa altro che farla ridere ancora di più. Ed il brutto è che, ridendo io, nemmeno Riccardo riesce a trattenersi e ride incazzato e impaurito. Vuole raggiungere il nostro appartamento, la sua mente lucida gli suggerisce che sarà meglio così. Per me è indifferente, potrebbe venire giù una colata lavica e l’accoglierei a braccia conserte, con curiosità. Mi strattona ancora e mi tira in direzione di casa; io gli porgo la mano sinistra, l’altra è un po’ dolorante. Nella tasca del cappotto ritrovo la sigaretta che avevo recuperato prima di entrare: si è spezzata, adesso ne ho due. Le getto via ma non sono io: è la sbornia che lo fa per me. Corriamo così, nella notte fredda, ridendo e scappando. 149 150 5. Rido così tanto correndo che cado e trascino anche lui per terra, ad un metro dal cassonetto dell’immondizia. Il terreno è umido e attaccaticcio e se rifletto un attimo sui milioni di sacchetti sgocciolanti che negli anni son passati da qua capisco anche il perché. La puzza è così intensa che d’istinto copriamo nasi e bocche con le mani, ma né io né lui abbiamo la forza per rialzarci. Ridendo ancora ci guardiamo negli occhi, io gli assesto un pugno leggero, lui mi spinge la testa. Facciamo finta di nulla ma ognuno di noi sa esattamente cosa stia pensando l’altro nello stesso momento: se qui, in mezzo alle buste schifose, ci fosse qualcosa da recuperare, un tesoretto vendibile? Scoprire me stessa nei suoi sguardi mi amareggia e mi detta esattamente cosa io sia diventata, riga per riga. La consapevolezza è così piena che ad un certo punto smettiamo di ridere, prima io, poi lui. Siamo seri, serissimi. Avvolti dal fetore e dai residui di cibo vecchio ci immaginiamo a frugare come iene in cerca di carogne, e abbiamo paura l’uno dell’altra e per noi stessi. Il cuore batte più veloce, il rossore risale in viso, la mia mano ferita accenna un tremore. 151 Poi le lacrime; comincio io ma lui, come non aspettasse altro, mi segue come una palla rotolante in discesa, che mi raggiunge subito e mi sorpassa in strazi e lamenti. Si ferma solo in fondo, sottoterra. Facciamo che c’è stato un incidente stradale e dell’acqua, non so se per la pioggia o per i radiatori spaccati delle auto distrutte. Facciamo che ci sono una mamma ed una bambina, bionda e pienotta, da mordere di baci. Facciamo che adesso la mamma è per terra. Facciamo anche che è morta. La bambina no, facciamo che è sotto shock tra le braccia dei primi soccorritori, un barbiere e il suo cliente con la schiuma in viso. Un capannello si è creato in fretta, è un giorno di marzo e una zona trafficata, così che tutti si sono sistemati in cerchio attorno al disastro. Facciamo che la bambina d’un tratto si ridesti dal suo trauma e scappi gridando mamma! verso il cadavere della donna. Facciamo che lo faccia piangendo, facciamo che cerchino di trattenerla, altre mamme tra le donne, ma non riescano. Facciamo che l’abbracci e pianga, e facciamo che comincino a piangere anche gli altri. Comincia la prima donna, quella che dopo il barbiere l’aveva presa tra le sue braccia protettrici. Poi piange anche un vecchio ed elegante uomo, poi tre ragazzi non andati a scuola, poi una bidella nel suo giorno di libertà. Piange un camionista, piangono gli infermieri sull’ambulanza, un centrocampista dell’Udinese, un musicista della metro, un netturbino ed un operatore fiscale di un Caaf di Grosseto. Piange anche un gatto che passava di là, e tre formiche. 152 La bambina è sul corpo della madre morta, e piangendo la bacia. E mentre la prima donna, che stringeva la bambina fino ad un minuto prima, cerca di riportarla a sé, facciamo che accada qualcosa che normalmente non esiste. Facciamo che tutte le lacrime si riuniscano in una piccola onda, e scivolata sotto il corpo faccia rialzare la donna morta, non tanto, solo un poco, quel poco che basti per mettersi a sedere sull’asfalto e stringere la piccola, e accarezzarla. Facciamo che la madre morta, nello stupore generale dica: “Lasciatela un attimo, il tempo di un ultimo abbraccio” e lo dica piangendo. Facciamo che le lacrime di tutti avvolgano tutto e tutti e che questa sia la scena più triste mai pensata, mai vissuta, mai sognata. Facciamo che le lacrime comincino ad essere troppe, litri su litri, e che anche il resto della città stia piangendo. E poi le altre città, e gli altri Paesi, e il mondo e i mondi interi piangano. E si alzi il mare poi, fatto di pianto e tristezza e malinconia infiniti. Ed il cielo con questo si confonda, e le autostrade e i porti. Che le nuvole si gonfino di pianto e poi collassino in temporali di lamenti. E tutti, tutti, tutti, tutti piangiamo ed anneghiamo, nel nostro immenso mare di lacrime. Rimaniamo così, abbracciati in silenzio, due condannati senza speranza di grazia. Il marciapiede è il nostro duro giaciglio, la luce bianca del lampione la torretta di controllo. Indietro volgiamo lo sguardo, a come eravamo ed a come avremmo 153 voluto essere. Non necessariamente ricchi e felici ogni giorno, ma almeno senza la paura di morire per mancanza di proteine. Avrei voluto gioire della gioia degli altri, e invece mi sorprendo ad odiarli, augurando loro di scendere al mio piano interrato più in fretta possibile. Questo veleno che ho dentro intossica me prima di tutto, e mi fa vivere male, come ammalata. Non ho voglia di stare con gli altri, anzi li evito in tutti i modi. Posso sorprendermi a dipingere un quadretto di vacanze al mare, risate e corse sulla spiaggia, divertita da tutti come un vero animale sociale. Dura poco però, ecco battere il cuore, ecco salire la rabbia a disseccare il mare mentre sento l’impeto condannarmi a bruciare quell’immagine, come fosse la foto di un fidanzato antico che disprezzo. Ogni cosa sembra avere meno importanza dei miei bisogni primari, ogni parola di un’amica, ogni desiderio di un bambino ed ogni espressione che non sia la mia la bollo come inutile e irritante. Appartengo ad una generazione di asociali perché l’indigenza nascosta distrugge i rapporti tra le persone, riducendoli a tanti Adesso non posso, magari ti chiamo la prossima volta. Lo scambio, il confronto, il tenersi compagnia sono riflessi dei diamanti dell’esistenza, il motivo autentico del perché siamo nati. Ci tengono in vita, ci rendono persone. Ma a noi, che persone non siamo più, tali riflessi sono stati oscurati. Non riesco più nemmeno a godermi un film, figuriamoci stare in spiaggia d’estate. Metto su un dvd e per i primi 20 minuti tutto è normale, guardo 154 quella meraviglia umana che è Brad Pitt, quegli 85 chili di fascino liquido condensatisi in George Clooney, quella trascendenza divina emanata dal volto di Jude Law, quell’istinto materno che mi prende quando ho davanti Matt Damon, e tutto mi piace e mi appassiona. Poi magari i due protagonisti partono per una vacanza e comincio a pensare: con quali soldi? Come fanno? Vanno a cena ed io sola mi chiedo: e adesso chi pagherà il conto? Scompare di colpo tutta la languida voglia di fidanzarmeli tutti e rimango sola con la mia collera gelida. Non avrei dovuto colpire quel ragazzo, lo so bene. Sono sincera però: è come se avessi tagliato il labbro superiore ad ognuno dei presenti e mi sento meglio, liberata. Poi domani verranno i rimorsi, c’è tempo. Ne ho tantissimo io, non so che farmene di tutte quelle ore che passano sempre troppo lentamente. Riccardo è diverso, è più raro che perda la testa. Sarà perché conosce il codice civile e quello penale ed è abituato ad interpretare ogni comportamento con il contrappasso della pena inflitta. E’ autocontrollo o paura? Forse il confine è più labile di quanto io pensi, forse lui è più maturo di me in fondo. Ma ci trasciniamo allo stesso modo, anche se lui lo fa con più speranza ed energia. Spera sempre, lo so. Può dirmi di non credere a niente, può simulare che non gliene importi, ma l’attesa fiduciosa lui non l’abbandona. Mi ricordo di quando lo conobbi, ad una festa. Quella sera avevo completato il mio primo biennio da scienziata politica ma la cosa che più mi attraeva era un libro di accordi di Rino Gaetano, caduto da 155 uno scaffale della padrona di casa. Riccardo mi vide, cercò di ricordare in quali altri posti mi avesse incontrata prima d’allora, mentre lo faceva gli sovvenne che ogni volta gli ero piaciuta abbastanza, si accorse che quella sera gli piacevo ancora di più e sedette. Si presentò e non parlò d’altro che non fosse la vita di Rino Gaetano, l’infanzia in Sardegna, la droga ed il carcere, la fuga a Kathmandu, gli amori omosessuali ed il trionfo in America al seguito dei Pink Floyd. Tutto assolutamente e rigorosamente falso dalla prima consonante all’ultima vocale, con il nobile e romantico scopo di farmi ridere, perché ridendo gli parevo più bella, mi disse. Me ne innamorai anch’io, non subito, ma fu amore. Schiarisce il nero del catrame in grigio pulitissimo che non sembrerebbe asfalto, a prima vista. La luna è visibile e ci accompagna, posso sentire la sua luce ad occhi chiusi sulla mia faccia. Prego Riccardo di lasciarmi un attimo riprendere fiato perché è certo che una ulteriore ondata mi sta cogliendo. La mia mente associa un oggetto ad un altro passando da un’immagine ad un’altra completamente avulsa dalla precedente. Noto il grigiore dell’asfalto colorato dalla luna e penso alle lavagne di scuola, la cosa più simile al bitume che la mia mente ebbra mi suggerisca. Sono talmente ubriaca che ho bisogno di un altro codice interpretativo per esprimermi e capire. Catalogo oggetti e sensazioni in un elenco che mi pare naturalissimo scrivere a gesso bianco sulla lavagna, e inconsciamente lo accetto con tranquillità, come fosse normale scrivere una lista di visioni su una 156 lavagna inesistente. E’ tutto un catalogare, a partire dalla polvere che mi ha insozzata accanto al cassonetto. Che schifo. Prendo il primo gessetto bianco e scrivo: lavare a fondo pantaloni di velluto e maglioncino. L’idea delle albe nere riesce persino a turbarmi, mi chiedo se ci sia un orario adatto per vederle meglio; chiaro: all’alba. Per essere sicura di non dimenticarlo scrivo albe nere e aggiungo anche: pioggia. Infatti piove, pioviggina. Però più che lentamente, quasi a non accorgersene, come a dire: “Ma chi è che m’ha sputato in testa dal sesto piano?” e poi in realtà non ci sono né sesti piani né palazzi. Solo il muro d’intonaco bianchiccio che adesso costeggiamo, infinito come se corresse anche lui, e si fermasse solo quando intravedo un cancello arancio. Come si fa a verniciare d’arancio un cancello? Protesterei con Riccardo se solo riuscissi a parlare. Lo scrivo sulla mia lavagna. Insomma: di palazzi alti sei piani non ce ne sono. Quindi la goccia sullo zigomo destro non è saliva, è pioggia. Infatti piove, pioviggina. Più che lentamente. Gesso bianco su lavagna color asfalto, scrivere: Piove, pioviggina. Più che lentamente. Burp, quanto sono ubriaca. Ma perché è andata a finire così? Ci fosse almeno quella stronza sulla quale vomitare. Scrivo: mai più rispondere al telefono a Silvia. Mi fermo, ci penso bene e aggiungo quella stronza di Silvia e metto un punto così tondo e così marcato da spezzare in quattro il gessetto. Raccolgo da terra ognuno dei quattro piccoli gessetti ed invento un nuovo elenco. Il titolo è: Cosa 157 posso fare io. Quattro cose posso scegliere tra le migliaia di possibilità, una per ogni gessetto. Decido per: scrivere libri, cantare, insegnare nelle scuole, candidarmi ed essere eletta alle amministrative. Certo scrivere libri sarà pure facile, cantare sarà pure facile, insegnare nelle scuole sarà pure facile, essere eletta sarà facilissimo. Ma bisogna nascerci, questo è il punto. Tutti nascono per qualcosa. Io invece è come se fossi irrimediabilmente attratta dalla scrittura, se non potessi farne a meno nei giorni di sole e di pioggia, di vento e di bonaccia, di notte e ad ora di pranzo, e poi mi ritrovassi seduta ad una scrivania, con un miliardo di penne e centomila fogli bianchi. Piove sui fogli che si bagnano, ma piove anche sulle penne che non scrivono, porca l’oca di un miliardo di penne ne scrivesse una. Nulla, tutte scariche, vuote d’inchiostro incatramato ai lati di quel tubicino che se avessi proprietà di linguaggio chiamerei refill senza bisogno di andare a cercare su internet o chiedere a tutti qui intorno. Ma già, a parte Riccardo non c’è nessun altro. Non scrivono, e questo solo con carta e penna, se usassi un computer con tutta quest’acqua salterebbe il cavo dell’alimentatore e siccome sono saggia come una hooligan non avrei nemmeno un gruppo di continuità. Scrittrice che perde tutti gli scritti a causa di un temporale, fallita prima ancora di iniziare, che bellezza. Cantare. Neppure l’idea ne avrei, se solo mi piacesse farlo. Ora che non mi importa avere la voce di Amy Winehouse posso anche immaginarmi seduta davanti a un falò sulla spiaggia, già 158 impossibile di suo, a scaldare l’ugola per tre, quattro, anche cinque ore filate. Poi quando penso a me stessa come una che per vivere potrebbe incidere dischi, subito mi crolla la voce, mi si spezza la melodia, mi si spacca il microfono congelato dalle note. Mi pioverebbe in gola addirittura, ed io a soffocare per le gocce andate di traverso e maledire Amy Winehouse e quella cagna della sua amica che un giorno le avrà pur detto - la piccola Amy non avendo più di 11, 12 anni – hai una voce magnifica. Perché è logico che un’amica così dovrà pure averla avuta, ‘sta stronza. Quindi nulla di fatto, piove anche sul microfono indurito dal gelo che l’acqua, poco a poco, scongela. Lo scopro sempre più flaccido, sempre di più… Bleah! Lo getto via, proprio accanto alla mia feroce determinazione ad insegnare letteratura o ingegneria dei materiali, o a specializzarmi in teoria e pratica dell’apprendimento con una ricerca sulle inflessioni dialettali dei palermitani in Spagna. Quelli che dicono tengo que dddecir con più D di Domodossola che se si chiamasse Domododdola. Ecco, sta tutta qui la mia risolutezza nel diventare professoressa, sotto l’acqua che scroscia, sotto il fango che comincia a colare dai marciapiedi leccati dai cani di passaggio, accanto a quei 100 mila fogli bianchi A4 ormai ridotti ad ammasso informe, accanto al miliardo di penne che non scrivono ed al microfono fattosi flaccidume patentato a denominazione di origine controllata e garantita. Cerco di ricordare, per quanto possa la mia ragione completamente andata, per quale motivo io 159 non verrò mai eletta alle elezioni amministrative del mio Comune. Ci penso ore, giorni, settimane, ad ogni istante, ad ogni battito di ciglia, ad ogni limare di unghie, fin quasi a non pensare a nient’altro, dimenticando tutto il resto, mangiare, dormire, lavarmi, telefonare, inviare curriculum vitae, fino a farmi del male tra i capelli e la collana di perline false turchesi. Perché non verrò mai eletta? Perché? Forse perché per essere eletti sarebbe stato necessario interessarsi alla vita politica del proprio Comune già ai 16 anni. Magari farsi conoscere in giro, stabilire contatti, nelle scuole, negli uffici, nelle singole case, di modo che la sera a cena, sotto elezioni, i commensali si domandassero curiosi: “chissà se Alice è candidata?”. O magari perché, ammettendo per un attimo che io fossi stata iscritta ad un movimento giovanile già all’età di 16 anni, adesso non avrei il denaro per affrontare una lunga, lenta e difficile campagna elettorale? Oppure magari perché, compiendo io tutti gli altri requisiti, al momento della scelta delle candidature il partito, il mio partito, quello per il quale avrei volentieri lottato tutta una vita, sacrificando ad esso amori, amicizie e ferie pagate, manovrato da una corrente a me ostile, mettesse ai voti la mia candidatura e riuscisse a tirarmi giù? O persino… e mi distruggo la mente, mi guasto l’appetito, mi secco la pelle della fronte cercando un motivo valido senza capire che io, la soluzione all’enigma, la risposta al quesito, ce l’avevo chiarissima davanti agli occhi. Ma non la vedevo. Ed era cioè che a me, in fondo in fondo, non me ne frega proprio un cavolo di un cavolo di un 160 niente del cavolo delle cavolo di elezioni amministrative del cavolo che si svolgeranno nel mio cavolo di Comune del cazzo. Ovvero: non m’importa. E’ veramente difficile per me trovare delle parole per spiegare quanto poco mi appassioni la politica locale. Cancello l’elenco, era ovvio non mi portasse a nulla. Anzi, per fare un lavoro più completo giro la lavagna in posizione orizzontale, che l’acqua la inzuppi e cancelli tutti gli elenchi. Sono la pars destruens del mio pensare ubriaco, tutto cancello: le vecchie abitudini, le mie convinzioni, le parole degli altri. Via, via, a colare dai lati, gesso bianco che non servi a nulla. Un reset totale, uno 00:00 da cui ripartire, insieme se ci sarà qualcuno al mio fianco, da sola se così dovrà essere. Che tutte le mie certezze se ne vadano assieme all’acqua piovana, scivolando giù, verso il centro della Terra. Che anche lì, chilometri e chilometri sotto i miei piedi, ci sia qualcuno che per farmi un favore sminuzzi le gocce di gesso che per casualità rimanessero intere. All’atomo bisogna arrivare, al quark delle frasi fatte. Allora distruggere tutto, lavagna compresa. Siamo cresciuti con il pupazzo rosa di Canale 5 e adesso Bim Bum Bam va sezionato, masticato e digerito. Dimentichiamoci semplicemente, senza clamore, di tutte quelle facce che abbiamo visto ogni giorno, ogni santissimo giorno, all’ora di pranzo, rigirando la forchetta per raccogliere gli spaghetti al basilico. Mai più spaghetti, d’accordo magari 161 qualche volta si, ma sradichiamo tassativamente tutte le piante di basilico a portata di mano. Mai più tg all’ora di pranzo, mai più giornali. Non ci servono i pareri raccolti tra una cena a piazza Navona ed una presentazione chic. Mio Dio, mai più dire chic. Non voglio più parlare come mi ha insegnato la tv, io dirò snob, non chic. Anzi no, nemmeno snob, io non dirò nulla, sto zitta e basta, che parlino gli altri così li zittisco con un’occhiataccia. Distruggere la discoteca il sabato sera e i cocktail a dieci euro. Entrare con la riduzione donna, accompagnata diamine, ovvio, e ballare per una buona (perché buona? Normale!) mezz’ora. Fingere di aver dimenticato l’ombretto in macchina e guadagnare l’uscita, non tralasciando il gesto di farvi apporre il timbro d’entrata dal personale all’ingresso. Il consiglio è di offrire il braccio destro, sempre. Rientrare. Danzare ancora per 15 minuti esatti, facendo bene attenzione a non affaticarsi troppo. Poi avvicinarsi lentamente alla consolle, arrampicarsi per tre scalini, salutare il tizio accanto al deejay come fosse un compagno delle elementari, mettergli allegramente le braccia al collo e riempirlo di baci, estrarre l’attrezzo dalla pochette e spaccare tutto a martellate fino a quando il deejay non si sia riavuto dallo shock. Tirare alla folla una piccola manopolina del mixer volata via per caso, appoggiare delicatamente il martello sul banco e scappare velocissima verso la toilette. Raggiungere al più presto l’esterno, possibilmente da una finestrella. Poi rientrare, grazie al timbro 162 precedentemente apposto dal personale sul polso destro. Dirigersi speditamente verso il terzo lato bar, adesso il più scoperto, visto che persino i barman saranno stati distratti dall’accaduto. Saltare sul bancone e rovesciare sul pavimento lucido quante più bottiglie possibile. Poi arrendersi alle botte dei superuomini della security, sperando nel frattempo siano arrivati almeno i carabinieri, perché rimanere nelle mani dello staff interno significherebbe violenza sessuale ripetuta. Distruggere l’immagine che ci si è fatti di sé. Ogni giorno di ogni mese di ogni anno, ciò che mi è passato attraverso, ciò che mi è capitato, mi ha convinto di possedere un certo carattere. Bene: distruggerlo. Io non sono il mio carattere, io non voglio essere ciò che mi è capitato, semplicemente perché io non l’ho mai scelto, tutto quello che ho vissuto. Fosse stato per me, avrei portato una pecora nell’appartamento di Bono Vox e lo avrei convinto a tosarla con me. Poi ne sarebbe scaturito un disco e nel booklet gli U2 avrebbero inserito la mia foto e quella di Lucy, la pecorella. Ma ciò non è stato e mi dispiace anche tantissimo, ma io non posso farci niente. Certo, sarebbe più facile procurarsi una pecora, raggiungere Roma con la Uno scassata, pubblicare il libro e scrivere di aver legato Lucy ai catenacci di Moccia, a ponte Milvio. Già tosata (per mano di Bono Vox), si potrebbe spargere la voce tra i precari e i disoccupati della capitale e arrostirla seduta stante, ancora incatenata alle frasi d’amore. Ecco un 163 amore serio, completo, così profondo da nutrirti, così odoroso di pecora arrostita da inebriarti. Una caterva di disoccupati senza mamme, papà e paghette settimanali, tutti brillanti, che strappino famelici i brandelli quasi cotti di Lucy e brucino, in mezzo alla brace in cottura, i bolli auto e le assicurazioni a mille euro l’anno per una Fiat Uno scassata, il triplo del suo attuale valore di mercato qualora fosse provvista di un borsellino dimenticato con cento euro dentro. Distruggere anche la Fiat Uno, tanto è così scassata che basta una mezz’ora. Per la revisione biennale Riccardo è tornato a casa con un preventivo da film porno. Cuffiette scatola sterzo 47 euro, marmitta 110, lampade di posizione 12, fascetta 4, collaudo 75, perno sferico 99, totale mano d’opera 94,50, il tutto ivato per un totale di 530, scontato 500. Abbiamo chiesto se in cambio poteva andare bene un rene sinistro. Mangiamo poco e abbiamo fame di vivere e correre sui prati: per questo accendiamo la tv e guardiamo il campionato di serie A, dice Riccardo. Bene, dico io, allora tagliamo con un paio di forbici robuste, come per anni abbiamo visto fare alle carte di credito non solvibili dei film americani, tutte le card per le tv a pagamento. Tutto gratis vogliamo, tutto in internet, per tutti. Basta con i libri a pagamento. La cultura è una goccia di sudore nebulizzata girovagante nell’aria, a volte si posa su una farfalla, altre sul corpo infettato di una mosca, comunque è sempre libera e svolazzante. Non abita da me, è certo, ma non si 164 posa nemmeno in quegli uffici che non mi assumeranno mai, o tra i capelli di un cantante rock che canti in playback. Ma, ecco: in fondo, dove abito? Non lo so nemmeno io, sono cittadina del mondo, ho tante suggestioni che mi tirano per la cintola del cappotto ma non so da che parte sceglierò di andare. Rimanere in Italia? Spaghetti, vino, mafia, vino, cuccuruccuccù paloma. Ubriaca all’ennesimo livello, non c’è che dire. Brava Alice, brava, un’altra serata così e ti tolgono in anticipo i figli che ancora non hai partorito. Ad infinitum te li tolgono, tu li fai e loro lì pronti a prenderseli. Andare a vivere in Catalunya? Mah! Si ma, a parte questo, dove stiamo andando Ric? E’ buio, piove! Mi sembra di essere a Barcelona, scendendo la Rambla del Raval verso Carrer de Sant Ramon. C’è un brusio continuo a qualsiasi ora del giorno e della notte, ed un puzzo intenso di rifiuti macerati al sole. Non corre nessuno, tutti camminano tranquilli, ma sono così diversi l’uno dall’altro e percorrono direzioni così opposte che è come se creassero confusione così, solo per il fatto di esserci, senza impegnarsi in particolari occupazioni. Anche tutta questa gente macera al sole come i rifiuti, riesco ad isolare mentalmente le loro gocce di sudore che cadono, che inzuppano le camicie bianche, persino le mutande e i calzini bagnati. Gli odori non sono solo spiacevoli, ci sono anche i pachistani che preparano i loro döner kebab, un sogno adesso, nonostante sia ben bevuta ed abbia mangiato di tutto. Li intravedo dal marciapiede, con 165 le salse allo yogurt, il pepe verde, le cipolle. Qualcuno mi chiama con un fischio, mi volto e mi dice “Vienes?”: mi scambiano spesso per una prostituta e non hanno nemmeno molti torti. Non per la mia condotta morale, figuriamoci, piuttosto perché qui di putas è letteralmente pieno. Tutte giovanissime, bianche, con gli occhi di vetro luccicante di luce che non splende ma acceca. E’ un fossato tra te e loro, quel baratro di pupille, tu che non immagini neanche una piccola parte di tutti quei chili di rifiuti macerati al sole che sono costrette ad ingoiare ogni giorno della loro esistenza infelice. E tutti continuano ad andare, senza correre, in direzioni il più possibile opposte, come se quella ingiustizia, quell’infinita miseria che puoi intravedere sull’orlo di quegli occhi vitrei, in fondo non li riguardi da vicino, e fosse solo qualcosa che purtroppo avviene perché avviene, che è così perché è così e basta. E’ quello il momento in cui penso a quanto quest’umanità sia colpevole, colpevole di tutto, e non abbia e non meriti alcuna possibilità di redenzione. Anch’io sono colpevole. Invece di andare da qualcuna di queste ragazze, prenderla per un braccio e dirle scappa con me, vieni via, da oggi ti nascondo io. Lavorerò per te, ti manterrò, non dirmi nemmeno come ti chiami, sto ancora cercando un lavoro decente che mi faccia sentire realizzata e felice. Sono una stronza anch’io alla fine, egoista né più né meno degli altri, anche se ho parole dolci e benevole nei confronti delle infelici. E allora? Con le 166 parole non è mai sopravvissuto nessuno, tantomeno una prostituta sfruttata e prigioniera. Poi mi fermo un attimo, rallento l’impeto, e risolvo che in realtà le parole sono importantissime e possono davvero cambiare tutto. Se usassimo parole più pacate, toni meno accesi e volgari, magari potremmo anche riscoprire un modo di vivere più dignitoso. Si potrebbe cominciare a distruggere qualche vocabolo. Si potrebbe provare ad eliminarne uno, magari ne cadrebbero altri via via, scivolando nell’oblio della storia. Se per esempio provassimo con la parola confine probabilmente entro due o tre giorni non avrebbero più senso parole come straniero o clandestino. E magari con una reazione a catena degna d’un terremoto dell’ottavo grado anche alcuni ragionamenti delle mie ex colleghe d’università verrebbero facilmente disintegrati. Discorsi su questa diffidenza verso gli altri, su questo orgoglio nazionale da coppa del mondo di briscola, come fosse un pregio e non una pura casualità essere nati in un posto piuttosto che in un altro. Possibile che non esista un monte altissimo e raggiungibile solo in determinati mesi dell’anno? Una montagna sacra frastagliata dal vento e cristallizzata dal gelo, regno di una spelonca nella quale un santone anziano abbia eletto dimora. Pulmini in partenza ci conducano lieti alle pendici del massiccio che nella bella stagione perde il suo ghiaccio. Poi comincia l’arrampicata con corde, picchetti, zaini e borse termiche, borracce, ramponi e imbragature, panini e Nescafé, molto più dura di 167 quanto pensassimo ma comunque fattibile nonostante io mi smagli una calza. Non sono la sola, in realtà ho accanto due ragazze irlandesi, uno spagnolo, cinquanta cinesi ed un tunisino che non sapeva si dovesse percorrere a piedi l’ultimo durissimo tratto ed era venuto con le infradito. Ciononostante, sfiniti, giungiamo. Ma il santone per cui siamo qui, l’unico uomo in grado di darci risposte, nonostante la nostra impresa, tace, non ci saluta nemmeno e segue nelle occupazioni di sempre: raccogliere bacche, in special modo. Tre giorni attendiamo, al sole che brucia di giorno e alla neve che di notte ci ghiaccia, tre giorni. Ma alla fine siamo premiati, io, le due irlandesi, il ragazzo spagnolo, i cinquanta cinesi ed il tunisino dai piedi di piombo: il mentore parla. Ci dice: “Uomini stolti, non so cosa dire per farvi capire che la strada è sbagliata. Cambiate i vostri punti di riferimento, raddrizzate lo sguardo, voltate la testa. Pensate soltanto se per ogni pisciata si dovesse pagare una tassa!” Ecco discendere l’illuminazione sulle nostre menti offuscate, obnubilate, bastavano un po’ di fantasia e meditazione, mi dico perplessa. Non devo perdere la concentrazione. Anche se ho dovuto fermarmi tre volte, con l’aiuto di Riccardo siamo ormai quasi sottocasa. La pioggia non ha smesso, ha continuato a cadere lenta e nebulizzandosi nell’aria ci ha avvolti e rinfrescati. A me a tratti fa l’effetto di un caffè e cornetto: mi sveglio completamente, percorro 50 metri a passo svelto, poi ripiombo nella mia atrofia etilica. 168 Reagisco alle mie gambe con un impeto che mi risulterebbe molto utile il giorno in cui cominciassi a scrivere il romanzo. Lo voglio proprio caldo, incendiario si, incendiario dev’essere, ma con toni pacati e carezze ogni tanto, come si addice a una ragazza di trent’anni, né più bambina né ancora del tutto signora. Riuscirò a scuotere me stessa prima di farlo con gli altri? Uscire dai miei formalismi e parlare in tono diretto, questo ci vuole. Ti voglio infiammare, tu accenditi in fretta perché queste pagine A4 riciclate non resisteranno a lungo. Ruba un accendino dal bancone del tuo tabaccaio, no non subito, aspetta solo che si volti a prenderti gli Avana e rubalo, rubalo, ora! Poi di’, con la più olimpica calma di sempre, no grazie, a pensarci bene il fumo fa male. Comunque grazie lo stesso ed esci. Muoviti, portalo qui, perché io sono sola e ti aspetto, ho freddo e fame e se non arrivi finisce che ceno con questi fogli. Li sminuzzo, li unisco all’acqua che non smette di cadere o a quella salata di mare, mi rigiro nella sabbia e me li caccio in bocca a pugni interi, come coriandoli nutrienti. Sbrigati e accenditi, di speranze, ma ancor più di rabbia e sicurezza di poterlo vedere più distinto, il tuo futuro che tuttavia tarda. Muoviti! Muoviti! E se invece il mio periodare non piacesse? E se io, aperto un blog per parlare del libro e diffonderlo, cominciassi a ricevere commenti denigratori, rimanendo vittima delle mia stessa idea acuta? Un’arma a doppio taglio, una spada che ferisce? Già lo vedo: qualcuno obietterà che il libro in realtà è un libercolo, snocciolandone i difetti ad 169 uno ad uno con professionalità e chiarezza. Di come non ci sia una sola, dicasi una, descrizione del cielo e degli ambienti durante tutta la cavalcata, come se al lettore, da essere inferiore qual è, non fosse dato sapere in quale punto del mondo ci si trovi in questo insopportabile romanzo, e dovesse solo stare lì a sorbirsi tutti quei ragionamenti senza meritarsi nemmeno una piccola azione, un gesto! Di come la penna che ha scritto non si sia degnata di approfondire un personaggio, limitandosi a collezionare una serie di figure abbozzate e vuote, con l’unico intento di riempire un faldone e ritardarne la fine. Non parliamo poi di quest’io narrante che a volte muta prospettiva, come fosse un romanzo d’artista, ma lo fa solo quando l’artista in questione se lo ricorda, e quindi il risultato, più che un’opera d’arte, è un esercizio di stile tra l’altro nemmeno riuscito. Le annuso, critiche feroci di tal sorta, talmente mirate da non lasciarmi scampo, inchiodandomi alla mia dichiarata incapacità. Chiunque considererebbe cosa normale l’abbattersi, il lasciar stare, e inghiottendo qualche singhiozzo darebbe davvero ragione alle critiche. Effettivamente, direbbe, hanno piena ragione, se sto qui a trent’anni a risparmiare 20 centesimi mentre gli altri accendono mutui, sarà anche perché non so scrivere, perlomeno non più del mio benzinaio di fiducia. Raccoglierebbe quindi con gli occhi lucidi ed una rete da pesca in petto le pagine sparse nella stanza, gli appunti confusi, il manoscritto intero. In un attimo l’addio per sempre si consumerebbe, dalla stanza alla raccolta 170 differenziata della plastica. Si, altro che carta, nella plastica getterebbe i fogli. Ma io non lo farei. Noterei il commento, spegnerei il pc e la abatjour e me ne andrei a dormire. La mattina, dopo il caffè, risponderei: ma scusi, se davvero sentiva la necessità di un romanzo che descrivesse il cielo e i luoghi, un romanzo naturalista diciamo, con personaggi scolpiti a fondo fin nei più pruriginosi dettagli, persino con qualche eclatante azione, qualche fuga di notte, qualche gesto violento, qualche sonoro rutto, ma perché cazzo non se lo scrive da solo, invece di rompere l’anima a me, disoccupata e morta di fame? Ecco, così va meglio, sfioro una pozzanghera e sono persino pronta a cantare. Ma cosa? Non mi viene in mente niente mentre a cento metri vedo già il mio balcone, vorrà dire che canterò l’inutilità della vittoria e l’apoteosi delle medaglie di legno. Impiegarmi in una ditta che produca stufe a pellet e semplicemente rispondere svogliata alle chiamate, pochissime, durante le quattro ore di lavoro quotidiano, questo farò. Tornare a casa e prepararmi un Martini con l’olivetta, soddisfatta e beata per non aver fatto nulla. Canterò l’inopportunità di una carriera illuminata e dei sacrifici necessari per avanzare in essa, canterò la mia saggezza per essere giunta a queste parole: che il lavoro non abbia alcuna importanza è una verità non accessibile a tutti, e comunque non prima di anni di dura ricerca. Ciò che importa è il denaro, non il lavoro. 171 Canterò l’opportunità di trarre da altro le proprie soddisfazioni di essere umano, la cucina, il ballo, il sesso, e gocciolante appena uscita dall’acqua stendermi al sole su una spiaggia di pietra pomice. Avete applaudito la flessibilità nel mercato del lavoro, televisivi e contenti avete approvato i contratti precari per i vostri figli, attenzione – mica per voi – per i figli, vi siete difesi dalla crisi radicandovi alle postazioni, bravi: adesso aspettatevi un futuro in cui nessuno di noi faccia nulla per nulla. Solo soldi vogliamo: teneteli pure voi i contratti, rimanete tranquilli sulle vostre sedie rotanti da ufficio. Soldi vogliamo, nient’altro: 20 euro per cedere il posto agli anziani sul bus, 50 per non lasciarvi cadere da un ponte, 1000 per avvertirvi se arriva un tornado, sennò tutti zitti andremo a rifugiarci in casa veloci. Soldi vogliamo, non carriere. Prego: tenetele voi. Riccardo mi sta insultando, le sue parole mi entrano nel cervello come barchette che galleggino in una gita al lago di Spumantia. Prima di capirne il significato sono costretta ad eliminare decine di finestre di pop-up che si aprono sul discorso principale. C’è di tutto: oroscopi, previsioni meteo, ultimi tg disponibili e tanta, tanta pubblicità. Elimino tutto e rimane solo l’unica cosa che lui abbia detto: “’Sta macchina sembra essere stata parcheggiata da un alcolista anonimo, guarda come l’hai messa storta.” In verità la vedo drittissima, sarà che sono io molto, molto, molto storta. Insiste sul fatto che è necessario sistemarla bene adesso, prima che 172 qualcuno ad alta velocità ce ne porti via un pezzo. Voglio andare a letto ma non sente ragioni, devo forse vomitare ma vuole che gli tenga compagnia. D’accordo, che m’importa, io ho il mio libro a cui pensare. In copertina forse potrei mettere una foto della Fiat Uno scassata parcheggiata storta. Oppure di me che, dal limite dell’area, batto un calcio di punizione, io, unica donna nella seria A di calcio maschile: e tutti gli italiani a guardare in tv, e tutti i calciatori e pararsi le palle. Lo intitolo Alice, di professione aspirante. Perché io in pratica faccio quello di mestiere: un giorno aspirante cassiera, un giorno aspirante bancaria, un giorno aspirante infermiera e sempre e comunque aspirante aria. Penso al libro io, altroché. Al blog, al sito, al silenzio iniziale. Poi piano, lentamente, i contatti che crescono, qualche email che arriva… e alla fine la sentirò la confusione. Un ronzio come di mille api comincerà a infastidirmi a volume bassissimo, s’innalzerà adagio, ogni giorno di più, sino a raggiungere livelli per me impensabili. Non mi abbandonerà più questo baccano, ogni giorno un caffè con qualcuno, ogni minuto qualcosa da dire, io che appartengo a quella generazione che non ha mai potuto smettere di pensare in lire. Arriverà anche per me la gloria, anch’io, un giorno, potrò esser precaria! Che sogni. Non so nemmeno se lo scriverò mai, il libro. 173 Salgo in macchina dal lato passeggero e nonostante il percorso sia lungo solo venti metri abbasso il finestrino: aria, aria. E poi se dovessi scrivere un libro mi ci vorrebbe un sacco di tempo per riportarlo al pc, visto che scrivo solo a penna. Una fatica che mi stancherebbe subito. Dovrebbe essere un libro diverso, strambo, persino senza fine. Si, senza fine, un libro incompiuto. Sono io che decido, non lo faccio finire il mio libro, oh! Tutto incompiuto voglio. Che sia incompiuto il cinema, che lo siano i bei dischi, le tragedie greche, che siano incompiuti tutti i romanzi da ora in poi pubblicati. Ma che si compiano, e comincino davvero, finalmente, le nostre vite vere. Scendo dall’auto dimenticando di tirare su il cristallo, e i manifesti NonFine 174 175 176 177 178 Sommario Capitolo 1……………………………………… 7 Capitolo 2……………………………………… 43 Capitolo 3……………………………………… 81 Capitolo 4……………………………………… 113 Capitolo 5………………………………….….. 151 179 Finito di stampare il prossimo anno in una copisteria di un Paese che ancora non è stato fondato. 180 181 182