il colore della nostalgia

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il colore della nostalgia
Libertà Edizioni
Fabrizia Orisia Scipioni
IL COLORE DELLA
NOSTALGIA
ROMANZO
Libertà Edizioni
Dedicato ai miei figli con tutto l’amore che posso
Questo romanzo si è classificato primo tra gli editi
al Premio Città di Fucecchio, premiato da Giulio
Panzani e Nicla Moretti (anno 2007).
L’autrice ha deciso di riproporlo: il racconto è lo
stesso, ma arricchito con qualche considerazione e
dettaglio rispetto alla versione originale.
IL COLORE DELLA NOSTALGIA
La sensibilità è il dono di soffrire: essere sensibili
vuol dire camminare a piedi scalzi sui ciottoli acuminati della strada, passare con una ferita aperta al costato, in mezzo ad una folla che ti urta
da ogni parte e da ogni parte ti dà gomitate.
(Jules Tellier)
Entrò trafelata, era tutto da rifare.
Rileggendo la sera prima il racconto e le poesie,
aveva deciso che non dovevano essere pubblicati.
Parlavano troppo di lei, della sua sensibilità.
Le soluzioni erano due, chiedere all’editore di
strappare il contratto pagando la penale, oppure
firmarsi con uno pseudonimo. La seconda ipotesi le
stava meno bene, con o senza il suo nome era, in
ogni modo, un donare la sua vita interiore ad altri e
in questo momento non lo voleva.
La sua grande generosità era finita.
Quanto entusiasmo nella stesura, aveva già ideato
titolo e copertina, carta lucida, il disegno di una
giovane donna sdraiata nuda sulla sabbia.
In tutti quegli anni non aveva mai dimenticato la
copertina di Eutanasia di un amore di Saviane e,
con alcuni cambiamenti soprattutto ai colori, ora
voleva usarla; era andata a riguardarsela chieden-
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dosi cosa l’avesse tanto colpita e solo in quel momento si accorse che le donne erano due, anzi la
stessa, ma come sdoppiata. Le piacque ancor di più.
Non avrebbe fatto mistero di quella musa, anzi, avrebbe, dopo più di vent’anni, avuto l’opportunità
di mettere una nota ringraziando l’autore che aveva
tanto amato. Lo associava a Pavese, per il concetto
della disastrosa fine di un amore, quel sentimento
del contrario, che tutti sanno non si può ridire. Non
il dolore di perdere l’altro, ma il ritrovarsi nudi, la
rivelazione del nostro nulla interiore.
Dietro la figura della donna nuda, appena accennate, voleva ombre non identificabili, né uomini, né
animali, né bambini, né piante, solo ombre. Le
ombre con le quali da bambini ci si diverte a giocare vedendole allungarsi e accorciarsi, quelle provocate alla diminuzione della luminosità al corpo opaco posto tra la sorgente di luce e la zona illuminata. Laddove non giunge la luce del sole, fino a
diventare oscurità e tenebre. Il particolare poco
chiaro, che genera fraintendimenti, sospetti, timori
o, semplicemente, le ombre del tramonto che rendono tutto più riposante, romantico e accettabile.
La pelle della donna avrebbe dovuto avere il colore
della nostalgia.
Si fermò a pensare quale potesse essere il colore
che meglio poteva identificarsi con la nostalgia, un
rosa antico, un giallo cadmio chiaro o un rosso angelico.
Per lei, i colori, avevano da sempre avuto un ruolo
importante.
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Per esempio non si trovava d’accordo nelle rappresentazioni nere dei sentimenti angoscianti, quali la
paura o il dolore. Il dolore e la paura, e quanto altro, avevano mille sfumature, L’urlo di Munch ne
era testimonianza. Munch non le piaceva: le paure
del pittore norvegese la toccavano, era un paranoico, ossessionato dall’idea della morte, dalle malattie e dalle crisi nervose. Munch, che non rappresentava il mondo circostante, ma preferiva, con la sua
arte, esprimere i propri sentimenti e i desideri più
intimi, che usava l’eccesso per raggiungere la massima espressività. Munch andava a mettere il dito
nella sua parte d’anima impaurita, ch’era meglio
lasciare dov’era.
La parte buia, le ombre. Via, via da tutto ciò, via
verso la luce.
Amava Klimt, con i suoi murales per l’università di
Vienna che furono considerati pornografici.
Valeria aveva provato a dipingere, ma i risultati
non erano stati granché, però ugualmente studiava
personalmente le copertine dei suoi libri.
In quei giorni non aveva trovato risposta, nessun
colore e tutti i colori le erano sembrati adatti a dire
un sentimento tanto dolce intenso e struggente
quanto la nostalgia.
Ci avrebbe pensato con calma.
Spesso le risposte non sono immediate come vorremmo, arrivano da sole, col tempo, e molte giungono quando ci sembra di non farcene più nulla.
Valeria, la sua vita scoppiata in un giorno qualsiasi
di molti anni prima. Lo psicologo non fu in grado
di identificare una causa precisa: quattro bambini
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piccoli, la casa, doveva essere solo stanchezza, ma
lei sapeva che non si salta in aria per un motivo
solo.
Una bomba? Ma quella era stata l’esplosione di una
polveriera.
Provava momenti d’inquietudine estrema, che lasciavano poi il posto alla depressione, per poi ritornare a gioire.
Come in un cerchio malvagio, vedeva il suo cervello su una giostra che mai si fermava e sempre più
frequentemente, sentiva la voglia di riappropriarsene, coccolarlo teneramente, il desiderio di gridare
che fermassero quel carosello infernale, ma nonostante tutto lo sbracciare, non riusciva a farsi vedere né sentire. Nessuno le prestava attenzione, neppure per sbaglio e allora accadeva che riuscisse a
riprenderlo solo quando il Luna Park spegneva le
luci e i giostrai andavano a casa, finalmente, nelle
loro case mobili. E allora lei, silenziosa, con la faccia bagnata di lacrime andava a cercare, tra tutti gli
altri, il cavallo dove la sua testa aveva viaggiato e
girato fino ad ubriacarsi.
La ritrovava sempre sullo stesso cavallo, stordito
più che mai e indifferente ad ogni cura.
Valeria aveva, con gli anni, maturato la consapevolezza che molte donne impostano la propria esistenza secondo canoni sociali preconfezionati, non
osservando il gradiente personale che fin da bambine ci insegnano ad ignorare.
Così sogniamo il principe azzurro, il castello, la
prole, per entrare nella fiaba della vita.
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Preferiva le favole con tanti animali, che nelle fiabe
non sono previsti.
Eppure, nei suoi anni doveva essere stata anche felice, ma non riusciva a ricordarsene.
Quando entrava nel vortice della memoria incontrava i suoi figli piccoli, quei loro piedini che sembravano biscotti e ne avevano anche l’odore, la loro
pipì che improvvisamente le scaldava le gambe
mentre li teneva in braccio senza pannolino.
I suoi bambini.
La cosa più bella che la vita le avesse dato. Camminava con loro e la gente la guardava con ammirazione, si sentiva una Supermamma, erano bellissimi e bravissimi.
Suo marito tanto fiero della bella famiglia e lei
sempre col pancione e il cambio taglia ad ogni fine
gravidanza, ma lui pareva non notarlo. Quando la
vedeva triste, perché i jeans non si allacciavano nonostante lo sforzo di tirare la cerniera stendendosi
sul letto, Fabio sapeva solo uscirne col pronunciare
frasi che la innervosivano ulteriormente: “Mettiti a
dieta”. A dieta. Doveva allattare.
Era il suo adorato maglione peruviano a mancarle
di più, con quel po’ po’ di tette che glielo aveva reso attillato e immettibile. Quando lo incontrava
nell’armadio, sotto a tutti gli altri, lo guardava e,
per consolarsi, si convinceva che, tanto, era troppo
chiaro e non l’avrebbe potuto ugualmente indossare: i bambini l’avrebbero sporcato di pappa o di altro con le manine o di nero con le scarpine quando,
stanchi di camminare, volevano stare in braccio.
Ma prima o poi l’avrebbe rimesso. In realtà non lo
rimise più.
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Un giorno i figli stavano piangendo tutti insieme,
ognuno per un motivo diverso e Valeria, dopo avere fatto qualche tentativo per riprendere il controllo
della situazione, scoppiò in un pianto dirotto. I
bambini allora per un attimo tacquero allibiti e confusi, ma la pausa fu breve, Alessandra, si lasciò
prendere da una crisi di scoraggiamento totale e i
tre fratellini la seguirono disperati, infine la bambina corse nell’armadio a prendere il maglione peruviano e lo portò alla mamma.
Ora quel ricordo la faceva sorridere, i suoi bambini
sul lettone intorno alla mamma demoralizzata, Alessandra, Riccardo e anche Giovanni e Francesco,
i due gemelli, tutti e quattro lì a consolarla con baci, carezze e il famoso maglione. Quando arrivò
Fabio, quella sera, non trovò la cena pronta ma
l’intera famiglia addormentata, stavano vicini, rannicchiati come in una cuccia.
Il tanto amato maglione peruviano resistette negli
anni, e diventò d’Alessandra, poi di Riccardo e
probabilmente l’avrebbero indossato anche i gemelli. Era stato, dunque, un ottimo acquisto.
Fabio, il marito, un bell’uomo di sinistra, libero
professionista, innamorato della bella famiglia più
che della moglie, alla quale riconosceva intelligenza e originalità e di conseguenza n’era stato incuriosito. I punti di domanda al contrario, sono ami in
cui le persone rimangono impigliate e Valeria era
irrimediabilmente un punto di domanda, imprevedibile e spesso incomprensibile, anche a se stessa.
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Se Fabio avesse previsto una vita coniugale con
una persona tanto complicata, avrebbe scelto chi
sposare con più applicazione.
Con Valeria bisognava stare attenti a quello che si
diceva, nulla cadeva per terra, ci si poteva solo illudere che una battuta, una frase uscita per sbaglio
o un’espressione, fossero passate inosservate, poi,
magari dopo mesi, lei arrivava a riprenderla, dopo
avere verificato se dietro a quelle parole c’era stato
un pensiero. Non lo faceva mai con rancore, ma
piuttosto con ironia. Valeria, che aveva deciso di
camminare tra lapidi d’amici perduti ma che lo faceva nella speranza che quei cadaveri non allungassero mai la mano per chiedere il suo aiuto, in tal caso non sarebbe riuscita ad andare avanti impietosa.
Una vera e propria condanna quel suo guardare ogni situazione anche secondo il punto di vista altrui, magari trascurando il proprio: no che non c’era
nata, lo era diventata, forse per una sorta di ricerca
d’armonia a tutti i costi, o una difesa. Troppo impegnativo mantenersi coerenti. Troppo impegnativo
prendere una posizione e perseguire senza ripensamenti.
Fabio conobbe Valeria, carina, gioiosa, di
un’ironia disarmante, era così completa per i suoi
pochi anni, decisa e incontrollabile fin da allora.
Entrava nelle vite come un piacevole tornado, era
inevitabile frequentarla senza finire per assomigliarle almeno un po’.
Non era certo una persona che passava inosservata,
di cui ci si dimenticava.
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“Facile vivere” e lo pensava e diceva con tanta
convinzione da persuadere chiunque, e quando la si
salutava per andarsene, tutto, davvero, sembrava
più facile e luminoso.
I complimenti ricevuti nella vita, erano capaci di
darle ancora energia nei momenti bui, del resto poche persone avevano mosso dubbi sulle sue capacità, ma ora era lei a muoverne un sacco.
Era una persona sempre intenta a capire, il pensiero
lavorava in continuazione fino allo sfinimento e allora non generava più nulla, ma poi riprendeva il
funzionamento ottimale grazie ad una lettura, una
musica, un incontro stimolante, una preghiera. Ed
ecco nel profondo dei meandri dei suoi pensieri tutto si rimetteva piacevolmente in moto e nessuno
poteva raggiungerla più.
Ma poi ancora e ancora.
“Sovente, per divertirsi, i marinai
Catturano degli albatri, vasti uccelli di mare,
Che indolenti compagni di viaggio, seguono,
la nave sugli abissi amari.
Appena li hanno deposti sulle tavole,
Questi re dell'azzurro, goffi e vergognosi,
trascinano pietosamente, ai loro fianchi,
le loro grandi, bianche ali, come fossero remi.
Com'è intrigato, incapace, questo viaggiatore alato.
Lui, poco addietro così bello, com'è brutto e ridicolo.
Qualcuno, con la pipa, ne irrita il becco,
L'altro, invece, mima zoppicando, l'infermo che volava.
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Il Poeta è simile al principe dei nembi
Che evita la tempesta e ride dell'arciere;
Esule in terra, fra gli scherni,
Con le sue ali da gigante, non riesce a volare.”
Charles Baudelaire, L’albatros.
Ecco che le stesse ali che tanto rendono potente e
bello l’albatro, sono le stesse che gli impediscono
la ripresa del volo una volta a terra.
Ali troppo grandi rispetto al corpo, deve restare in
cielo o posarsi laddove c’è spazio per allargarle.
Certo, solo questione d’ali il malessere di molte
persone, bisogna dunque decidere se accontentarsi
di fare i passerotti: in fondo la felicità sta nelle piccole cose e un passerotto può essere molto felice.
Ma allora, si nasce o si diventa? Chi lo può dire.
Le grandi anime esistono e sono quelle che infine
troveranno la pace, dopo un lungo e doloroso travaglio, Valeria si consolava credendo questo… ma
non sempre ci riusciva.
A volte, sentendo esperti parlare o leggendo, si
fermava per non spiccare voli troppo alti, che poteva non riuscire a sostenere: e se fossero stati tutti
matti? Compresa lei, che andava cercando la luce e
Dio. Lei che chiedeva aiuto agli angeli. Valeria restava comunque una lottatrice, concreta, più forte
di quanto lei stessa sapesse di essere. Le persone
con forte personalità sono davvero in numero esiguo al mondo. Chi abbandona la lotta è un figlio
di… L’uomo può essere artefice di grandi preoccupazioni. Ultimamente le capitava di guardare Fabio
e di chiedersi cosa gli era successo, non lo ritrovava
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più. Era cambiato, oppure più semplicemente lei
aveva sposato un uomo che si era inventata.
Ricevette una mail di Monica, erano state amiche,
ma ultimamente si erano deluse l’un l’altra.
Prima di leggere la mail ci pensò, non aveva voglia
d’altri casini, magari Monica le avrebbe chiesto le
motivazioni del suo comportamento, raccontato i
suoi problemi.
Poi pensò che Monica era sempre stata gentile.
Cliccò sull’icona della bustina di malavoglia.
“Cara Valeria,
una volta si parlava delle difficoltà della vita, ti ricordi? Eravamo sedute al caffè in Piazza ed era
una bella giornata di sole, ci stavamo godendo un
aperitivo, sorseggiato pigramente tra uno stuzzichino e l'altro. Parlavamo di come, crescendo, si
capisca che la vita non regala mai nulla, che tutto
viene sempre pagato, prima o poi, con il dolore che
la vita stessa, puntualissima, ci procura. In quella
situazione, tu hai detto una cosa molto bella, che
mi ha fatta riflettere a lungo e che ancora adesso
ricordo. Mi hai detto che le difficoltà non servono
solo a procurare dolore e frustrazione, ma sono utili anche per regalarci la consapevolezza che abbiamo tutte le risorse per riuscire a fronteggiarle e
a superarle, per riuscire, alla fine, a dire: Sono ancora qui, più forte di
prima; migliore di prima; più capace di prima nel
saper riconoscere ed apprezzare anche le cose belle che la vita mi dà.
Non dimenticare queste cose, che sono pensieri
tuoi, nati dal tuo cuore e dalla tua ragione. Questo
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periodo buio finirà, finirà presto, e tu dovrai essere
pronta e disposta ad accorgertene e a saper assaporare il gusto dolce della ventata di aria pulita
che inevitabilmente arriverà nella tua vita. Voglio
ritrovare la Valeria che ho conosciuto, quella che
era capace di regalare la luce della sua anima così
bella, quella che era sempre pronta ad ascoltare e
ad ascoltarsi, leggendo in fondo al cuore e capendone le ragioni profonde.
Ho voglia di sentire una tua parola, o di leggere
una tua lettera.
Fatti sentire, Valeria.
Qualche volta i problemi, se condivisi con un amico, diventano meno pesanti e più facili da superare.
Spero che le mie parole siano giunte alla tua anima, e spero che tu abbia potuto leggere tra queste
righe la testimonianza della mia amicizia. Non riesco a saperti così.”.
Eccola lì.
Rispose per educazione, era solo stanca… forse.
La rincuorava sentire tanto amore da parte degli
amici, che rispettavano i suoi silenzi, la sua non
voglia di esserci.
Ma suo marito dov’era?
Già, tanto lui sapeva che ogni volta la depressione
passava, è ciclica.
Poi, la vedeva con i ragazzi, vitale e simpatica, di
conseguenza non doveva stare così male.
Ma lui dov’era, se quando lei sentiva dentro
l’arrivo della ventata d’aria pulita di cui parlava
Monica, la catturava come i marinai con l’albatro.
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Se avesse avuto la conoscenza di quanto fosse abile
a farla stare male, nei momenti in cui lei era pronta
a riprendersi, l’avrebbe lasciata volare, libera e felice.
Quei marinai non capivano, erano uomini, mancavano del grande mistero e dono della femminilità.
Chi è nato libero può solo volare. E le donne quando volavo, volano davvero.
Nessun analista era riuscito ad estrapolare l’insetto
che si era infine insediato in lei, solo il marito, Fabio, ne capiva qualcosa più degli altri e proprio per
questo riusciva ad approfittarsi di lei, oh no, non in
modo chiaro e trasparente. Nemmeno se ne accorgeva di farlo. Valeria esprimeva poco i suoi reali
stati d’animo, pur essendo una persona loquace e
non era sempre dolce e tenera, ma pronta a mettersi
in discussione, sì.
Valeria non aveva una buona opinione degli uomini, non ne aveva mai conosciuti che valessero una
vita, non capiva la dedizione totale d’alcune donne
per loro, forse la causa andava ricercata nel fatto
che nessun uomo era riuscito a stare al passo con la
sua intelligenza atipica.
Poteva essere stato solo un caso o sfortuna non incontrare l’altra metà della mela.
Ma sì tutte storie, se l’umanità fosse stata ridotta a
tante mele spaccate a metà, sarebbe stato impossibile trovare l’atra mezza: troppe le metà e troppo
grande il mondo.
Valeria non credeva al caso, ma a quello che la vita
le metteva davanti, come in un processo della conoscenza e secondo lei, da ciò dipendevano le conseguenze.
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L’esperienza porta ad una visione relativa.
La realtà è una e tante insieme.
Leva tutto quello che è inutile e resta la verità,
forse.
Ogni individuo può dunque avere una visione che
non coincide con quella degli altri. Quello che Pirandello definisce sentimento del contrario.
Lei a queste tre parole dava un altro significato.
Nelle poesie Valeria, amava far emergere la sua
vocazione di cogliere i molteplici e contrastanti aspetti della realtà, scindere e isolare le contraddizioni, così riusciva a mettere a nudo in modo ironico le convenzioni della vita societaria, senza risultare polemica, ognuno è libero. Temi dolenti della
pena di vivere in un modo tanto duplice e beffardo.
Nonostante questa sua capacità di ben centrare i
pensieri, l’inquietudine, spesso, aveva la meglio
comunque. Una persona intelligente sa scegliere i
sentimenti che fanno stare bene, lei no, si auto flagellava, non a caso era nata il giorno in cui nacque
Pascal.
Dunque, tanta intelligenza era inutile. Se fosse nata
scema sarebbe arrivata a migliori stati d’animo.
L’intelligenza la metteva solo al servizio degli altri,
trascurando se stessa.
Ma solo perché la persona intelligente immagina
nel suo profondo che rendere felici gli altri ricada
su se stessi.
Per sé cosa faceva, come usava la sua intelligenza,
come sapeva sfruttarla per il suo interesse personale? Non lo sapeva. Non la usava, se non per scrivere. E anche la scrittura diventava la stessa cosa, il
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servizio agli altri che ricade su se stessi. Un dare e
avere, ecco cos’era l’intelligenza.
Però dava grandi possibilità alla vita di spiegarsi e
manifestarsi, fidandosi di Lei come di una potente
divinità femminile alle prese con le persone che
sceglieva, nel tentativo di vederle crescere.
La vita aveva le sue creature predilette e per paradosso erano quelle che dovevano affrontare più difficoltà. La vita era più ingegnosa e capace che
qualsiasi essere umano, povera gente che tende ad
imporsi anche quando non sa come fare, quale il
comportamento da adottare, la parola da dire, gente
che si improvvisa anziché delegare la potente divinità, gente che non sa cogliere i segnali del cielo,
lei si sentiva tra quelle, il volo degli uccelli le era
arcano.
Ciononostante, Valeria amava fermarsi, attuare la
pausa del pensiero e dell’azione.
Anche sotto lo stagno la vita sa muoversi, ma il
più delle volte l’uomo è altrettanto abile a rovinare tutto.
E come sempre i suoi pensieri prendevano il posto
di quei volatili in cielo, perché non c’era unione tra
quelle due donne di Saviane.
Rideva, asserendo che al momento della sua nascita, tra gli angeli custodi doveva esserci stato un
fuggi fuggi, ma poi, infine era rimasto il migliore,
un bellissimo angelo bianco dalle grandi ali, che di
tanto in tanto le faceva trovare piume in giro.
Valeria era rimasta uguale a quando era bambina,
la stessa simpatia, le stesse smorfie da protagonista
con le mani sui fianchi che si mette chi è pronto alla sfida.
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Il dolore non era riuscito a contaminare la sua essenza e quando andava a toccare la sua essenza, rimaneva perplessa.
Non era stata un’infanzia facile, una pagina di nani
cattivi e animaletti impietosi, tutti intorno ad una
bimba e ad una nonna.
Quante volte si era sentita il Ferruccio di sangue
romagnolo, lo stesso apparente menefreghismo e la
stessa passionalità nel difendere i propri affetti.
La piccola Valeria non osava tentare fughe, sapeva
che non ne sarebbe stata all’altezza, dunque imparava i compromessi e cercava la via d’uscita migliore, la più indolore, patteggiando con spiritelli,
nani e animaletti malvagi, riuscendo così a tenere
tranquilla la vecchia nonna che non si accorgeva di
niente.
In quella pagina sviluppò il suo bisogno di libertà
da tutto e tutti, non sopportava gente inutile tra i
piedi, eppure quando vennero gli anni in cui dovette impostare la sua vita futura, sbagliò, caricandola
di persone, impegni, invadenze e sensibilità e, come in una pianta selvatica, i rami divennero talmente lunghi, forti e attorcigliati che quando se ne
accorse il gioco era ormai fatto. Ma quando si sentiva in forma, ancora sperava e potava ancora.
Si ripeteva nella mente, dieci volte e più, che un
bravo cuoco sapeva allestire ottimi banchetti con
gli ingredienti di cui disponeva, ma quante le volte
in cui non si sentiva per niente un cuoco e tantomeno bravo, ma una sguattera della vita e allora tanto
valeva lasciarsi andare, era tra l’altro più facile che
cercare di fare meglio. Quando si sentiva così,
piangeva e si commiserava, con la totale incom-
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prensione della famiglia, ma poco dopo uno dei miracoli della vita si ripeteva, tornava sorridente e vitale ancora una volta. Per lei, pianti e disperazioni,
erano solo coccole a quella bimba su quella vecchia
pagina.
Un giorno di molti anni prima, il professore di chimica le predisse il successo e un’altra insegnante,
la Vasari, la invitò in un biglietto, che le consegnò
al termine dell’esame di maturità, a non cambiare
con gli anni, a non diventare mai meno combattiva.
Una parola! Ma macchine da guerra si nasce, non si
diventa. Valeria assumeva dosi massicce di ferro da
tutta la vita, il suo fisico ne era carente, indicativo
del fatto che non era nata macchina da guerra.
Fin da ragazzina era un vulcano in eruzione, un
pozzo di San Patrizio, la caverna che il santo avrebbe attraversato, giungendo ad intravedere, dopo le pene del purgatorio e dell’inferno, anche il
paradiso.
Un giorno, era con i due gemelli in una caffetteria
di Corso Vercelli, stava mettendo nelle manine dei
bambini delle paste alla crema, si sentì osservata e
girandosi vide una distinta vecchina.
Si rioccupò dei bambini, la crema usciva ad ogni
loro morso e andava ad impiastricciare faccia e
mani fino a cadere anche a terra., aveva fatto una
stupidata scegliendo quei dolci, erano troppo ripieni. Porca miseria, che pasticcio. Sentì insistente lo
sguardo della donnina su di sé, di nuovo si voltò
per guardarla. Ne incontrò gli occhi verdi e li riconobbe, nonostante l’età li avessero resi molto più
piccoli di allora. Era il mistero dello sguardo, quel-
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lo che riesce ad oltrepassare: “Signora maestra!”
disse sorpresa e incredula. “Valeria” la salutò la signora con un sorriso dolcissimo. Un abbraccio.
L’incontro di due anime. Lasciò che i bambini si
sporcassero, ci avrebbe pensato dopo.
Era la sua prima maestra, quanti anni erano trascorsi senza rivedersi mai. Si erano riconosciute e questo era bellissimo. Si sedettero allo stesso tavolo ridendo dei ricordi, i bambini sembrava sentissero
nell’aria che dovevano alla mamma quel momento
di silenzio e del resto glielo concedevano volentieri, gustandosi finalmente come volevano la loro pasta alla crema, leccandola dove stava per cadere e
facendola cadere con indifferenza dove non riuscivano a bloccarla e laddove cadeva la crema andavano con i piedi a spalmarla facendone disegni con
la punta della scarpa.
Valeria e la maestra si scambiarono il numero di
telefono ripromettendosi di incontrarsi presto. Valeria l’accompagnò alla porta della pasticceria e
l’aiutò a scendere i due gradini, subito tornò dai
suoi bambini e la guardò dalla vetrina allontanarsi.
Traballava, reggendosi al bastone. Che bel bastone,
aveva notato il pomello d’argento lavorato che serviva anche da porta pillole.
Ricordò il gusto, che tanto naturale sorgeva in quella donna, per le cose belle. Pensò a
quell’intelligenza, rimasta lucida e centrata, forse
era il risultato di una vita senza figli e marito. Una
vita semplice in cui si può scegliere se e chi fronteggiare e anche di cambiare tutto, senza dover
rendere conto che a se stessi.
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In quel pensiero stava una probabile risposta, i suoi
problemi non erano suoi, non era malata di nervi, la
difficoltà era far fronte alle persone che la circondavano, in realtà la più normale di tutti probabilmente era proprio lei.
Dapprima pensi di avere trovato un uomo che si
prenderà, per sempre, cura di te, poi ti accorgi che
sei tu a doverti occupare di lui. Nella fase che dovrebbe essere quella della maturità matrimoniale,
capisci che oltre ad essere tu che ti devi, obbligatoriamente, occupare di lui, della casa, dei figli, dei
conti che devono quadrare e di tutto quello che in
gergo famigliare si chiamano grattacapi, sei pure
sotto accusa perché lo castri, lo reprimi e le colpe
sono tutte tue. Se poi, hai la fortuna di avere una
figlia femmina, sicuro come il cielo, che rimarrai
mortificata nello scoprire che qualunque cosa accada lei prenderà le difese del papà, sempre che non
ci siano i suoi interessi personali di mezzo, dove la
mamma è quella che ama di più.
Eppure lo sai di essere vitale e gioiosa, ma ti senti
come un gran sole con gli occhiali, una sciocca che
non sa reagire. Che per quieto vivere ha imparato a
tacere.
Non sempre la pensava così, dipendeva dal suo stato d’animo e non da quello che succedeva intorno.
Invece no, dipendeva proprio da quello che succedeva intorno, come piccole scintille che si staccavano dal fuoco del camino colpendola, il bruciore
sulla pelle durava un istante, ma la tensione restava
qualche minuto in più, per poi diventare esperienza,
quella conoscenza che, con perizia, ti fa mettere la
tua sedia a dondolo lontano dal camino, pur to-
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gliendo in parte poesia e gusto, e anche la sedia la
sposti cercando di non fare rumore per non infastidire, piano piano, per non urtare nessuno, perché
tutto rimanga il più possibile in pace, perché solo
così puoi gustare la tua lettura dondolandoti.
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Siamo tutti prigionieri ma alcuni stanno in celle
senza finestre, altri in celle con finestre.
(Khalil Gibran)
Arrivò l’editore. Non sembrava un uomo affermato,
ma i soldi gli avevano, nel tempo, conferito una
sorta di classe originale, che in fondo non guastava.
Gli era andata bene pubblicando un saggio che aveva fatto scandalo, scritto a tavolino da alcune
persone per decretare il successo di uno sconosciuto, ben inserito nella società.
Il dottor Sacchi era proprio brutto, basso e grassetto, con i capelli sempre un po’ unti raccolti dietro la
testa, quasi ostentasse anticonformismo. Il viso,
troppo tondo, faceva da cornice all’espressione rasserenante. Gli occhi erano scuri, piccoli ed esageratamente vicini tra loro. Le sopracciglia talmente
folte da sopravvivere in quello spazio dove il naso
finiva, laddove Valeria amava accarezzarsi per riflettere. Il naso tradiva l’immagine da confraternita,
ma solo i bambini l’avevano notato:
“Mamma, che naso da strega che ha questo signore” avevano gridato. Valeria ne aveva dapprima
sorriso con lui, celando l’imbarazzo e in seguito
non aveva portato più con sé i bambini alla casa editrice. Indossava da sempre giacca grigia e jeans,
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sembrava che non si fosse cambiato mai, la cintura
di cuoio marrone, sempre la stessa e parecchio consumata, ma anche questo faceva parte del suo progetto personale. Non era una persona trasandata,
solo fingeva di esserlo, chissà poi perché. Non
l’aveva visto una volta con i capelli puliti, ma magari usava male il gel o soffriva di capelli grassi e
non aveva mai trovato uno shampoo adatto.
Lo guardò meglio e intravide la forfora, ecco perché indossava sempre giacche di color grigio. Pensò che ogni comportamento aveva le sue motivazioni.
Lo guardò a lungo e le fece pena.
Valeria era convinta che la vera ricchezza dei ricchi, fosse potersi permettere più opportunità, per
esempio i migliori consulenti, ma più d’ogni altra
cosa il permettersi di essere sempre se stessi.
In ogni modo, il concetto che i ricchi potessero essere se stessi non era una realtà. Aveva conosciuto
e frequentato molte famiglie benestanti, anche la
sua lo era, e ogni volta rimaneva stupita dal fatto
che più potevano essere individui autentici, non
dovendo temere alcunché e più fingevano, nel loro
ruolo un po’ snob o d’originali controcorrente, di
chi pensa di essere continuamente sotto i riflettori. I
ricchi sono importanti, altrimenti chi aiuterebbe i
poveri?
Non esisteva una regola.
Aveva amici ricchi, veramente meritevoli, né pochi, né tanti, una giusta percentuale. Almeno in
questo, l’umanità era ben distribuita.
Del resto, essere autentici, non era tanto una scelta
della persona, quanto una scelta divina.
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L’uomo quale parte di un disegno più grande di lui.
Basta! Basta pensare, arrivò alla conclusione: il
dottor Sacchi si era comportato in modo corretto,
era un uomo onesto e bravo nel vendere il suo prodotto, questo era tutto ciò che le importava; via dal
loro rapporto di lavoro poteva fingere, essere vero,
lavarsi e non lavarsi, persino mettersi le dita del naso. Non erano amici.
“Dottor Sacchi” gli disse seguendolo nel suo ufficio, prima ancora di salutarlo. Tossì. In quel locale
c’era sempre un odore disgustoso di sigarette. “Non
voglio che la raccolta sia pubblicata, non mi chieda
il perché”. Tossì di nuovo e lo vide accendere
un’altra sigaretta, caspita quanto fumava, quella
prima l’aveva spenta appena entrato e lei con quel
puzzo stava soffocando, ma non sentiva la sua tosse? Che maleducato.
Lui, abituato alle bizze della donna, tolse il cappotto, mise la valigetta di pelle nera su un tavolino posto vicino alla finestra, si sedette e avvicinò con
una spinta di reni la poltrona alla scrivania, le rotelline, strisciando sul pavimento, fecero un rumore
fastidioso:
“Devo farla oliare.”
Valeria per un attimo si sentì divertita, in uno di
quei film, dove dietro la scrivania, c’è il detective
un po’ strampalato ma molto, molto ferrato nel suo
lavoro.
Fumava e la guardava in silenzio.
E lei, di tanto in tanto tossiva.
Spense la sigaretta nel posacenere, schiacciando
forte il mozzicone sul Colosseo.
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Le dita e le unghie erano gialle di nicotina. Ne accese un’altra, Multifilter.
Appoggiò i gomiti sul ripiano di legno chiaro, e incrociò le mani facendo schioccare più volte le dita.
Prese a fissarla.
Lei, sosteneva lo sguardo senza il minimo imbarazzo.
Dopo una lunga pausa di riflessione, che durò qualche minuto, Sacchi si espresse:
“Il timore del rischio. Quello che la psicologia definisce difesa” e subito Valeria ricominciò a pensare e a muoversi, prese l’orologio da tavolo in mano
e lo girò dalla sua parte per vederne l’ora.
Rispose con indifferenza:
“Sia quel che sia, devo pagare una penale?”
“Ma no, siamo amici. Terrò la raccolta per me, posso? O vuoi che te la renda?”
“Ma scherza? Mi fa molto piacere che la voglia tenere” rispose Valeria sollevata.
Sei mesi dopo suonò il telefono di casa Alessi:
“Complimenti Vale, Difetti e virtù di un poeta, hai
superato te stessa.”
Ringraziò l’amica e appoggiò il ricevitore.
Nessuna rabbia e nessun rancore, una sorta di rassegnazione; ancora una volta si era imbattuta in uno
spietato folletto. Eppure era brutto come il peccato,
come aveva potuto non accorgersene. In genere chi
è brutto fuori lo è anche dentro, non vale la regola
contraria.
Nonostante gli anni, ancora non era in grado di riconoscere i brutti e i cattivi. I brutti gli facevano
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sempre pena, come se bruttezza fosse sinonimo di
povertà.
A conti fatti, quando scriveva, lui le era tornato
molto utile.
Prese il secchio con l’acqua, c’erano i pavimenti da
lavare.
Qualche giorno dopo, prese contatto con lei il folletto, la chiamò sul cellulare:
“Vale, un successo. Il quattro abbiamo la conferenza stampa.”
Dentro lei, scoppiò un sorriso, stava diventando paranoica, se ora prestava il viso alla donna dipinta
da Edward ne Il giorno dopo. Uno dei pochi dipinti
raffinati di Eduard. Lei, Valeria, stesa su quel letto
con il braccio penzoloni di chi dorme o si arrende.
La sua faccia, consegnata al pittore che tanto le
metteva paura, mai quanto Munch.
Rise in silenzio, mentre il dottor Sacchi non smetteva di parlare, tolse il ricevitore dall’orecchio e
andò a prendere una caramella alla liquirizia, le sue
preferite.
Era erotica quella donna, più di quella di Gervex, in
cui la protagonista era nuda. Forte e ironico Munch
nello stravolgere la situazione. Forse sarcastico,
chissà, non lo aveva conosciuto personalmente e
non poteva sapere lo spirito con cui era stata fatta
quella copiatura.
Rimise il ricevitore all’orecchio.
Dal tono pareva che il dottor Sacchi stesse evolvendo al finale:
“Sì, capisci Valeria, è una questione anche di mercato.” Anche o solo.
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Valeria, senza alcun tono che facesse trasparire la
delusione nei confronti di quello che credeva fosse
un uomo molto brutto ma veramente onesto: “Certo. Non sto bene. Faccia lei. Mi motivi con la solita
depressione dei poeti. Sarà intrigante: la scrittrice,
dopo l’ultima sua opera è caduta nuovamente preda
del male oscuro” e rise di nuovo silenziosamente
masticando la sua mora e di nuovo si rivide nel
quadro de Il giorno dopo, forse era mezza ubriaca.
Però, che sensualità.
Ubriaca di rapporti umani. Ubriaca di gente, di
sguardi, di parole. Ubriaca di pensieri, di se stessa.
“Bella trovata, geniale come sempre Valeria cara.
Venderemo ancora di più. Le malattie nervose sanno d’emarginazione, il dropout intelligente e sensibile fa moda. Anche la depressione è un po’ dropout. Che dici? Poi, guarda, ci va proprio bene, nella prima pagina fai un’osservazione proprio inerente a questo. Ora non ho il libro sotto mano, ma mi
pare tu dica… fammi pensare… che la nostra società è per la gran maggioranza composta di depressi e
che secondo te siamo i poveri figli
dell’illuminismo, che dovrebbero …” e parlava,
parlava. Ora stava esagerando. Lo bloccò nei suoi
sragionamenti:
“Dottore, abbia pazienza, ho da fare. Dica e faccia
quello che vuole, ma non mi rompa oltre le palle.”
Sacchi non aveva capito niente, era un pazzo.
L’imbecillità conta un numero veramente infinito
d’iscritti, comunemente convinti di fare parte del
clan opposto.
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Prese una pausa, si sdraiò sul divano e non pensò.
Prese il telecomando e si fermò a guardare un documentario sugli animali della foresta.
Ricevette nei giorni seguenti le copie che le spettavano, niente a che vedere con i suoi gusti.
La copertina era gialla con la scritta nera.
Non si chiese se le piacesse o no, non le apparteneva.
Il camino vide una gran fiammata.
Guardò bruciare lentamente solo l’ultima pagina
scritta e la lesse man mano che si consumava, come
per magia, dall’alto al basso.
Ma quale il prezzo della propria forza.
Sotto la corazza non c’è più pelle.
Via l’armatura
piaghe, sangue e cicatrici.
Mi siedo al bordo della branda sfatta
Lenzuola, cuscini, odor di pelle marcia.
È questo il prezzo della propria forza.
La forza di un poeta è l’animo di un bimbo
tra cocci di vetro e soli troppo caldi.
Piedi che bruciano sull’asfalto rovente.
Sudore e preghiera
Paura e coraggio
Rimetto l’armatura e vado.
Guarda quel prato
Oltre i calcinacci
Chiedono poesia i fiori di campo.
Faceva molto freddo a Milano e Valeria giocava a
fare uscire il fumo dalla bocca, come amava fare
con le amiche da bambina, quando durante
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l’inverno giocavano alle signore emancipate, con
finte sigarette di cioccolato tra le dita.
Era andata da Yves Rocher a fare un po’ di scorte.
Lungo la strada, un uomo le dedicò, un sorriso, un
altro uno sguardo.
Pensò di avere un’aria strana. Come mai l’avevano
guardata? Si specchiò in una vetrina, le sembrava
di essere a posto. Forse solo un po’ spettinata. Che
stranezza quei due, che ci volessero provare? No
impossibile.
Probabilmente era accaduto altre volte che un uomo la notasse e lei non ci aveva fatto caso e ora cosa stava succedendo?
Era alla ricerca di conferme, ogni sguardo le sembrava rivolto a lei e lo prendeva in considerazione,
cosa del tutto particolare.
Era lei che guardava gli altri, che si rendeva disponibile.
Entrò in un bar, aspettava l’arrivo di Fabio, sarebbero tornati a casa insieme.
Si fece servire cappuccio e brioche.
Suonò il cellulare “Due minuti e sono da te.”, era
lui.
Avrebbe potuto impiegare anche più tempo ad arrivare, Valeria si stava piacevolmente perdendo in un
quadro appeso alla parete, le richiamava la regia
d’Almodovar, colore vuole colore, un mezzo busto
di donna con vestito rosso scollato e alle spalle un
attaccapanni dello stesso rosso.
I seni della donna pareva volessero uscire dalla
scollatura, le spalle scoperte davano coraggio ai seni, il viso era segnato da qualche ruga, i tratti anco-
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ra decisi nonostante l’evidenza del passare degli
anni e di una vita intensa.
Entrò Fabio.
Il solito bacino e “Cosa prendi” le chiese, senza notare che aveva davanti la tazza con il cappuccio,
che si stava freddando e la brioche.
“Un caffè” rispose lei, per dire meno parole possibili.
Dovette staccare i pensieri e gli occhi dal quadro,
per non dare l’impressione al marito che la sua attenzione fosse distratta dalle sensazioni che quel
dipinto stava provocando in lei.
Fabio bevve il suo caffè ristretto in un solo sorso,
cominciò a raccontare del lavoro, chiese dei figli,
lei partecipava al discorso, ma non riusciva a sconnettersi da quella sensualità.
Si domandava se lei fosse stata in grado di trasmettere tanta sensualità.
Se ci sarebbe mai riuscita.
Si chiedeva quali fossero i motivi per i quali non ci
avesse nemmeno mai provato.
Il seno delle donne era una gran bella cosa, la prima parte femminile che gli uomini imparano ad apprezzare, poi le forme sinuose e accattivanti, i movimenti voluttuosi e provocanti, tutte priorità del
sesso muliebre.
Perché lei aveva sempre soffocato una tale potenzialità mostrandosi sempre pudica e sobria,
un’intellettualoide tutta cervello?
La natura non era stata avara, ma lei mai aveva osato mettere in mostra ciò per cui molte donne ricorrono al chirurgo.
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Oh certo, ora gli anni e le gravidanze avevano lasciato le loro inesorabili impronte, ma lei non aveva mai, ma proprio mai, potuto conoscere la sensazione di provocare, se l’era vietato.
Ripensò a quando, verso i vent’anni, un tipo incontrato al San Maurilio le propose di fare la valletta in
un programma televisivo e a come, ora, detestasse
la persona che allora prese il suo posto diventando
conduttrice televisiva. Lei aveva rifiutato per paura
di mettersi in qualche guaio e al suo posto avevano
scelto un’altra. Normale. Ma adesso, ogni qualvolta
che la vedeva sullo schermo girava canale.
Aveva scelto di mettere avanti la sua testa, solo il
cervello, e solo quello.
Era stata proprio scema.
Concluse incolpandone la bramosia degli uomini,
tutti gran maiali, non andava incoraggiato il loro
appetito.
Era abilissima nel difendersi generalizzando.
Ora, avrebbe voluto essere un’araba, le donne islamiche quando sono sole con il loro uomo si trasformano, tolgono veli e pudori, oppure una geisha
o ancora meglio una menade danzante, sorrise dei
suoi pensieri.
Imiliana, un’amica sessuologa toscana conosciuta
in campeggio, le confidò che verso il quarant’anni
esce la “troia” che è in tutte le donne; aveva usato
esattamente quell’espressione, lei si era dissociata
all’istante quando glielo sentì dire. Ora si preoccupava della possibilità, ma sorrise di nuovo… e se
n’avesse fatta uscire un po’ di più?
Compiaciuta, guardò Fabio con aria di sfida.
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S’immaginò menade, donna invasa dal furore, cultrice di Dionisio, scabrosa.
Le menadi che belle, tanto ben rappresentate nelle
sculture dello Scopa “Che dici Fabio, si dirà scopare per le sculture dello Scopa? Per le menadi?
L’orgia prevedeva, al culmine dell’orgasmo, che le
baccanti in preda al loro stato, sbranassero un cerbiatto.”
Il marito fece una smorfia di disgusto, sentì solo del
cerbiatto, assorto in altri pensieri, del resto Valeria
era una donna da ascoltare per metà.
Forse una donna delle Fiji sarebbe stata più adatta a lui, quantomeno lì non esistevano pentolini
bruciati.
Quante volte, Valeria avrebbe voluto essere una
persona meno complicata, per sé e per gli altri, una
sempliciotta, si vive meglio con i sempliciotti.
Entrarono in casa, Valeria era felice di avere avuto
quei pensieri erotici, quasi stesse uscendo, finalmente, un po’ della sua carnalità tra biscottini e letti
rifatti e ancora penso fra sé… chissà, realizzare
questi pensieri potrebbe essere davvero liberatorio.
Pensò che tanto, a Fabio non avrebbe mai detto
queste sue fantasie, mancava di confidenza.
Più facile gridare e svergognarsi, che parlare
d’erotismo e intimità.
I ragazzi rientrarono, che confusione, lei ancora
non riusciva ad abituarsi, le sue amiche si lamentavano del disordine lasciato dai figli, ma ne sentivano molto la mancanza quando non c’erano, la casa
sembrava vuota, dicevano. Valeria usava affermare
che i figli erano il capolavoro della sua vita, ma era
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convinta che avrebbe potuto vivere molto bene anche senza.
Che sollievo quando finalmente uscivano.
Non per mancanza d’amore, ma i figli adolescenti
erano una vera e propria frustrazione. A volte un
vero e proprio dolore.
I ragazzi non le lasciavano spazio, ma forse era un
bene, visto gli ultimi pensieri che la sua mente aveva partorito.
Valeria menade, che roba!
Considerò che non stava uscendo “la troia” dei quarant’anni, quella citata dall’amica sessuologa, ma
che stava diventando matta.
Riempì la lavatrice, c’era sempre un mare di biancheria sporca, non faceva in tempo a stirarla che rivedeva il mucchio tale e quale.
Poiché non aveva più intenzione di scrivere e c’era
quel maledetto mutuo, aveva pensato di fare a meno della governante. Era stata di Fabio l’idea della
casa in Toscana, acquistata senza consultarla e ora
che se la pagasse.
Aveva anche considerato di portare a casa dal ricovero suo padre, per ridurre il più possibile le spese,
ma non sarebbe stato corretto per rispetto alla gioventù dei ragazzi, alla loro serenità.
Gli anziani non avevano solo esperienza e poesia,
come cantavano le canzoni d’autori sensibili al
problema vecchiaia.
Però, siccome la famiglia era anche la sua e non solo di suo marito, non se la sentiva di lasciare che
tutto andasse completamente a ramengo e così, i
soldi, che una volta erano destinati alla governante
ora li dava ai ragazzi.
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La solita vittima, avrebbero pensato loro, se avessero saputo di questo sacrificio. Scrivere romanzi e
poesie non le produceva granché in denaro, solo
troppo tempo da occupare, avrebbe dato qualche
ripetizione e si sarebbe limitata a rispondere alla
Posta del cuore della rivista. Poi insegnava alla
scuola per stranieri, in qualche modo il denaro necessario sarebbe saltato fuori. Succede sempre così,
basta non abbattersi e pensare che in fondo sono
solo soldi.
Stese, stirò i panni e pianse disperatamente sbucciando le cipolle che servivano per il sugo.
Il profumo che fa venire fame si diffuse nella cucina e lei ripensò che nelle isole Fiji le donne non
abbandonano mai un pentolino sul fuoco, credono
che altrimenti gli spiriti maligni possano avvelenare
il cibo. In quelle isole se una donna si allontana dai
fornelli è considerata pronta per il manicomio, da
noi sarebbe da manicomio quella che credesse a tale eventualità.
Valeria decise che non esisteva una normalità, se
non quella dedotta dalla media di un campione della cultura del posto. Questo concetto l’impaurì.
Quindi, se il mondo occidentale non si fosse deciso
a fare un bel dietrofront verso lo spirito e
l’individualità sana, ci sarebbero stati grandi guai
nel futuro dove la normalità, negli anni, sarebbe
cambiata e il combattersi l’un l’altro per interesse
personale sarebbe diventata la normale logica di vita. Se le persone che ancora riuscivano a vedere la
verità si fossero arrese, sarebbe stato un bel casino.
Normalità sarebbe diventata la tecnocrazia, con il
suo predominio della tecnica, nelle basilari scelte
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del quotidiano. Normalità, la conseguente crisi assiologica dell’uomo cosiddetto evoluto.
Normalità l’organizzazione criminale, normalità
che i ragazzi avessero il tacito consenso a crescere
diventando ladri, con l’esempio dei potenti.
Normalità che i poveri diventassero sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.
No, lei non ci stava. Ma Valeria non capiva niente
di politica, quanto d’economia, certo non avrebbe
potuto fare nulla per il mondo ma per quel piccolo
pezzo che la circondava sì.
Quindi, continuare ad educare i suoi figli nella giustizia e nella lealtà, nonostante gli attacchi che le
muovevano.
In quanto all’economia famigliare, anche quello era
un problema, doveva rimanere ferma e… farcela!
Ogni cosa, ogni gesto, erano per lei uno spunto per
viaggiare nella mente.
Girò con il mestolo di legno il sugo, abbassò la
fiamma “Che profumino” sentì dire nella camera
dei ragazzi.
Andò al computer per leggere la posta, tutta pubblicità.
Entrò nel forum che una volta amava frequentare
con il nick, Amneris, la promessa sposa rifiutata da
Radames, che invece amava la nera Aida. Radames
morì sepolto vivo e tra quelle mura Aida si era nascosta per morire con lui; Amneris trascorse molto
tempo a pregare su quei muri, ignara della presenza
della rivale in amore.
Almeno, così le sembrava di ricordare. E sempre si
era chiesta se a qualcuno fosse mai balenata l’idea
che Aida fosse lì, giacché nessuno la vide più, ma
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forse pensarono che fosse fuggita per il gran dolore. Ma se era una schiava come poteva essere fuggita? E ogni volta concludeva questi pensieri dicendosi che forse non ricordava bene l’opera.
“Mamma abbiamo fame, manca molto?”
“No. Butto la pasta.”
Spense il PC, nessun post che valesse la pena considerare, tornò ai suoi fornelli.
La saggezza popolare attribuisce ai figli la capacità
di mantenere unita la coppia, e quando i figli lasciano il nido vuoto?
L’inquietudine spesso s’impadroniva di Valeria, i
figli crescevano e lei doveva identificarsi in un
nuovo ruolo, era stanca di scrivere, amava l’arte e
conosceva gli uomini, li aveva conosciuti fin da
piccola. Era inevitabile che la famiglia dovesse riformularsi, ma più di tutti lei. Gli altri sembravano
in forma.
Fabio continuava a lavorare, come se il mutuo non
gli appartenesse e Valeria scoprì il lato incosciente
di suo marito.
Alessandra a volte carina ed altre arrogante da farle
venire l’impulso di buttarla giù dalla finestra una
volta per tutte, ma era il suo specchio, poteva solo
cercare di capirla, quello che proprio non le riusciva accettare era quell’egoismo, ma da chi l’aveva
preso? Lei e Fabio non erano così. Riccardo che era
la persona più calma del mondo e, forse per questo,
ogni tanto dava fuori da matto. Giovanni e Francesco che erano alla ricerca della loro affermazione
personale.
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Restava comunque ben chiaro che quattro figli su
quattro l’amavano, che due su quattro la sopportavano poco e che una su quattro non la reggeva proprio. Ma era forse una tecnica inconscia per staccarsi emotivamente da lei.
Sperava che fosse così. Sperava che le cose prima o
poi sarebbero cambiate e che i figli, una volta adulti, l’avrebbero vista, finalmente, come una persona.
Ora doveva riuscire a tenere le famose distanze di
sicurezza da loro e anche da Fabio, o sarebbe avvenuto il risucchio. Le volevano tutti bene, questo era
indubbio, ma quanto questo fosse importante non
riusciva a quantificarlo. Avrebbe voluto essere
ferma come lo erano le mogli e i genitori di una
volta.
Aveva provato ad essere autoritaria ed era stata la
volta che li aveva visti ridere a crepapelle di divertimento, convinti che Valeria fosse simpatica e
scherzosa come pochi.
Quando invece si arrabbiava con cognizione di
causa, la casa intera s’improvvisava caserma. Anche il cane non si muoveva più. Del resto, mantenevano i vantaggi e le comodità che la famiglia dava loro, pensando che fossero diritti acquisiti e poi
rivendicavano la completa autonomia.
Altro che cuccioli… dei terroristi, bastava la parola
sbagliata al momento sbagliato e se ne andavano
sbattendo la porta, lasciando Valeria preoccupata
fino a quando, finalmente, decidevano di rispondere al cellulare.
Eppure erano tutti insostituibili.
Quando la casa diventava il palco di quelle belle
commedie che rendono onore a Napoli, i gemelli
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allargavano gli occhi preoccupati e si allarmavano
quando la mamma sentenziava che Alessandra e
Riccardo avevano ricevuto un’educazione troppo
libera.
Valeria sapeva che i problemi coniugali si risolvono con la maturazione personale e non con il cambiamento del partner, almeno così aveva letto da
qualche parte.
Fabio non aveva problemi, era lei ad averne, diventava ogni giorno più lagnosa, la sua allegria diminuiva, l’entusiasmo aveva preso il treno per chissà
dove. Non aveva progetti. Non aveva mai provato
la noia, ma ora certi giorni rasentavano l’accidia,
dalla sedia al divano, alla sedia. E poi, come un robot, gli obblighi di casa, senza il minimo entusiasmo.
Si ricordò di avere il numero della vecchia maestra,
erano passati altri anni da quando l’aveva incontrata l’ultima volta, chissà se il numero era lo stesso,
chissà se era ancora viva. La chiamò:
“Sono Valeria Luzzati. Disturbo?”
“Valeria! Non disturbi per niente. Avrei voluto
chiamarti io, ma mi ha sempre frenato il fatto che
hai una vita piena d’impegni. Però ti ho seguita nella tua carriera di scrittrice. Anche l’ultimo libro è
molto bello. A quando il prossimo?”
“Come sta signora?”
“Meglio che posso, solo qualche doloretto dovuto
alla gioventù che avanza. E tu?”
“Non tanto bene. Mi sento a pezzi.”
“Cosa ti succede? Ho avuto subito, sentendoti, la
sensazione di sentire la vocina triste.”.
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Valeria sorrise amara.
“Vuoi che ci vediamo tesoro?” propose la vecchia
maestra.
La chiamavano in tanti tesoro, anche la sua amica
Pia.
Tesoro era un’espressione tenera riservata
all’infanzia, cosa portava lei ancora dietro da allora?
Se stessa con la sua dolcezza, l’animo gentile.
S’incontrarono il giorno dopo alla pasticceria di
Corso Vercelli. La stessa in cui s’incontrarono la
prima volta.
La maestra coccolò Valeria con sorrisi e carezze, la
fece sentire piccina e lei ne aveva necessità. Era
stanca di fare la resistente, la forte, la battagliera,
sentiva premere il forte desiderio di lasciarsi andare, come i guerrieri quando si tolgono armi e corazze di dosso.
Libertà.
“Oh Valeria, da bambina eri tanto allegra. Ma a tuo
modo timida e riservata. Amavo guardare oltre nelle mie scolare e tu eri tutta da scoprire. Così semplice e complicata, sincera e bugiarda. Dolce e aggressiva. Sì mi piaceva scoprirti, eri alla pari di una
tartarughina, ti infilavi completamente dentro il guscio appena percepivi nell’aria un attacco. Mi viene
ancora da sorridere sai. Da lì dentro, per un po’,
non ti tirava fuori nessuno. Non c’era verso. Decidevi tu quando farlo, indipendentemente da ciò che
accadeva intorno. Solo allora ricompariva la tua
bella testina, e ogni volta mi sorprendeva una tua
nuova realtà. Potevi andare a chiedere scusa alla
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compagna, anche se non avevi torto, oppure, al
contrario avvicinarti a lei e sferrare lo schiaffo più
forte che avevi a disposizione in quell’attimo. Per
la seconda reazione ti dovevo sgridare e dare la
nota.”
“Quante note.”
“Eri una ribelle. Dovevo intuire i tuoi pensieri di
bimba originale, geniale direi. Timida, ma improvvisamente reagivi, non eri schiva, a volte timorosa
e altre un concentrato di spavalderia, non chiedevi
mai. Bisognava intuire i tuoi desideri.”
Valeria rise di gusto, per un attimo riuscì a distrarsi
da tutte le sue contorsioni mentali, lo fece nel rispetto di quella bambina che fu.
Stava bene.
“Ah, ah, mi ci rivedo sa, ora sono un po’ cambiata,
ho quattro figli, due quasi adulti che rompono non
poco le scatole. Tutti e quattro mi sfiniscono, ma li
amo più della mia vita. Solo che in alcuni momenti
credo fermamente che l’amore materno non esista.
Arrivo a detestarli. Mi crede?”
Allargò con la mano il collo del maglione dolcevita, come per prendere aria, le dava fastidio quel
collo alto che pungeva. Fece un sospiro:
“Poi mi basta una loro attenzione che volo come
un’adolescente al suo primo amore.”
Si stava commovendo, schiarì la gola e continuò
come se stesse leggendo e il capitolo cambiasse:
“Mio marito, Fabio, è un uomo meritevole, pur
sempre uomo però.”
Seguì una smorfietta a labbra strette ed espressione
rassegnata e alzò le spalle in segno di menefreghismo obbligato.
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La maestra, intanto, non le toglieva lo sguardo di
dosso mentre reggeva il mento aguzzo con due dita
della mano, tenendo il gomito appoggiato ben saldo
al tavolino.
“Maestra, però non mi guardi così, non è successo
niente di grave.”
“Ecco la tartaruga. Tesoro mio non ti sto attaccando.”
“Lo so, ma non mi piace questo momento. Dai veniamone fuori.”
“Pretendi troppo da una vecchia maestra. Non hai
visto come mi muovo lentamente? Uscire… entrare… Fate presto a parlare voi giovani.”
“Giovani, seeeeee…”
Risero insieme.
“Cara la mia maestra, sono arrivata alla mia età per
non sapere cosa voglio, come se fosse finito il primo tempo della mia vita e ora fossi in attesa del
copione per il secondo. Non ci capisco più niente,
non so come continuare e se continuare. Quando
sto male anche i miei ragazzi mi danno angoscia,
cosa riserva loro la vita? Avranno sempre l’energia
per vivere al meglio? Che e quante bastonate ha in
riserbo la vita per loro?”
La maestra aggrottò le sopraciglia e disse:
“Tutto passa. Sono solo momenti. Fidati. Per quanto riguarda i tuoi ragazzi, credo che tu possa solamente accompagnarli con tutto il tuo amore, niente
altro. Ci saranno giorni facili e luminosi e giorni
difficili che toglieranno la pelle, ma è così per tutti,
in tutto il mondo. Ma dimmi, dimmi tutto, siamo
qui per questo. Dai, avvicinati, voglio darti una carezza ancora, su quella faccia da dolce strafotten-
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te che ti porti dietro. Vieni qui. Sei sempre dispettosa?”
Valeria allungò il viso verso lei, le veniva un po’ da
piangere di tenerezza.
“Forza tesoro, fuori dai denti, cosa non va?”
Valeria taceva evitando d’incontrare lo sguardo
saggio della sua interlocutrice.
“Forza, butta fuori il rospo.”
Nessuna parola.
“Ah già, devo dirti anche io una cosa”disse ancora
la signora maestra, levando il dito indice verso la
tempia.
Aprì la borsa forzando le due palline dorate
dell’apertura a clip, come avevano le borse e i borsellini di tanti anni fa.
“Fammi prendere il borsino” aggiunse.
Tirò fuori un fogliettino ridotto piccolissimo dalle
piegature, era ingiallito dal tempo, scritto con pennino, inchiostro e calamaio. Lo girò verso Valeria,
in modo che leggesse.
Valeria si stupì nel riconoscerlo dopo tutto quel
tempo, era una dichiarazione d’amore che aveva
fatto alla sua maestra e lei l’aveva conservata.
“Non ci posso credere.” disse prendendo con delicatezza e gentilezza il bigliettino tra le mani.
“Attenta è molto fragile e abbastanza malridotto da
rompersi appena lo tocchi.”
“Me lo ricordo. Ma guarda te la memoria che cos’è.
Che roba. Me lo ricordo benissimo e ricordo anche
alle sensazioni che provavo mentre scrivevo. La
amavo e per lei mi sarei buttata nel fuoco.”
Cercò di leggerlo e rise di cuore:
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“Dio mio, ero già una scrittrice. Ho rispettato me
stessa. E io che prego sempre il Signore di aiutarmi
ad andare avanti nelle vie che, forse, non erano
quelle destinate a me.”
“E perché non erano destinate a te?”
“Perché sto male. Sono stanca. Non ce la faccio
più. Sono davvero sfinita. E se la stanchezza rende
temerari, la stessa stanchezza rende fragili, toglie
obiettività e serenità.”
“Lasciati andare. Quando dici che non ce la fai più,
non dirlo all’aria o agli altri, ma a te stessa, e fai
che non sia una frase buttata lì. Sostituiscila con:
‘Adesso mi fermo’ o almeno cerca di cambiare
qualche cosa, la vita è una, trattala bene. Cerca di
divertirti un pochino, non si deve solo lavorare e
risolvere i problemi. Magari vai a teatro con tuo
marito una sera. Perché no. Vedrai che poi vivrai
meglio. Oppure dedicati di più a te stessa, fai dei
bei bagni caldi e massaggiati i piedi con delle belle
creme profumate, vedrai i miracoli. E poi respira,
respira bene, profondamente: è indispensabile.”
Valeria sorrise, quante belle cose che le diceva, in
tutta semplicità. Rimedi di una volta e ancora tanto
attuali. Rimedi da vera signora.
Valeria guardò l’orologio alla parete, poi quello al
polso:
“Oddio si è fatto tardi, i gemelli escono da scuola,
devo scappare, è stato un piacere. Vuole che
l’accompagni?”
“No grazie. Prenderò un taxi.”
Valeria non insistette.
Baciò la vecchia maestra mentre si alzava in tutta
fretta.
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Fermarsi.
Coccolarsi.
Cambiare qualche cosa.
Divertirsi.
Non dimenticare di giocare, per trovare l’equilibrio
giusto, per non spegnersi.
L’esistenza ha bisogno di varietà.
Farlo senza sensi di colpa per avere tralasciato di
stirare, perché se non ci si cura, si va via e si rischia
di non tornare.
Solo stando bene si possono assolvere i compiti con
piacere.
Trarre piacere per godere della vita.
E se si è stanchi la vita non si gode, su questo non
ci piove. Anche il fiore più profumato perde fragranza.
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L’ultimo progresso della ragione è di riconoscere
che c’è un’infinità di cose che la sorpassano: essa
non è che una debole cosa se non giunge a conoscere questo.
(Blaise Pascal)
Fabio Alessi era un bell’uomo, laureato alla Statale.
Il suo aspetto, come il vino, era migliorato negli
anni. Aveva una cultura generale sorprendente,
ciononostante non stava attento a Valeria, che aveva bisogno di condividere con lui i propri sentimenti, le proprie emozioni, la propria vita.
Quando Valeria lo vide con la chitarra sulla spalla,
lo seguì e si fermò ad ascoltarlo mentre cantava per
pochi amici, le era sembrato Cat Stevens… It’s not
time, to make a change…
Father and Song era rimasta la loro canzone ma
non la acoltavano più da anni, riposto tra tutti gli
altri, sullo scaffale della grande libreria, c’era anche quel Long Playing: lo stereo stava lì, perennemente in attesa, funzionante come allora, sopravvissuto alla tecnologia.
Fabio aveva vissuto il sessantotto come attivista
politico ed ora, come molti sessantottini, viaggiava
su un Mercedes E 220 Elegance, con tanto di navi-
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gatore satellitare, televisore e frigorifero e amava il
lusso, ma avrebbe potuto evitare di contrarre quel
mutuo per un capriccio. Se ne rese conto.
Non rimpiangeva i suoi vent’anni con la bicicletta e
il sacco a pelo e non voleva tornare a quelle simpatiche avventure ritrovandosi a dormire sotto il cielo
stellato, quindi rivendette in breve la sua casa dei
sogni, dove nessuno della sua famiglia aveva messo
piede.
“Forse mia cara ti sei dimenticata di quando non
avevo i soldi per cambiare le corde alla chitarra. La
nostra generazione ha perso, tesoro mio, che tu voglia ammetterlo o no.”
“Bene e se non vuoi non averne per le corde della
chitarra di Riccardo, fammi il piacere di vendere
quella benedetta casa.”
Quella volta la ascoltò.
La generazione dei sessantottini, ragazzi che avevano lottato per un mondo migliore, che avevano
ottenuto numerosi successi, come la fine
dell’autoritarismo ma anche, per fortuna, insuccessi
sul piano politico. Valeria controbatteva che le
nuove generazioni mancavano di voglia di lottare
per colpa di quelli come lui, che avevano ceduto alle comodità, che si erano arresi al consumismo.
Che avevano cambiato bandiera. Quelli che avevano tolto ai loro figli il sale della protesta, quel sapore che invece i loro padri gli avevano consegnato in
eredità, raccontando della Resistenza del popolo italiano, della Liberazione.
Quando, con ancora la pelle d’oca, dicevano delle
barricate costituite da mobili e materassi, dei secchi
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d’acqua bollente che tiravano addosso agli tedeschi
e tutto per che cosa? Per i loro ideali di libertà.
Certamente nessuno si augurava che i giovani
d’oggi rivivessero quelle impiccagioni, ma nemmeno che avessero una vita tanto piatta e senza alcuna responsabilità di essere nati. Come dato di fatto, i suicidi tra i giovani erano in continuo aumento,
in contrapposizione alla voglia di vivere di chi sa di
poter morire da un momento all’altro, di chi sa di
avere una missione da portare avanti e di non aver
tempo per perdersi in inutili pensieri di autolesionismo. Doveva pur esserci la via di mezzo.
I testi trattano la Resistenza come un pezzo di storia fine a se stesso, senza trasmettere entusiasmo,
riconoscenza e affetto per quegli eroi.
Ora i ragazzi hanno il tacito consenso al potere. Le
loro proteste, tranne rare eccezioni, sono fatte per
perdere giorni di scuola e cosa fanno? Restano a
casa a dormire. Noia imperat.
Cosa pensano i ragazzi mentre si fanno le canne o
stanno ore e ore davanti ai videogiochi o alla televisione? Forse a niente.
Quanta energia avremmo potuto dare a questa generazione se solo avessimo continuato a credere
nella giustizia, nella solidarietà. Quello che per i
vecchi è porto, per i giovani è naufragio. Plutarco.
Grazie a Dio c’è ancora lo sport che evita di arricchire la massa di gente abulica. È sempre più urgente il risveglio. Vivere la responsabilità di essere
al mondo. L’immaturo possesso del denaro e tutto
quello che ha occupato il posto di quello che eravamo. Abbiamo fatto un gran casino, noi
dell’armata Brancaleone. E questa nuova genera-
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zione ha sonno, ha sonno! Noi abbiamo sonno.
Quanto li amo, poveri ragazzi. Solo pochi ce la faranno, solo i più forti.
Fabio sospirò di pace, avrebbe voluto dirle che la
colpa non era dei sessantottini e tantomeno dei libri
di storia, ma delle mamme, ma preferì finirla lì, pochi minuti e iniziava una partita.
Questa generazione, la loro, aveva fatto abbastanza
morti tra i giovani e come madri avevano fallito.
Ringraziò Dio, giusto in tempo per poter vedere la
nazionale.
Che sua moglie andasse pure avanti a pensare a
bassa voce.
E così fu.
Dante: come le pecorelle escon dal chiuso… e ciò
che fa la prima le altre fanno… e l’perché non sanno. Ecco cosa c’è. È venuto a mancare il conatus
endogeno allo spirito umano di indagare, di scervellarsi su quello che è scappato dalla mano. La capacità di vagliare le diverse soluzioni al problema,
senza stare ad aspettare un deus ex machina che dia
la soluzione più facile, meno impegnativa.
C’è l’urgenza d’imparare a cercare un oltre. Ulisse:
fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza.
Siddharta il suchende, colui che cerca, che si libera
dalle catene che altri hanno creato, ribellandosi alla
società ma di più a se stesso, trovando solo così la
vera essenza della vita.
Ecco perché sto così male, non so rassegnarmi e
nello stesso tempo non so dove devo andare. Cosa
devo fare? Spero che questa mia vita non finisca in
un suicidio come per un sacco di scrittori. Il dottor
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Sacchi farebbe i soldi, che scoop. La gabbia della
vita: in giovinezza ci si sta lontano, poi, quasi con
rassegnazione, ci si entra con i nostri stessi piedi e
solo noi possiamo chiuderne la porta.
E la chiudiamo, mettiamo la chiave in tasca, dimenticando il luogo dove l’abbiamo riposta, magari diventando matti nel cercarla. Eppure, ci diciamo,
l’avevo messa in un posto preciso, per non perderla. Poi, solo qualcuno, un giorno, mettendo per caso
la mano in quella tasca la trova ed esce. Oh basta
pensare o impazzisco. Penso davvero troppo e
spesso inutilmente, se l’inutilmente esiste”.
Si sporse nel corridoio, vide il marito stravaccato
sul divano, i piedi sul tavolino, la sigaretta in una
mano e un bicchierino da liquore nell’altra “Fabio,
hai voglia di fare il caffè?” era fedele come un cane, testarda come un mulo e dispettosa come una
scimmia.
Valeria al contrario di Fabio, ripensava alla sua
gioventù con molta dolcezza, perché era nostalgica
di natura, Fabio ne era convinto.
Aveva idealizzato quelle giacche appese negli armadi per indossare gli eskimo color verde con tanto
di lunghe sciarpe, i fazzoletti rossi annodati al collo
che erano andati a sostituire le cravatte. I bei maglioni girocollo e le ragazze che avevano rinunciato
a trucco e tacchi. I libretti rossi di Mao infilati in
tasca. Le borse a tracolla che si riempivano con articoli di Sartre e Marcuse. E la guerra in Vietnam, i
problemi della classe operaia, e Bob Dylan, Joan
Baez, Phil Ochs. I dintorni della Statale con i primi
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graffiti. L’occupazione di Lettere e Legge. I ragazzi
del Berchet. Quel giovane alto, magro e barbuto,
che si chiamava Mario Capanna, leader del Movimento studentesco e parlamentare negli anni '80.
Tutto a fanculo?
Guardava i suoi figli ed era, in fondo, convinta di
avere fatto un buon lavoro.
Non erano amebe.
Quando c’era di meglio da fare non stavano davanti
alla televisione o alla Play Station.
Per loro quelle cose erano un passatempo, un relax
da usare.
Erano ragazzi che mettevano grande entusiasmo in
tutte le cose che facevano, anche perché facevano
solo quelle che volevano, o forse no, anche lei, come i suoi genitori prima di lei, aveva dei pregiudizi.
Ma solo forse.
Guardando i suoi ragazzi quando erano felici e in
procinto di realizzare un progetto, le veniva spontaneo accusare la vita di aver risucchiato nei suoi
coetanei l’entusiasmo della giovinezza, quando
l’interesse e l’impegno scatenavano la gioia della
passione, quando l’intelligenza e l’obiettività
rendevano aperte le porte agli insegnamenti del
mondo.
Pensò ad alta voce, mentre stava svuotando la lavatrice:
“E se vuoi proprio saperlo mi manca anche il bel
sedere che avevo allora.”
A lui non mancava nemmeno quello.
Oddio, Fabio l’aveva sentita, stava rispondendole
dalla sala ad alta voce per far che anche lei sentisse:
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“Vedi che vieni dalla mia, non ti mancano i soldi,
puoi porre rimedio. Trovati un bravo chirurgo.”
“Non ci mancano i soldi? E il mutuo miliardario
della casa in Toscana, dove, tra l’altro, non siamo
nemmeno più andati?”
“Vendila.”
Era pazzesco come risolveva tutto così.
Cominciò a controllare che alcune macchie che aveva notato sui panni fossero venute vie, guardò
fuori dalla finestra, pioveva ancora. Stese i panni
sui fili in bagno. Meglio tacere quando ci si parla
da pianeti diversi, Venere e Marte come bagno e
salotto: la voce arriva contraffatta e, come nel gioco del telefono senza fili, l’ultima parola è sempre
diversa da quella iniziale.
Discutere era l’unico modo che avevano per relazionarsi con trasporto e di tanto in tanto era meglio
accedere a quello, che cadere nella noia assoluta
pronta a prendere il sopravvento, trasformandosi
poi in vuoto interiore, in solitudine e paura.
Entrarono nella casa di riposo, ogni volta per Valeria era una bastonata al cuore, ma non c’era soluzione, suo padre aveva bisogno di assistenza clinica, di cure continue e attenzione medica. Avevano
provato a gestirlo a casa, ma delle badanti non potevano dire che male, forse erano stati solo sfortunati. Certo era che il papà, fino ad allora persona
sobria e seria, credeva di essere diventato John
Wayne.
Anche la demenza aveva fatto il suo ingresso con
tanta violenza sulla povera Valeria, che non riconosceva più suo padre ma in termini differenti da co-
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me lui non riconosceva più lei. Furono anni durissimi, i più difficili in assoluto, oltre la fatica fisica
c’era l’impoverimento psicologico, la solita frustrazione dell’impotenza.
Infermieri che si alternavano a ripulire e medicare
le piaghe, quando non lo faceva Fabio. Infine imparò anche Valeria a farlo, ma poi il padre si rifiutava
di collaborare, gridava, le inveiva contro con parolacce di ogni sorta, e Valeria cominciò a girare per
case di riposo, strutture per anziani, ma ne usciva
ogni volta più disperata, in colpa e in lacrime. Pensava a sua madre, a quanto sarebbe stata contrariata da una tale decisione. Ma non vedeva altra
soluzione.
Ogni giorno vedeva suo padre peggiorare e avere
sempre meno dignità. Era lei che lo imboccava, lo
accompagnava in bagno, lo lavava come riusciva e
come poteva. Era lei che si svegliava la notte perché lui aveva fatto un brutto sogno. Era lei che cercava di calmare i ragazzi quando non sopportavano
che il nonno la trattasse così male e le tirasse dietro
persino i piatti.
Ma era malato, non era in sé.
Fino a quando approdò in una struttura che le sembrò più famigliare e carina.
Ciononostante i primi mesi dovette fare ancora tantissimi conti con questa decisione, pur sapendo che
era la migliore per tutti.
Ci stette malissimo, Fabio non capì.
A lui pareva assurdo che rischiasse la depressione
per una cosa che era stata risolta nel miglior dei
modi.
Ma Fabio era un uomo.
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In verità lui aveva ragione, e piano piano, pur se
non completamente, Valeria accettò la cosa, e tutto
si mise abbastanza in linea. Abbastanza.
In effetti, papà era sempre ben pulito, mangiava
molto bene, dagli gnocchi ai ravioli, alle lasagne e
le sue patologie erano sempre sotto osservazione. Il
personale era preparato e gentile e la direttrice era
una donna straordinaria che amava quel lavoro
all’inverosimile.
Stava molto meglio che a casa, dove l’intera famiglia aveva dovuto farsi zerbino del personale che lo
accudiva, perché pareva che oltre il denaro, le persone che erano passate di lì volessero farli impazzire, fossero pagate per farli diventare matti. Valeria
imputava tali comportamenti alla sua troppa disponibilità che si era da subito rivelata una politica
sbagliata.
Del resto, quello che capitava al nonno non era una
disgrazia, ma il ciclo della vita.
“Ciao Papà, devo andare” gli disse dandogli un bacio e accarezzandole la testa calva.
“Quando vieni ancora?” le chiese lui “Perché io sto
bene solo quando sto con te.”
“Vengo sabato o domenica, lo sai. E anche io sto
bene solo quando sto con te.”
“Oggi che giorno è?”
“Domenica.”
“E devo aspettare tutto questo tempo prima di rivederti?”
“Passa in fretta papà.”
E pensare che le aveva dato lui quell’input culturale
che si era portata dietro e aveva sviluppato negli
anni, quell’eleganza di modi e comportamenti. La
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dignità. Era stato lui a fare tanto amare la storia
romana e greca a suo figlio Riccardo e lui a regalare la macchina ad Alessandra, ancora prima che avesse la patente. E ancora lui a fare conoscere
l’Opera a Fabio.
Un uomo preciso, tutto d’un pezzo, senza paura di
dire le cose. Ecco, questo lato l’aveva lasciato in
eredità ai gemelli, che poco se l’erano goduto. Mi
spezzo ma non mi piego, ecco chi era suo padre,
l’uomo più tenace che avesse conosciuto.
“Dai, vado, ciao papà.”
“Ciao amore mio.”
“Fai il bravo.”
“Ma quando vengo a casa?”
“Quando riuscirai a camminare con il bastone.”
Non era vero e lo sapevano entrambi, sarebbe rimasto così, steso sul letto, ormai per sempre.
Però erano tornati a volersi bene, si erano perdonati.
Il papà era sereno.
Quanto male si sente dentro certe volte, ma un male
silenzioso, un dolore cupo, di gola, che solo angoscia può diventare e null’altro. Poi, si pensa ai giovani costretti su carrozzine, a giovani malati e madri disperate e si relativizza, si va avanti a camminare respirando a pieni polmoni l’aria del mare.
Fabio aveva conservato, anche se quegli anni non li
ricordava come tempo di grazia, l’aspetto da eterno
studente: occhialini tondi, capelli un po’ lunghi e
pizzetto da intellettuale di sinistra.
Nessuno riesce a rinnegare completamente il proprio passato.
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Alle ultime elezioni aveva votato Berlusconi, senza
dare alcun peso alle parole d’accusa rivolte dalla
moglie al Premier.
Valeria di politica capiva poco e niente, non era
possibile contraddirla senza finire per litigare,
Valeria era solo un’idealista senza cognizione di
causa.
E così Fabio lasciava correre, allora Riccardo interveniva, era molto ferrato in storia e politica, anche
lui puro e sognatore come la mamma, ma con dati
di fatto storici e non, che mettevano a tacere Fabio,
che lo faceva però con tono di sufficienza, mentendo, per comodità, anche a se stesso.
Valeria non si era mai occupata veramente di politica, ma gli ultimi eventi, le ingiustizie che vedeva
aumentare ogni giorno, i falsi buonismi dei potenti,
la loro magnanimità verso un popolo che ci cascava, non la lasciavano indifferente.
Il suo senso di giustizia e onestà, veniva fuori come
acqua da una spugna troppo zuppa.
Non si era laureata, aveva dato solo qualche esame
a Giurisprudenza, per poi demordere sotto l’azione
vitale d’altri desideri da realizzare. Non era stata
una buona scelta, ora che si sentiva fremere dentro,
all’idea che gli avvocati più bravi erano quelli con
parcelle più alte e quelli con parcelle più alte erano
destinati solo a chi se li poteva permettere. E alla
radio avevano pure detto che un bravo avvocato è
vero che costa di più e per spedire una lettera vuole
mille euro, ma ti risolve il problema, mentre quello
che si accontenta di cento, non sa come muoversi e
nessuno lo ascolta.
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E hanno anche il coraggio di dirlo e se una persona
non ha quei mille euro? Incredibile pensare che chi
ha ragione debba difendersi da chi ha torto e spendere soldi e magari vedersi accollare tutte le spese
processuali, perché l’altro non paga. Ma lei cosa
poteva fare? C’erano i panni da stirare.
Fabio era diventato un affermato ginecologo, riceveva le pazienti nel suo studio in centro, con muri
di proprietà, color rosa, in style veneziano, aria
condizionata e mobilio in arte povera d’epoca. Appesi alle pareti quadri importanti. Di povero, per
gratificare il compagno squattrinato che tanto bene
impersonava ai tempi, aveva l’arredamento, style
povero e costosissimo: vecchi mobili pagati due
soldi o nemmeno ai contadini, che felici accettavano in cambio una cucina americana in formica.
Sul pavimento, nella stanza dove visitava, c’era un
gran tappeto orientale, di quelli i cui i fili vengono
annodati dalle manine dei bambini, perché le mani
degli adulti sono troppo grandi per certi lavori.
Gli occhi non potevano evitare di notare tanto buon
gusto, anche quelli di Valeria, che apprezzava e disprezzava allo stesso tempo, lei non avrebbe fatto
certi acquisti, ma ognuno era libero.
Nulla in contrario se a Pasqua il marito mangiava
agnellino, ma doveva comprarselo e cucinarselo. E
mentre Alessandra e i gemelli non rimanevano indifferenti alla mattanza che la mamma ogni anno
denunciava, Riccardo si faceva grandi scorpacciate
di agnello, piselli e uova insieme a suo padre.
Tre milioni e mezzo di agnellini da latte macellati
solo in Italia, per la Pasqua… ma loro due andava-
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no avanti a mangiare e guai a fare smorfie, ci sarebbe stato il rischio del litigio di Pasqua.
Valeria e Fabio erano in sala, seduti sul divano, abbracciati, i ragazzi andavano avanti e indietro togliendo loro la visuale del televisore.
Poi, finalmente, tre uscirono, rimase solo Alessandra.
Stavano guardando con interesse una videocassetta,
un documentario che raccontava la civiltà Maya.
Improvvisamente Fabio cominciò:
“A volte penso alle persone come ad un insieme di
tubi, vene, arterie, esofago.”
Valeria non si mosse, ascoltava con attenzione
chiedendosi dove stesse andando a parare suo marito. Ripensò alle ultime immagini viste, non
c’entravano nulla con i tubi.
“Un insieme di tubi” continuò Fabio dopo un secondo di riflessione “che in parte consapevolmente
riempiamo e svuotiamo. Pensa un po’. Basta che
uno solo di questi tubi, anche il più piccolo, smetta
di funzionare perché il robottino vada in tilt.”
Si sfiorò una narice e proseguì, camminando su e
giù, come se stesse dettando una lettera ad una dattilografa:
“Tubi e tubi. Che storia. L’esofago, le vene,
l’intestino e tutto il resto, compresi i genitali. Non
ci avevi mai pensato Valeria? Tubi, siamo un insieme di tubi.”
Valeria rise, la voce fuori campo stava ancora parlando dei rapporti sessuali dei Maya.
Aveva capito da dove era arrivato quel pensiero.
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“No, veramente no. Non so come mai, ma questa
osservazione mi era sfuggita” e rise nuovamente
prendendo in mano il telecomando.
Abbassò l’audio e continuò a guardare le immagini
distrattamente.
Fabio stava parlando di qualcosa che non fosse lavoro e famiglia, stava parlando con lei senza polemizzare, solo per il gusto di dire. Per puro piacere e
andava incoraggiato.
Le si sedette di nuovo accanto e Valeria appoggiò
la testa sulla sua spalla e si mise ancor più comoda.
Il documentario avrebbero continuato a vederlo in
un altro momento.
Pensò di spegnere, ma non lo fece, per timore
d’interrompere l’incantesimo.
Alzò lo sguardo per guardarlo meglio negli occhi
mentre stava analizzando l’argomento con gran serietà e tono competente, non lo vedeva così preso
da un pensiero da tanto tempo.
“E tu guarda cosa fanno gli esseri umani per riempire un tubo con un altro tubo.”
“Il sesso ah ah! Qui ti volevo” e rise di cuore nel
sentire suo marito, quasi fosse stato uno scienziato
alle prese con una nuova scoperta.
“Vale, dai. Non ridere che m’incazzo. Solo a te
posso fare certe confidenze e tu ti metti a ridere
come una scema.”
“Ma dai. Confidenze! Non mi sembra che sia una
cosa da prendere con tutta questa serietà. È divertente. Vera, ma divertente, ci si può anche ridere
sopra o no?!”, la spostò irritato e si alzò dal divano
per andare a prendere le sigarette.
“Ne vuoi una?” le domandò.
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“Non fumo più da anni” rispose lei senza inoltrarsi
nel disinteresse che Fabio le dimostrava in molti
casi, anche quando scriveva; la magia era bell’e che
finita.
Capitava, che Fabio le mostrasse attenzione, ma di
brevissima durata e solo se era lei a chiederglielo
espressamente, ma lo sentiva scalpitare con tanta
voglia di andarsene da un’altra parte.
Ci rimaneva male, ma del resto nemmeno lei restava con lui a guardare le partite.
Era solo che avevano interessi diversi, nulla degno
di nota.
La verità è che una donna si sposa convinta di avere trovato un uomo che si occuperà di lei e invece
accade l’opposto, sarà lei a doversene prendere cura. Che fregatura, ma la donna è nata per essere
madre.
Accese la sigaretta.
“Ok ne ho un’altra da dirti, una cosa che vorrei fare. Cambio storia. Ne ho un’altra pronta. Questa è
seria. Ascoltami bene. E senza ridere se no esco a
fare un giro” e le sorrise.
Valeria si schiarì la voce per assumere un tono più
serio e cercò un’espressione adatta, che non andasse ad indispettirlo nemmeno per sbaglio.
“Sono pronta. Dai parti.”
“Vale, secondo te quella che viviamo è l’epoca della perdita dei valori o sono cambiati?”
“Ho un’idea tutta mia, ma parla tu” sapeva che tanto la sua risposta non gli sarebbe interessata.
Fabio proseguì:
“Pensavo…” e aspirò il fumo guardando che la sigaretta fosse bene accesa “che m’interesserebbe
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proporre la lista dei valori di Milton. Si chiamava
Milton giusto?”
“Non lo so. Non ricordo questa cosa. Che cos’è? E
proporla a chi?”
“Ma come non lo sai. Vedi che riesci a smorzarmi
ogni iniziativa. Proporla a chi? Alle persone! Che
domanda, a chi dovrei proporla agli animali? Mi
piacerebbe verificare una cosa. Da ragazzi, quando
si faceva il test dei valori per gioco, non trovavo
mai chi li mettesse nell’ordine in cui li mettevo io.
Vorrei vedere se con la maturità ci si allinea.”
“Con l’età ci si pialla” puntualizzò amaramente lei.
“Anzi Vale, dovresti farmi un piacere. Prova a recuperarmela.”
“Ma cosa? Non so nemmeno di cosa si tratta “ rispose Valeria divertita.
“La lista dei valori. Ce l’avrai pure tra tutti i tuoi
libri, no.”
Valeria, nel sentirlo tanto concentrato non si era
trattenuta più ed era scoppiata a ridere:
“Ma tu sei due volte matto. Ma dove vuoi che vada
a prendere una lista dei valori.”
“Dai smettila, tu riesci a trovare sempre tutto. E poi
finiscila col prendermi in giro, non mi piace. Mi dai
sui nervi.”
“Meglio ridere che piangere” rispose, e giù a ridere
ancora di più.
Rideva perché era felice, perché in quel momento
stava bene.
Sentiva di amarlo e aveva voglia di ridere di niente.
Quel po’di leggerezza che bastava a vederla volare.
Ad un tratto, Fabio l’aveva guardata senza parlare
più ed era arrivata Alessandra:
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“Mamma finiscila. Ha ragione papà. Non è bello
come lo prendi in giro. Non sei l’intelligente di
questa famiglia e lui lo stupido”.
Lui, difeso da Alessandra, si era sentito forte:
“È un’ora che continua a prendermi in giro.”
“Giuro che non stavo prendendoti in giro, Si stava
scherzando insieme. Ma non ti stavo prendendo
in giro, stavo scherzando. Giuro. Mi stavo divertendo.”
“Solo tu, come sempre” concluse la figlia seccata.
Valeria ne uscì mortificata, incompresa, facendosi
anche un esame di coscienza non trovava alcuna
pecca nel suo comportamento, nessuna cattiveria.
Fu costretta a rientrare di corsa nella sua struttura
quotidiana, quella di una donna che cercava di rassegnarsi a vivere in pace.
Ecco un’altra delle loro separazioni, scherzavano in
modo diverso, si offendevano per cose diverse, lei
non aveva riso di lui, non l’aveva mai fatto e mai si
sarebbe permessa, rideva con lui. O almeno così
aveva creduto. Si fece seria e cercò di dare una
spiegazione, sforzandosi di tenere la coda tra le
gambe, dominandosi:
“Scusami Fabio, dai, ti ascolto. È che non sono più
abituata alle tue confessioni e poi sono così rari i
momenti in cui mi scoppia la gioia, che quando arrivano vorrei goderne a fondo ed esagero.”
“Esattamente, esageri. Esageri sempre!” gridò Alessandra da camera sua.
Avrebbe voluto andare da lei per darle della cretina
e dirle che non aveva capito niente di sua madre
nemmeno questa volta.
69
Preferì continuare, buttando nel cesto immaginario
di vimini, che sempre portava con sé, quel momento, quell’umore.
Non aveva voglia di arrabbiarsi.
Gli anni passavano e lei sentiva di non voler sprecare tempo, ciononostante la mortificazione c’era.
Stava solo ridendo felice.
“Tutto questo mi è piaciuto, credi, mi è piaciuto
molto. Mi sono divertita, credevo che ti stesse facendo piacere vedermi felice, una volta tanto. Sono
spesso lagnosa e vedermi ridere con le lacrime agli
occhi dovrebbe farti felice. Forse non ho calcolato
che tu non sei autoironico quanto me, scusa.”
Si alzò e gli andò vicino, gli passò la mano sulla
schiena, in segno di rassicurazione.
E ancora sorrise, ripensando, immaginando, ma
senza lacrime, un sorrisino, giusto per non darla
vinta al malumore.
“Fabio, vuoi che cerchiamo ora quella lista dei valori che dicevi?”
“No, lascia stare non m’interessa più.”
Forse era solo un’impressione sua sentire marito e
figlia dall’altra parte della barricata, contro.
“Fanculo”, pensò tra i denti, come faceva suo figlio
Riccardo, i loro “fanculo” tra i denti erano famosissimi per chiunque li conoscesse.
Pensò triste che sarebbe passata anche quella
mortificazione, qualche ora o anche meno e tutto
si sarebbe ricomposto nella normalità della sua
famiglia.
Andò in bagno e tornò poco dopo pettinata:
“Vado a trovare il nonno.”
“Aspetta mamma, vengo con te” disse Alessandra.
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Avrebbe preferito andarci sola, questa volta, avrebbe preferito piangere.
Si erano sposati per allegria e ora si chiedevano
senza dirselo, dove fosse mai finita.
Si tarpavano a vicenda, quasi fosse diventata la loro
compulsione.
Gli impegni di lavoro erano certamente stati una
concausa di questo allontanamento.
Non era esattamente un allontanamento, ma un andare a stuzzicarsi, cercare la reazione dell’altro
quale modo sopravissuto per continuare a relazionarsi, per non lasciare che la loro lunga storia morisse. Già, il boccheggiare di un amore che non voleva morire e allora eccolo aprire e chiudere la bocca, respirando affannosamente.
Su una cosa i trovavano ancora d’accordo: erano
veramente pochi i matrimoni finiti per delle ragioni
accettabili.
Fabio era spesso fuori casa e Valeria sempre più
frequentemente si sentiva stanca e avvilita, ma lui
non riusciva a prenderla seriamente e tantomeno a
capirla, erano una gran bella famiglia, cosa poteva
mancarle.
Lui in sala a vedere lo sport e lei a letto a guardare
un film. Ormai erano abituati così.
Però non si tradivano.
Valeria andava a dormire all’ora delle galline.
Era rimasta alla nanna dopo Carosello.
Poi i bambini erano cresciuti e lei si era sentita
sola.
Pensava troppo, e la storia si concludeva così, male
che fosse andata c’erano sempre Prozac e psicologi.
71
Quante le volte che lui la invitava a riprendere quel
farmaco miracoloso.
Dieci giorni e la pillola della felicità faceva effetto.
Non si era mai, ma proprio mai, messo in discussione.
Al limite, quando la depressione bussava alla porta
le stava più vicino.
Allora le cose andavano meglio.
A detta di tutti era un santo, solo la sorella di Fabio
non lo vedeva come il santo della situazione, lo conosceva molto bene: era sotto certi aspetti una persona meravigliosa, ma il suo maggior difetto andava a rovinare tutto quello che lo circondava, Valeria compresa. Fabio viveva con troppa leggerezza
situazioni che potevano portare a grandi disastri.
Era nato per fare il gran signore su una spiaggia di
Bahia.
Quando nel matrimonio non ci si riconosce più,
spaventa trovarsi davanti all’altro, domandarsi se
chi hai di fronte è cambiato negli anni o se è sempre stato così e non lo sapevi.
Mettere in dubbio la sincerità, sentirsi ingannati.
Il problema è definire dove cominci tu e dove
l’altro.
La linea di confine, illusoria o tangibile.
Il sé, come qualcosa che non è mai esistito.
Una piccola scintilla nell’universo, che si sente
l’universo intero e vorrebbe che tutto le girasse intorno, a suo piacimento.
Tunström.
La poesia era il suo lavoro, ed era inevitabile che le
condizionasse la vita.
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Il tuo amore e il mio non sembrano simili
Da direzioni diverse, alla stessa spiaggia,
giungiamo a nuoto.
A volte ciò che tu vedi non è ciò che io vedo
e ciò che prendo non è ciò che tu dai
quando sali a riva
Ma succede.
A volte il tuo amore e il mio
possono incontrarsi, come adesso.
Io so da dove vieni e so che sei qui.
Sappiamo che questo funziona..
Ecco quale poteva essere il segreto, rispettarsi nelle
diversità, nelle differenti attese e visioni della vita,
che non sarebbe stato un sopportarsi oltre il limite,
ma accettarsi, senza cercare nell’altro il proprio
specchio per poterlo amare e amare se stessi tramite
lui.
La purezza dell’amore.
Valeria non si sentiva più tanto forte e pura, la vita
era riuscita con i suoi continui attacchi a inquinarla.
Il matrimonio, un viaggio insieme, con tutte le difficoltà e le gioie che poteva portare con sé. Era stupido ed edonistico aspettarsi da Fabio quello che
Fabio mai avrebbe potuto dare. L’importante era
non fare calare la stima, via quella, niente sarebbe
più valso la pena.
In realtà tra loro c’era un amore profondo, la miscela ben dosata d’amicizia, rispetto e passione.
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In verità passione non molta, in genere è il primo
pilastro a formarsi e il primo a traballare, resta la
mutualità del bisogno.
Negli ultimi tempi, non c’era più nemmeno quella.
La mutualità.
Le lenzuola bianche di bucato, conservavano il loro
profumo per più tempo.
Non andava più bene niente.
“Tutto a schifio” avrebbe detto il loro fruttivendolo.
“Quando i frutti e le verdure diventano da buttare…
hai voglia fare minestroni e macedonie… togli di
qui, metti di là…” e avrebbe colorato il parlare con
i suoi gesti caratteristici e l’espressione semplice
che riusciva a catturare e divertire.
Che l’amore avesse la faccia del loro fruttivendolo?
Forse sì.
Valeria rise, immaginando quanto gli uomini si fossero potuti sbagliare nel dare un volto all’amore.
Bello, erotico, passionale. I greci per primi, e invece l’amore aveva la faccia del loro fruttivendolo.
A proposito, la frutta era finita.
Infilò le scarpe da ginnastica per scendere a comprarla.
Intravide il fruttivendolo da lontano che sistemava
la frutta sul banco, le venne da ridere. E se lui era
Amore o Cupido, che si volesse dire, chi era dunque Psiche? La salumiera, bella grassotta e con le
guance sempre colorite.
Ah, giusto, avrebbe comprato anche del prosciutto
cotto.
Entrò prima in salumeria, il profumo di prosciutto
la inebriò.
Aveva fame.
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Poche cose avevano un profumo invitante come il
prosciutto cotto.
L’infanzia di Fabio era stata serena, tre fratelli, lui
coccolato da una madre straordinaria; sono le donne a formare gli uomini, li educano in modo che
poi mirino ad avere il sopravvento sulle donne stesse. Certamente, queste madri lo fanno in modo del
tutto inconsapevole, meccanico, istintivo, frutto di
secoli e secoli di cultura, non conoscono altri sistemi. Ma lo fanno.
Fabio era senza dubbio uno degli uomini migliori
che Valeria avesse incontrato, ciononostante era
pur sempre un uomo e per giunta latino. Non era un
pensiero dettato da un momento di rabbia, nemmeno ironico o sarcastico, ma lucido e con cognizione
di causa.
Quando si trattava della propria famiglia, Fabio era
sempre stato molto tollerante, ma negli ultimi anni
era cambiato. I quattro ragazzi avevano l’equilibrio
del padre ma la bella sregolatezza istrionica della
mamma, senza però arrivare agli eccessi di Valeria.
Quando Fabio era in casa vigevano delle regole,
non sopportava le cene da vagabondi, la maleducazione alimentare, la mancanza di rispetto, le parolacce e non per ultimo la carenza nei doveri coniugali.
Ebbe due amori prima di Valeria, uno che gli scivolò addosso, l’altro con una compagna d’università
di cui si era innamorato con molta passione, ma che
lasciò a causa di un tradimento con un comune amico, un tale che ci provò anche con Valeria, ma
che cascò male. Valeria era diventata, fin da bam-
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bina, molto competente nel capire le intenzione del
genere umano. Quella volta non ebbe nessun dubbio sul come comportarsi. Quando annusava
nell’aria attacchi a suo marito, diventava glaciale,
tanto da congelare un orso polare o un pinguino. Le
foche erano esenti da ogni congelamento, già soffrivano di loro con i massacri ai loro piccoli.
Fabio era prodigo, usava il denaro con molta leggerezza, tanto ne guadagnava e tanto ne spendeva, lo
elargiva con gran facilità anche ai figli e questo lato
del suo carattere andava spesso a scontrarsi con Valeria, che infine, per non litigare stava zitta.
Aveva grandi passioni, il golf, Lincoln e la musica
classica.
“Abramo Lincoln, che uomo! Con il proclama
dell’ottocentosessantatre abolì la schiavitù.”
Da buon padre amava ricordare i punti salienti della
vita di un uomo che non si era arreso mai definitivamente:
“Prendete esempio, pensate che a trentun anni fallì
nel mondo degli affari, per due volte perse le elezioni, gli morì la donna che amava e a trentasei ebbe il famoso crollo psicologico, ma poi a cinquantuno divenne presidente degli States. Presidente capite? E scusate se è poco” e ogni volta, con il tono
di chi lo pensa per la prima volta, proponeva di appendere in casa un’immagine ma tutti fingevano di
non sentire.
“Che palle… comincia.” dicevano a bassa voce a
turno i figli, cercando di fuggire pian pianino, perché quando papà cominciava, era capace di non
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smettere più e diceva sempre le stesse identiche
cose.
“Aspettate, deve ancora finire.”
“Grazie Alessandra” e riprendeva fiero e con tono
solenne da storico: “Edison. Che uomo anche lui.
Che grande insegnamento di vita ci ha lasciato. Edison, pensate a Edison… durante l’invenzione della lampadina, sapete cosa diceva?”
“Ecco un altro modo in cui non si fa” toccava a
Francesco questa battuta. “Bravo, vedo che quando
parlo mi ascolti. Mai sentirsi dei falliti.”
Per poi non dire di quando si metteva in poltrona
nel suo studio e sembrava il nonno: era dal padre di
Valeria che aveva imparato ad amare la lirica, insieme avevano ascoltato le opere più belle.
Così, la testa appoggiata all’alto schienale, in stato
d’oblio, ad ascoltare i Notturni di Chopin, oppure le
Quattro stagioni del Prete Rosso, come amava
chiamare confidenzialmente Vivaldi.
Tutti dovevano stare in silenzio, possibilmente anche fermi e se passavano dalla porta dello studio il
passo doveva essere felpato.
“Ma secondo te il papà si fa le canne?” si domandavano i due ragazzi più grandi ridendo.
La casa si animava, improvvisamente, di pantere
rosa che parlavano bisbigliando, fino a quando non
potendone più iniziavano:
“Mamma hai visto le mie scarpe?”
“Sono nella scarpiera.”
“Mamma hai comprato lo yogurt?”
“Certo.”
“Dove lo trovo?”
“In frigorifero.”
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Allora Fabio si alzava, a volte sorridendo e altre
seccato, sostituiva il suo cd con uno di Sting e tutto
rientrava nella normalità di casa Alessi.
A modo suo, Fabio sapeva essere simpatico.
Aveva gli occhi vivaci, nerissimi e luminosi, sembravano presi in prestito da un ismaelita. Probabilmente, la sua leggerezza nell’affrontare alcuni lati
della vita, era dovuta al credersi infallibile, a volte lo era veramente, riusciva nelle missioni impossibili.
Da bambino, un giorno, raccolse un passero caduto
dal nido, le previsioni degli adulti sulle sorti del volatile erano funeste.
Dopo qualche giorno il passerotto riuscì a volare
via dal palmo della sua mano e lui sembrò a tutti i
presenti Gesù quando soffiò sull’uccellino
d’argilla, nonostante il sabato ebraico.
“Gesù era un ribelle meraviglioso” gli disse un
giorno sua figlia. “E anche tu papà.”
Valeria, che era presente, pensò tra sé che aveva
dato modo alla sua Alessandra di idealizzare troppo
il padre.
Fabio aveva delle gravi lacune nel progettare la vita, mancava totalmente di previdenza, tutti in famiglia erano un po’ troppo fatalisti, Valeria se ne rendeva conto e si sforzava di non sottomettersi al corso degli eventi senza cercare di modificarli; era certamente vero che la vita fosse Entità Intelligente
ma, aiutati che Dio ti aiuta: e Valeria aveva la necessità di tenere tutto sotto controllo, forse per togliere fatica a Dio.
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Comunque, questo papà per Alessandra, era la persona più meritevole della terra, l’unica che poteva
avere la sua completa stima e fiducia, l’aveva scritto nei suoi temi, ogni volta che si era presentata
l’occasione, fin da bambina.
E pensare che Fabio, a differenza di Valeria, su
certe cose era molto intransigente, aveva dato
l’assoluto divieto per piercing e tatuaggi, per esempio.
Una volta Alessandra arrivò a casa con un tatuaggio e un’altra con il piercing, la mamma diventava
importante solo in quei momenti, almeno così dava
l’impressione che fosse.
Il papà faceva scenate e musi lunghi e Valeria in
disparte lo minacciava, con il suo modo di dare
contro, poche parole che andavano a segno, senza
diritto di replica.
Era sempre stata dalla parte dei ragazzi, li sosteneva, si fidava di loro, anche dei loro errori, certamente esagerando, senza però perderli mai di vista.
Era una madre vigile, presente, spesso invadente
senza accorgersene e solo per vederli felici e partecipare al massimo alle loro vite.
Alessandra era una figlia di cui andare orgogliosa,
ma sapeva diventare acida e sgradevole anche alla
persona che l’amava di più al mondo, Valeria.
“Mamma, taci, perché come parli mi dai sui nervi.
È più forte di me. Qualunque cosa tu dica, già mi
fai incazzare. E quel che è peggio è che riesci ad
innervosirmi persino tacendo…”
Mah.
Grazie al cielo, anche Fabio aveva qualche contrasto da genitore, ma solo con Riccardo, che amava
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la madre in modo totale e in modo totale la capiva e
sosteneva.
Quando il figlio manifestò apertamente che il gioco
del golf l’aveva stancato e che non sarebbe più andato al club, apriti cielo, quella sera solo i gemelli
finirono di cenare.
Con gli altri due figli, Giovanni e Francesco, forse
perché ancora erano piccoli, andavano tutti abbastanza d'accordo, a parte le lagne di Giovanni eternamente insoddisfatto e il carattere capriccioso e
volubile di Francesco che quando s’impuntava su
qualche cosa, riusciva a tirare lisa l’intera famiglia,
fino a quando la mamma, il papà o uno dei fratelli,
a turno, pur di ripristinare la pace tra le mura,
l’accontentava, per poi incolpare gli altri membri di
viziarlo troppo.
Ma ora anche i gemelli stavano crescendo e queste
scenate erano sempre meno frequenti, due caratteri
completamente diversi, Giovanni riservato e un po’
musone, Francesco chiacchierone fino allo sfinimento. “Sembrano ministro degli interni e quello
degli esteri” amava scherzare Fabio.
“Mi piacciono tanto così, sono bellissimi” diceva
Valeria con un sorriso dolce di mamma.
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Amico mio non temere: Non c’è trappola che valga per chi è munito d’ali.
(Libro dei proverbi)
Nel mese di marzo Fabio avrebbe voluto partecipare ad un congresso sulle patologie ostetriche, si teneva a Vienna. Pensò di proporre alla famiglia un
breve soggiorno di due giorni nella città austriaca.
Valeria era andata da ragazza con amici, ma ci sarebbe tornata volentieri.
I ragazzi accettarono la proposta con entusiasmo.
“Ok, allora si parte, ma vi avviso subito” disse Valeria: “io visiterò l’Osterreichishe Gallerie, voglio
assolutamente vedermi i quadri di Klimt!”
Arrivarono a Vienna nel primissimo pomeriggio, il
tempo non prometteva granché, presero alloggio
in albergo nel sobborgo di Brigittenan, lungo il
Danubio.
Dopo essersi rinfrescati e cambiati d’abito i ragazzi
si diressero al Prater in taxi, Fabio andò a vedere
dove si trovava la sede del convegno e Valeria, con
tanto di manuale tra le mani, raggiunse la galleria
dov’erano esposti i dipinti del suo pittore preferito,
Gustav Klimt. Prima di entrare andò in una caffetteria a bere un the e a gustare una fetta di Sachertorte. Valeria amava fare le cose da sola. Guardò
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l’orologio, era in orario tenendo fede alle indicazioni riportare sulle pagine della brochure.
Vide, seduto al tavolino a fianco, un giovane confrontare l’ora con quella scritta sul catalogo, pensò
che anch’egli dovesse essere diretto alla stessa sua
meta.
Uscirono dal locale quasi contemporaneamente e
attraversarono la strada gomito a gomito, la circostanza imbarazzò un tantino Valeria, ma non si dette retta. Cose che capitano.
Una volta alla biglietteria lei pagò il biglietto per
prima e nel girarsi urtò involontariamente il giovane uomo incontrandone lo sguardo:
“Scusi”
dissero
insieme
e
sorrisero
dell’inconveniente e del fatto di essere entrambi
italiani. Che caso.
Valeria vide il sorriso più cordiale che le fosse mai
capitato di incontrare in uno sconosciuto.
“È sola!” disse l’uomo.
“Sì, la compagnia mi toglie concentrazione” rispose pronta e pensò che fosse uno dei soliti bellocci
della serie l’uomo che non deve chiedere mai.
Iniziò il percorso consigliato.
Davanti a lei gli schizzi, gli studi usciti dalle mani
dell’artista, pittura e grafica, opere diverse l’una
dall’altra che parevano bloccare l’attimo da consegnare ai posteri. Trasparivano gli insegnamenti di
Makart.
Proseguì felice.
Non c’era più Valeria Luzzati ma una donna Klimt,
la mente in estasi, volava sempre più in alto, si posava su un quadro e riprendeva il volo.
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Il fiore all’occhiello degli austriaci, pietre miliari
dell’arte della fine del secolo.
Tutto questo era lì davvero, a pochi metri da lei, avrebbe potuto toccare ma ebbe un’idea meno pericolosa. S’assicurò che nessuno la vedesse e improvvisò dei passi di danza seguiti da due giravolte
a braccia aperte. Era felice, stentava a crederci, davanti a lei Adele Bloch Bauer, il contrasto di colori
caldi e freddi, il largo cappello nero. La bocca semiaperta e i folti sopraccigli e s’impegnò seriamente a rifarne l’espressione, il verso.
I ritratti delle donne, la figura umana, l’uomo accogliente, i paesaggi, tutti soggetti usati da Klimt.
Arrivò l’inquietante Judith, vista dal vero sembrava
quasi un fotomontaggio, l’oblio scelto, voluto per
sedurre, il viso accuratamente troppo squadrato,
l’oro sullo sfondo e sul collo ricordavano le origini
dell’artista, famiglia d’artisti orafi.
Judith, la bellissima e pia vedova ebraica, che per
salvare il suo popolo ammaliò Oloferne per poi decapitarlo.
Per Valeria era come bere dopo tanta arsura, pensò
di fare un altro volteggio, ma questa volta si trattenne per dignità.
Il bacio, il quadro più famoso, quanta delicatezza
nelle mani dell’uomo che tengono il viso abbandonato di lei; stava per dire a voce alta una cosa, ma
sentì le sue parole uscire da un’altra bocca:
“Dal vivo è tutt’altra cosa!”.
Sentì una mano sulla spalla, subito si irrigidì, era
l’uomo della caffetteria.
Era arrivato a rovinarle tutto.
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“Mi perdoni signora, ma se lei ha bisogno di contemplare in solitudine, io l’ho di condividere quello
che vedo. Quindi come vede, a Dio piacendo, siamo pari.”
Valeria era pronta a farsi pirata, bandana alla Jack
Sparrow e pugnale tra i denti, ma la sensazione
non era di trovarsi davanti a un cretino.
Continuarono insieme, il particolare che sfuggiva a
uno veniva ripreso dall’altro.
Il giovane era alle spalle di Valeria, stavano guardando il ritratto di Fritza, quando lui le strinse il
braccio: “Bellissima!”.
Valeria levò il braccio di scatto, pronta questa volta
ad avere una reazione legittima: ma come si permetteva, ma per chi l’aveva presa? Si girò verso il
tipo:
“Il solito uomo” disse seccata.
Il giovane, senza distogliere neppure per un attimo
lo sguardo dal quadro, commentò l’uscita fuori
luogo di Valeria:
“Mi meraviglio di lei. È vero che ha tratti maschili, ma è il ritratto di Fritza Riedler. Come può
non conoscerla? Guardi, guardi quanta femminilità nell’abito, nelle braccia, e che magnifiche
mani ha.”
Valeria si sentì sciocca ma di più si sentì offesa per
non essere stata lei la destinataria del complimento.
L’Osterreichshe Gallerie annunciò la chiusura.
Appena fuori dal museo:
“Ha mai visto la Salomè?” chiese l’uomo.
“No” rispose lei.
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“Allora andiamo a vederla insieme al Museo d’Arte
moderna di Venezia”.
Valeria era costernata dai modi così diretti di questa persona, non sapeva quale atteggiamento tenere,
come comportarsi.
Quest’uomo, di cui non conosceva altro che
l’aspetto e l’amore per l’arte, dava tutto per scontato, si sentì indignata.
“Questa settimana non ho tempo, ma la prossima,
quando rientro a Milano faremo in modo di andare.
Allora per venerdì prossimo non prenda impegni
che andiamo a Venezia.”
Valeria non aveva parole, si sentiva una delle donne immortalate in quei dipinti. Ma questo come faceva ad essere così. Non si domandava nemmeno
per un attimo se lei fosse una madre di famiglia? O
dava per scontato che fosse una single.
“Allora. Cosa c’è che non va” la riprese come per
svegliarla un po’ fuori.
“Ah, no mi scusi. Sì. Va bene!” rispose, incredula
nell’ascoltarsi.
“Bene, allora alle sette di venerdì prossimo alla rotonda della Besana”, salutò con un gesto della mano e andò via.
Rientrò per prima in albergo, si guardò allo specchio, fece qualche smorfia, cercò un soliloquio ma
non riuscì neppure a pensare.
Il giorno dopo andò con i ragazzi a fare il giro turistico della città, un tour organizzato in pullman, la
cattedrale di Santo Stefano, il parco del Prater, il
Danubio, il porto fluviale, San Michele, la scuola di
equitazione spagnola e il teatro dell’Opera.
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La sera Fabio li raggiunse in una vecchia osteria
del popoloso sobborgo Leopoldstadt.
“Papà, restiamo ancora qualche giorno?” chiese
Giovanni.
“No tesoro mio, ho un cesareo programmato.”.
“Siamo stati bene, è stato bello, accontentiamoci”
disse la mamma.
“Chi s’accontenta gode così così!” canticchiò Riccardo sulle note di Ligabue.
Era un bellissimo ragazzo, lo chiamavano il Nazareno, per la forte somiglianza col Cristo, amava il
reggae, Bob Marley e la musica nera.
Valeria cercava di fare chiarezza dentro di sé, ripensava a quell’incontro, non riusciva a credere che
non fosse frutto della sua fervente immaginazione.
E ancor meno poteva credere che l’avrebbe rivisto
a Milano. Roba da pazzi. Roba da pazza.
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Perché piangono e perché gridano di gioia? Essi
credono di essere e non sono. Perché non posso
affezionarmi a quello che nasce e a quello che
muore? Perché non posso amare altro che
l’invisibile, che nasce e non muore mai, ma che è
sempre?
(Platone)
Il giovedì sera la famiglia era riunita per la cena.
“Domani vado a Venezia a vedere la Salomè di
Klimt. Vado sola” disse senza levare gli occhi dal
pane che stava tagliando. “ Il treno è alle sei”.
Valeria non sapeva mentire, non l’aveva mai fatto e
non trovava il motivo per cui ora lo stesse facendo;
sperò che i gesti non la tradissero, in fondo nessuno
avrebbe mosso obiezione anche se avesse detto la
verità.
“Come mai?” chiese Alessandra mentre imburrava
una fetta di pane.
“Perché ho voglia di vedere un po’ di quadri belli
ed è una vita che mi preme vedere la Salomè.”
Alessandra la guardò stranita:
“Non lo sapevo.”
“Cosa non sapevi?”
“Che ti premesse vedere la Salomè.”
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Subito Valeria ebbe paura di scomporsi, effettivamente non aveva mai pensato di andare a vederla,
e temette di venire scoperta.
Cercò faticosamente di cambiare argomento, senza
riuscire perché i figli ritornavano su questa novità
della mamma indipendente, mostrando con mimica
esagerata degli occhi non poca perplessità.
“Mamma, ma perché ci vai sola?” chiese Francesco.
“Se vuoi veniamo con te” aggiunse Riccardo.
“Bambini, caspita, siete grandi, se il Signore avesse
voluto che non ci lasciassimo mai, ci avrebbe fatto
attaccati.”
I gemelli proseguirono a fare colazione silenziosi,
facendo bocche e smorfie di stupore.
La mamma andava sola a Venezia.
Boh.
“Mamma vuoi che venga io?” chiese Alessandra.
“Beh ma ragazzi, non è che sono un’invalida bisognosa di assistenza.”
“Lo sappiamo, ma hai sempre portato almeno uno
di noi con te, persino quando ti muovevi per lavoro
e giravi editori per contratti. Persino con passeggini
e carrozzina, permetterai che questo cambiamento
imponga una pur minima reazione da parte nostra.”.
Caspita e adesso? Come avrebbe fatto ad avvisare
quello là, dirgli che la famiglia non voleva che
andasse e che lei non intendeva litigare per questa cosa?
Ma, quando stava perdendo le speranze e stava dicendosi che il tipo avrebbe aspettato invano, che
magari
nemmeno
avrebbe
presenziato
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all’appuntamento, che nemmeno sapeva chi fosse,
insomma, proprio mentre era decisa a rinunciare
con un bel:
“Chi se ne frega e un non importa”, Fabio s’offrì
dapprima di accompagnarla, poi disse di andare
tranquilla che ai ragazzi ci avrebbe pensato lui.
Riccardo tenne il viso abbassato sul tavolo ma
guardò la mamma tra le sopracciglia, come per
scrutarla e Valeria ebbe timore che quel suo figlio
capisse.
Ma cosa c’era da capire?
Niente.
Anzi ora avrebbe detto la verità e basta, che non sarebbe andata sola ma con una persona che aveva
conosciuto a Vienna e che amava Klimt come lei.
E se poi avessero chiesto chi fosse?
Come avrebbe fatto a dire “un uomo”.
Meglio stare zitta e far finta di niente.
La notte non riuscì a chiudere occhio e appena vide
dallo spiraglio della persiana che stava facendo
giorno si alzò, non voleva che la vedessero, si sentiva una ladra, ma di che cosa poi?
Alle sei era già sull’auto diretta al luogo
dell’appuntamento, si guardò nello specchietto per
darsi gli ultimi ritocchi ai capelli, arrivò con molto
anticipo e allora tirò fuori il rossetto e se lo rimise.
Parcheggiò e sentì un clacson suonare, il suo amico
era già lì ad aspettarla. O Maria!
Mise il mazzo di chiavi nella taschina interna della
borsetta, chiuse la cerniera per non perderlo e cercando di mantenere la calma andò verso l’auto grigia. Salì a bordo, si sedette sul sedile anteriore a
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fianco del guidatore, non fece in tempo a salutare
né ad essere salutata. L’auto partì. Imboccarono la
tangenziale per Venezia, nessuno rompeva il silenzio, non ce n’era bisogno. Valeria si chiedeva nel
contempo, se fosse diventata matta di suo o se
qualcuno l’avesse inserita nell’esperimento di qualche scienziato pazzo che l’avesse trasportata a sua
insaputa nell’irrealtà. The Truman show.
Si convinse che era lì, che era lei e che aveva scelto
di fare una gita con una persona gradevole che
condivideva con lei la passione per un artista, punto
e basta. Si toccò giocherellando gli orecchini di
perla che aveva indosso, i più belli e preziosi che
avesse. Ma cosa andava cercando? Se era tutto
così normale, perché era arrivata a mentire alla
sua famiglia? “Beh, solo in parte!”pensava giustificandosi.
Ora, nel silenzio, la mente dirottava su un unico
pensiero: e se fossero stati coinvolti in un brutto incidente?
Non era pentita di trovarsi lì, forse, solo, non sapeva sentirsi felice.
Non riusciva ad entrare appieno nel benessere, andava sempre ad attingere a quella tazza d’acqua
stantia, acqua vecchia e ormai sporca, anziché gustare l’altra pulita e profumata d’aromi. Eppure le
aveva entrambe dentro di sé.
Salomè, in tutta la sua bellezza, sembrava stesse
aspettando loro per consegnare finalmente la testa
del Battista dopo tanti anni ai depositari della nuova epoca.
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Quella testa che sembrava scivolare, veniva ripresa
dall’avida mano per i capelli.
Quando uscirono dal museo la giornata si era fatta
uggiosa, sembrava minacciare il temporale.
“Cosa facciamo?” disse lui.
“Andiamo a mangiare “ si rispose.
Avevano veramente poco da dirsi, eppure Valeria
mai in vita sua era stata a corto di argomenti; il viaggio da Milano a Venezia non era stato interrotto
nemmeno dal suono dell’autoradio. All’interno del
museo discussero l’opera e una volta fuori, la decisione di cercare un ristorante col tacito consenso di
Valeria, che davanti a quell’uomo stentava a riconoscersi.
Nessuno dei due sembrava dispiacersi delle non parole, stava tutto al suo posto, così.
Cominciò a piovere, lui si coprì la testa con la giacca e cercò di avvolgere Valeria affinché non si bagnasse.
Si fermò davanti a un ristorante, non gli piaceva,
proseguì nella ricerca, con lei sempre sotto la
giacca.
La pioggia scendeva leggera, rumoreggiando ritmicamente sull’asfalto, come in una danza in punta di
piedi delle spinacine della Scala.
Arrivarono in Riva degli Schiavoni, passarono davanti al mitico Hotel Danieli e, per un attimo, Valeria sperò che la invitasse ad entrare. Imboccarono
una laterale del Ponte della Pietà ed entrarono al
Covo. Chiese un tavolo per due. Valeria ordinò castraure di Sant’Erasmo in tecia, assicurandosi che
fossero gli apicali della pianta e non carciofini di
piccole dimensioni. Lui ne rimase colpito.
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Arrivò il cameriere con il Verdicchio, l’acqua naturale e subito dopo la portata per Valeria e il risotto
di secoe dei gondolieri, per lui, quel piatto in cui i
pezzetti di carne restano attaccati alle ossa.
“Signora” disse “io mi chiamo Roberto.”
“Valeria Luzzati, piacere.”
“La scrittrice?”
“Ex. E tu che fai nella vita?”
“Dipingo.”
“Sei un pittore. Che bello.”
Il locale era piccolo, raccolto, ben curato, opere originali di Boetti, Schifano e Ceccobelli appese alle
pareti.
Solo di tanto in tanto, Valeria, durante quel pranzo,
dovette appoggiare i piedi per terra per non lasciarsi travolgere dai sogni.
Seguì il silenzio, ancora quel silenzio voluto che
nulla cela se non benessere e pace, come se ogni
parola diventasse troppo.
“Che ora abbiamo fatto?” si chiese il giovane guardando l’orologio.
“Le tre “ si rispose.
Bevvero il caffè, pagarono, su richiesta di Valeria
ognuno la sua parte e uscirono. Il cassiere consegnò
in mano a Roberto un biglietto da visita: il ristorante disponeva nelle immediate vicinanze di un
piccolo appartamento uso foresteria, arredato con
mobili d’epoca.
Lo infilò nella tasca della giacca.
Avrebbe potuto tornargli utile.
Aveva smesso di piovere.
Si avviarono al vaporetto per raggiungere il parcheggio.
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Era già buio quando Valeria rientrò a casa.
La famiglia aveva cenato e lo capì dalla tavola apparecchiata di piatti sporchi.
Andò in sala, i ragazzi erano intenti a guardare per
l’ennesima volta Matrix, il marito stava guardando
una partita nell’altra sala o più probabilmente dormiva.
Prima ancora che potesse salutare, Alessandra
l’azzittì prima con un cenno della mano come per
levare una mosca di torno e poi:
“Mamma, silenzio… è la parte più bella, Morfeus
sta perdendo identità.”
Riccardo guardò veloce se la mamma se ne fosse
risentita, ma di più se non avesse l’espressione di
chi torna da un’avventura amorosa. La trovò bella e
pulita come sempre. Sua madre non era tipo da fare
queste cose. “Ciao mamma” le disse.
“Ciao Riccardo.”
Certo che ci era rimasta male per il comportamento
di Alessandra, non riusciva ad abituarsi ad essere
trattata in quel modo. Ma taceva per non dover discutere ogni volta.
Avrebbe potuto mettere in pausa il videoregistratore e chiederle come fosse andata la gita, se la Salomè era valsa la pena, come si fosse trovata da sola,
dove avesse pranzato, cosa avesse fatto, detto, pensato, interessarsi a lei, ma niente di niente.
A loro se lei si fosse divertita o meno non importava, a loro importava solo quello che poteva dare.
“Ti sei divertita mamma?” si sentì chiedere in quel
momento dalla ragazza.
“Sì” rispose, ma preferì chiudere veloce perché si
sentiva la coscienza sporca: “va bene tesori belli,
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allora vado a letto. Buona notte, ma non fate tardi
che domani mattina si va a scuola.”
Avrebbe voluto chiedere come era andata la giornata, ma fa niente.
Andò in bagno dopo avere controllato che suo
marito dormisse, aprì il rubinetto della vasca, la
riempì di acqua e sciolse dentro essenze di pino e
di agrumi.
Un bel bagno rilassante era quello che ci voleva, la
ciliegina sulla torta di una giornata fantastica.
Andò a letto, abbracciò la schiena del marito e si
addormentò contenta.
Non le mancava proprio niente.
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Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive, sono scoccati lontano. L’arciere vede il bersaglio sul sentiero infinito, e con la forza vi tende,
affinché le sue frecce vadano rapide e lontane. In
gioia siate tesi nelle mani dell’Arciere, poiché come ama il volo della freccia, così l’immobilità
dell’arco.
(Khalil Gibran)
La mattina seguente la sveglia suonò alle sette, Fabio si alzò per primo, si preparò per uscire e accese
la macchina del caffè.
Valeria, intanto, rigirandosi nel letto pensava.
Fabio era una brava persona, a volte non lo sopportava, ma è normale tra coniugi, o più esattamente è
normale in una famiglia. Una famiglia senza conflitti non è una vera famiglia.
Qualcosa tra loro però era assente e non sapeva a
chi dare la colpa di questo, a nessuno, semplicemente quel qualcosa non c’era e mai ci sarebbe stato, lo aveva saputo da sempre.
Non ci si può dare la passione.
Non avevano le stesse passioni, tutto qui. E ciò arrivava a far nette divisioni di pensiero, nette separazioni nei loro momenti comuni.
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A lei non interessava niente dei suoi interventi e
delle pazienti e a lui meno che nulla dei suoi libri,
del suo amore per l’arte.
Fabio, nei musei si rompeva le scatole almeno
quanto lei davanti a una partita di pallone, per non
parlare di quando raccontava delle gravide e dei cesarei.
Avevano però molte cose in comune ugualmente:
amavano la natura, la casa, la buona cucina, le
buone letture, i bei film e i figli.
Si tolse le coperte di dosso, accarezzò il cane, che
felice di sentirla alzare le corse incontro scodinzolando.
Povero cane, l’avevano tanto voluto e avevano tutti
tanto insistito e adesso nessuno lo guardava più, se
non lei.
Pensò che avrebbe dovuto anche passare a trovare
suo padre.
Raggiunse suo marito in cucina, la giornata cominciava.
“Uella, ciao bella, hai dormito bene? Com’è andata
ieri la gita? Noi tutto bene.”
Un altro che non le dava nemmeno il tempo di rispondere.
Ma tanto, era lì solo il corpo, mente e anima erano
ancora tra le lenzuola.
Apparecchiò la tavola per la colazione, si sedette, il
marito versò il caffè.
In verità l’anima di Valeria era da quel giovane, era
nel quadro di Klimt, in quel bel ristorante e a Venezia.
“È stato tutto molto bello” rispose sognante.
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Col tempo le cose erano cambiate, non era riuscito
a fare di Valeria esattamente la moglie che aveva in
mente, in parte si era rassegnato, solo che a volte si
faceva scappare parole che lasciavano trasparire la
verità.
“Bene, Vale. È stato tutto bello anche senza di noi
o perché noi non c’eravamo?”
“Non lo so. È stato tutto molto bello” rispose lei
con tono inattaccabile.
Bevvero il caffè e chiamarono i ragazzi per la colazione.
Un altro giorno stava per incominciare.
“Riccardo, ho visto che hai segnato sul calendario
l’interrogazione di diritto, hai studiato?” chiese Alessandra al fratello.
“È difficile, non riesco e l’insegnante non fa niente
per invogliarmi. Ale, è difficile diritto, veramente.”
Il padre li interruppe:
“Difficile è solo quello che non si studia. Cosa dovrebbe fare secondo te la tua insegnante? Avanti
dillo visto che tu hai la soluzione per tutto.”
“Ma papà!” lo rimproverò Alessandra.
Valeria alzò gli occhi al cielo, incominciava bene la
giornata.
Riccardo lasciò la colazione a metà e Alessandra si
alzò coi modi di chi vuole comunicare alle persone
presenti che ne ha piene le palle di quella famiglia.
Fabio picchiò la sedia sul pavimento accusando
Riccardo di essere un lazzarone e Alessandra una
maleducata.
Valeria, silenziosa e tacendo proseguiva con la colazione.
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Arrivarono i gemelli stropicciandosi gli occhi con
le mani a pugno:
“Cosa sta succedendo?” chiese Giovanni, mentre
Francesco cercava di aprire gli occhi con fatica per
la luce improvvisa che aveva trovato in cucina, uscendo dal buio della cameretta.
“Niente” disse Valeria “tornate a letto, potete dormire ancora venti minuti.”
Quando in cucina rimasero soli, Valeria si alzò a
preparare la colazione per i gemelli, prese il pancarré dal mobile, lo mise sul tostapane, preparò la
marmellata, il burro e mise a scaldare il latte.
Prese una fetta di pancarré ancora e la diede al
cane.
“È inutile che stai zitta. Dovresti essere più severa
con loro.”
Ma Valeria non dava alcuna soddisfazione e fu allora che prendendo la sua roba Fabio se ne uscì di
casa, ma prima di sentire il pesante botto della porta blindata sbattere, tutti lo sentirono gridare, certamente anche i vicini:
“Niente. Mi chiedo cosa conto in questa casa. Tolgo il disturbo. Buona giornata a tutti!” e Fabio uscì.
Ma vaffanculo, pensò Valeria tra i denti:
“ Francesco! Giovanni! Venite che è pronta la colazione.”
I due bambini arrivarono:
“Mamma ma si può sapere cosa è successo?”
“Ma niente, una famiglia, non è una democrazia.
Tutto qui.”
I due bambini si accontentarono di avere avuto una
risposta, anche se non avevano capito.
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Poi, Valeria andò in camera da Riccardo, si sedette
sul letto:
“Riccardo ascoltami, tu resta tranquillo, come va,
va. E che sarà un quattro in più… tu fai del tuo meglio e poi vedremo.”
Riccardo non alzò neppure lo sguardo, continuando
a preparare lo zaino, il volto accigliato,
quell’espressione che lo rendeva ancor più bello già
da bambino, quando si arrabbiava e incrociava le
braccia forte, come se fossero le barre di un passaggio a livello chiuso.
Quando tutti furono pronti scesero nel cortile, Valeria li accompagnò con l’auto a scuola.
Lasciati zaini e ragazzi, stava per fare manovra per
riprendere la via di casa, quando si sentì chiamare,
era Riccardo che correva verso la macchina; Valeria guardò sui sedili posteriori, cosa aveva dimenticato o perso questa volta? Invece lui aprì la portiera
e avvicinò il viso a quello della mamma:
“Mamma, tu hai la virtù di essere più intelligente di
quanto sembri. Ti voglio bene!” le sferrò un bacio
superveloce sulla guancia e corse via, voltandosi a
salutarla con la mano e un sorriso.
Lo guardò salire le scale dell’edificio, anche da dietro era bello come il sole.
Era vero, lo sapeva, i suoi figli l’amavano da morire, perché era certa di una cosa inconfutabile: era
stata il loro primo amore.
Era doloroso pensare che un giorno, nemmeno tanto lontano, avrebbero cominciato ad accusarla, a
trattarla male, a crederla la nemica numero uno da
annientare, ma sapeva che sarebbe stato così. La
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dura legge del doversi separare da chi ti ha dato la
vita.
Riccardo non era una persona che manifestava pensieri ed emozioni, fu felice della sua ritrovata serenità.
Riusciva a capire anche Fabio che, nonostante la
sua preparazione, riusciva a comportarsi da perfetto
imbecille e sempre nelle circostanze nelle quali era
meno richiesto che lo facesse. Con quella sua uscita
non avrebbe risolto, di certo, la preparazione di
Riccardo per quell’interrogazione, non quella mattina.
Però aveva ragione ad accusarla di essere una madre troppo permissiva. Ma cosa doveva fare, era la
sua natura essere permissiva, non solo con i suoi
figli, ma con tutto il mondo, sperava sempre nella
coscienza di ognuno, nell’intelligenza e nel buonsenso altrui. Detto questo, Fabio quella mattina era
stato indubbiamente cretino.
Accese la radio.
In fondo capita a tutti di essere imbecilli, le donne
invecchiano, gli uomini rimbambiscono e lei e Fabio non facevano eccezione.
Pensò di essere una donna felice, una regina, pensò
ai suoi figli, alla gioia di vederli crescere, cambiare
ogni giorno, pensò a quando la chiamavano e non
con il suo nome ma con la parola più dolce del
mondo; a quando, come aquiloni grondanti di pioggia arrivavano ad asciugarsi da lei; ai loro no;
all’amore che sarebbe continuato in loro anche dopo, quando li avrebbe dovuti lasciare alla vita, al
senso di solitudine che avrebbero provato quando
sarebbe morta, senza poter più intervenire a conso-
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larli, a cercare di non farli soffrire troppo per un
amico che li aveva traditi, per un brutto risultato,
per il papà che li sgridava.
“Oh beh” pensò “non ci sarà più nemmeno Fabio”
e rise per questa sua particolarità di passare dal
dramma alla commedia nello stesso pensiero.
Pensò a suo padre, a quanto gli sarebbe mancato
quando sarebbe morto e ormai l’età c’era.
Suo padre, quell’uomo che gli aveva trasmesso la
tenacia, il coraggio e l’allegria e che ora la aspettava in ogni istante alla casa di riposo e che, quando
la vedeva le faceva dichiarazioni d’amore e ogni
volta le diceva, quando arrivava:
“S’eri drè spetatt!” Sì, l’aspettava sempre e sempre
a lei pensava.
Valeria avrebbe dato anni di vita per trascorrere anche un solo giorno con suo padre, quello di una
volta, forte e coraggioso, che cantava e ballava per
esorcizzare il dolore, quello che diceva che la vita
era bellissima.
Come eravamo felici quando non sapevamo di esserlo.
E su questi pensieri smise di sentirsi la donna felice
di poco prima.
Suo padre: una sega che le passava avanti e indietro
nella carne.
Nella tristezza, nella malinconia dei saggi, nasce
l’esigenza di entusiasmo, di passione, di distogliersi
dal dolore, dagli impegni, dalla fatica di vivere.
Un nuovo amore, forse, avrebbe risanato quella
parte malata che sentiva dentro.
Le avrebbe garantito vigore.
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No, non un nuovo amore che uccidesse l’attuale per
diventarne la copia, non sopportava il percorso amoroso, incontro, conoscenza, amicizia, rispetto e
infine, eccoli uno seduto sul water mentre l’altro
lava i denti.
Alessandra diceva che la confidenza porta lo schifo, aveva ragione.
Già che schifo, pensò e rise da sola.
C’era già un bel sole, la radio trasmetteva una vecchia canzone di De Andrè.
Valeria guidava e cantava tornando a casa.
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Niente ti turbi, niente ti sgomenti, tutto passa.
(Santa Teresina)
Da qualche giorno, quando suonava il cellulare,
Fabio rispondeva di corsa eccitato, usando un tono
simpatico ed accattivante. Mai come allora
l’avevano visto continuare a guardare il display, per
vedere se c’erano chiamate perse o messaggi. Mai
aveva usato il cellulare per mandare messaggi e ora, mentre lo faceva, sorrideva inebetito. Portava il
telefonino con sé persino in bagno.
Valeria lo guardava perplessa, ma senza alcun dubbio sulla fedeltà di suo marito, anche perché, pur
ponendo il caso che avesse una storia, non era così
sciocco da manifestarla apertamente, non con quegli atteggiamenti da ragazzino innamorato.
I ragazzi ci fecero caso sì e no.
Ma una mattina, stirando una camicia, Valeria
vide del rossetto, controllò meglio, sì era proprio
rossetto.
Ripensò a Fabio durante gli ultimi giorni, a
quell’aria idiota che aveva sempre sul viso e poi
sempre allegro, tutto andava bene, dalla pasta scotta ai brutti voti di Riccardo, ai gemelli che litigavano ad Alessandra che rientrava tardi senza avvisare.
Ecco perché.
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Riguardò la camicia, il rossetto e con un lancio la
buttò contro il muro da isterica:
“No, no e poi no. Scoprirlo in un modo così banale no!”
Stentava a credere, aveva avuto molta fiducia in
suo marito e odiava tutto ciò che fosse banale.
“Stronzo maledetto stronzo! E pensare a quante
volte io, in nome dei voti matrimoniali, ho rinunciato al piacere di un bell’innamoramento. Di una
magnifica scopata! Stronzo, stronzo schifoso. Ah
ma vedrai, vedrai come te la farò pagare. Non sai
chi è tua moglie, brutto verme schifoso. E poi con
quattro figli. Bastardo!”
Il cane la guardava con il muso piegato verso sinistra e poi cambiava e lo metteva sulla destra, senza
spostare una zampa, il corpo immobile mentre la
sua padrona gridava e sembrava fare cose molto
strane, mai viste. La seguì quando, tutta nervosa,
andò al telefono.
Alzò il ricevitore imbestialita, compose il numero
privato e prima ancora che Fabio rispondesse, lo
investì come una furia.
“Oh, ma hai l’amante? Ma sei scemo?”
Lui riattaccò immediatamente il ricevitore.
“Ma allora è scemo veramente! “ disse sbalordita.
Dopo circa un’ora, che bastò a Valeria per riprendere a fumare dopo sette anni, entrò Fabio, la testa
bassa di chi viene scoperto.
Valeria gli si avvicinò, ma lui cercò di scansarla dirigendosi verso il ripostiglio.
Lei lo seguì e lo vide liberare una valigia dalle scatole appoggiate sopra.
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A voce bassa, quasi in un sussurro e senza alzare lo
sguardo le disse, con tono completamente dimesso
da colpevole:
“Hai ragione, non ho scuse. Mi dispiace Vale. Mi
dispiace da matti. Mi ammazzerei.”
“Oh, ripigliati. Sei scemo davvero eh! Cosa dici?”
“Dico che me ne vado, non ho scuse, hai ragione,
su tutto.”
“Ochei, fermiamoci, ascoltami. Tu sei diventato
matto. Dove vuoi andare? E poi così. Decidere nel
giro di un’ora. A meno che, tu sappia già dove andare. Dove c’è una che ti aspetta, per esempio. E a
me non pensi? Cosa dirò ai ragazzi quando tornando non ti vedranno rientrare? Ah, ma certo che a
me non pensi, altrimenti ti saresti fatto qualche
scrupolo, prima di fare il pirlone innamorato. Quello che arriva a cinquant’anni per riprendersi
l’adolescenza.”
La voce di Valeria si faceva sempre più alta e nervosa:
“Ma sei davvero così innamorato da fare una scelta
simile? Sembra quasi che non aspettassi altro che io
me ne accorgessi. E sì, proprio così, da vero codardo quale sei. Ma ora ti chiedo, in nome del buonsenso famigliare, di stare calmo, di non fare cazzate, perché, se non lo sai, quello che accade è successo per sempre. Non c’è spugna che cancelli la
vita giù spesa. Resti comunque una gran merda!
Ma ora pensiamo ai ragazzi, perché loro mi interessano più di te e delle tue cazzate. Guarda, guarda,
mi tremano persino le mani. Pazzesco. Non ci posso credere e invece sì che ci devo credere, vero
brutto stronzo?!”
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Fabio intanto aveva aperto la valigia sul letto senza
proferir parola, Valeria la richiuse con un pugno
forte e deciso. Lui continuava a rimanere in silenzio colpevole.
“Fabio, cazzo, parla, per l’amor del cielo rientra in
te. Dimmi qualche cosa. Guarda e credimi” cercò il
respiro e la calma: “son ben disposta” proseguì.
“Guardami, non sento dolore e nemmeno rabbia,
sono solo un po’ incredula, non me l’aspettavo.
Anzi mi sembra di girare un film.”
Sentiva che i nervi le stavano cedendo, cercò pace
camminando intorno al letto, ma non la trovò e allora si avvicinò a lui, senza smettere mai di gridare
e sempre più forte, ripetendo le stesse due tre frasi
in continuazione, fino a quando gli fu così vicina da
sferrargli un cazzotto in piena faccia.
Fabio si toccò il labbro, guardò la mano, aveva del
sangue, corse in bagno, mentre Valeria correva insieme a lui, spaventata di quello che aveva fatto.
Capì i criminali, che criminali non erano.
Anche lei avrebbe potuto dare una coltellata a suo
marito invece del pugno, se solo in quel momento
avesse avuto un coltello tra le mani.
Lo guardava riflesso nello specchio. Lo odiava. Lo
disprezzava. Che schifo!
“Vale, amore, hai ragione, hai tutte le ragioni del
mondo, dammene un altro se vuoi, lo merito. Ammazzami se vuoi, perché non voglio che i ragazzi
sappiano mai quello che ho fatto e di chi mi sono
innamorato: digli quello che vuoi, anche che sono
morto.”
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Valeria era fuori di sé, attonita, sbalordita, spaventata, cosa stava accadendo? Pensò di salvare il
salvabile, di esserci.
“Il mondo è pieno di coppie separate. Ti chiedo di
prendere tempo, di non lasciarmi sola a dare spiegazioni ai ragazzi. Non ce la posso fare. È tanti anni che siamo vicini, forse troppi. Il tuo è un colpo
di testa. A questa età può succedere. Anche io di
tanto in tanto penso che vorrei farti le corna, ma
poi non lo faccio. Sai quante corna si è fatta la gente. Passa” e parlava, parlava, parlava.
“Direi di discutere con calma, per affrontare al meglio questa situazione. Io non l’ho mai fatto, eppure
l’occasione l’ho avuta. Anzi, più di una” continuò
sorridendo “però i miei figli sono sempre stati un
grande freno. Il loro onore. Però Fabio, può capitare, lo capisco. Dai siediti e parliamone. Ci si può
anche separare, il mondo è pieno di persone che
l’hanno fatto. E che sarai mai!”
“Valeria, io amo questa persona come non ho mai
amato nemmeno te.”
Valeria ingoiò il rospo, per prendere tempo.
“Valeria, è un trans.”
E Valeria a questo punto non resse più e cadde sulla poltrona.
Uomini.
Era suo marito, lo conosceva da venticinque anni.
Nulla da ridire contro i trans, esistono e vivono
come le altre creature, ma che suo marito si fosse
innamorato di uno di loro, la lasciava senza parole
e senza pensieri.
Chiese a Fabio di andare a farle un caffè, perché si
sentiva collassare.
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Lui l’assecondò silenzioso.
“Fabio, dimmi che tra un po’ suona la sveglia,
dimmelo.”
“Vorrei poterlo fare Valeria, ma non è così.”
Seguì un mutismo che lei non riconosceva in quella
che era ancora la loro casa.
Una casa nella quale anche i muri parlavano e buttavano fuori casino e amore.
E un vetro uscì dal pavimento, un lato oscuro della
casa, come era stato possibile che nessuno si fosse
mai accorto che esisteva quella fessura nel pavimento dalla quale stava salendo un vetro e questo
vetro si alzava sempre più, fino ad arrivare al soffitto per separare Valeria e Fabio completamente, e
tutto diventava sordo, solo, vuoto, indifendibile.
Fabio le porse la tazza di caffè, per un momento furono come in un fotogramma, poi il movimento
lento, sfuocato, senza contorni, senza personalità
fino a quando, la tazza picchiò contro il vetro, cadde e si ruppe, il caffè sporcò il tappeto.
Fabio uscì .
Si era fatto tardi per andare via di casa, lo stavano
aspettando in ospedale.
Andava davvero in ospedale o era una bugia, perché chi tradisce sa mentire. O forse stava andando a
fare l’amore con lui? Con il trans.
No, non riusciva neppure ad immaginare, non poteva, nel rispetto di se stessa e di tutti quegli anni
insieme. Che pena! Nel rispetto di suo padre, che
aveva sempre tanto amato quel genero così serio e
che definiva una persona perbene.
Una persona perbene non pianta lì una famiglia per
vivere nuove emozioni, una persona perbene si
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controlla, sa gestire le sue emozioni e sa che ci sono delle priorità. L’onestà prima di tutto. L’onestà.
E pensò che anche lei non lo era stata, nascondendo
di dire del suo compagno di gita a Venezia. Ormai
si era calmata, in fondo, pensò, siamo tutti un po’
stronzi, chi più e chi meno.
Rimasta sola, finalmente, scoppio in un pianto dirotto che non riusciva a controllare, pensava ai suoi
figli, a quanto erano stati felici quando non lo sapevano. Qualunque compromesso per tutelare la serenità dei suoi quattro cuccioli. E anche del cane che
in realtà amavano tutti molto, era un cane tranquillo
che non richiedeva attenzioni. Tutto qui.
Lo guardò e lo vide accucciarsi ai suoi piedi, aveva
capito tutto.
Si abbassò, ancora piangendo per accarezzarlo, per
trovare conforto e il cane gli leccò la faccia piena di
lacrime e si leccò i baffi.
Arrivarono i ragazzi.
“Mamma, non ci crederai, ho preso otto in italiano,
un tema sulla felicità, mi sono fatto fare la fotocopia per fartelo leggere” disse Riccardo appena la
vide.
“Bravissimo “ rispose lei cercando di mostrare entusiasmo.
“Mamma, cosa hai fatto da mangiare?” chiese Giovanni.
“Spaghetti con pomodoro e basilico e di secondo
frittelline di zucchine.”
“Mmmm, buone, quelle che piacciono a me!”
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Si sedettero a tavola, nessuno di loro aveva avuto
modo di vedere la faccia di Valeria, perché aveva
accuratamente evitato di guardarli.
Alessandra, che nel presagire era un mago, arrivò
dopo essersi lavata le mani:
“Mamma, ma cos’è successo?”
“Quando?”
“Stamattina”
“Niente.”
“Boh, c’è una strana atmosfera in casa.”
Le scivolò lo sguardo sul tappeto sporco di caffè e
si fermò a riflettere, poi aggiunse:
“Qualcuno si è fatto male?”
“No, perché?”
“Ho visto della garza fuori dall’armadietto dei medicinali. Mamma” le chiese finalmente incontrandone il viso: “mamma, ma hai pianto?”
“Ma no, mi fanno male i denti e ho provato a mettere dell’argilla, per quello c’è fuori la garza.”
Alessandra si accontentò della risposta anche perché non vedeva cosa altro sarebbe potuto succedere
in casa sua.
Verso il tardo pomeriggio i figli uscirono per fare
le loro cose, chi in palestra, chi in piscina e chi da
un amico e arrivò Fabio. Sembrava avesse ripreso
colore, tono e testa, fin quando la fece accomodare
sulla poltrona per parlare, le si sedette di fronte e
incominciò
“Vorrei che tu conoscessi Maria.”
Lo guardò seria e sempre più incredula:
“Pure il nome della Madonna!” disse.
“Eh beh, si chiamava Mario.”
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“Fabio, ascoltami molto bene, non pensi di avere
bisogno di aiuto? Di un bravo psicologo che ti aiuti
a pensare, a chiarirti le idee.”
“Valeria, ti prego, fammi contento. Vorrei che tu la
conoscessi.”
Incredibile, ci si sposa pensando che un uomo si
prenderà cura di noi e ci ritroviamo a doverci prendere cura noi di lui per il resto della vita.
Alzò lo sguardo per cercare suo marito, per trovarlo, ma davanti a sé vedeva un quinto figlio.
Si passò la mano tra i capelli:
“Senti, non credi di pretendere troppo dalla donna
che hai di fronte?”
“La donna che ho di fronte è mia moglie, non dimenticartelo.”
Valeria non fece in tempo a replicare e nemmeno a
pensare una risposta.
Era un film.
Un sogno.
Un incubo.
Un momento di follia, di delirio.
Suonò il campanello:
“E adesso chi è?” ma vide Fabio correre ad aprire
felice, tornò con una donna, bella distinta, raffinata,
chi era questa nuova ospite mai vista prima?
Un’altra, da come lui le teneva la mano.
“Bene vi presento” disse Fabio indagando lo sguardo della moglie: “questa, Valeria, è una mia collega
patologa.”
Non l’aveva nemmeno chiamata Vale come faceva
da sempre: Valeria; ecco che iniziava a prendere le
distanze e però aveva bisogno del suo consenso, il
consenso della mamma.
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“Piacere Maria” disse la bella donna allungando la
mano.
Valeria stava crollando, ma sospirò e ricambiò.
Era completamente diversa da come l’aveva immaginata, ma del resto, non aveva nemmeno avuto il
tempo di farlo.
“E adesso?” chiese a Fabio.
“Adesso cosa? Niente, volevo che le mie due donne
si conoscessero, quella uscente e quella entrante.”
Maria rise, Valeria no, forse perché quella uscente
era lei e non trovava per niente divertente quella
battuta ma ugualmente disse la sua:
“Bene, allora presentiamoci, conosciamoci e brindiamo, deve esserci dello spumante in frigorifero.”
“Così mi piaci Valeria, dolce e accogliente come
sempre. Vuoi che lo vada a prendere Maria? Ti piace lo spumante?”
“No grazie, sai che bevo solo francese.”
“No, pare che non lo sappia” disse Valeria stizzita
“ma sa invece di avere quattro figli, due ancora
piccoli.”
“Certo, Fabio ne parla in continuazione.”
“ Ma che bravo papà.”
Era stato vero fino a quando aveva incontrato lei;
nonostante le sgridate a volte fuori posto, aveva dato ai suoi figli sempre tanto amore e la priorità.
“E anche di lei parla spesso, dice che è una donna
speciale.”
“Maria, ora che la conosci non puoi obiettare. Ma
dimmi tu quale altra moglie ti accoglierebbe offrendoti lo spumante come ha fatto lei. La mia Valeria, la madre dei miei figli.”
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“Abbiate pazienza e un po’ di buongusto, i complimenti non costano niente e se fate così per comprarmi, non ne avete bisogno. Voglio essere sincera
con questa tua amica, con te non mi interessa
nemmeno più. Mi hai talmente sconvolta Fabio,
che ho davanti a me uno sconosciuto. Ma di questo
parleremo quando resteremo soli, se non ti dispiace. Vorrei invece dire a questa persona, Mario o
Maria che sia, che mai mi sarei aspettata che mio
marito venisse sedotto da un trans, perché non deve
essere stato facile” ma improvvisamente tacque,
non si rendeva nemmeno più conto di cosa stesse
dicendo, non riusciva a tenere il filo del discorso, si
sentiva male, aveva bisogno di stendersi sul letto.
“Scusate, se ora vuoi accompagnare l’ospite alla
porta, perché mi sto sentendo male e ho bisogno di
stendermi.”
Le girava la testa.
Maria tolse gli occhiali:
“Valeria mi ascolti, io e suo marito, se può consolarla, non abbiamo mai avuto rapporti sessuali
completi. Ci vogliamo bene, poi vedremo. La prego
però di una cosa, poi me ne vado, non dica a nessuno la mia identità, sono venuta via dal mio paese e
a Milano nessuno sa nulla, tutti mi credono una
donna a tutti gli effetti.”
“Ok. Ci conti” e aggiunse, reggendosi appena in
piedi: “anche io le chiedo una cosa, che i miei figli
non sappiano mai, e lo ripeto affinché capiate bene
tutti e due. I miei figli, non devono venire mai a
conoscenza di questa cosa, letto o non letto, non me
ne frega. I miei ragazzi non devono sapere. E non
dite che c’è nulla di grave, per me lo è.”
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Arrivò in quel mentre Alessandra:
“Ciao, posso stare con voi? Ciao Maria, tutto
bene?”
Ma Alessandra allora la conosceva già e magari
anche gli altri.
“Mamma non stai bene?”
“Ho la pressione a terra, vado a stendermi.”
Ma guarda un po’ cosa doveva capitarmi, ‘sto Mario o Maria che sia.
“Mamma, mi ha chiamato Elena vado da lei.”
“Sì vai, meglio.”
Sentì Fabio accompagnare l’ospite alla porta. Provò pena per loro, per questa situazione.
Poi sentì Fabio arrivare da lei:
“Vale, ascolta” le si sedette accanto sul letto: “io e
Maria abbiamo deciso che per ora lasceremo tutto
come sta. Anche perché non me la sento ancora di
interrompere i miei progetti famigliari.”
“Ma quali progetti?” E Valeria aspettò ad occhi
chiusi una risposta che ci mise un momento ad arrivare.
“Le vacanze per esempio.”
“Ma tu ti droghi! Comunque va bene, Fabio, va
bene così e adesso se riesci, abbi la decenza di tacere. Non ero pronta a un tale esame.”
Lo vide alzarsi dal letto e andarsene.
L’aveva vista stare male e davanti a questa cosa,
come sempre. Lui girava i tacchi e se ne andava,
lasciandola sola.
Valeria non doveva stare male, mai.
Lui non riusciva a vederla stare male e allora faceva finta di non vedere e, appunto, girava i tacchi.
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Lo richiamò:
“Come mai Alessandra conosce quella persona?”.
“L’ha vista una volta che è passata in ospedale a salutarmi, ma tranquilla, sai com’è Alessandra, lei da
del tu a tutti.”
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Nascere, vivere e morire, ecco le cose che sappiamo, e le sappiamo non già per le cause, bensì per
l’esperienza continua degli effetti: ma il come ed
il perché di ogni cosa stanno e staranno in eterno
nella mente imperscrutabile dell’universo.
(Ugo Foscolo)
Con chi avrebbe potuto parlarne, con chi sfogarsi.
Con nessuno, primo perché doveva proteggere i
suoi ragazzi e poi perché Fabio era il loro padre e
non voleva che finisse alla berlina, tirandoseli dietro inevitabilmente; già immaginava il vociferare
degli amici, il padre gay, no, non era facile.
Era amica di Fabio, gli voleva bene, anche se era
completamente impazzito.
La mente sembrava partorire, abortire, concepire di
nuovo, e poi ripartorire, i pensieri nascevano, diventavano convinzioni per morire un istante dopo.
L’unica idea che cominciò a prender forma e delinearsi, era la possibilità di un trasferimento. Andare
in un posto dove nessuno li conoscesse.
Per Fabio sarebbe stato impossibile, impensabile, il
lavoro, il suo studio ben avviato da tanti anni, dovere ricominciare da zero a cinquant’anni suonati.
Difficile ma non impossibile, quante le persone che
lo fanno ogni giorno, un affare andato male, un in-
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vestimento sbagliato, una malattia, un incidente ed
eccole a doversi tirare su le maniche, girare pagina,
fregarsene e ricominciare da quello zero.
Ma nel caso di Fabio, non avrebbe avuto lo stesso
senso di chi si trova senza nulla nelle mani, dopo
una vita di lavoro.
Fabio, Fabio, Fabio, ma cosa le era successo?
Avrebbe potuto iniziare a proporre ai ragazzi il
cambiamento di città, qualche motivazione
l’avrebbe trovata, ma dove sarebbero potuti andare,
in che termini, quale spiegazione plausibile.
Che situazione da folli.
Un incubo.
E poi c’era il nonno, suo padre, che l’aspettava ogni domenica alla casa di riposo, che viveva solo
per quell’incontro. Avrebbe dovuto trasferire anche
lui, trovare un’altra struttura decente e ricominciare
l’iter dell’ambientamento, infermiere nuove, nuova
organizzazione, nuovi spazi.
No, non si poteva. A meno di trovare una città abbastanza vicina da poterlo raggiungere la domenica, ma se poi avesse avuto bisogno in un’urgenza?
Povero papà. Un colpo di testa in una famiglia
coinvolge tutti, proprio tutti. Nessuno esente, tutti
presenti.
Era ormai troppo stanca per pensare e decise che
basta, sarebbe rimasta a vedere, avrebbe lasciato
fare alla vita.
Quella sera pregò:
“Padre, non so proprio cosa fare, metto tutto nelle
tue mani”, fece fatica ma infine si addormentò sfinita.
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La mattina quando si svegliò, pensò di avere sognato ogni cosa, non era possibile che stesse accadendo una cosa simile alla sua famiglia e il dubbio
continuò fino a quando entrò in sala: i fiori che Maria le aveva portato erano lì, belli, freschi e colorati,
proprio come il giorno prima. Si prese la testa tra le
mani e costrinse i piedi a camminare. Doveva andare avanti. Inerzia e poi ripartenza. Funziona così.
Un incubo è una cosa piacevole al risveglio, quando ci si rende conto di quanto si è fortunati e allora
si inizia la giornata con uno spirito migliore. Alleggeriti. Non era vero, non era vero, che gioia.
Questa di Valeria, invece era realtà.
Iniziarono le vacanze scolastiche, i gemelli erano
stati promossi, Alessandra si era diplomata e iscritta all’università, Riccardo invece era stato bocciato.
Quando Valeria andò dalla coordinatrice a ritirare
la pagella si sentì dire:
“Ma lei adesso arriva? Non l’abbiamo vista tutto
l’anno e adesso si presenta. Mi dica allora, cosa
vuole sapere da me?”
Valeria avrebbe voluto scaricare tutta la rabbia su
quella stupida:
“Cosa voglio sapere da lei? Come sta sua madre
voglio sapere, oh imbecille! Ma lei sa cosa sta succedendo in casa mia? Ma lei cosa ne può sapere di
mio figlio, che mi sta descrivendo come un lazzarone maleducato, perché ha la cresta rossa e gialla
sopra la testa. Ma lei, brutta stronza di merda, ha
provato a rapportarsi con lui, per tirare fuori la persona meravigliosa che è? Lei sa insegnare? O si limita a rispecchiarsi negli alunni diligenti che le
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danno soddisfazione. E sa perché non sono venuta?
Perché credevo che la scuola mi chiamasse se ci
fossero stati problemi. Perché non mi piace venire a
chiacchierare del più e del meno, perché non ho
tempo per venire se le cose vanno bene, perché mio
figlio non mi ha detto la verità, ma lo difenderò ugualmente davanti a un’arrogante faccia di culo
come la sua”, invece si limitò ad essere un genitore
dignitoso, educato, trattenuto, come tutti i genitori
si sentono davanti ad un insegnante, nel tentativo di
relazionarsi, usando ogni loro risorsa per non mettere in cattiva luce il proprio figlio.
E allora la mamma diventa una parte di figlio e il
figlio una parte di madre, com’è nel ventre, dai secoli dei secoli. Insieme ancora una volta ora come
allora. Insieme.
Io e te, piccolo mio, e ti proteggerò, ti aiuterò a uscire da ogni guaio accollandomelo e standoci più
male di te, facendo spesso il tuo bene e a volte un
disastro, ma sono tua madre e le madri non sono
Dio come tu credi, le madri sono imperfette, il loro
amore lo è. Perdonami cucciolo mio, se non so trovare le parole giuste, se non so dirti di no, se ti amo
troppo, se sei la mia vita e non so lasciarti vivere la
tua. E non si tratta di separazione fisica, di appartamento con gli amici, ma di distacco vero, ognuno
per conto suo a continuare a vivere. Non ce la posso fare. Ci sarò sempre a colorare i tuoi muri, a
spargere fiori dove cammini, a medicarti le ferite
cercando di non farti troppo male. Oh, piccolo mio,
perdona i danni che ho fatto, uno solo però è irreversibile, che io sia tua madre.
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Sto male ogni volta che ti vedo preoccupato, infelice, e rido quando sento il tuo cuore ridere di gioia.
Stamattina ho capito una cosa, che in questa tua età, arrivi a punire te per punire me, fai
l’insoddisfatto per non darmi soddisfazione. L’altro
giorno mi hai gridato, che gli uccellini volano via
dal nido, e quando ti ho detto che io sono uno di
quei genitori che li spingono fuori a volare, tu hai
ribattuto che sì, lo faccio, ma prima aggancio il
guinzaglietto. Viva la tua cresta alta, dritta, rossa e
gialla, perché io so. E mi rimanda agli anni in cui
portavamo i pantaloni di tre taglie in più della nostra, i maglioni larghissimi che ci facevano sembrare dei bagonghi, ma ci sentivamo belli e felici. E
mio padre rideva. Il tuo nonno. Una persona meravigliosa, te la ricordi? Beh Riccardo chi arriva da
un ceppo saldo come il tuo non può che dare buona
pianta. E ti ricordi Riccardo, la nonna, la mamma
del tuo papà quando ti faceva i panini? Perché per
lei nutrire era questo e non andare ad indagare nel
nutrimento della psiche, per lei era importante prepararvi i ghiaccioli con le fragole fresche e quelle
polpettine che vi piacevano tanto, e trascorrere il
tempo sferruzzando con i ferri e l’uncinetto per voi,
perché per lei rendere felice era dedicarsi con semplicità. È incredibile quanto tua zia, la sorella di
papà, le somigli, nonostante i suoi sforzi giovanili
per essere diversa. Lei, una donna in carriera che
ancora sferruzza e si dedica e sembra che ti dia oro
quando arriva a tavola con la grande terrina ricolma
di pasta e broccoli. Sì, cucciolo mio, è davvero incredibile, vedere che più il tempo passa e più si ritorna nel ventre, in una strana e assurda simbiosi
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che non appare ma che è. Non so ancora, dopo anni, come visse tuo padre la morte di sua madre, non
ne parlò più, ma so che ogni sera la prega. Rido
pensando a tua sorella da piccina, a quella volta che
le si sfilò il palloncino dal piccolo braccio e lei, disperata, guardandolo mentre andava verso il cielo,
mi diede una piccola spinta e mi gridò: “Prendilo
mamma.”
Fabio, stranamente, non si era arrabbiato per la
bocciatura, ma aveva commentato, che una bocciatura nella vita non può che far bene; incredibile detto da lui, ma già, lui era tutto preso dal suo nuovo
amico, compagno, amico, fidanzata e in questa sua
felicità tutto prendeva forme diverse da prima, anche la bocciatura di un figlio.
Sarebbero ugualmente andati alle Tremiti?
I giorni si rivelarono faticosi come previsto, questa
storia di Fabio la ammazzava.
Riusciva a fare la normale con i figli, con la gente,
con lui, ma quando restava sola in casa si sentiva
una vecchia di cento anni.
Quando rimaneva sola, la testa si inchiodava a quel
pensiero: per quanto tempo ancora i figli non sarebbero venuti a scoprire che il loro padre era gay?
Si sedette sul divano, il cane corse ad accucciarsi ai
suoi piedi, si abbassò ad accarezzarlo e sentì le dita
bruciare, guardò le mani e si accorse che aveva
mangiato le unghie fino a vedere quel po’ di carne
subito sotto la pelle.
Andò in bagno, lo specchio le restituì la sua immagine, era la stessa di prima, di quando era felice e
serena ma non lo sapeva.
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Non era possibile che la faccia fosse rimasta uguale, dunque o era già infelice prima o non era disperata adesso.
Aveva visto amiche tradite, distrutte dal dolore, ma
forse per lei era passato ancora poco tempo, il peggio doveva ancora arrivare.
Pensò di chiamare la vecchia maestra al telefono,
passò in rassegna la rubrica nome per nome, nessuna amica per quanto fidata poteva venire a conoscenza di quanto stava accadendo in casa sua, a lei
e a suo marito, ai suoi figli, al suo cane.
Povero cane, tu capisci tutto, pensò.
E il cane corse da lei e le fece le feste.
Questo era un segreto, di quelli che nemmeno l’aria
avrebbe dovuto venire a sapere.
Perché le persone, prima o poi, se li lasciano scappare i segreti, le confidenze, non per cattiveria,
nemmeno per spettegolare, così, escono fuori e basta, da soli e Fabio non meritava questo, né lei, né i
suoi figli, né il loro cane.
Rise pensando che aveva messo dentro, da dover
proteggere, anche il cane, ma l’aveva fatto proprio
per far vincere l’ironia in barba a questa cosa che,
bene inteso, non era una disgrazia.
Pensò a Pia, la sua cara compagna di scuola, lei voleva bene a tutta la famiglia e dunque sì, era lei la
persona adatta con la quale sfogarsi.
Pia sì, lei era la migliore in questi casi.
Certo che raccontare questa cosa al telefono o scriverla via e-mail non era l’ideale, sarebbe bastato un
hacker sgangherato o un’interferenza telefonica
perché altri sapessero, poteva persino avere il tele-
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fono sotto controllo, visto il lavoro di Fabio e gli
scandali delle cliniche.
Non lasciava scoperta nessuna possibilità, ma compose ugualmente il numero di Pia, rispose la segreteria telefonica, era la voce della sua amica, ma
parlava in tedesco, pensò di lasciare un messaggio,
ma no, avrebbe riprovato più tardi, a Berlino, avevano orari diversi di lavoro.
Era di nuovo domenica, rientrò Fabio con il giornale.
“A che ora vai da tuo padre?”
“Nel pomeriggio, preferisco, perché la domenica
pomeriggio il personale è ridotto e poi vanno i parenti a trovare gli ospiti e so che lui ci può restare
male non vedendomi.”
“Allora io nel pomeriggio porto al tennis i gemelli.”
Nonostante l’amante, e lei non credeva che non ci
andasse a letto, non trascurava le abitudini famigliari, in questo era stato davvero bravo.
Forse aveva scelto un uomo perché era stanco di
uteri e uteri e uteri.
Lo guardò infilare le ciabatte e mettersi comodo,
non le sembrava un gay. Ma pensò che la parte maschile della coppia gay non è femminea, così aveva
sentito dire da Renato, il suo amico d’infanzia che
infine batteva in Viale Regina Margherita, con la
parrucca bionda e la minigonna. Renato, che bella
persona era, ma non avrebbe saputo come fare a
rintracciarlo.
Ricordò quel pezzo di giovinezza, quando andavano insieme in un bar di gay in Piazzale Corvetto.
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Un mondo nuovo, poliziotti, padri di famiglia, impiegati e vigili, muratori e quanto altro. C’era una
scala e là sotto si incontravano per fare sesso. Ricordò che un giorno un bisex che faceva il poliziotto le si avvicinò e Renato, con tutte le sue movenze
esagerate, subito andò a chiarire col tipo che Valeria no, la dovevano lasciare stare, perché lei non era
dei loro.
Bello Renato, così preso in giro ma così amato.
E ricordò di quella volta che lo incontrò disperato,
pareva che lo avessero riconosciuto fare una rapina,
robe da pazzi.
Nemmeno era possibile immaginare Renato che
saltava il bancone della banca e assaltava, puntando
una pistola alla tempia l’impiegato.
Fu prosciolto dalle accuse dopo anni, lui si guadagnava da mangiare prostituendosi.
Era davvero intelligente quel suo amico, aveva solo
fatto scelte diverse.
Nei ricordi di Valeria, Renato era di cero una delle
persone che, nella sua scala delle persone perbene,
occupava uno dei primi posti.
E sorrise quando lo pensò ragazzino, quando decise
di manifestare apertamente la sua omosessualità, e
lo fece iniziando per gioco:
“Non ti graffio perché è da donna, non ti picchio
perché è da uomo, ma ti odio, ti odio, ti odio…”
Bello Renato, e quanti ricordi le passarono dentro.
Era nato alla Trecca Renato, che allora era periferia
di Milano, in fondo a Viale Zama, fatto di case minime ora demolite. Renato era molto elegante, una
persona di buongusto.
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Lo ricordò bambino, quando la mamma dal balcone
dell’ultimo piano gridava il suo nome perché l’ora
dei giochi era finita.
E piano piano, passeggiando nei pensieri e nei ricordi, riprovò quella sensazione di disagio, di chi
non sa come deve comportarsi, che lei ebbe, davanti ai primi amici omosessuali che Renato le portava
a conoscere, lo vedeva finalmente felice.
Ripensò a suo padre che non voleva li frequentasse,
forse per timore che diventasse lesbica o più facilmente per l’onore della famiglia.
Una volta andò con Renato in un locale in Via de
Castiglia, con lei era andata anche l’Enrica e si sentì molto tradizionale e all’antica, molto vicina a suo
padre, ma non nella rigidità del giudizio.
Infornò la parmigiana e prese il giornale, iniziò a
sfogliarlo distrattamente e le cadde lo sguardo sul
necrologio della sua vecchia maestra, lo rilesse per
rispetto, ma a malincuore non si sentì partecipe e
capì in quello stesso momento, che anche se lo
specchio le ridava la sua faccia ed esternamente
nulla andava a dimostrare il suo strazio, un pezzo di
lei era morto, era morta la bimba, la piccola Valeria, portando nella tomba, con sé, la sua piccola
Ninetta, la bambina dai capelli bianchi, con il maglioncino a righe rosa e azzurre fatto a maglia dalla
nonna e con quei bei pantaloncini corti rosa.
Ninetta aveva portato con sé, sotto terra, lo stupore
vivace dell’infanzia e probabilmente anche la fortuna degli ingenui.
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E la vita, aveva lasciato lì sulla sedia una donna, a
leggere il giornale e al posto di Ninetta un austero
giullare, che grazie al cielo ogni tanto dormiva.
Aspettò che come d’abitudine Fabio arrivasse con
l’aperitivo della domenica e solo dopo averlo bevuto, si ritirò in camera.
“Pronto Pia, sono Valeria.”
“Amica mia, che piacere.”
“Ho bisogno di te.”
“Cos’è successo?”
Seguì una pausa breve:
“Alessandra, sta preparando la maturità, porta
Freud per filosofia, riusciresti a reperire del materiale sulla sua vita?”
“Ma non l’ha già data la maturità?”
“Sì, ma questa ricerca è per l’accesso
all’Università.”
“Valeria. Come mai chiedi questa cosa a me, sapendo quanto detesto la filosofia. Sai bene che penso sia mera farneticazione.”.
Valeria capì di essere più scentrata di quanto credesse di essere, nonostante lo specchio non lo riflettesse affatto.
Cercò allora di arrampicarsi sui vetri:
“Ma dai, scherzo, avevo solo nostalgia di te.”
“Vieni a trovarmi Valeria, quando vuoi, tutto bene
a casa? Fabio, i ragazzi, tutto bene?”
“Sì, sì tutto bene.”
La conversazione si protrasse parlando del più e del
meno, dell’uguale mai.
Valeria fu abbastanza brava a divertire il discorso,
per evitare calcolo di somme.
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Pia era rimasta lucida, obiettiva, mirata e intelligente da far paura, non aveva neuroni decapitati
dai figli.
Conviveva da molti anni con un tedesco docente di
economia o giù di lì, e la loro unione era una buona unione, ben riuscita. Ognuno dei due, negli anni,
aveva mantenuto la sua individualità, amici diversi,
distinti interessi.
“Una bottiglia e due bicchieri, come dice Gibran,
non come a casa mia, tutti che bevono dallo stesso
bicchiere e guarda un po’, sempre il mio.”
Pia, da quel di Berlino, si ripromise di seguire meglio questa sua amica, di essere più presente nella
sua vita, perché l’aveva sentita strana, un po’ persa,
poteva esse solo stanchezza.
Si ripromise di fare un salto in Italia, appena fosse
stato possibile.
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A chi possiede tutto manca qualcosa: qualcuno
che gli dica la verità.
(Proverbio spagnolo)
Alessandra era assorta nell’immagine di studentessa universitaria e a calarsi in quei panni.
I gemelli andavano in piscina ogni giorno con gli
amici e Riccardo si svegliava tardi e trascorreva i
suoi pomeriggi in giro in moto o in camera sua ad
ascoltare musica o a dipingere.
Fabio era sempre più allegro e sereno e aveva assunto abitudini diverse, come non rientrare a
pranzo.
Il rapporto matrimoniale era in stand-by.
Valeria decise che quel pomeriggio sarebbe uscita,
pensò di chiamare qualche amica, ma preferì restare sola.
Prese il tram e andò alla Rinascente, passeggiò in
Galleria con il passo lento di chi non ha altro da fare. Arrivò al toro e incurante della gente attorno,
mise il tallone e fece la giravolta sui testicoli del toro, portava fortuna; per non cedere a una sorta di
imbarazzo, cercò la confidenza di una persona qualunque vicino a lei:
“ A Firenze c’è il naso del maialino e a Milano i testicoli del toro.”, un barbone che la sentì, subito la
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corresse gridando che non sapeva bene le cose, che
a Firenze l’è un cinghiale e non un maiale. Valeria
rimase sorpresa e divertita e si avvicinò a quel bellissimo uomo dagli occhi di mare e la barba lunga e
bianca incolta:
“Lei è di Firenze?”
“Sì.”
“Adoro Firenze” disse lei che voleva fare amicizia:
“da ragazza avevo anche un fidanzato a San Mauro
a Signa. Si chiamava Pierluigi, sì Pierluigi Vezzosi,
lo conobbi a Riccione.”
“Uno solo? Un ci credo!”
Valeria rise.
Effettivamente aveva ragione lui, Pierluigi però, era
quello che ricordava con più trasporto, quel ragazzino le era piaciuto un sacco.
Cominciarono col parlare di Firenze e arrivarono a
parlare di quadri, fino a che Valeria gli propose di
andare a cena insieme, lui accettò molto volentieri
e lei avvisò casa:
“Come mai non torni mamma? Non c’è nemmeno
il papà.”
“Perché ho incontrato un’amica e resto con lei” fece un po’ fatica a non lasciarsi impietosire da Giovanni, ma caspita, non poteva sempre e solo esserci
per loro e mai per se stessa e sentirsi in colpa ogni
volta che decideva di fare una cosa divertente.
Quindi rimase con il barbone e buttò, nel cestone
immaginario a fianco a lei, i pensieri che potevano
in qualche modo rovinare la serata. Ci avrebbe pensato poi, senza lasciarsi prendere dall’ansia.
Un’ansia molto ma molto simile a quella di prestazione.
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Entrarono in un elegante ristorante del centro dove
i camerieri conoscevano bene sia lei sia suo marito
e vide le loro facce imbarazzate. Uno le si avvicinò:
“Buonasera signora Alessi. Il signore è con lei?”
chiese riferendosi al barbone con la speranza che
Valeria dicesse che no, che la stava disturbando,
che potevano buttarlo pure fuori.
“Sì, il signore è con me. Un tavolo per due, grazie.”
Il silenzio intorno a loro, le luci soffuse, le belle tovaglie rosa e i fiori nel vasetto al centro del tavolo.
Notò che, come lei del resto, il barbone non era a
disagio, ma ad un certo punto, lo vide rivolgersi
all’attento pubblico, sentendosi gli occhi addosso:
“Tranquilli signori. Non sono un barbone, ma un
attore che sta recitando al Manzoni.”
Valeria rise sotto il tovagliolo.
“Se fosse un attore non avrebbe questo odore” gli
disse.
“Sarebbe una bella idea che i profumi e gli odori
facessero parte della scena” rispose lui, divertito
dall’affermazione spontanea della sua signora.
Intorno le persone cominciarono a bisbigliare i loro
dubbi.
Trascorsero una serata fantastica, non parlarono
delle loro vite, come nostalgici amici, ma di vita. Si
rivelò un uomo colto e intelligente.
“Avere un pensiero non significa pensare. Il pensiero va, ma può non arrivare a niente, pensare è desiderio di arrivare.”
Valeria era affascinata, con lui si sentiva libera.
Liberi di pensare, di dire, di esprimersi, di aiutarsi a
pensare uno con l’altro.
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L’animo generosamente crea, sviluppa e dona,
senza remore e timori.
“Cara Valeria “ disse infine lui congedandosi: “chi
si somiglia si piglia!” e la lasciò.
Avrebbe voluto abbracciarlo, baciarlo, magari trascorrere il resto della serata e anche la notte con lui,
avrebbe voluto dirgli di non lasciarla sola, che erano mesi che non stava così bene, ma non trovò
neppure il coraggio di allungargli la mano.
Si diresse verso la metropolitana in Duomo, vide
Vittorio Emanuele a cavallo, che da sempre sta
fermo lì, come se aspettasse che prima o poi la Madonnina si decidesse a scendere e a scappare con
lui.
Aveva ragione il barbone, in lei aleggiava lo spirito
di una clochard, come in suo figlio Riccardo, rise.
Una domanda la distolse dalle sue considerazioni:
“Cosa fai in giro a quest’ora?”
Non poteva crederci, Roberto, il pittore.
Velocemente realizzò che ora avrebbe dovuto avvisare la famiglia che sarebbe stata a dormire da
un’amica che aveva incontrato per caso. Sarebbero
andati in una stanza d’albergo e immaginò la passione esplodere, i baci, le scene.
“Valeria, sono di corsa, ci vediamo presto, ti telefono. Ti chiami Luzzati giusto? Ho la macchina in
divieto, ti ho vista scendere le scale della metro e ti
sono corso dietro, ma non vorrei che me la portassero via col carro attrezzi.”.
Non la lasciava mai parlare.
“Roberto, aspetta un secondo” cercò di fermarlo:
“non sono in elenco.
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Lui, pronto tirò fuori dal portafoglio un biglietto da
visita sgualcito, glielo diede e corse via gridando
“Chiama quando vuoi!”.
Valeria salì sulla carrozza della metropolitana riguardando il biglietto da visita, contenta di poterlo
rintracciare quando l’avesse desiderato, era contenta, contenta di tutto.
La sua anima ancora, sapeva avere la meglio
sull’ego.
Girando la chiave nella toppa, pensò che se avesse
raccontato la storia di suo marito a Roberto o anche
al barbone, sarebbero riusciti a tranquillizzarla, ma
non l’avrebbe fatto con nessuno, perché era una cosa troppo grossa.
E se lo avesse chiamato subito?
In casa tutti stavano dormendo, si sentiva Fabio
russare.
No, avrebbe dato l’impressione di non aspettare
altro.
Non importava, che pensasse quel che volesse. Si
chiuse in bagno e digitò il numero sul cellulare,
trovò strano che le avesse dato il numero del fisso e
non quello del cellulare.
“Mamma” si sentì chiamare da Riccardo: “sei arrivata?”
“Sì tesoro.”
Andò a letto rimandando la telefonata al giorno seguente.
“Pronto” rispose lui e lei sentì il sangue diventare
acqua, poi una vampata fino all’ultimo capello.
Era innamorata.
“Ciao, sei Roberto?”
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“Si presenti prima lei!” e da questa risposta a Valeria sembrò che il bel sogno d’amore, stesse già
sfumando, perché un tono così arrogante le faceva
passare subito la poesia, ma non aveva altri a disposizione per sognare un po’. E doveva sognare,
voleva farlo, sentiva dentro l’urgenza per non cadere, per continuare a crederci.
“Sono Valeria.”
“Che Valeria?” ma era chiaro che l’avesse riconosciuta.
“Quella di Klimt.”
“Ah, ma ci siamo visti ieri, cosa vuoi?”
Che gran maleducato, la voglia di buttare giù il telefono c’era, ma non poteva permetterselo, voleva
sentirsi viva, felice, voleva amare.
“Volevo solo salutarti.”
“Beh allora chiamami domani alle dieci e mi raccomando, ne prima ne dopo.”
Nel cuore di Valeria l’impulso di una parolaccia,
nella sua testa la considerazione che fosse un cretino, ma mise giù felicissima, la storia iniziava.
E il giorno dopo lo chiamò alle dieci e un quarto,
per non sembrare ansiosa.
Roberto la rimproverò del ritardo, lei ancora una
volta avrebbe voluto interrompere la comunicazione con quell’arrogante maleducato, ma rimase al
telefono, pur non avendo niente da dire. Sentiva la
necessità di averlo vicino, di avere un amore. Spostò la tenda blu, guardò fuori dalla finestra:
“Hai visto come piove?”
Parlarono di cose delle quali non fregava niente né
a lui né a lei, e si salutarono ripromettendosi di trascorrere quanto prima una giornata insieme, alla
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prima mostra interessante che si sarebbe presentata
nei dintorni.
Provava la sensazione di tradire Fabio e i ragazzi,
perché la madonna certe cose non le fa.
Ma chi aveva iniziato?
Chi era stato a lasciarla sola?
Quindi non le importava niente, in lei era ormai
chiara la percezione che il gioco pericoloso fosse
iniziato, finalmente aveva trovato il coraggio di entrare nel labirinto che tante volte evitò, e con la coscienza pulita.
Avrebbe potuto uscirne, era ancora in tempo, oppure andare avanti e rischiare di perdersi.
Scelse il rischio per ritrovare entusiasmo e gioia.
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Un musicista deve fare musica, un pittore deve
dipingere, un poeta deve scrivere, se vogliono essere davvero in pace con se stessi.
(Abraham A. Maslow)
La Vecchia Saggia, colei che sa, è dentro l’anima
della donna e preme per uscire, l’aveva letto anni fa
su un libro, che la trovò in un periodo
d’inquietudine che poi come sempre passò, come
ogni fonte di luce è più luminosa del buio, come
ogni colore è più chiaro del nero.
Ma ora, erano arrivati di nuovo i giorni della Que
Sabe, colei che sa, colei che cerca di liberare la psiche-anima della donna.
Si resta per troppo tempo in panni non nostri e viene il momento prima o poi di rimetterli, di riconoscerli guardandosi allo specchio, toccandosi il viso,
le mani, i fianchi.
Il momento di usare la coniugazione magica “Yo
me voy!”
La famiglia ci sarebbe rimasta un po’ male, avrebbe cercato di rimetterla a cuccia con ricatti
emotivi, ma poi sarebbe passato, come tutto passa, sempre.
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Erano persone dai molti interessi e questo li avrebbe aiutati a riemergere.
Doveva andarsene, per non arrivare a lasciarli per
sempre o in alternativa essere infelice a vita.
Andarsene assumeva il senso di prendersi il suo
spazio, cercare una nuova passione, trascorrere fuori casa più tempo e non solo per andare alla casa di
riposo a trovare suo padre.
Andare, partire, fare una bella vacanza da sola.
Del resto suo marito era tutto assorto in questa storia da pazzi. I ragazzi stavano benissimo.
Ancora una ventina di giorni e sarebbero andati alle
Tremiti e al rientro, riposata, avrebbe deciso cosa
fare della sua vita, cercato di capire quello che la
Vecchia Saggia le chiedeva.
Era ben disposta anche a trovare un altro uomo, un
nuovo amore, quel giro di boa che riporta giovinezza sul viso, nel corpo, nella mente.
L’entusiasmo di sentirsi di nuovo viva.
Pensò a Roberto, le piaceva molto, anche fisicamente, sentiva che era il corpo giusto per lei, insieme avrebbero fatto sesso sfrenato, non sesso
porco, solo sfrenato, un sesso pieno di desiderio vero e di ricerca di completamento e già ne sentiva il
calore, l’odore, il caldo delle lenzuola che sarebbero state.
Santo Iddio, ma Valeria non era l’Emma Bovary di
Flaubert, tantomeno l’Anna Karenina, non ne aveva la stoffa, ma quante volte, aprendo l’armadio le
aveva trovate a turno, pronte ad entrare in lei, ben
vestite, ben truccate e allegre: le sorridevano maliziosamente certe di trovare la terza, ma Valeria ogni volta era riuscita ad assumere un sorriso sardo-
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nico e a sbattere loro le ante sulla faccia, solo così
per un po’ se ne sarebbero state lì buone buone, a
consolarsi l’un l’altra. Forse Emma aveva anche
pianto per il comportamento di Valeria, chissà.
Ciononostante, Valeria sentiva eccome le pulsioni
in lei, pulsioni che non riusciva a soffocare completamente, la donna, la femmina, il mammifero e
l’individuo, la stella che vuol rendersi conto di brillare veramente di luce propria, piano piano tutte
queste sensazioni avevano preso contorni e consapevolezza e il primo passo era stato fatto.
Intanto una decisione l’aveva presa, sarebbe andata
a passeggio con Anna ed Emma, che liberazione.
Mentre beata stava fantasticando, scegliendo a discapito degli abiti più austeri di Anna, quelli francesi dell’Ottocento con pizzi e merletti e un grande
cappello in testa con tanto di fiocco che lo legava
sotto il mento, entrò il marito:
“Vestiti e fai veloce, Francesco è al pronto soccorso, è caduto in bicicletta mentre passava una macchina”.
Valeria in un attimo si ritrovò nell’atrio delle scale
e sulla strada e sulla macchina.
Non pensava a niente, non riusciva, la testa se ne
stava andando via, in altre dimensioni sconosciute.
Il cervello non si faceva afferrare, come un motore
che gira a vuoto facendo un rumore assordante. Entrarono insieme in ospedale, Fabio correva troppo
veloce per riuscire a stargli dietro, ma finalmente
arrivarono. La barella lasciata tra le altre sul lato
del corridoio:
“Ciao mamma” e il cuore di Valeria si ritrovò a
battere nel corpo del suo piccolo.
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Erano soli al mondo, lei, lui e nessuno.
“Cos’è successo?” chiese Fabio.
A lei non gliene fregava niente di quello che era
successo, le interessava che il suo bambino fosse lì
seduto a guardarla.
“Mi bruciano le ginocchia e anche i gomiti, guarda
qui che spelatura, mi fa un male bestia questa mano…” e fece un verso di estrema sofferenza strizzando gli occhi e inspirando dai denti la saliva.
Arrivò il medico con le radiografie in mano, potevano stare tranquilli e portare Francesco a casa.
Solo il quel momento Valeria notò il ragazzo che
aveva investito suo figlio, se ne stava in disparte:
“Mi dispiace molto, ma è sceso dal marciapiede
con un impennata, ha perso l’equilibrio e non ho
fatto in tempo a schivarlo.”
“Sì, Riccardo, tutto bene, non si è rotto niente. Tra
poco arriviamo.”
Uscirono dal pronto soccorso, Fabio e Valeria sorreggevano Francesco, che faceva un sacco di versi
esagerando un po’: del resto era giusto così, era il
suo momento di popolarità, le attenzioni erano tutte
per lui, quelle attenzioni che in ogni famiglia numerosa non è facile ottenere e impossibile mantenere.
Fabio e Valeria si sorrisero.
“Scampato pericolo?” chiese il ragazzino.
“Già, scampato pericolo” gli risposero insieme i
genitori.
“Ma certe cose non si fanno” dissero Valeria e Fabio contemporaneamente, facendo combaciare parole, pause e tono. E risero di questo.
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A casa ricostruirono la dinamica dell’incidente, ancora una volta la distrazione di Francesco aveva
avuto la meglio.
Valeria telefonò all’autista per rassicurarlo, non era
successo niente e non avrebbero sporto alcuna denuncia, pur se con un minimo di riserva.
Non c’era mai pace in quella famiglia, la Que Sabe
l’aveva previsto? Certo che no, pensò Valeria, che
si era sentita ributtata in famiglia, lontana da ogni
proposito di indipendenza, lontana dal suo amico
barbone che l’aveva fatta riflettere e lontana da Roberto, lontana da Maria, da Anna, dai bei cappellini
di Emma e lontana persino da suo padre e da Colei
che sa.
“Ci penserò domani “ si disse, sfinita ma felice ringraziando il Padre.
Si avvicinò ai suoi quattro ragazzi e uno per volta li
baciò, prese poi il faccino segnato di Francesco tra
le mani:
“Che paura mi hai fatto prendere” e Francesco fece
una smorfietta nella quale c’era certamente una
sfumatura di soddisfazione.
Forse la Vecchia Saggia sapeva. Sì, sapeva e guardava, guardava e sapeva.
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L’esistenza umana è quindi la ricerca di questo
lago a cui placare la sete.
(John R.R.Tolkien)
La vacanza venne rimandata a causa del polso ingessato di Francesco e delle medicazioni.
Riccardo andò al mare con un amico, Alessandra
con le amiche e Giovanni partecipò a un campo estivo.
Una sera, mentre Fabio e Francesco stavano giocando a domino, Valeria si ritirò in camera e decise
di telefonare a Roberto, chissà se era rimasto a Milano.
Componendo il numero, sorrideva.
Il poster appeso alla parete con l’immagine dei suoi
figli anziché frenarla la rassicurava.
Finì di comporre il numero e rimase ad ascoltare il
suono del telefono, era convinta che ogni casa ne
avesse uno.
Roberto riusciva a metterle pace, anche se era un
bel po’ arrogante e pieno di sé.
Decisero di incontrarsi in centro per bere un caffè.
140
Si diressero verso Via Formentini, dove Roberto
viveva, in una mansarda che usava anche da studio.
Aveva fatto bene a indossare la biancheria intima
migliore che avesse. Quelle culottes di seta bianca
l’avrebbero fatto impazzire. Gli uomini amano le
culottes. E quel reggiseno così delizioso.
Per un momento davanti a lei la faccia di Riccardo:
“Che cazzo stai facendo mamma?!”
Grazie al cielo era solo fantasia. Mandò via
l’immagine di suo figlio, il più rigido dei quattro, e
riprese la sua bella paginetta romantica accanto a
questo uomo bellissimo che stava per diventare il
suo uomo. Il suo amante. Finalmente. Libera di
amare, di essere se stessa fino in fondo. Di volare
leggera e ritrovare gioia, felicità, entusiasmo, giocosità, passione.
Amore.
Quanti colori, pennelli, tele.
Il letto pareva una cosa messa lì in più, in disordine
e questo le fece venire voglia di andarsene via, odiava i letti sfatti, le sapevano di trascuratezza,
sporco, inciviltà.
Non c’era cucina, probabilmente usava mangiare
fuori, consumava tra una pennellata e l’altra qualche pasto acquistato in gastronomia o gli portava su
qualcosa la portinaia.
“Roberto, che occhiata mi ha dato la portinaia mentre passavamo. È innamorata di te?”
Già, per quello che ne sapeva lei tutto poteva essere.
Di lui non sapeva proprio niente di niente ed era
per questo che era decisissima ad andarci a letto, a
fare di tutto e di più in quel letto, che se però fosse
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stato in ordine e con lenzuola pulite le avrebbe
mosso più erotismo. Lenzuola fresche di bucato o
meglio ancora nuove, l’avrebbero soddisfatta maggiormente.
Le parve strano non provare imbarazzo, era lì sola
con un uomo, con ‘sto letto a disposizione, tranquilla e a suo agio, pronta.
Stava bene ed era invaghita di lui. Perfetto!
“Quanti anni hai? “ gli chiese.
“Ne compio trentasette il mese prossimo” e Valeria
pensò che avrebbe dovuto cominciare a pensare che
regalo fargli.
“Però, trentasette, una bella cifra, ne dimostri
meno.”
“Lo so.”
Lui si sedette sullo sgabello e lei per non rimanere
in piedi impalata, con noncuranza provò a sedersi
sul letto, anche perché non c’erano altre sedie otre
quello sgabello.
Lui stava zitto, mentre lo sguardo di Valeria scorreva sui quadri appoggiati a terra.
Improvvisamente fu attratta dal ritratto di un viso
che le ricordava qualcuno, si alzò per avvicinarsi a
guardarlo meglio, mise una mano sulla bocca per lo
stupore; poi, appena si riprese chiese chi fosse.
“Bella vero? È una mia carissima amica.”
“Come si chiama?”
“Maria, è una patologa neonatale della Mangiagalli.”
Valeria restò senza fiato, sentì improvvisamente il
sangue scorrere gelato.
“Ma la conosci bene?”
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“Dipende cosa intendi. Direi di sì, la conosco
bene.”
“Ma è una donna o un uomo?”
“Credo tu abbia dei problemi di identità sessuale,
tesoro mio, Maria non ha assolutamente tratti maschili” e nel frattempo verificava guardando il suo
quadro “anzi, è molto ma molto femminile. Capisco che tu possa avere avuto delle perplessità sul
volto di Fritza Riedler a Vienna, ma su Maria no.”
“La conosci da molto?”
“Da una vita, siamo stati fidanzatini quando avevamo un quindici anni.”
“E per quanto tempo è continuata questa relazione?”
“Non mi ricordo, si andava all’oratorio insieme.
Qualche giorno, un mesetto, non saperi dire. È passato troppo tempo.”
“Quindi non ci sei mai stato a letto?”
“Non ti pare di essere inopportuna?”
“Ti prego rispondimi, è fondamentale per me
saperlo.”
“Ti pare che io possa non essere andato a letto con
una donna così?”
“Non fare giri di parole, rispondimi.”
“Perché lo vuoi sapere?”
“Fidati di me, non è morbosità, ci sei andato a
letto?”
“Sì, ma molti anni dopo, una decina di anni fa
all’incirca.”
“È una donna?”
“Tu sei pazza. Certo che è una donna.”
A questo punto, Valeria si era convinta e, passando
per una persona folle, cambiò di botto l’argomento.
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“Che belle queste violette” gli disse avvicinandosi
alla finestra.
“Le ho prese in montagna, senti il profumo.”
Cos’erano andati lì a fare, per fare quello che stavano facendo potevano fermarsi in un bar, sarebbe
stato meglio, visto che aveva sete e non le offriva
niente da bere.
Prese una violetta dal piccolo bicchiere da liquore
posto sul davanzale. “Posso portarmela a casa?”
chiese educatamente.
Roberto annuì, sorridendo, mentre la guardava divertito, chiedendosi, ancor più divertito, cosa dovesse fare con quella donna, che non c’entrava
niente con tutte le altre donne al mondo.
“Sai bell’uomo cosa ti voglio dire? Che ho messo
delle culottes bianche, nuovissime perché dovevo
incontrarti. E che il mio sogno erotico è da sempre
quello di trovarmi nella soffitta di un pittore, Brera,
Montmartre, e farci l’amore tra quadri e pennelli,
con questo odore forte ed eccitante di trementina e
di colori a olio.”
Roberto scoppiò a ridere come un pazzo, era davvero la donna più divertente tra tutte quelle che si
erano innamorate di lui.
“Allora bella donna, se vuoi, ci siamo” disse indicando l’ambiente intorno con il mento. Mantenendo gambe e braccia incrociate:
“La soffitta, Brera e la scenografia adatta ai tuoi
sogni erotici. Se vuoi… io son qui.”.
Lei lo guardò pensando che fosse scemo, che certe
cose mica si chiedono, ma lui proseguì nell’arringa
finale, quale poi si rivelò:
144
“Ma io, per te, voglio essere l’amichissimo, perché
tu come amante saresti un casino, non reggeresti
che per pochi mesi. Mi piaci. La tua testa ben fatta,
il tuo modo di essere e di porti, la persona perbene
che sei. Mi piace stare con te. Mi piaci molto, più
di quanto io piaccia a te, credo. Ma tu, costi
troppo.”
“Ma certo pittore, va benissimo così. Cerchiamo di
mettere il coperchio sul cestone dei desideri e restiamo amici. Ma ti avviso, finiremmo comunque
in un letto prima o poi” e Valeria rise di gusto.
Roberto, che non l’aveva mai sentita ridere fino a
quel momento, la trovò bellissima, lui desiderava
ardentemente solo una cosa: non perderla.
Ma sapeva nel suo profondo che l’avrebbe persa,
come si perde quello che è nostro, perché in quel
momento sapeva che Valeria era sua, solo sua, lontana dalla sua casa, da suo marito e anche dai suoi
figli. Avrebbe potuto raccoglierla a quell’angolo di
strada in cui si trovava e tenerla per sempre con sé,
ma sapeva che non sarebbe stata una storia facile.
Lei era dolcissima, intelligente, la donna fatta su
misura per lui, e lui quel giorno scelse di lasciarla
andare.
“Scrittrice, a malincuore, sarò per te la Durendal
per Orlando, l’Excalibur per Artù “ e Valeria riscoppiò a ridere, ma c’era amarezza in quella risata
“Presuntuoso.”
“Posso esserlo.”
Valeria allora non rise più, venne fuori la parte di
lei che come una schiacciasassi passava
sull’arroganza, sulla presunzione, sulla poca umiltà
della gente: cominciò a guardarsi distrattamente in-
145
torno, trovò un pennello, lo prese e si avvicinò a
una tela che stava ad asciugare; Roberto studiava
con attenzione ogni movimento, notando la gonna
che stringeva sul sedere e ne delineava la rotondità,
immaginando le culottes bianche, al posto di quegli
schifosi perizoma che mai gli erano piaciuti. Immaginando di giocare sulla seta con le sue grandi
mani.
Valeria si abbassò all’altezza del quadro e col pennello distese meglio lo sfondo, i colori.
Lui guardava attonito senza riuscire neppure a dirle
di non farlo e, finito di stendere il colore rovinando
il quadro, si rialzò.
“Non ho bisogno di nessuna spada e poi, se vogliamo essere precisi, fu la spada di Lancillotto e
non quella di Re Artù a salvare Ginevra
dall’infamia.”
Si pulì le mani sulla gonna, imbrattandola di colore,
prese la porta ed uscì, sporcando la maniglia, lasciando le sue impronte.
Roberto rimase solo e senza parole, dopo un po’
prese a lavorare, alzò quel quadro, era bellissimo,
sembrava una fotografia scattata da una vettura in
corsa.
Sorrise, sentiva Valeria pulsare forte dentro.
Era cosciente di quanto i suoi rapporti con le donne
fossero effimeri, si sentiva sempre coinvolto da
principio e poi, ogni volta si stancava e allora,
pianto e stridor di denti per le povere amanti.
Valeria non vedeva l’ora di arrivare a casa, affrettò
il passo.
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Ogni spirito serenamente equilibrato dovrebbe
rallegrarsi non tanto di sapere qualcosa chiaramente, quanto nel sentire che vi è dell’altro, in
quantità infinita che non può comprendere.
(John Ruskin)
Lesse la targa d’ottone sulla porta, era nuova, FAMIGLIA ALESSI.
“Ho una gran bella famiglia” pensò.
Entrò in casa, il marito stava cucinando e sul tavolo
vide una camicia con un bottone in fase di attaccamento, il filo lungo e l’ago persi nella stoffa.
“Spiegami, Fabio.”
“Cosa?” chiese lui affaccendato.
“Spiegami di Maria, perché hai fatto tutto quella
messa in scena, quella commedia. Non è un trans,
dunque?”
“Dunque?”
“Non so. Sei tu che mi devi delle spiegazioni.”
“Sentivo che ti stavamo perdendo e così ho chiesto
aiuto a una collega.”
“Devo avere dei momenti miei Fabio, solo questo.
Voi invece, tutti, ogni volta trovate il modo per travolgermi, per risucchiarmi. Per stravolgermi la vita.
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Non posso continuare in questo modo, tutta la mia
vita dipende da voi, da come state, da ciò che fate,
da come mi trattate. Basta una vostra gentilezza,
una cortesia per sentirmi felice. Vi ho dato la mia
vita e voi in cambio mi date noncuranza, preoccupazioni e anche dolore, sì Fabio, anche dolore.”
“Guarda che ti capisco, infatti voglio che tu stia bene con noi. Io e i ragazzi siamo diventati le tue
sbarre ma nessuno di noi vuole questo. Nessuno di
noi ti vuole infelice. E su questo converrai.”
“Non lo so. Giuro che non lo so. A volte sembra di
sì. Ma spiegami, perché un trans? Come ti è venuta
questa idea di dirmi del trans?”
“Improvvisamente, mentre stavamo litigando, quel
giorno del pugno” Fabio cercò lo sguardo che conosceva: “per rendere più credibile che fosse una
menzogna quando te l’avrei confessata.”
Valeria sentì una gran tenerezza per quell’uomo, il
suo consorte, quello che divideva la sorte con lei, il
suo socio al cinquanta per cento nella vita.
No che non sarebbe mai diventato grande, ma in
fondo era con lui che voleva continuare la sua vita.
Non riuscì ad abbracciarlo e a dirgli i suoi pensieri,
non era mai stata abile in questo.
Il cane arrivò scodinzolando, la guardò con infinito
amore e lei ricambiò abbassandosi a quell’altezza e
coprendolo di carezze e baci.
148
Mamma è l’altro nome di Dio sulla bocca dei nostri figli (Da fonte sconosciuta)
Ieri, Alessandra era a casa nostra, stava leggendo
alla sua bambina un libro che leggevo sempre a lei
quando era il mio cucciolo.
“Guarda mamma, c’è una violetta secca” ha detto
la piccola “e ha lasciato delle macchiette sulla pagina e ha cancellato un pochino la scritta. Che peccato. È un peccato vero mamma? Ma mamma ma
che colore è?”
“Color nostalgia” ha risposto mia figlia guardandomi.
No, non esiste il colore della nostalgia.
149
INDICE
11
I
30
II
53
III
81
IV
87
V
95
VI
103
VII
116
VIII
128
IX
135
X
140
XI
147
XII
149
XIII
Seconda Edizione
Giugno 2009