rassegna stampa al femminile famiglia, lavoro e pari

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rassegna stampa al femminile famiglia, lavoro e pari
rassegna stampa al femminile famiglia, lavoro e pari opportunita’
Verona, 15 gennaio 2013
Nelle professioni le posizioni delle donne crescono ma troppo lentamente
Signore, per arrivare alla parità ci vorranno altri quarant’anni
di Rita Querzè e Franca Porciani
Sono passati vent’anni. Sembra un giorno. Dai primi anni Novanta a oggi per le donne, sul lavoro, è
cambiato ben poco. E non è motivo d’orgoglio. Non è quello che si aspettava chi cominciava a lavorare in
quei tempi, quando pareva che la parità vera fosse dietro l’angolo, anche in ufficio. Speranza mal riposta.
Il lavoro coniugato al femminile è stato più oggetto di dibattiti che terreno di cambiamenti profondi.
Chi non ne fosse convinto non ha che da scorrere i dati che pubblichiamo in queste pagine, frutto di un
approfondimento curato da Isfol su dati Istat in esclusiva per Sette. All’Istituto per lo sviluppo della
formazione professionale dei lavoratori di Roma abbiamo chiesto di verificare quale era la quota di donne
nelle principali professioni vent’anni fa e di fare un paragone con la situazione attuale.
Il risultato è sorprendente. Le donne di oggi vivono una condizione lavorativa che non è molto diversa da
quella delle colleghe dell’ultimo decennio del Novecento.
Sulle professioni tecniche si registra addirittura un arretramento delle posizioni rosa: dal 45,2 al 40,3 per
cento. Certo, la definizione non deve trarre in inganno: di questa categoria fanno parte tutti i lavoratori con
compiti esecutivi negli ambiti più diversi. Ma tant’è.
Le donne aumentano nella categoria delle professioni non qualificate, nonostante in questi anni il loro
tasso di scolarizzazione abbia fatto costanti progressi. Per fortuna qualche soddisfazione arriva dalla
categoria delle professioni intellettuali e scientifiche ad alta specializzazione, che oggi si tingono di rosa nel
54,7 per cento dei casi (si partiva da quota 40,6 per cento). I magistrati donna aumentano con il contagocce.
Stessa cosa per le donne in politica. Imprenditrici, amministratrici e dirigenti erano il 14,4 per cento del totale
e diventano il 21 per cento. Ben poca cosa. Di questo passo, per arrivare al fifty-fifty serviranno altri
quarant’anni. Le docenti universitarie passano dal 26,9 al 36 per cento: com’è possibile, vista la presenza e i
risultati delle donne nelle università? Si moltiplicano con molta calma le donne medico. Qualche
soddisfazione viene invece da avvocati, notai, esperte di economia, gestione, commercio: la loro presenza
raddoppia e arriva a sfiorare il 50 per cento.
La forte rappresentanza femminile in alcuni settori come quelli delle scienze sociali, della biologia o della
farmacia è una buona notizia solo fino a un certo punto: si tratta di ambiti in cui le donne sono sempre state
una presenza massiccia. In cui però oggi le opportunità di lavoro vanno restringendosi.
Scenario troppo pessimista? Lo abbiamo chiesto a Marco Centra, esperto di Lavoro e Pari opportunità
dell’Isfol oltre che responsabile del servizio statistico. «Non direi proprio», risponde l’esperto.
«Le donne non hanno sfondato il soffitto di cristallo, ma continuano anche a essere “segregate” in alcuni
settori. Non riescono a distribuirsi in modo da approfittare di tutte le opportunità offerte dal mercato».
Eppure in questi vent’anni nel mondo del lavoro italiano sono arrivate due milioni di donne in più (dai 7,3
milioni del ’93 ai 9,3 del 2011). «Il problema», precisa Centra, «è che queste signore sono finite negli stessi
settori in cui erano entrate le loro mamme. Di fatto, consolidando le differenze. Inoltre l’aumento delle
donne nelle professioni non qualificate lascia intuire uno straordinario spreco di competenze».
Ma, a parità di qualifica, le donne guadagnano meno degli uomini, con un differenziale di genere (come si
chiama adesso) del 9 per cento circa.
Il peso della famiglia. La prima intuizione di fronte a questi dati, ancora sconfortanti, è che la maternità
c’entri, e non poco in questa situazione, anche se il nostro tasso di natalità è basso. «In effetti in tutti i Paesi
europei, al di fuori della Finlandia, le mamme lavorano meno delle donne senza figli»; sottolinea Paola
Profeta, docente di Scienza delle finanze all’Università Bocconi di Milano e autrice, con Alessandra
Casarico, di Donne in attesa (Egea editore), «ma c’è un paradosso che è tutto italiano: l’abbandono del
lavoro dopo la nascita del bambino è una scelta/obbligo che arriva al 27 per cento delle occupate e
che si rivela spesso definitiva, a differenza di quanto avviene in altri Paesi europei. Tasso di abbandono,
poi, decisamente più alto per le donne che hanno soltanto la licenza media e per quelle che vivono al Sud».
Al di fuori di una fetta di privilegiate, il confinamento fra le pareti domestiche (ancora oggi il 50 per cento
delle famiglie italiane è monoreddito) è una realtà. Dovuta alla mancanza di servizi per l’infanzia e di
flessibilità (come part-time, telelavoro, congedi parentali), ma frutto soprattutto di un pregiudizio culturale
durissimo a morire, motore primo di questo vuoto: l’idea che la “conciliazione” fra identità sociale,
personale e affettiva (figli compresi) sia una questione squisitamente, ed esclusivamente, femminile.
Idea che trasforma la questione in un macigno: ecco, allora, che la cura della famiglia impegna la donna per
sei ore al giorno, mentre l’uomo si limita a un’ora, quando va bene.
D’altro canto, non parla da sé l’inattività femminile delle province di Napoli e Crotone che arriva al 72,4 per
cento?
Le scelte politiche. La questione è complessa, senz’altro condizionata anche da scelte politiche. Illuminanti,
a questo proposito, le ricerche condotte sull’allocazione delle risorse nei Comuni e il “genere” dei politici che
li governano (sindaci, consiglieri comunali). Dove predomina il sesso maschile, si opta per la giustizia, la
pianificazione del territorio; dove domina il “rosa”, si previlegia la spesa per la scuola dell’infanzia e la
primaria, le biblioteche, lo sport, l’assistenza agli anziani. Guarda caso, quello che solleva un po’ le donne
dal famoso macigno.
L’opinione di alcune donne che “ce l’hanno fatta” e di uno studioso del mondo femminile
«Questi dati? Somigliano a quelli dei Paesi del Nord Africa»
Come percepiscono questo mondo del lavoro ancora così poco femminile donne che svolgono
professioni significative? Ecco le loro risposte. In aggiunta, l’opinione di un sociologo (una voce
maschile ci voleva).
Barbara Hoepli -Editrice - «Assistiamo oggi a una ascesa della presenza femminile ai vertici delle case
editrici. Ma il quadro generale non è dei più rosei: le donne fanno fatica ad affermarsi, soprattutto in certe
professioni. Colpisce che nell’ambito dell’informatica in Italia gli uomini siano ancora oggi protagonisti quasi
assoluti. A differenza di quanto avviene negli Stati Uniti, dove una donna di soli 37 anni, Marissa Mayer, è
stata nominata amministratore delegato di Yahoo, per di più quando era in attesa di un figlio. Ma non tutto è
nero: in ambito giuridico c’è un aumento significativo delle donne, il 22 per cento».
Franca Melfi -Chirurga toracica- «Di questi dati mi ha colpito soprattutto quello che riguarda i medici:
nell’arco di vent’anni mi aspettavo un incremento delle donne più importante di quel 10 per cento che è stato
registrato dall’Isfol (evidentemente la percezione soggettiva non corrisponde al dato statistico). La chirurgia è
un ambito della medicina storicamente maschile, al limite dell’arroganza; per la donna terreno tuttora da
pionieri. Il rischio è quello di trovarsi relegata all’endoscopia. Solo in cardiochirurgia pediatrica la donna ha
trovato più spazio».
Alina Marazzi -Regista cinematografica - «Faccio parte della generazione che si è affacciata sulla scena
sociale quando il movimento femminista si era già spento, ma l’esperienza di quegli anni mi ha sempre
interessata anche perché ritengo che ci sia un filo conduttore da riallacciare fra quell’epoca, ricca di
conquiste sociali importantissime, e la realtà odierna, contraddittoria e frustrante per le donne (sul tema la
regista qualche anno fa ha realizzato un film, Vogliamo anche le rose, ndr). Nel mondo del cinema la
presenza delle donne è più importante che in altri campi: sono molte le donne registe e sceneggiatrici».
Anna Soru -Presidente Acta, associazione consulenti del terziario avanzato- «I cambiamenti, soprattutto
quelli culturali, sono lenti. Anche perché il nostro è un Paese gerontocratico: di conseguenza, il ricambio
generazionale è lento e questa inerzia rallenta i cambiamenti. Forse il rammarico maggiore è legato alla
scarsa propensione delle donne ad abbracciare professioni diverse da quelle svolte in passato. Gli ambiti
dove abbiamo raggiunto la parità sono quelli che offrono meno opportunità di lavoro».
Alessandra Perrazzelli -Presidente di valore D- «I dati sul lavoro delle donne in Italia sono comparabili con
quelli dei Paesi del Nord Africa. E attenzione: pensare solo alla realtà di alcune città del Nord, in particolare
Milano, è fuorviante. C’è ancora un enorme lavoro da fare. Ora è fondamentale che l’obiettivo sia condiviso
anche dagli uomini. Il benessere dell’Italia dipende anche dal coinvolgimento delle donne nel mercato del
lavoro».
Enrico Finzi -Sociologo, presidente AstraRicerche- «Dietro la crescita del lavoro impiegatizio al femminile si
nascondono molti contratti poco qualificati. Il nostro Paese fa progressi, ma troppo lenti. E le quote rischiano
di essere un’arma a doppio taglio. Alla lunga potrebbero far passare il seguente messaggio: le donne vanno
avanti anche quando non lo meritano»
Questo articolo è stato pubblicato su Sette del 4 gennaio 2013