Professioni ed apprendimenti - Università degli Studi della
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Sezione Seconda Professioni ed apprendimenti I L’UOMO DI NEANDERTHAL 1.1. Premessa Il prendersi cura dell’altro, sia in termini professionali che genericamente umani, comporta l’incontro con le diversità, in termini problematici. In particolare, i miei interessi scientifici e culturali riguardano le diversità collegate alla presenza di deficit. Ci sarebbe da domandarsi seriamente cosa ha a che fare un individuo che si occupa di queste tematiche con la scienza matematica. Non lo so, e rimango molto incerto sul senso di questo intervento. Vorrei riflettere su un aspetto che può sembrare insignificante o molto ambizioso. Mentre preparo queste riflessioni, sul prato ci sono dei gatti. Due sono della stessa nidiata, ma molto diversi fra loro: uno è piccolo rispetto all’altro, e, se non li conoscessi dalla nascita, non potrei affatto affermare che sono fratelli. Quello più piccolo fisicamente non stava bene e sarebbe sicuramente morto. Ma è stato portato dal veterinario, che l’ha curato. È vivo, e diverso rispetto al fratello. Sempre preparando queste riflessioni, leggo un interessante articolo in cui si parla delle catastrofi nella storia del mondo. Se i dinosauri fossero sopravvissuti a quella che si verificò 65 milioni di anni fa, probabilmente gli uomini non esisterebbero o sarebbero molto diversi… (Dufour, 1999). Mi rendo conto che l’utilizzazione, sia pure riferita ad una concettualizzazione precisa, di termini come “amicizia” e “fratellanza” è un’imprudenza. Collegati al fatto che io mi occupi di persone handicappate e di situazioni di vulnerabilità può far pensare che questa riflessione possa anche avere risvolti umani interessanti, ma non riguardi tanto gli aspetti scientifici. Ammetto l’imprudenza, ma chiarisco che i termini “fratellanza” e “amicizia” non sono impiegati nel senso corrente, e vorrebbero essere funzionali ad una certa riflessione. Che poi, sul piano umano, l’amicizia sia di una qualche importanza è un fatto. Certi interessi per le vicende del mondo per me sono collegati al ricordo dell’amicizia con Giuseppe Minelli. E il fatto che questa riflessione si collochi in un incontro scientifico di matematici e non di – per esempio – paleontografi, è anche dovuto a rapporti d’amicizia. Questo mi permette di condividere, almeno in parte, la responsabilità del fatto che io svolgo questo intervento. 1.2. Le ragioni e lo spazio di una conoscenza. Hannah Arendt, nel 1959, ricevette ad Amburgo il premio Lessing. In quell’occasione pronunciò un discorso successivamente pubblicato. 1 La Arendt riprese alcuni concetti da Lessing. Tali concetti hanno a che vedere con l’organizzazione delle relazioni fra individuo e mondo. L’impianto della sua riflessione ha come punto di partenza la constatazione che il mondo si estende e si costruisce fra gli individui. Ed è proprio questo “fra” che può essere l’elemento di preoccupazione, ed anche quello in cui possono essere provocate le più grandi agitazioni. Vi è, nella riflessione della Arendt, un riferimento, che può interessarci maggiormente, a quello che per Lessing è il concetto di fraternità. È bene considerare che questa riflessione si riferisce a Lessing ed all’uso che la Arendt fa del pensiero di Lessing. Quindi la nostra riflessione non ha la possibilità di essere estrapolata se non in riferimento a un contesto e a degli autori precisi. Hannah Arendt legge in Lessing una critica al concetto di fraternità, che si può in qualche modo contrapporre alla realizzazione dell’amicizia. Forse la contrapposizione è troppo forte ma certamente le due dimensioni, quella della fraternità e quella dell’amicizia, non ricoprono la stessa distanza, anche perché la fraternità, intesa da Arendt-Lessing, è proprio l’annullamento della distanza, mentre l’amicizia è un percorso di distanze. Cosa significa “fraternità”? Per Lessing la fraternità è uno slancio che fa dire che l’altro mi è fratello. E questo slancio è tipico delle situazioni in cui vi sono delle disgrazie. Il calore pietoso per gli umiliati, degli oppressi, può richiamare la fraternità. Ed è in nome di questa fraternità che la Rivoluzione Francese, riprendendo concetti di Rousseau, ha stabilito una volta per tutte l’uguaglianza fra i cittadini, cioè fra coloro che hanno la possibilità di essere chiamati “cittadini”. È quindi interessante capire che poteva anche esservi qualcuno che non era nella fraternità perché non aveva cittadinanza. Questo creò nel tempo uno dei limiti della Rivoluzione Francese ma anche una delle aspirazioni di riconoscersi in essa, essendo accolti nella “sua” cittadinanza. La fraternità è immediato riconoscimento ma, nell’eccezione di Arendt-Lessing è anche annullamento delle distanze. Riprendiamo ancora questo concetto dicendo che Lessing vede nella fraternità un sentimento filantropico che tende ad abbracciare, ad accostare, portando ad assumere le differenze attraverso la compassione. Di fronte a chi soffre, a chi vive nella disgrazia, la dichiarazione di fraternità risponde ad uno slancio umanitario. E, sempre secondo Arendt-Lessing, l’amicizia è la possibilità, anche selettiva, di scegliere un percorso di conoscenze nei confronti degli altri. Questa lettura di Arendt-Lessing ci fa riflettere. Ci fa riflettere, ad esempio, sulla possibilità che la presenza di una persona in situazione di handicap metta in moto negli altri lo slancio di generosità che dice: “Tu mi sei fratello, tu mi sei sorella”. E con questo, però, si preclude la possibilità di un percorso di conoscenza. La generosità, che sembra essere la migliore delle dimensioni per accogliere, diventa anche, però, la possibilità di chiudere alla curiosità e all’indagine, quindi a una conoscenza non solo relazionale ed esperienziale, ma anche tecnica e scientifica. E proprio su questo è bene riflettere e capire come possiamo utilmente ragionare in termini di conoscenza, il che comporta una formulazione concettuale. Facciamo un’altra piccola escursione. Ci porta molto lontano, in un tempo difficile da rappresentare. Siamo nella preistoria. Convivono, in quella parte del mondo che noi chiamiamo Europa, e probabilmente in altre parti del mondo che oggi chiamiamo Africa, due specie di umanoidi: l’Uomo di Neanderthal e l’Homo sapiens. L’Uomo di Neanderthal è molto più robusto, è forte, utilizza pietre pesanti come utensili, e sembrerebbe avere una maggiore capacità, di sopravvivere perché ha più energia, più risorse individuali. L’Homo Sapiens, al suo confronto, è più debole, ha un metabolismo economicamente più fragile, può portare 2 solo “attrezzi” leggeri, e quindi dovrebbe avere meno possibilità di sopravvivenza. Per circa diecimila anni, che non sono pochi, le due specie convivono, più o meno pacificamente. Poi una delle due scompare, l’altra sopravvive ed è tuttora presente nel mondo, e siamo noi. È sopravvissuto l’Homo sapiens e si è estinto l’Uomo di Neanderthal. L’individuo, o meglio la specie composta da individui più forti, non è sopravvissuta rispetto alla specie composta da individui più deboli. Le ipotesi degli studiosi sono state che l’individuo più forte ha contato sulle forze individuali, mentre i più deboli hanno messo insieme le risorse e quindi hanno cominciato, continuato, riorganizzato tecniche trasmissibili. Possiamo quindi immaginare che il gruppo abbia dovuto comporre diverse idee. Nel gruppo dovevano esservi dei punti di mediazione, forse non solo dialogici, ma anche con azioni cruente, per arrivare a decisioni che permettessero a tutto il gruppo di seguire una decisione che non fosse penalizzante per il gruppo stesso. Bisognava cominciare a ragionare con un’idea di sopravvivenza e con un’idea di gruppo, con un’idea di risorse non tanto legate al singolo quanto al gruppo. È la nascita e lo sviluppo del linguaggio, che ha connessioni con la percezione temporale. Possiamo immaginare che l’Uomo di Neanderthal abbia osservato con una certa sufficienza questo povero Homo Sapiens, tutto preso da dispute, con tutti i difetti che le collettività comportano: trame per convincere o per ingannare gli altri sulle proprie opinioni, conquiste di simpatie per poter rinforzare il proprio sottogruppo, regali fatti a chi mostra di avere qualche piccolo potere, e poteva così essere messo al servizio del proprio interesse. Immaginiamo che l’Uomo di Neanderthal abbia riso alle spalle dell’Homo Sapiens e l’abbia considerato come una povera creatura destinata a passare il tempo in piccole dispute, mentre lui, l’Uomo di Neanderthal, poteva più rapidamente organizzare la propria sopravvivenza. Possiamo immaginare anche che l’Homo Sapiens abbia dovuto contare, proprio così, utilizzare le dita, forse le pietre, forse i segni su un pezzo di legno per sapere quanti individui erano della stessa idea. Abbia dovuto contare per mettere da parte delle risorse e affrontare così periodi in cui le proprie forze non erano sufficienti per avere da mangiare. Anche di questo, forse, l’Uomo di Neanderthal avrà potuto ridere. Ma l’Uomo di Neanderthal è scomparso, e l’Homo Sapiens è sopravvissuto. È un dato di fatto. Questo significa qualche cosa a proposito della possibilità, o necessità, che nascano e si trasmettano conoscenze che hanno a che fare con le quantità, con i rapporti, con le proporzioni. Possiamo tornare al discorso che Hannah Arendt tenne ad Amburgo nel 1959. Hannah Arendt pose un problema che è anche una sorta di paradosso. Nella conquista della libertà vi è stata anche la libertà, per l’individuo, di ritirarsi alla vita privata, di togliere la sua partecipazione alla comunità, e quindi di non partecipare alla vita politica. Tra le libertà conquistate attraverso l’organizzazione politica vi è anche la libertà di non fare politica. Questa è considerata anche come una delle libertà fondamentali, per lo meno nel mondo occidentale, ma tendenzialmente anche in tutto il mondo. Questa possibilità di ritirarsi ha diverse forme di realizzazione e Hannah Arendt precisa che vi sono ritiri dall’attività sociale e politica immediata che permettono all’intera comunità di avere grandi benefici perché chi si isola pensa e riflette. È però paradossale questa situazione. E dal 1959 ad oggi l’elemento di paradosso è cresciuto. Nell’Homo Sapiens si è venuta a creare una sottospecie, che qualcuno ha voluto chiamare Homo tecnologicus: fortemente autoreferenziale, sente di avere un grande potenza individuale e può ritenere di non dover mettere insieme le risorse e costruire insieme strategie perché ha tutto per poter fare a meno degli altri e non perdere tempo con negoziazioni. 3 In realtà la potenza individuale è costruita dalla potenza collettiva. Le tecnologie non sono ancora capaci di autoriprodursi. E quindi l’individuo potenziato dalle tecnologie in realtà è potenziato dalla società che ha costruito le tecnologie, che ha organizzato la possibilità di raggiungerle e di servirsene. Vi è un elemento di drammaticità, costituito da una sorta di forbice che si allarga, tra quelle che sono le percezioni di carattere individuale e quella che è la realtà sociale e collettiva. Vi può essere chi ha una percezione di sé tale da ritenersi autosufficiente. E questo non corrisponde al reale, ma può fare sì che l’attività di raccordo con gli altri venga ritenuta sempre più inutile o dannosa, perché non corrisponde a quelle che sono le linee chiare dei propri interessi. Si allarga sempre più la forbice tra quelli che sono gli interessi individuali, chiari, precisi, e soprattutto attuali, e la scarsa comprensione e comprensibilità di un disegno collettivo che non ha mai niente di attuale ed è sempre promessa. Banalizzando, questo, può essere rappresentato anche con la figura dell’automobilista che ha tutte le offerte: basta che abbia anche la possibilità di spese, per avere un’automobile ritagliata sulle proprie necessità attuali. Egli si scontra invece con un’organizzazione stradale, autostradale e collettiva che non risponde ai suoi bisogni attuali ed offre promesse: lavori in corso, servizi assenti, altri non confacenti alle necessità. Tutto contribuisce a rendere l’individuo poco condiscendente all’ingresso in un ragionamento collettivo e a rinforzare l’idea che la possibilità di stare nell’attualità necessaria è individuale, mentre con gli altri vi sono promesse confuse. Questa divagazione può essere messa al servizio delle ragioni delle conoscenze, per capire quali ne siano gli spazi. Torniamo alla questione di una presenza di diversità e facciamolo in uno scenario scolastico, in una classe. La diversità può essere derivata da altra cultura, dal genere – maschile/femminile-; può essere dovuta a una situazione di handicap. L’accettazione istantanea è una dichiarazione di fraternità; il percorso dell’amicizia si apre al tempo. Con riferimento ad Arendt-Lessing, utilizziamo questo schema, quasi di contrapposizione. Nel primo caso la classe non ha nulla da domandare ma ha un impegno da sottoscrivere. Nel secondo caso ha molte domande da fare e in queste domande vi sono decisioni da prendere sulla base di elementi che esigono analisi, comparazioni, misurazioni… La classe è composta da individui che hanno ritmi e abilità differenti: diverse abilità, e non solo disabilità; ma che hanno anche limiti con i quali ciascuno deve fare i conti. E non sono solo quelli più appariscenti a dovere essere in qualche modo presi in considerazione, ma vi sono limiti nascosti, rispetto ai quali la vita dell’apprendimento scolastico spesso cerca di scivolar via, lasciando che ognuno risolva in una sorta di scatola nera i propri problemi. Può essere utile misurare i propri limiti e individuare in questa valutazione una possibilità di strategia dell’apprendimento. Il gruppo eterogeneo che è la classe, deve in qualche modo fare i conti con una capacità organizzativa che può essere risolta in maniera implicita da insegnanti capaci, senza che il gruppo classe neanche si accorga dello sforzo organizzativo. I risultati possono essere buoni, ma in qualche modo vi è stata, involontariamente, una omissione. Gli allievi sono stati involontariamente “defraudati” di una possibilità di capire che cosa significa “organizzazione”. Non si sono accorti del lavoro organizzativo ma l’hanno almeno vissuto. Se non vi è stata una buona organizzazione, gli elementi di disorganizzazione sono emersi quotidianamente, con tutta probabilità attribuiti ai singoli e non al fattore comunitario. Sono risultate delle discrepanze tra i ritmi, tra i rendimenti, tra le facoltà 4 espositive ed espressive, negli strumenti di comunicazione, di memorizzazione ecc. Gli aspetti organizzativi sono stati lasciati da parte come se non dovessero essere presi in considerazione. Se gli elementi organizzativi sono stati presi costantemente in considerazione come cornice e struttura costante degli apprendimenti, è stato necessario mettere il tempo e la testa sulla capacità di esaminare spazi, tempi, materiali, ritmi, mediatori, in modo tale che ciascun componente il gruppo classe avesse la possibilità di avere un suo percorso di apprendimento grazie alla capacità organizzativa data dal gruppo stesso. L’intreccio del gruppo e degli elementi individuali fornisce la dimensione istituzionale che, riprendendo dalla terminologia di Hannah Arendt, si dovrebbe chiamare “politica”. Comporta la necessità di vedere se è possibile addizionare elementi di una certa categoria alla propria categoria, senza che questa operazione faccia cambiare senso e strutturazione. Può esservi lo stato d’animo che abbiamo riferito all’Uomo di Neanderthal e all’Homo Tecnologicus: la potenza individuale, scontenta di trovare la debolezza collettiva; per cui in ogni considerazione sulle attività comuni vi è disprezzo e rabbia. Proviamo ad esaminare queste stesse operazioni con un occhio scientifico sperimentale. Abbiamo a che fare con persone che devono mettere insieme risorse provando a far entrare nello stesso recipiente elementi che non siano troppo eterogenei tra loro e costituiscano, in qualche modo, un insieme omogeneo. È evidente che se la realtà degli elementi non è pura ed omogenea, anche l’aggregazione avrà un tasso di omogeneità ridotto, ma sarà necessaria per poter raggiungere la quantità necessaria a realizzare un certo peso. Ragioniamo in termini di qualità, di quantità, di proporzioni, di peso. Ed è quello che può accadere in un gruppo classe quando si debbano mettere insieme valenze individuali in rapporto a obiettivi comuni. Gli obiettivi saranno comuni in maniera proporzionale all’eterogeneità delle situazioni; ma vi sarà la possibilità di andare oltre le omogeneità apparenti, per scoprire, attraverso le differenze, il quadro comune delle strategie di apprendimento. In questo può essere ritrovata l’omogeneità. L’impegno è tipicamente educativo, perché ha la necessità di rompere gli stereotipi, potentemente stampati dai grandi mezzi di comunicazione; ma questo è lavoro tipico da Homo Sapiens, in rapporto al potente Uomo di Neanderthal. E in questo lavoro gli elementi di misura, confronto, comparazione, rapporto, individuazione dei pesi e delle linee-forza, in rapporto a un progetto, sono la costante capacità di esercizio di qualità scientifiche applicate al nostro stesso contesto. Un insegnante, uomo o donna che sia, si pone il problema di come collegare le strategie di apprendimento individuale a questa strategia organizzativa collettiva. In questo possiamo intravedere elementi che possono affrontare, senza farle diventare delle attività aggiuntive, le grandi questioni del nostro tempo, riassunte in due punti (Morin, 1999): l’estensione senza confini del “sapere”, con il rischio di perdersi, di non avere più punti di riferimento, né stelle polari né croci del sud; e, il rapporto individuo-mondo, con un mondo che non è energia infinita di cui poter disporre, ma deve essere conosciuto e rispettato sapendo che un parte ancora infinita è sconosciuta, e potrebbe rimanere tale non per la nostra limitata possibilità quanto per la nostra illimitata capacità di distruzione. Questi due grandi temi rischiano di far perdere il senso e la voglia e la volontà di conoscere. Un sapere senza confini potrebbe far dire: “Inutile muoversi se non sappiamo dove andare”. Un mondo che si sta distruggendo potrebbe far dire: “Usiamolo finché ci è permesso, e se non avremo futuro pazienza”. Il micro e il macro devono potersi incontrare in una linea di coerenza nel percorso delle conoscenze. 5 1.3. Sopravvivere insieme ovvero conoscere anche scientificamente Sviluppiamo questo secondo punto con un riferimento a uno studioso che ci è caro: Arnheim. Non è la prima volta che nelle nostre riflessioni incrociamo questo grande studioso della percezione, del pensiero visivo. Curiosamente lo abbiamo trovato di grande pertinenza nell’affrontare le situazioni in cui l’elemento che poteva sembrare assistenziale aveva la più grande presenza. Il caso di un individuo, una ragazzina, gravemente handicappata, collegata e quindi integrata a una classe di scuola elementare, poteva presentarsi come un elemento esclusivamente organizzativo, dominato dall’ambito assistenziale. Abbiamo trovato spunti di grande utilità nelle riflessione di Arnheim. Se vogliamo realmente proporre una prospettiva di integrazione dobbiamo preoccuparci di evitare che il gruppo venga percepito come “il gruppo più uno, o una”. Dobbiamo evitare allo stesso modo che quando vi siano dei casi di difficoltà comportamentale scolastica, si polarizzi il gruppo con una possibilità di dire “i buoni” e i “cattivi”. Sarebbe stato demagogico negare i bisogni particolari di una persona; ma questo non struttura in maniera rigida un gruppo. Leggiamo in Arnheim: ”Nei racconti di fate in cui il figlio più giovane ha successo, vi sono sempre tre fratelli perché il comportamento ripetuto dei due maggiori è il minimo che occorre a presentare il comportamento medio, superato dall’eccezionale giovane eroe. Quattro fratelli implicherebbero ridondanza, due costituirebbero un gruppo chiuso, simmetrico, che rappresenterebbe il dualismo di bene e male, stupido e intelligente, e così via. Re Lear deve avere tre figlie, né più né meno; e la Trinità ha bisogno di tre elementi per poter rappresentare l’interconnessione anziché il contrasto. Questi esempi isolati hanno lo scopo di mostrare che un’incapacità, o riluttanza ad occuparsi degli aspetti quantitativi delle situazioni in quanto puri numeri, non costituisce semplicemente un difetto deplorabile di persone arretrate. Assai più spesso tali quantità sono inseparabili dal ruolo e dalla funzione che svolgono entro il tutto di cui fanno parte” (Arnheim, 1974, p. 250). La lettura di Arnheim, nei racconti di fate, è già interessante: fa vedere la potenza dei numeri legata alla loro strutturazione simbolica, e quindi in quanto lettura di una realtà che viene impressionata dagli elementi culturali. Verrebbe da dedurne, un po’ semplicisticamente, che la molecolizzazione di un gruppo che possa fare dire per generosità che ognuno è diverso contiene delle verità, ma esse sono quasi inutili nel senso che non permettono di costruire davvero una possibilità strutturante. Si potrebbero individuare delle caratteristiche per ciascuno dei componenti del gruppoclasse che portino alla conclusione che sicuramente qualcuno è più simile ad altri ma che ciascuno è poi fatto a suo modo. La ridondanza di cui parla Arnheim fa capire come l’individuazione di sottogruppi relativi abbia la possibilità di strutturare le appartenenze e l’appartenenza. La possibilità non è tanto arrivare a dire: ”La compagna gravemente handicappata è diversa, perché ciascuno di noi è diverso”, che sembra mettere a posto tutto, e in realtà lascia tutto com’era; ma è quella di rendere relativa la diversità in rapporto, ad esempio, alla soddisfazione dei bisogni, all’organizzazione di una rappresentazione di sé legata alla loro soddisfazione. E allora bisogna indagare, bisogna cercare il significato in rapporto alle cose, a tempi, spazi, materiali, suoni ecc. Anche su questo Arnheim può darci qualche indicazione interessante. La citazione che vorremmo proporre riguarda una 6 parte del suo studio sul pensiero visivo in cui la rappresentazione dei concetti viene definita attraverso le esperienze percettive e sensoriali. “Un concetto, praticamente definito, rappresenta quanto hanno in comune un certo numero di entità distinte. Spessissimo, tuttavia, un concetto è una sorta di fulcro entro un cerchio di trasformazioni continue” (Arnheim, 1974, p. 216). Abbiamo la necessità di capire che le tante vibrazioni legate, per esempio, alla nostra intelligenza emotiva, non possono disperdersi nella conclusione che non vi è un punto comune ma vi sono solo differenze. L’interesse è vedere come le vibrazioni diverse che hanno le nostre intelligenze emotive hanno la possibilità di individuare un nucleo comune che, nel caso della riflessione di Arnheim, porta a un concetto, che non chiude ma che si apre alle differenze. Facciamo riferimento ad un gruppo-classe in cui è presente una bambina gravemente handicappata. In questo, come in altre situazioni, è stata utilizzata ed adottata la proposta messa a punto da Andreas Fröhlich (1993) denominata stimolazione basale. Contrariamente ad altre proposte che si servono delle stimolazioni secondo un programma rigidamente finalizzato all’organizzazione di funzioni prestabilite, la stimolazione basale consiste nell’organizzare varie situazioni caratterizzate dall’immersione in stimolazioni dirette e indirette per scoprire quelle che meglio attivano i processi di assunzione di comportamenti adottivi e comunicativi. La proposta della stimolazione basale è stata studiata ed adattata ai diversi contesti, fra quello a cui ci riferiamo, da Grazia Giura, che sta preparando un saggio sull’argomento. Nella proposta della stimolazione basale si può fare uso di materiali – semenze, lenticchie, stoffe, carta… - che vengono messi a contatto del corpo. I contatti possono essere tattili, sonori, acustici, olfattivi, sensoriali in genere. Questa possibilità può essere presentata sotto forma di esperienza emotiva, e può essere analizzata per gli aspetti organizzativi e con un’attenzione ai particolari - i tempi di benessere e di eventuale malessere, l’organizzazione degli sguardi, le possibilità di espressione -, legati a un aspetto organizzativo costruito insieme. Vi è la possibilità di esaminare, di scegliere le proposte da fare, evitando di polarizzare quelle per la persona handicappata e quelle per i normali; con la possibilità di avere una proposta per tutti, perché articolata su bisogni e obiettivi plurimi. Questa organizzazione ha un senso proprio perché è stata assunta una prospettiva temporale per sviluppare i percorsi di conoscenza e di elaborazione. Servendoci ancora dello schema Arendt-Lessing, superiamo lo slancio generoso della fraternità sottoscritta istantaneamente, per aprire un percorso faticoso di conoscenza. Accettare di slancio una persona con ridotte possibilità di comunicazione, può essere un modo per evitare di affrontare gli sviluppi delle conoscenze individuali. Può essere alimentare una deriva totalmente ablativa, con concessione di tempo, delle migliori attitudini di pazienza, di generosità, di altruismo. Conoscere significa imbattersi nell’altro, affrontando problemi tecnici, organizzativi, scientifici. E significa misurarne le capacità in rapporto a qualcosa che non è indifferente, ma qualcosa che può stimolarle, sottolinearle, valorizzarle, oppure deprimerle, renderle più faticose, illeggibili. L’organizzazione del contesto e delle reti relazionali permettono o meno la lettura delle capacità. Tutto ciò richiama “l’approccio comprensivo” che supera e integra l’approccio positivista o naturalista. È utile chiarire il significato della parola “positivista”, che non è dal termine “positivo”, nel senso di ottimale, di buono, di migliorativo; quanto di positum, ovvero “oggetto naturale”. Riteniamo importante non considerare una persona 7 gravemente handicappata con gli occhi naturalistici, e con il paradigma positivista. L’approccio comprensivo indica l’eterogeneità tra i fatti umani e sociali e le cosiddette scienze naturali. I fatti umani e sociali hanno dei significati che non possono non avere un veicolo linguistico. Il linguaggio si rifà anche a una interpretazione della natura, questo è evidente. Vorremmo superare il dualismo cultura/natura, a volte presente nelle considerazioni nei confronti di persone handicappate, che sembrano essere “natura” immodificabile in un contesto di “cultura”, in una dinamica di continuo cambiamento. L’approccio comprensivo contiene elementi di comprensione intuitiva, collegati ed educati a collegarsi a uno sviluppo cognitivo. Cyrulnik è uno studioso attento alla capacità di resilienza degli individui che hanno vissuto delle situazioni traumatiche, cioè alla capacità di mantenere la propria struttura, di non lasciarla alterare, e di farla risorgere dopo le possibili deformazioni subite. Questo studioso ha criticato come limitante la necessità che vi è stata, in Europa in particolare, di utilizzare un’immagine meccanica per la comprensione dell’attività psichica dell’individuo. Nel secolo XVIII la mente era paragonata al funzionamento di un orologio. Nel secolo XIX il flusso e l’impianto elettrico erano presi come modello per l’organizzazione della mente. Nel ventesimo secolo, abbiamo più volte sentito paragonare il funzionamento della mente a un computer. I limiti di queste immagini sono evidenti e quindi ha ragione questo studioso nel raccomandare l’attenzione a non attribuire agli umani, caratteristiche proprie delle macchine. In particolare uno studio specifico di Cyrulnik sulle situazioni traumatiche permette di capire che non si tratta di ammaccature di lamiere o di macchinari in cui se un pezzo si rompe rimane rotto fino ad eventuale sostituzione. La nostra organizzazione psichica, mentale, umana, ha altre caratteristiche. Utilizziamo l’immagine dell’organizzazione di una distribuzione idrica. Avevamo già fatto questo riferimento introducendo un’opera che riprendeva le indicazioni di Vygotskij (cfr. Dixon-Krauss, 1998). E proprio il riferimento al grande studioso russo è utile per capire l’analogia, gli elementi analogici, del nostro funzionamento con l’organizzazione di una distribuzione idrica che ha bisogno di depositi capaci di alimentare depositi periferici attraverso la possibilità di essere aperte e chiuse; quindi con rubinetti, che proporzionano gli afflussi delle acque in modo tale da non perderne e neanche di avere una tale forza da rischiare di spaccare i tubi; attente anche a quelle che sono le dotazioni complessive. In questo vediamo un’organizzazione di funzionamento che vorremmo proporre proprio a conclusione di questa riflessione. Cambia il senso dell’operazione che stiamo cercando di individuare. All’insegna della fraternità, nel senso sempre di Arendt - Lessing, che va richiamato - e non sono consentite estrapolazioni che farebbero dire all’autore di queste note quello che non vuol dire -, vi è un impoverimento; perché ciascuno deve dare un tempo istantaneo, oblativamente, generosamente, con uno slancio umanitario degno di lode, ma sterile. Nel segno dell’amicizia, secondo il vocabolario Arendt-Lessing, il tempo diventa una prospettiva per conoscere, per alimentare e ridistribuire le conoscenze. Occorre lavorare non solo in termini esperienziali ma anche in termini concettuali, quindi con una possibilità di nuove esperienze, trasformate ma arricchite, attingendo a un deposito che permette di alimentare una rete di depositi periferici, e di aprire i rubinetti a seconda delle diverse situazioni che ci si trova ad affrontare. “Tradizionalmente, l’astrazione è un ritrarsi dall’esperienza diretta. Questa concezione presume l’esistenza di una dicotomia tra percepire e pensare. (…) Si deve sgombrare la mente dal materiale percettivo. Si suppone che l’astrazione assolva, appunto, a tale 8 funzione. (…) Descrivere l’astrazione come un astrarsi rispetto alla realtà significa fornire una spiegazione falsa non soltanto del modo di operare degli scienziati, ma anche di quello degli artisti” (Arnheim, 1974, p. 223). La presenza significativa in un contesto di apprendimento di una persona handicappata può significare rintracciare le possibilità di conoscenza della sua condizione per ritrovare degli elementi comuni alla condizione di ciascuno. 1.4. Conclusioni La riflessione si è sviluppata spostandosi da scenari cosmici a tempi preistorici, a microcontesti dei nostri giorni. Non può pretendere di trarre conclusioni di proporzioni analoghe. Le sole conclusioni da ricavare possono essere indicate riprendendo alcuni punti. 1. La diversità può porre il problema se ridurre all’istante la portata, o aprire il tempo all’elaborazione. In questa prospettiva, le scienze dell’educazione e la scienza matematica hanno possibilità di incontro. Questo primo punto richiama la teoria formulata da Leo Festinger (1957; 1973) sulla dissonanza cognitiva 2. Al di là della presunzione di dominare la realtà in cui viviamo, possiamo ragionevolmente ritenere che alcune nostre scelte contribuiscono allo sviluppo di una prospettiva comprensiva. 3. Nelle relazioni di aiuto (Canevaro, Chieregatti, 1999), si può parlare di scelta del tipo di conoscenza che si vuole promuovere. E vi possono essere limiti derivati da una certa dipendenza della dimensione esperienziale. È utile proporsi di liberarsi da questa dipendenza, senza negare ruolo ed importanza dell’esperienza. Nell’economia dell’apprendimento, l’attività del pensiero non è un lavoro di perdita. Bibliografia H. ARENDT, Vies politiques, Gallimard, Paris 1974 [ed.. orig. 1960]. R. ARNHEIM, Il pensiero visivo, Einaudi, Torino 1974 [ed. orig. 1969]. A. CANEVARO, A. CHIEREGATTI, La relazione di aiuto, Carocci, Roma 1999. B. CYRULNIK (ed.), Les enfants qui tiennent la coup, Hommes et Perspectives, Revigny-sur-Ornain 1998. L. DIXON-KRAUSS, Vygotskij nella classe, Erickson, Trento 1998. J.P. DUFOUR, Les bactéries, maîtresses des secrets de l’évolution, Le Monde, 6 8 1999. L. FESTINGER, Teoria della dissonanza cognitiva, Angeli, Milano 1973 [ed. orig. 1957]. A. FRÖHLICH, La stimulation basale, Ed. SPC, Lausanne 1993. A. MUCCHIELLI (ed.), Dizionario dei metodi qualitativi nelle scienze umane e sociali, Borla, Roma 1999 [ed. orig. 1996]. G. MINELLI, Dai pesci agli albori dell’umanità, Jack Book, Milano 1984. E. MORIN, La tête bien faite, Senil, Paris 1999. 9 II NON SOLO HANDICAP Interpretare questa frase vuol dire certamente introdursi in un modo di operare e di vivere che permette di vedere le persone al di là di quelle che sono delle caratteristiche specifiche. Non solo handicap orecchia altre frasi del tipo Non solo nero. C’è una persona, c’è un individuo, c’è un uomo, una donna, un bambino, una bambina, essenzialmente un essere umano e le altre caratteristiche seguono. Questo è un aspetto di carattere generale, che si deve però, poi, ancora articolare. E’ possibile che dicendo di non fermarsi all’handicap si voglia dire non fermarsi alla situazione di handicap per affrontare anche gli aspetti che non riguardano gli svantaggi, e in questo modo, paradossalmente, ridurre proprio gli svantaggi, ovvero gli handicap. Si può anche interpretare la frase Non solo handicap pensando a come, in maniera generica e non del tutto esatta, a volte si dica handicap e si voglia dire individuo con una diversa abilità, dice qualcuno, o con una disabilità, con dei limiti. L’interpretazione di questa frase può essere, però, anche più precisa o essere suggerita da quelli che sono i momenti storici che stiamo vivendo. Una prima, quindi generale, interpretazione riconduce all’essere umano, e non può essere trascurata per tutta questa riflessione. Le declinazioni più particolari vanno sempre all’interno di questa più ampia e più generale interpretazione della frase Non solo handicap. Vi è però un altro aspetto, che fa parte, probabilmente, di una situazione di transizione. Alle tematiche che genericamente e impropriamente diciamo dell’handicap – dovremmo invece sempre dire delle situazioni di handicap, delle persone che hanno dei deficit e, per essere più precisi, delle disabilità – si presta un’attenzione molte volte legata alle emozioni che suscitano gli incontri immediati, siano essi presentati dai grandi mezzi di informazione o dagli incontri, vi è un termine che viene spesso usato oggi, e che è evento, e anche gli handicappati, a volte, ritengono che il modo per essere più integrati, per esser più capiti, sia quello di suscitare un evento. L’evento è un termine che fa appello soprattutto a una carica emotiva: incontrare uno spettacolo, e nello spettacolo incontrare una persona handicappata che recita, o anche che balla, può significare avere un impatto con una forte emozione, e questa forte emozione dovrebbe 10 suscitare poi una riflessione. Il rischio, però, è quello che noi stiamo vivendo un po’ tutti, di avere una successione di emozioni talmente rapida da non potere avere il tempo della riflessione e dell’approfondimento. E’ per questo che a volte, alla richiesta di dedicare maggiori attenzioni all’educazione alle emozioni, la risposta giusta potrebbe anche essere: maggiori attenzioni vuol dire anche cercare di ridurre la successione delle emozioni, giacché è una sorta di mitragliata di emozioni continue che viviamo e che anche chi cresce vive. La situazione, quindi, di un’interpretazione, quindi della frase che fa da titolo a questa riflessione, può essere proprio quella di dire: Non solo handicap, inteso come emozione, ma anche conoscenza. Personalmente ritengo che sia doveroso richiamare l’attenzione dei grandi mezzi di informazione ad un maggiore rigore nell’impiego delle parole e delle immagini. Sono troppe le volte in cui si scambia la situazione di handicap con la malattia, si usano i termini tecnici impropriamente, si crea ad arte una condizione di forte carica emotiva di tipo pietistico, e si utilizzano le cronache per suscitare dei forti sentimenti di sdegno nei confronti delle situazioni di ingiustizia, tralasciando totalmente di considerare il fatto che una situazione di ingiustizia è tale, grazie al fatto che tante altre situazioni, che non sono ingiuste. E quindi non sono elementi trascurabili, questi, ma giocati tutti, sempre, sostanzialmente sulla corda emotiva. Non solo handicap, quindi, potrebbe voler dire, e dirci: “Non limitiamo l’impatto con l’handicap alla corda emotiva, cerchiamo di andare oltre”. Nell’analizzare, ancora una volta, gli scritti che rispondono alla domanda: “Quale è la prima persona handicappata che hai incontrato nella tua vita?” le studentesse, gli studenti, che si sono iscritti al terzo anno del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione, II indirizzo, Per Educatori Professionali, hanno rivelato molti casi di conoscenza all’interno delle strutture scolastiche. E, come già è capitato di riferire, la conoscenza è stata essenzialmente di carattere emotivo, con molte caratteristiche di positività – le connotazioni sono di amicizia, solidarietà, interesse, e non ci sono motivi per credere che questo non sia autentico. Qualche volta vi sono anche sentimenti di inadeguatezza, senso di paura anche, di fronte a una diversità che può anche spaventare. Ma genericamente e generalmente queste riflessioni non contengono, se non in casi molto rari, degli approfondimenti di carattere un po’ più conoscitivo, quasi sempre sono di carattere emotivo. 11 Le emozioni: certamente non possiamo fare a meno di emozionarci, non possiamo fare a meno di vivere l’emozione come un processo che dovrebbe condurre a una maggiore conoscenza. Come mai questo non accade?, perché è un fatto che la nostra conoscenza delle situazioni di handicap si è in gran parte fermata alle emozioni, e continuiamo a vivere questa dimensione molto epidermica perché manca una riflessione più approfondita. Trasmissioni televisive sono cariche di questi elementi, raramente sono collegati a una dimensione più conoscitiva. E anche quando vi è una interpretazione più conoscitiva, come accadde a un film che riguardava le persone Down e i loro sentimenti, le loro capacità di voler bene, di essere innamorati, di procedere anche in un percorso nei sentimenti affettivi tra uomo e donna, il contorno è stato fatto cercando di superficializzare l’approfondimento che invece sarebbe stato, e il telespettatore, la telespettatrice, era invitato a mettersi più in una lunghezza d’onda ancora una volta di sentimenti emotivi, e non di approfondimento conoscitivo. E’ chiaro che sto dividendo con una schematizzazione che dovrebbe essere impropria; purtroppo, però, molte volte è appropriata all’uso dei sentimenti che ne viene fatto, quindi una dimensione troppo superficiale. Andare oltre e ricordarsi che Non è solo handicap vuol dire proprio, invece, richiedere un impegno conoscitivo maggiore, una maggiore capacità di approfondimento. Un altro modo di leggere l’indicazione Non solo handicap può essere quello di “rivendicare il diritto alla conflittualità” per le persone handicappate. Potrebbe sembrare un amore per il paradosso, questo. In realtà, a volte le situazioni di handicap provocano un atteggiamento di vera e propria costruzione di limbi. Vi è, quindi, una costruzione di una fascia, attorno alla persona handicappata, per evitare che la sua condizione venga messa alla prova nel conflitto. Può esservi, questo, in varie forme: una, conosciuta dal mondo della scuola, è quella che tende ad assegnare la persona handicappata ad un personaggio - può essere l’insegnante di sostegno – perché la persona handicappata non crei conflitti, ma non entri, anche, la stessa persona, in un clima che può essere di contrasti. Non si parla tanto, di solito, di conflitti, quanto di disagi, contrasti, difficoltà, a volte con l’idea di proteggere lo stesso individuo handicappato, più spesso, riteniamo, per mettere in pace gli altri. La costruzione di questo limbo può essere anche determinata dalla preoccupazione che la persona handicappata si trovi di fronte a richieste insostenibili, Nn solo le richieste 12 prettamente didattiche, ma anche quelle del contesto stesso. Facciamo qualche esempio, legato alle competenze espressive e sensoriali. Vi può essere, nell’individuo handicappato, un uso più appropriato di uno strumento espressivo, che fa ritenere di essere capace solo di quello, e quindi il desiderio di far vivere alla persona handicappata una situazione il più possibile serena, quindi il desiderio è sicuramente generoso, fa sì che lo si specializzi in un uso specifico di competenze espressive, trascurando totalmente altre competenze e non mettendolo mai in difficoltà. Dicendo che rivendichiamo il diritto degli individui handicappati alla conflittualità rivendichiamo anche la possibilità di entrare in una situazione di difficoltà di fronte alle richieste. Essere in difficoltà: sembra quasi, la nostra, una richiesta cattiva. E’ così che si cresce. La necessità è quella di saper costruire delle strategie che permettano di superare le difficoltà, e anche di servirsi delle proprie competenze per attivare le competenze degli altri, non quindi limitando il campo esperienziale alle sole esperienze vivibili con ciò che siamo e ciò che abbiamo, ma con la possibilità di intrecciare ciò che siamo e ciò che abbiamo con ciò che sono e ciò che hanno gli altri. Quindi la possibilità è di vivere il conflitto in termini costruttivi. Questo è quello che può anche voler dire Non solo handicap: la protezione, il limbo, lo abbiamo chiamato, in cui possono vivere le persone handicappate, è dannoso. Certo, nessuno con questo deve interpretare che noi vorremmo imporre una conflittualità permanente alle persone handicappate. Non è ciò che auspichiamo. Quello che desideriamo è la possibilità che vi siano delle situazioni problematiche affrontando le quali un bambino, una bambina, che ha dei bisogni particolari, può capire i propri limiti ma anche capire la strada per aggirarli. Certo, sono anni che cerchiamo di ragionare su questi aspetti, ma ancora abbiamo bisogno di mettere a fuoco delle puntuali strategie organizzative degli apprendimenti sociali e scolastici, in rapporto a questa prospettiva in cui il conflitto e la difficoltà diventano strumenti di crescita. Quindi, quest’altra interpretazione del Non solo handicap si riferisce a una prospettiva di tipo cognitivo, in cui il personaggio che, senza saperlo, ha fornito maggiori indicazioni operative e concettuali è stato soprattutto Vigotsky, ma non è il solo. Certamente in Vigotsky troviamo quegli accenti e quelle strutture concettuali che permettono di formalizzare una interpretazione della crescita in rapporto a una riformulazione dei problemi, ma per riformulare i problemi bisogna incontrarli. Senza i 13 problemi non c’è nulla da riformulare. Una vita a-problematica, per chi cresce avendo dei bisogni particolari, significa anche una impossibilità di mettere alla prova delle strategie, avendo, forse, per grande generosità degli adulti educatori, una strada appropriata alle proprie momentanee capacità, che non vengono mai capite anche come limite, quindi mai capite come possibilità di essere superate. Non solo handicap può essere interpretato anche come Non solo attualità, non solo presenza in questo momento, ma anche proiezione, proiezione di una storia, processo, per corso, storia e storie. Handicap, in questo caso, significa il richiamo di una realtà sempre e solo attuale, solo nella presenza, che non si riesce ad immaginare se non in termini negativi in un passato e in un futuro. Spesso ci siamo trovati a dover affrontare situazioni in cui la presenza e l’attualità erano le uniche dimensioni. Vi era quindi la necessità di costruire una prospettiva storica, di storie personali ma anche di storie sociali. Sappiamo che questo è un problema, perché la specificità delle situazioni è anche nel coinvolgimento nell’attualità. Chi ha un figlio, o una figlia, handicappato ha fortemente l’assillo della presenza. E’ vero anche quello del futuro, ma soprattutto è chiamato a fornire delle prestazioni, a fornire un’assistenza, ad aiutare nel momento stesso in cui si sta vivendo. E vi è soprattutto una dimensione di continuo richiamo all’attualità. La dimensione di prospettiva richiede un impegno, un impegno formativo, professionale, ma anche civile. Il rapporto tra individuo e società, quando vi è una situazione di handicap, può essere complicato. Vi erano anni in cui un convegno che trattasse il tema dell’autismo poteva avere una percentuale alta di interventi, che avevano soprattutto un sapore sociale, e richiamavano le istituzioni ad aprirsi, ad assumere responsabilità, a capire meglio il loro ruolo, a non dimenticare in strutture chiuse le persone autistiche – faccio l’esempio dell’autismo, potrei sostituirlo con altre situazioni – poi si è forse passati a convegni in cui la maggioranza delle relazioni sono impegnate sullo specifico della situazione dell’autismo, con analisi molto appropriate ma chiuse dentro il mondo dell’autismo – e faccio questo esempio, ripeto, con la possibilità di sostituirlo a piacere con altri. Il rapporto Non solo handicap significa anche questo: il rapporto con una situazione più ampia, e quindi con una storia che si è costruita nel tempo, non solo in rapporto all’individuo ma in rapporto a una società. La costruzione di questo vuol dire Non solo handicap, non solo attualità, e non solo 14 quell’individuo, ma anche una prospettiva e uno scenario. Questo elemento importante che è la storia può anche contribuire a non dare alle situazioni di handicap quelle esaltazioni per una sola proposta ma a dare sempre un chiarimento in cui la metodologia è rapportata a più metodi, cioè a più strumenti. A volte abbiamo a che fare con situazioni in cui la disabilità è legata a una storia che ha avuto un’origine in altre parti del mondo e poi, attraverso la solidarietà che può essere sotto forme diverse, dall’adozione all’ospitalità, ha portato singoli individui handicappati a vivere in un nuovo contesto, e qui ad avere la difficoltà di chi, forzatamente, non può fare ricorso alla dimensione della storia precedente perché non la conosce o ritiene di non conoscerla. Si potrebbe dire che quasi ogni corpo contiene delle tracce della storia che ha vissuto, e leggere tali tracce vuol dire, in qualche modo, prendere contatto con l’attualità che contiene anche il passato, anche la sua storia. Ma un bambino che vive questa condizione di trapianto è esemplare per i comportamenti che cercano di ricostruire la sicurezza dei propri gesti e della propria comprensione, soprattutto nel trattare situazioni materiali. Cosa vogliamo dire con questo? Che le attività in cui vi è una materialità sono sicuramente più gradite perché danno anche delle riuscite migliori, quindi dei piccoli successi, a quelle attività in cui, invece, l’uso del linguaggio dovrebbe essere molto importante. Il linguaggio, più di altre competenze, si costruisce con una sedimentazione quotidiana. Se interrotta, per quello che ho chiamato essere un trapianto, ha bisogno di un lungo periodo di ricostruzione. Chi ha questa storia dimostra con più nettezza la necessità, per chi educa, di accogliere con il presente le tracce del passato, senza fare prigionieri, senza che le tracce del passato diventino una prigionia per il presente ma che permettano, anzi, di proseguire un cammino. Se tracce sono, danno una direzione non per tornare indietro ma per andare avanti. E quindi diventano i punti importanti da guardare, per potere dirigersi in una storia che prosegue. Valorizzare le competenze significa non privilegiarle in assoluto e non farli diventare degli specialismi, si diceva. Vi è questa necessità di ricostruzione delle storie. L’abbiamo chiamata in passato, e continuiamo a chiamarla, la monografia, cioè la possibilità che vi sia uno strumento di costruzione periodica, quasi ricorrente e rituale, della vita di un individuo, in rapporto al suo contesto. Il gruppo di monografia è quello che ascolta, registra, ricorda, e da i chiaroscuri, la possibilità di avere delle parti che si illuminano maggiormente e delle altre 15 che rimangono in ombra, e forse, successivamente, vanno più studiate, quindi illuminate, mentre altre si ricollocano nell’ombra. Ecco, quindi, questa costruzione di storie che permette una conoscenza che va oltre l’etica e che fa dire Non solo handicap anche in questo senso. Non solo handicap ha, poi, il significato che le tecniche e le proposte che noi possiamo conoscere, praticare, proporre, per delle situazioni di handicap, possono anche raggiungere coloro che non hanno dei limiti dovuti a deficit. Ecco allora che questo apre un’ampia prospettiva, che si è già sviluppata abbondantemente. La possibilità che un’attenzione alle strategie di apprendimento, già ricordate, non sia unicamente al servizio della persona disabile ma diventi un prezioso tesoro a disposizione di tutto un gruppo di bambini, di bambine, di ragazzi, di ragazze, è già una prova molto interessante di come Non solo handicap significhi non solo per la persona handicappata ma anche per le altre persone. In questo senso io credo che sia necessario anche interpretare e fare tesoro di quelle che sono delle indicazioni circa le attenzioni al contesto, e quindi all’organizzazione materiale, all’organizzazione dei tempi. La persona handicappata, soprattutto nel quadro scolastico, richiama maggiore attenzione al riguardo. E gli altri? Sono già tranquilli? Capaci di organizzare la propria condizione materiale, i propri ritmi, il proprio tempo, per la previsione degli obiettivi che si vogliono raggiungere? Molti bambini e molte bambine, molti ragazzi e molte ragazze, sono assolutamente sprovveduti, disordinati, incapaci di collocare le loro intelligenze in un contesto di cui hanno una certa padronanza. Sono spaesati, si direbbe, e questo provoca in loro difficoltà di apprendimento non dovute a scarsa intelligenza o a scarsa attenzione ma a scarsa organizzazione. Non solo handicap significa che l’attenzione all’organizzazione delle autonomie, che è richiamata tipicamente da chi è handicappato, deve essere un punto interessante anche per chi non è handicappato. E gli adulti educatori e insegnanti devono potersene accorgere. Difficile accorgersi di questo se un handicappato vive in un’auletta a parte con l’insegnante di sostegno. Difficile accorgersi di questo se l’insegnante di sostegno non è mai ascoltato, o ascoltata più facilmente, dagli altri insegnanti, o è ascoltato unicamente per capire se quel bambino, quella bambina, quel ragazzo, quella ragazza, “funziona”, va avanti. Le famiglie lo vogliono sapere, gli altri insegnanti, anche, lo vogliono sapere, ma non in quanto possibilità di utilizzare al meglio, e anche per gli altri, ciò che si fa per una persona handicappata. Questo è poco presente e dovrebbe essere la necessità, invece, che ancora 16 l’espressione Non solo handicap richiama: andare oltre, conquistare degli spazi maggiori e fare in modo che ci sia una sorta di integrazione a rovescio, e cioè che nelle proposte che si fanno per le persona handicappate entrino e conquistino dei vantaggi, delle qualità educative, anche gli altri. Non solo handicap significa anche non solo svantaggio ma anche competenze che possono nascere dalla presenza. E’ molto importante capire ma non lo si fa mai abbastanza, che l’handicap è una situazione, non è un individuo. L’individuo può essere nella situazione di handicap, ma è uno svantaggio che non riguarda solo il singolo. Per questo bisogna avere molto presente che se noi individualizziamo l’handicap, cioè lo addossiamo unicamente all’individuo, provochiamo una condizione in cui la possibilità di frustrazione per gli educatori si accresce enormemente. E’ molto difficile che l’educatore, l’insegnante, costruisca un progetto e realizzi lo stesso progetto in modo talmente buono da fare sì che il singolo individuo che ha delle disabilità migliori e non abbia più handicap. E’ difficile questo, può accadere, ma sono situazioni molto limitate come numero. Molte altre volte, invece, la situazione di handicap deve essere interpretata per ridurre gli handicap non tanto e solo nell’individuo quanto nel contesto. Se, ad esempio, abbiamo a che fare con un caso di gravità che non fa prospettare nessun miglioramento del singolo, abbiamo la possibilità, invece, di fare sì che migliori il contesto, quindi il rapporto degli altri con quel bambino, quella bambina, gravemente handicappato. Il rapporto con l’ambiente, anche con gli arredi, con l’organizzazione degli spazi, dei tempi, i contatti che le persone attorno ad una situazione di gravità possono avere, possono variare e migliorare, e quindi ridurre l’handicap. In questi casi l’handicap si riduce non perché migliora il singolo, che grave era e forse grave rimane, ma perché migliora il contesto. E’ frustrante, per gli educatori e per gli insegnanti, e a maggior ragione per i familiari, avere l’idea limitativa e riduttiva che l’handicap riguardi l’individuo handicappato. Riguarda la situazione. Questo è molto importante, ed è l’ultima provvisoria interpretazione dell’espressione che ha dato titolo a questa riflessione. 17 III HANDICAPPATI. DAVVERO NON ABBIAMO FATTO NIENTE? 3.1 Una percezione da un punto di vista esterno Il 7 Novembre 1999, sul quotidiano “La Repubblica” Eugenio Scalfari ha scritto un lungo e importante articolo che riguarda la scuola. Il tema che ha affrontato è, nello specifico, quello del rapporto fra educazione scolastica delle scuole statali e le richieste che vengono dai Vescovi ma che possono essere anche di altre entità culturali, e in particolare religiose. Eugenio Scalfari ha scritto cose molto interessanti, che portano a riflettere su quelle che devono essere le prerogative di un’organizzazione scolastica comunitaria e dello Stato, soprattutto, articolando il suo discorso in rapporto a quelle che sono le riforme in atto nella scuola, e le novità di popolazione, le novità culturali che attraversano la realtà italiana ed europea, e quindi anche la scuola. Ad un certo punto, in una piccola parte del suo articolo, vi è una frase che può colpire chi, all’interno della scuola, o per la scuola, ha lavorato in questi anni. Avendo trattato alcuni problemi, Scalfari dice questo: “Ci sono ancora altri problemi tutt’altro che marginali. La scuola italiana non è mai stata finora multietnica, ma lo sarà d’ora in poi, ha già cominciato ad esserlo. Non è mai stata di fatto multireligiosa. Ora, e più che mai nel prossimo futuro, lo sarà. Infine non si è mai realmente confrontata con ragazzi portatori di handicap, ma anche questo aspetto diventerà rilevante per una serie di ben note ragioni.” Chi ha letto questa frase può avere anche sobbalzato perché che la scuola italiana non abbia avuto ancora nella sua storia una realtà multietnica e multireligiosa è un dato di fatto. Ma che la scuola italiana non si sia confrontata con quelli che Scalfari chiama “ragazzi portatori di handicap” sembra essere una strana affermazione. La scuola italiana è nota, a volte con plauso, a volte con una punta di critica, come la scuola che ha realizzato di più l’inserimento delle persone handicappate. Scalfari non può ignorare questo, e non è chiaro neanche perché chiuda la frase dicendo che questo aspetto diventerà rilevante per una serie di ben note ragioni. Non riusciamo bene a intendere quali siano queste ragioni, quindi possono anche essere molto note ma non lo sono a chi scrive queste riflessioni. Che siano le ragioni che hanno portato alla chiusura dei ricoveri e degli istituti, queste sono ragioni presenti nella nostra realtà da ormai 18 qualche decennio, si sono affermate progressivamente e non si sono, però, compiute in questo anno ma qualche anno fa'. Quali altre ragioni possano essere sfugge, ma lasciamo cadere questo aspetto. Non si è mai realmente confrontata?. Ma in che cosa consiste il confronto? Forse bisogna ragionare immaginando - dobbiamo solo immaginarlo – quale può essere la visione che ha una persona come Eugenio Scalfari della situazione delle presenze di ragazzi handicappati nella scuola. La sua potrebbe essere la visione propria di chi è lettore attento dei giornali, e quindi, molto probabilmente, sente trattare questo tema quasi unicamente nelle situazioni di emergenza e di incidenti. Quando qualcosa non va, finisce sui giornali. Nel corso di questi anni la denuncia perché mancavano le persone, professionisti adatti ad assicurare l’educazione del tal ragazzo, del tal bambino, della tal bambina handicappata; situazioni in cui l’assistenza materiale non era attribuita a nessuno e vi erano rifiuti da parte di chi riteneva di non avere il ruolo per svolgere simili mansioni; situazioni in cui l’accesso poteva essere reso difficile, se non impossibile, da barriere, oppure situazioni del tutto particolari, come accadde nella situazione in cui venne rifiutata un’insegnante di sostegno, come ancora si dice, perché si presentava con le stesse caratteristiche della bambina che veniva accolta a scuola, cioè anche l’insegnante aveva una situazione di handicap. Tante questioni, contrassegnate dalla singolarità della individualità, che però si affacciava no e si affacciano dalle pagine dei giornali a chi è osservatore esterno alla scuola. In questo senso, forse, si può immaginare che la scuola nel suo insieme dia l’idea di avere una condizione non ancora tale da potere pensare che sia avviato un confronto. Sembra strano, questo, in un pubblicista così attento come è Eugenio Scalfari perché riteniamo che a lui non sia sfuggita la situazione dei numeri che ci indica come la quasi totalità dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze, con handicap, è nelle scuole di tutti. E dicendo “quasi totalità” si dice un avvicinarsi al 100% prudenzialmente perché, come si è soliti in una affermazione che vuole avere un minimo di vigore, l’assoluto stona, non sta bene. Avviare il confronto, quindi, in qualche modo è cosa fatta. E’ cosa fatta ma, probabilmente, potremmo anche immaginare che, forse in una maniera e con intenzioni totalmente diverse, e probabilmente anche con informazioni diverse da quelle che dobbiamo avere noi per ragioni professionali, Eugenio Scalfari ci abbia detto qualcosa 19 che può fare riflettere e può fare avviare un confronto più serrato, più rigoroso, più utile per tutti. 3. 2. Dall’interno delle strutture Se ci muoviamo all’interno delle scuole ci rendiamo conto che le presenze così ampie di persone handicappate non hanno sempre comportato un confronto reale. A volte il confronto è stato considerato come un punto transitorio, ancora una volta un’emergenza. La presenza di una persona disabile è stata vissuta come un evento eccezionale e la strutturazione della scuola nel suo complesso non ha sostanzialmente prodotto quel cambiamento che permetterebbe, in un futuro, l’accoglienza senza più emergenza di un’altra persona disabile. Cosa vogliamo dire con questo? Vogliamo dire che la scuola non ha interamente assimilato una presenza che dovrebbe esigere un cambiamento della didattica per tutti. L’organizzazione della classe ha mantenuto, in una stragrande maggioranza di casi, una sua strutturazione più legata alla lezione frontale, incapace, quindi, di raccogliere in un elemento organizzativo già predisposto, le differenze. L’organizzazione logistica delle scuole ha compiuto qualche passo avanti. Sono molte, ormai, le scuole che hanno gli scivoli, ma sono poche le scuole che hanno attrezzature idonee a non far sentire l’arrivo di una persona disabile come una sorpresa e quindi, ancora, un’emergenza. Mancano i bagni attrezzati, mancano delle possibilità di accesso ai piani superiori, molte volte, mancano delle strutture di laboratorio che permettano l’adattamento di ausilii alle esigenze, non solo di tipo fisico ma anche di tipo mentale, di persone che possono avere dei bisogni particolari. Mancano soprattutto delle competenze integrate. La stessa figura dell’insegnante chiamata “di sostegno” è ancora molte volte proposta, vissuta e consumata all’insegna dell’emergenza. Abbiamo un caso e dobbiamo trovare chi sostenga questo caso. Il sostegno non è in funzione, poi, di una riduzione dell’handicap quanto, piuttosto, del mantenimento della situazione precedente alla presenza di una persona handicappata nel gruppo classe e nell’intera scuola. “Riduzione dell’handicap”: Eugenio Scalfari utilizza un’espressione, peraltro molto diffusa anche in chi dovrebbe conoscere la tematica, che è quella di “portatore di handicap”. E’ noto nell’ambiente un atteggiamento quasi ossessivo da parte di chi scrive queste note, contrario a questa espressione. Ma non è tanto il problema di usare una 20 parola o di usarne un’altra quanto la possibilità reale di vivere una logica operativa. E un’espressione sbagliata è, a volte, la spia di una confusione nelle proposte e negli obiettivi. La scuola deve pensare soprattutto che il suo compito, attraverso l’insegnamento, consiste nella riduzione dell’handicap, e quindi deve capire che gli handicap non sono “portati” dall’individuo, non sono innestati in maniera stabile all’individuo ma sono relativi a una situazione. Sono svantaggi, e come tali, a volte prodotti dall’esterno e a volte prodotti da una incapacità acquisita ma mutabile da parte del soggetto stesso. Una persona potrebbe avere un handicap dovuto al fatto che, essendo cieco, non ha avuto la possibilità di essere educato alla lettura Braille. Ora questa è una situazione in cui lo svantaggio non è portato dall’individuo: è collegato all’individuo, ma è nella situazione e può essere uno svantaggio colmato perché possiamo attivare un insegnamento della lettura nel codice Braille. Quindi non è tanto il desiderio di fare il correttore con la matita rossa e blu dello scritto di un maestro del giornalismo, come è Eugenio Scalfari, quanto il comprendere che effettivamente può aver ragione, segnalando un mancato confronto con questa tematica perché, se la scuola vive da decenni la presenza di handicappati e non ha ancora creato una capacità di espressione e di chiarezza dei compiti, questo significa che il confronto si è sviluppato ma non ancora abbastanza, e quindi non è ancora realmente stato compiuto. In questo caso la sottolineatura è del termine “realmente”: il confronto si è avviato ma non è ancora stato capace di appoggiarsi sulla realtà. E allora, in questo senso, dobbiamo dire che, probabilmente, senza avere le stesse ragioni che stiamo cercando di produrre, l’articolo di Scalfari diceva qualcosa di vero e anche di utile. Rimane, però, il dubbio che Scalfari avesse delle altre ragioni per dire quello che ha detto. E sarebbe interessante riuscire a conoscerle quelle ragioni! Non osiamo sperare che ci legga, ma se lo facesse sarebbe anche interessante che producesse una, sia pur breve, risposta per chiarire quel passaggio così rapido in un articolo dedicato ad altro, e quindi a cui non si può imputare certamente oscurità. L’articolo era molto chiaro e, per quello che può interessare al lettore, condivisibile da chi scrive queste riflessioni. Un confronto reale: questo è un elemento che ha bisogno di essere capito anche nella sua ricaduta sulle professioni, e in particolare su due aspetti che sono di stretta attualità: la formazione degli insegnanti e la formazione degli insegnanti specializzati. 21 3.3 Affrontare realmente un progetto formativo Noi ci auguriamo che la formazione degli insegnanti, nella sua nuova fase di carattere universitario, permetta di avere una base professionale adatta a quel rinnovamento che le presenze di persone disabili esige. Lo auspichiamo ma abbiamo molti dubbi che questo possa essere realmente realizzato. I dubbi derivano dal fatto che vi è un’impostazione della didattica universitaria in buona parte legata alla lezione frontale. La formazione, quindi, vive il paradosso di realizzarsi in una forma didattica contradditoria rispetto agli obiettivi che potrebbe e dovrebbe porre. La lezione frontale universitaria potrebbe, paradossalmente, avere come contenuto la necessità di superare la forma e la formula della lezione frontale. Nulla di grave a vivere questa contraddizione. Bisognerebbe, però, trasmetterla come tale, e questo è già più incerto. Abbiamo la sensazione che non venga trasmessa la contraddizione che si vive; forse non viene neanche percepita. Solo in parte la formazione universitaria riesce e riuscirà ad essere più coerente con la proposta formativa stessa avendo introdotto il tirocinio, e l’augurio è che il tirocinio diventi una realizzazione innovativa seria nei progetti e nei processi di formazione. Alcune università hanno già fatto l’esperienza del tirocinio per gli educatori professionali. E’ un capitolo appassionante e doloroso, al momento attuale, perché alcune università, e una è quella di chi scrive queste riflessioni, hanno vissuto l’esperienza del tirocinio con una grande partecipazione e uno sforzo organizzativo e innovativo notevole. E’ bene segnalare l’impegno di due studiosi come Eugenia Lodini e Luigi Guerra su questo tema delicato. Il tirocinio degli educatori professionali ha avuto la possibilità di creare un collegamento fra una formazione concettuale teoretica e i campi di applicazione. E gli stessi docenti, nel loro ruolo di supervisori del tirocinio, hanno potuto, se volevano, entrare in un contatto vivo con le realtà sociali educative: comunità di tossicodipendenze, centri sociali per handicappati, centri anziani, gruppi educativi di varia natura. Questa esperienza, al momento – e scriviamo queste note verso la fine del millennio (1999) -, non sembrano aver prodotto la convinzione di una figura professionale, che rimane ancora del tutto incerta. E quale sia l’avvenire dei laureati di questo corso di laurea per educatori professionali, non fatto da un gruppo privato ma da università ufficiali, è del tutto incerto. Non è chiaro se le persone, numerose, che hanno compiuto 22 questo percorso formativo di quattro anni universitari, debbano concludere di aver sbagliato a fare quella che sembrava una scelta limpida, chiara. Non è chiaro se debbano ritenere che il loro tempo è stato “rubato” e che altri, con corsi triennali impostati su una nota maggiormente medicalizzante e sanitaria, abbiano invece i riconoscimenti di titolo e di professionalità. Di queste incertezze si trova anche un’analoga composizione nel percorso formativo per gli insegnanti, laddove si dovrebbe individuare la possibilità di proseguire arrivando alla specializzazione per le situazioni di handicap. Anche in questo caso abbiamo la possibilità di tenere molto confuse le precedenti formazioni: biennio di specializzazione compiuto da diverse entità giuridiche, le più eterogenee, e il percorso di formazione universitaria. E l’aver affidato alle università il compito di promuovere iniziative di formazione non ha sortito nessun effetto di garanzia di costruzione di un sistema unitario, perché alcune università hanno interpretato questa possibilità nel senso dell’attribuire agli stessi enti, alle stesse istituzioni che organizzavano i corsi di formazione biennale per gli insegnanti di sostegno il compito di ricostruire gli stessi corsi biennali. E quindi convive l’avvio delle esperienze universitarie e l’avvio, con una piccola copertura a carattere puramente formale da parte delle università, dei corsi di natura precedente. I quali corsi avevano ed hanno un’impostazione prettamente trasmissiva – lezione frontale –, un controllo di ore di frequenza di materia sviluppata come contenuti, senza una puntuale verifica della conquista di crediti formativi e quindi della possibilità di avere, ancora, dei debiti formativi. La logica dei crediti e dei debiti sembra ancora remota, lontana. Questa confusione è attuale; la speranza è che nel tempo che questa scrittura diventi stampa l’attualità sia passata, che ci siano fatti nuovi e quindi si leggano queste parole come qualcosa che era il giorno prima, qualche settimana fa, ma che non è più. Questa è una speranza molto, molto volontaristica. Bisogna voler sperare questo, ma tutto fa credere che non si realizzi o che ci voglia ancora molto tempo, e che si ricreino delle consuetudini formative legate soprattutto ai percorsi brevi di servizio come sostegno, per poter poi raggiungere delle posizioni più normali, di insegnante normale; con una deformazione linguistica che la dice lunga, già, su come venga percepito quel tipo di ruolo e di servizio. 23 L’insegnante normale e l’insegnante di sostegno: sembrano due categorie, la prima è l’insegnante a pieno titolo che ha conquistato una posizione professionale e l’altro è un ruolo di passaggio, una sorta di passaggio iniziatico per novizi che devono fare i compiti da novizi, un po’ sgradevoli, e quando li avranno assolti potranno lasciarli ad altri. Non è l’insegnante specializzato che vorremmo. E lo vorremmo capace di rimanere tale per tutto il suo percorso professionale, non quindi come un servizio di noviziato ma come una costante di competenza che non si perde con gli anni, anzi si accresce. Il percorso formativo: questo è il punto che potrebbe far dare molte ragioni a Eugenio Scalfari. Il percorso formativo ha realmente accettato il confronto con le persone handicappate? Temiamo di no. Temiamo che nella mente dei formatori vi sia ancora l’idea che la formazione può occuparsi tranquillamente di tutto, ma che in questo tutto non sia compresa la situazione di handicap che invece viene inviata ad altri. 3. 4. I formatori sono formati? E per cosa? E nasce, su questo, un ulteriore elemento di confusione e di contraddizione che si esprime in questo modo: si lascia che altri debbano occuparsi delle situazioni di handicap e, nello stesso tempo, si nega la possibilità che esista un raggruppamento concorsuale specifico, con queste competenze. Come è noto, agli addetti ai lavori però, e non certamente a chi vede le cose dal di fuori, il raggruppamento che riguardava la Pedagogia speciale ha avuto una vita breve. E’ nato e immediatamente è stato cancellato per essere assimilato a un raggruppamento più ampio: Didattica e Pedagogia Speciale. La ragione è che non ci sono i numeri; i docenti di Pedagogia speciale sono troppo pochi per consentire la nascita di un raggruppamento. Sulla questione dei numeri non ci sono obiezioni da fare: la regola dei numeri non può essere diversa per un raggruppamento come per altri, se è la sola regola. Noi ci domandiamo se deve essere solo quella la regola che non permette di tener conto delle ragioni più profonde della nascita o della permanenza di un raggruppamento, e ci sono tutte. Le ragioni più profonde sono presenti nella necessità che si crei una competenza specifica, capace di produrre quegli effetti formativi di cui parliamo. E’ più semplice integrare delle competenze avendo la possibilità di individuare chi ha delle competenze, secondo uno specifico, che non ritenere, in termini molto vaghi, che la diversità sia un elemento più o meno presente in tante discipline, in tante aree formative, e che ci siano 24 poi delle possibilità di interpretare questa stessa diversità in molti modi: come diversità culturale, diversità di genere, ecc., mentre noi parliamo con una necessità specifica di diversità dovuta a deficit, quindi di situazioni di handicap, e su quella abbiamo bisogno di dare possibilità formative molto precise. Come può avvenire, se all’interno dell’università, però, non c’è questa specificità di competenza? Può avvenire con la possibilità, che l’ordinamento universitario sta usando largamente, di attribuire incarichi a persone competenti che non sono già incardinati nell’università. Questo può avvenire, se la struttura universitaria individua, per i profili professionali che deve formare, le competenze esterne che abbiano un ruolo formatore .Se, ad esempio, è necessario, come è necessario, rispondere alle necessità degli handicappati sensoriali e all’interno di un corso di laurea non sono presenti docenti in grado di rispondere a quelle necessità, anche di natura tecnica, il buon senso e le possibilità giuridiche suggeriscono di andare a cercare laddove ci sono, nelle associazioni, nelle strutture, nei servizi, la competenza adatta a farsi carico di uno specifico formativo, nel percorso e nel profilo dell’insegnante specializzato. Questa operazione ha bisogno di essere sviluppata in termini tali da produrre una qualità. Non abbiamo la possibilità di svilupparla in tempi brevi. Abbiamo, però, la necessità, in tempi brevi, di fornire la struttura formativa senza più confusioni dovute al cedimento dei presupposti per consentire uno sviluppo di piccoli affari. Mantenere dei corsi significa poter esigere delle tasse, e potere mantenere quel poco di giro d’affari che pure attorno ai corsi di specializzazione si è sempre sviluppato. Questo è un punto molto delicato, che esige molta fermezza. Ed esige soprattutto che la scuola e la sua organizzazione strutturale abbia la possibilità di avere le mani libere da ogni compromesso con le strutture, sia pure universitarie, per poter essere realmente committente che desidera verificare la qualità della formazione di cui ha bisogno. Pensiamo che la scuola sia troppo compromessa con dei compiti formativi, e non possa dare dei giudizi liberi su quelle che sono le figure professionali. La richiesta che a volte avviene, dalle strutture scolastiche alle università, di collaborazione dovrebbe essere precisata attraverso delle possibilità che lascino integra l’attribuzione del compito della verifica e del controllo di qualità. La scuola deve poter dire: “Tu, università, non hai fatto, o hai fatto, bene il tuo dovere nel formare le figure di cui abbiamo bisogno”. E l’università ha il dovere di rispondere. E se la committenza ha un desiderio al ribasso, 25 l’università ha la necessità di spiegare un suo disegno più alto su cui, forse, la scuola non ha ancora pensato di realizzare i suoi progetti. E’ quindi una necessità di rendere in qualche modo dialettica la relazione tra struttura universitaria e struttura scolastica per alzare il livello di competenza e di progettualità formativa, e non certamente per abbassarlo e ridurlo soprattutto a un problema di risorse da distribuire ai diversi soggetti, attori della formazione, propri e impropri; che siano appropriati perché è il loro dovere e sono nel posto giusto per rispondere ai doveri formativi, o che siano fuori posto e facciano formazione non dovendola fare, e avendo altri compiti. Questa è una delle ragioni per cui, forse, Eugenio Scalfari potrebbe aver detto il giusto nel ritenere che il confronto con i ragazzi, che preferiamo chiamare handicappati, non si è realizzato. Abbiamo dovuto far cadere quel “mai”: “non si è mai realizzato” non possiamo proprio ritenerlo giusto. “Non si è realizzato” vuol dire non si è realmente affrontato il confronto come elemento permanente di un progetto scientifico e culturale in cui la scuola è impegnata, in cui l’intera società sta vivendo alcune pagine molto, molto, molto interessanti, con il dovere di renderle più chiare a chi, nel suo ruolo di pubblicista e di coscienza vigile dell’andamento morale, civile, economico del paese può farsi interprete. Ha quindi il dovere di far capire, di far capire a tutti. Ma, se vogliamo, in questo caso con una attenzione particolare a chi è nel ruolo importante di Eugenio Scalfari. Le persone come Eugenio Scalfari sono quelle che possono a loro volta aiutare a capire chi è distratto da molti eventi. Le persone come Eugenio Scalfari hanno la possibilità di capire gli eventi troppo celebrati dai giornali e gli eventi che i giornali trascurano, e ogni tanto riequilibrare la riflessione sulla realtà, facendo in modo che questa non risulti solo da ciò che esce sui giornali, ma comprenda anche chi i giornali li legge e non li trova come degli specchi in cui rifletterci, ma come delle finestre aperte su qualcosa d’altro. Questo dovere di farsi capire probabilmente la scuola deve metterlo al centro del suo obiettivo attuale. Troppe volte si ha la sensazione, nei dibattiti, nei punti di incontro degli addetti ai lavori della scuola, che vi sia una sorta di avvitamento, di parlare unicamente delle ristrutturazioni, della riorganizzazione, di certi ruoli nuovi, di certe figure importanti, certo, ma che rischiano, se esasperate nei dibattiti, di far dimenticare quella che è la ragione prima della scuola, cioè l’educazione attraverso l’apprendimento, attraverso l’insegnamento. Questa comprensione deve essere uno degli elementi di vita 26 della scuola attuale, altrimenti si deforma ogni espressione linguistica e, accanto allo psicanalese, accanto al matematichese, vi sarà anche lo scuolese. C’è già stato il sindacalese, cioè quelle espressioni linguistiche che hanno un senso autoreferenziale assoluto e da cui le persone con un minimo di buon senso e di buona salute mentale cercano di star lontane. Se la scuola non riconosce i limiti che hanno certe deformazioni gergali, certe disquisizioni autoreferenziali, commette un grave atto di autolesionismo e non permette a osservatori attenti come Eugenio Scalfari di poter capire quello che ha vissuto e quello che vive, e quindi di potere, tranquillamente e con disinvoltura, dire che essa non si è mai confrontata con le persone handicappate, cosa che non è vera ma che abbiamo cercato, per la stima nei confronti della fonte di riportare a una riflessione in positivo, non dicendo semplicemente “si è sbagliato”, e dobbiamo un po’ bacchettarlo. Non lo bacchettiamo, lo ringraziamo per aiutarci a capire che il confronto reale lo dobbiamo fare. 27 IV OPERATORE: PROFESSIONALITA’ E COMPETENZE Come parlare delle competenze professionali Introdurre una riflessione su una figura o su un ruolo, quale è quello dell’operatore che ha o dovrebbe avere le competenze per affrontare i temi dell’integrazione di persone problematiche nel contesto sociale e culturale ordinario, significa allargare la riflessione alla professione difficile e problematica di alcuni ruoli. I ruoli esistono, le professioni possono esservi o avere degli ostacoli per la loro affermazione. E’ questo il caso di alcuni ruoli quali quelli dell’educatore o educatrice professionale e dell’insegnante specializzato/a. E’ difficile negare che esistano i ruoli, perché nella realtà in cui ciascuno può guardare con curiosità, da estraneo o da persona addetta ai lavori, trova una quantità di persone che stanno svolgendo il ruolo o di educatore o di insegnante specializzato. Ma basta questo per dire che esiste la professione? E che cosa può fare esistere una professione? Si potrebbe dire che perché questa condizione si realizzi debba esservi una formazione specifica, un profilo professionale, quindi, che ne sostenga la realizzazione, e un riconoscimento. Noi a che punto siamo su questi aspetti? In un periodo confuso. La preparazione c’è ma ha molte strade. E non tutte hanno la possibilità di realizzare un obiettivo chiaro e solido. L’insegnante specializzato è ancora confuso con l’insegnante di sostegno, per i quali nel nostro paese, al momento in cui svolgiamo questa riflessione, ovvero alle soglie dell’estate del 2000, esistono ancora i bienni cosiddetti di specializzazione che sono in una quantità preoccupante. I bienni di specializzazione svolgono una funzione impropria: per la maggior parte dei casi consentono a chi li ha frequentati di entrare nell’insegnamento e di considerare l’attività di sostegno come un compito a termine svolto - vogliamo sperare - con la migliore delle disponibilità e – continuiamo ad essere speranzosi – la migliore delle preparazioni. Ma è un compito a termine, le cifre parlano chiaro: la maggior parte delle persone che svolgono questo compito non continua a svolgerlo all’interno di una professione ma si sposta. L’educatore professionale ha una prepazione che può avvenire in più modi, non coordinati fra loro, e con riconoscimenti il più delle volte avventurosi, poco chiari. Allora bisogna prendere atto, se crediamo, che non esiste la professione dell’insegnante specializzato, esiste la professione insegnante, all’interno della quale vi può essere una 28 “variabile di servizio” che è quella di adempiere alle funzioni di sostegno per qualche anno, per poi non occuparsi più di handicappati in termini specifici. Questa possibilità, se fosse portata avanti con una certa razionalità, potrebbe rispondere alla necessità di fornire a tutti gli insegnanti, nel loro reclutamento, e attraverso questo, un incontro specifico con le tematiche delle situazioni di handicap, e quindi potrebbe rispondere alla necessità che per tutti gli insegnanti vi sia una competenza diffusa sulle situazioni di handicap. Questo, però, sarebbe un disegno molto debole, perché darebbe il primato a un elemento esperienziale limitato, pochi anni di esperienza diretta, e soprattutto favorirebbe e consentirebbe l’idea che l’integrazione sia un tema marginale, utile per potere poi non occuparsene più in termini specifici. Inoltre, questa forma di reclutamento non sarebbe certamente compatibile con il disegno di formare tutti gli insegnanti attraverso le università. Quindi questa dovrebbe essere una formazione residuale ritenuta da tutti qualcosa di limitato nel tempo. Analogo ragionamento per la figura professionale dell’educatore: non esiste come immagine sociale riconoscibile in una professione, ma come servizio che può anche essere svolto da un professionista, se non vi sono altri (obiettori, volontari, assistenti di base,…) che possano svolgere quello stesso servizio, in quel momento, magari a basso costo. Si parte dalla formazione per capire un contesto professionale. La mia riflessione va un po’ oltre, e porta a dire che questa è una formazione che ha avuto indubbi meriti, ma che oggi è decisamente dannosa. Perché? Le componenti di una professionalità sono dunque la formazione specifica, un profilo professionale e il riconoscimento. In quest’ultima parola vogliamo vedere non soltanto la possibilità che vi sia un’immagine sociale ma soprattutto - ai fini operativi è l’aspetto più importante – una possibilità di esercizio prolungato della stessa professione. Senza questo l’enfasi che noi possiamo mettere sulla formazione è decisamente fuori luogo. Bisogna considerare che non esiste professione che consideri la formazione come un compito esaurito il quale la persona è pronta a esercitare la professione in tutte le sue dimensioni: in tutte le professioni esiste una grande importanza dell’esperienza nell’esercizio stesso della professione, la possibilità, quindi, di costruire negli anni un bagaglio di competenze che permetta l’intreccio tra la formazione iniziale, le formazioni 29 in itinere, gli aggiornamenti, le riqualificazioni, le riflessioni, e il prosieguo dell’esperienza professionale. Attualmente le insegnanti che chiamiamo ancora “di sostegno”, che vorremmo chiamare “specializzati” e gli educatori professionali, probabilmente anche altri ruoli che desiderino diventare professioni, non hanno questa possibilità di riconoscimento, che significa appunto tanto immagine sociale quanto, e nel nostro caso soprattutto, garanzia di esercizio di quella professionalità, per un lungo periodo di tempo. Mancando questo viene a cadere la possibilità che vi sia la costruzione di una competenza storica sufficientemente forte per potere corrispondere alle esigenze reali dei soggetti. Diventa quindi un ruolo subordinato a diverse circostanze, e chi desidera immediatamente avere il risultato della formazione investendo sugli insegnanti che chiamiamo di sostegno, quindi attraverso la formazione dei bienni, desidera con onestà qualche cosa che ha poi dei risultati in contrasto con il nucleo principale di quel desiderio, che è quello di affermare la possibilità di una professione e di un servizio di qualità. La qualità non può che essere unita a quel riconoscimento. La nostra situazione italiana è quantomai complicata, e per uscire dalle complicazioni non è tanto utile mantenere delle forme di provvisorietà quanto è necessario avere un disegno progettuale, sapendo che le provvisorietà sono nella realtà, che non si possono prendere delle decisioni che cancellino quello che esiste, e improvvisamente facciano nascere una realtà nuova. Questo è un desiderio bellissimo, ma non sta nelle nostre possibilità reali. Nelle nostre possibilità reali vi è invece l’impegno a costruire un disegno attraverso il quale permettere una progressione dell’affermazione della professionalità, e quindi delle risposta di qualità alle esigenze dell’integrazione. Gli equivoci possono essere molti e altre volte sono stati affrontati da chi è autore di queste riflessioni. E’ utile però richiamarli: l’equivoco grossolano quanto molto diffuso è quello di pensare che l’integrazione annulli la necessità di integrazioni specifiche, e quindi annulli la necessità di far crescere una competenza o le competenze della pedagogia speciale. Da questo equivoco nascono interpretazioni sulla pedagogia speciale quantomai interessanti ma anche quantomai elusive dei compiti specifici, per cui può parlare di pedagogia delle differenze in termini molto vasti, di genere, di cultura, tutti elementi veramente importanti, ma che diventano, o possono diventare, equivoci ed elusivi rispetto al compito specifico della pedagogia speciale, in questa nostra epoca che è quella di 30 affrontare le differenze derivate dai deficit, e di permettere un impegno per l’integrazione. Questo primo equivoco ha delle conseguenze, o ha in buona compagnia con altri equivoci, quali quelli che permettono di pensare che il servizio debba essere fatto in termini individualizzati ma con una deriva evidente che tolga una parte del contenuto di questo termine, e diventi più facilmente “individuali” in senso isolato, quindi che si perda l’idea base dell’integrazione, che è l’integrazione nel curricolo, integrazione negli apprendimenti, integrazione, quindi, anche, in spazi e tempi che si integrano tra loro, ritmi diversi, e che vada verso una maggiore conoscenza di quelle che sono le caratteristiche della metacognizione; strategie educative e non una strategia per tutti quelli che sono normali e una strategia separata per chi ha delle difficoltà, delle caratteristiche diverse, dei bisogni particolari. Questa seconda possibilità di equivoco si accompagna a molte altre situazioni equivoche che sono l’idea, a volte necessaria nell’immediato, e quindi determinata da urgenze che per garantire una certa possibilità di vita scolastica, di vita educativa, vi debbano essere molte persone attorno a un bambino o a una bambina, o a un ragazzo o a una ragazza, e che quindi si debba assicurare la copertura oraria, come si dice in gergo. Anche questo è un equivoco: la possibilità che un bambino o a una bambina, o a un ragazzo o a una ragazza abbia il più possibile del personale a lui o a lei dedito non va automaticamente a incidere sulla qualità dell’integrazione ma a volte può essere, al contrario, l’indicatore di rischio di una cattiva educazione. Un altro equivoco che posso immaginare per ora di considerare ultimo in questa segnalazione rapida, è quello di escludere, tener fuori, i coetanei dal progetto di integrazione, e quindi di considerare che l’integrazione sia ben riuscita se non disturba e permette ai coetanei di svolgere il loro lavoro, il loro compito, il loro apprendimento come se non vi fosse una persona con bisogni particolari, quindi senza che vi siano interferenze, ma anche senza affrontare il vero compito che è quello di trasformare l’interferenza in integrazione, e quindi in qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento. Questi equivoci sono presenti, sono duri a morire, e nonostante un certo numero di disposizioni legislative nelle scuole si sente tuttora utilizzare il termine certificazione come carta di credito per avere un insegnante che si occupi di quel bambino, di quella 31 bambina. E questo non dovrebbe più avvenire, ma avviene in misura difficile da quantificare, ed è considerato sempre un rispondere all’emergenza. Come per altri temi, non riusciamo a uscire dalla logica dell’emergenza. Un contributo per uscire è quello proprio di avere un modello in testa, ed è questa la riflessione che mi permetto di fare in rapporto alla costruzione di questo modello. E partendo dalla questione del riconoscimento dobbiamo riferirci a quell’aspetto così importante della continuità dell’esercizio della professione, e quindi a tutte le necessità che comporta l’organizzazione del lavoro, perché la professione sia continuativa nel tempo e assicuri una possibilità di essere svolta. Quindi devono essere risorse sicure, possibilità di assegnazione in un compito professionale non sottoposto ad aleatorietà, e possibilità che questo compito sia svolto con un’effettiva crescita di qualità. Nella situazione attuale, nel nostro paese, il rischio continuo relativamente alle situazioni di handicap è che queste abbiano una funzione che potremmo dire “di copertura”. Possono servire a molte cose: per esempio ad ottenere il posto di lavoro, possono servire a mantenere delle cattedre e possono anche procurare nuove cattedre non coincide, in questo momento storico, la competenza al servizio di un progetto educativo che vorremmo sia quello dell’integrazione. L’integrazione è ancora uno sforzo volontaristico, e quello che va consolidato è soprattutto questo aspetto così importante che potrebbe fare avanzare la ricerca. Sembra evidente, o dovrebbe essere così, che la ricerca applicata ha un’importanza vitale per i processi educativi di persone disabili in contesti ordinari, cioè nella prospettiva dell’integrazione. Ma la ricerca si rallenta o langue quando non si può collegare a delle situazioni di professionalità esercitate in maniera permanente, tali da potere consentire un progresso nelle competenze. Dovrebbe esserci quindi un interesse comune per le situazioni educative nella quotidianità e per l’avanzamento della ricerca a formare una stabilità che permetta l’avanzamento. L’attuale situazione è paradossalmente un continuo azzeramento. Non si riesce, se non con delle eccezioni, a far crescere nuove competenze senza, in qualche modo, metterle in contrasto con quelle precedenti. Noi vorremmo, invece, potere lavorare in una situazione in cui si possa avanzare, avendo consolidato un terreno di competenze. E’ questo che fa invocare la possibilità di una professionalità maggiore per l’insegnante specializzato e, per quando riguarda l’extra-scuola e anche il percorso esistenziale, per 32 l’educatore o l’educatrice specializzato. Le ragioni possono essere riassunte in quell’immagine di più conosciuta esperienza che è della professione medica. L’immagine del medico che permette di rivolgersi costantemente a un professionista capace di indirizzare, qualora fosse necessario, a delle competenze più specifiche che hanno altri colleghi. E’ immaginabile oggi un quadro di questo genere, per quanto riguarda l’educazione specializzata? E’ veramente molto difficile. Nel percorso scolastico più volte è stato denunciato un irrigidimento per delle tutele di condizioni di lavoro, peraltro a basso profilo; è difficile far coincidere l’esigenza, cioè il bisogno, con la risposta. Dovrebbe essere possibile, una volta costruita una base professionale, e quindi dato corpo a una professionalità di insegnanti specializzati, permettere che la risposta più adeguata sia ricercata dallo stesso insegnante specializzato, qualora si accorga che altri, e non lui o lei, sia in grado di dare le risposta tecnica giusta, mirata, al problema presentato da un soggetto. Facciamo un’ipotesi: se noi riuscissimo oggi a dare una stabilità agli insegnanti specializzati e permettessimo a questi di esercitare la professione per un percorso professionale di tutta la carriera educativa potremmo immaginare, senza con questo fare delle fantasie, che nel giro di un decennio si possano formare competenze estese di qualità e competenze estese mirate in taluni insegnanti specializzati. Si può quindi immaginare che di queste competenze mirate ci sia conoscenza all’interno della professionalità, e quindi sia possibile realizzare una consulenza fra pari, o addirittura un intervento che permetta l’adeguamento della risposta al bisogno educativo. Alcune situazioni particolari: viene da fare un esempio con indicazione dei bambini o bambine sordociechi. Esigono delle risposte quantomai precise e che rischiano oggi di avere invece risposte molto generiche, di buona volontà certamente, e nella buona volontà mettiamo anche il conto di quella capacità di coinvolgimento affettivo che è visibile e riscontrabile in buona parte degli insegnanti di sostegno e di cui non vorremmo fare a meno, ma che ha una natura in qualche modo compensativa dell’assenza di risposta più mirata e specifica per la riduzione degli handicap. Sopperiamo con l’amore a quelle che sono le carenze professionali. Certamente è il miglior modo per far fronte a un limite strutturale, ma non credo che debba essere confermato, perché vorrebbe dire che non riusciremmo mai ad uscire dall’emergenza. 33 Utilizzando l’espressione rischio di copertura vogliamo segnalare la possibilità che vi siano interessi diversi da quelli che dovrebbero essere, e che tali interessi alla lunga prevalgano, costruendo un tessuto organizzativo in cui nulla più coincide rispetto a quelli che dovrebbero essere gli obiettivi etici, educativi, scientifici. E questo vale anche per la formazione: continuare a vederla come una possibilità, da una parte di raggiungimento facilitato della stabilità lavorativa, dall’altro di attivazione di corsi a pagamento, non è il miglior modo di far fronte al problema. Ed è convinzione di chi fa queste riflessioni che sia, anzi, il modo di continuare a frantumare e a non raggiungere la stabilità professionale, base senza la quale non si arriva a delle competenze. Le competenze di insegnanti ed educatori ed educatrici che si occupino della riduzione dell’handicap hanno bisogno di far riferimento certamente a delle tecniche ma, ancora più, hanno bisogno di fare riferimento ad una sorta di banca dati derivata dall’esperienza. L’importanza dell’esperienza non è un assoluto ma è relativa alla storicità di una figura professionale che permetta il raggiungimento di uno spessore culturale maggiore. Se noi continuiamo con la logica dell’emergenza, e con quella della copertura, la nostra aspirazione a realizzare un’integrazione strutturale viene frustrata. Certo noi abbiamo la possibilità di riprendere ogni cinque anni, quasi daccapo, l’operazione, perché il ricambio degli insegnanti di sostegno ha questa ciclicità. Possiamo certamente individuare anche delle belle, importanti eccezioni, che non sono la regola. Noi abbiamo la necessità di costruire una professionalità che ci permetta di avere risorse permanenti. Poi è chiaro che è necessario avere queste risorse nella misura quantitativamente ampia e tale da permettere il collegamento reale con l’esigenza. La quantità, però, non è tale da fare a pugni con la qualità. Noi abbiamo bisogno soprattutto, in questo momento storico, di badare alla qualità che può regolare, in termini anche vantaggiosi sul piano economico, la quantità. Nella stagione in cui siamo, il rapporto indicativo è un insegnante di sostegno ogni centotrentotto alunni, questo rapporto è considerato troppo dettato da ragioni economiche e poco da un’organizzazione pratica, ma è anche vero che questo rapporto dovrà essere commisurato a una migliore qualità, e che insegnanti specializzati, stabilizzati all’interno delle strutture scolastiche, potranno attivare strategie tali da far risultare la 34 loro presenza molto più efficace in rapporto all’intera struttura che non in rapporto al singolo caso. Le ragioni per i familiari e per le associazioni dei familiari dovrebbero essere molto chiare, evidenti, e in questo disegno l’attesa è proprio che i familiari, le associazioni dei familiari, le associazioni che vengono chiamate storiche, cioè quelle che hanno negli ultimi decenni più contribuito, con la loro azione da protagonisti, a svolgere l’integrazione reale dei loro figli, dei loro congiunti, le associazioni devono contribuire a questo. E l’auspicio è quello che nel loro operare risulti di grande importanza la trasparenza delle professionalità, e quindi venga meno quel desiderio di supplenza, dettato da generosità certamente, quando le professionalità sono incerte o addirittura in dubbio che esistano, si desidera supplire a questo vuoto impegnandosi direttamente, sia nella formazione che nella gestione, nell’assunzione di compiti. Anche questo è un elemento di emergenza, non si può perpetuare l’emergenza, bisogna farla risultare una fase transitoria, e quindi nello stesso tempo bisogna operare perché se ne esca dall’emergenza. Occorre riprendere ciascuno le proprie posizioni, in un disegno che ha bisogno di tutti, ma ha bisogno che ciascuno occupi con trasparenza, con chiarezza una posizione, certamente interagendo con gli altri e quindi certamente con una grande capacità di esercizio del controllo sociale, con una capacità anche di azione politica: di politica della scuola, di politica dell’educazione, ma sapendo che ogni prolungamento di supplenze è un contributo alla non chiarezza, e quindi, in qualche modo, ritarda i processi di integrazione. Fatte salve le generosità, le buone intenzioni, e fatte salve, certamente, le esigenze dell’emergenza. Ma il difficile è proprio questo: coniugare l’attività dell’emergenza con l’attività del superamento della stessa emergenza. Potremmo, però, farlo questo, perché possiamo farlo insieme. Nessuno da solo riesce a fare tutto questo, ma insieme si può: si può uscire da questa fase di confusione deleteria per la qualità dell’integrazione puntando decisamente alla costruzione di un modello più chiaro e nitido, al cui centro la professionalità e la competenza devono essere le parole chiave, devono essere quelle molle che permettono di far girare tutti gli ingranaggi di una macchina anche complessa, ma che può funzionare. 35 V L’INSEGNANTE SPECIALIZZATO E LA SUA FORMAZIONE 5. 1. Uscire da uno stato confusionale L’attuale situazione della formazione degli insegnanti attraversa un periodo di transizione. Vorremmo sperare che sia importante dire che scriviamo queste note verso la fine del 1999. Lo vorremmo sperare perché ci auguriamo che fra un anno la transizione sia a un altro punto della sua storia e non allo stesso punto in cui ci troviamo adesso; che fra tre anni la transizione sia sul punto di essere superata, perché in ogni transizione vi è il sospetto che si lasci qualcosa senza avere la possibilità di raggiungere altro o dell’altro. Attualmente vi sono molte richieste perché vengano attivati i corsi, che molti chiamano ancora biennali, di formazione per gli insegnanti di sostegno. Questa domanda in sé è certamente legittima ma fa riferimento a uno strumento di formazione che dovrebbe essere superato e che ha avuto indubbie utilità, e nello stesso tempo un uso improprio. Gli insegnanti di sostegno, e una grande maggioranza, non sono diventati insegnanti specializzati. Hanno svolto il loro compito - e non è questa la sede per valutare la qualità del loro servizio ma possiamo ritenere che non sia stato un cattivo servizio -, hanno svolto il loro compito per un certo numero di anni per poi raggiungere la possibilità di essere insegnanti. Se i corsi di formazione per insegnanti di sostegno avessero dato luogo a insegnanti specializzati noi avremmo una quantità di insegnanti specializzati più che sufficienti a rispondere al fabbisogno, e invece non è così. E’ allora evidente che vi è stata una fase, anche troppo lunga a giudizio di chi scrive queste note, in cui il reclutamento scolastico per gli insegnanti è passato anche attraverso questa particolare forma che si chiama “fare per qualche tempo l’insegnante di sostegno”. E’ un fatto noto, ed è su questo fatto che ha potuto essere avviata un’attività che ci permettiamo di definire “sospetta”. L’attivazione di un numero molto alto di corsi di specializzazione per insegnanti di sostegno con lo scopo, se non primario immediatamente percepibile fra i primi, da una parte di fare entrare nella scuola (il reclutamento) e dall’altra di avere un’attività remunerativa da parte di chi organizzava i corsi per gli insegnanti di sostegno. Più volte è stato rilevato anche da chi scrive queste note che il numero strepitosamente alto di corsi di insegnanti di sostegno non poteva in alcun modo corrispondere a una quantità qualitativamente altrettanto alta di formatori. 36 Non potevano esistere nel nostro paese tante équipes di formatori di buona qualità quanti erano i corsi per la formazione degli insegnanti di sostegno. Vennero fatti certamente diversi tentativi perché la qualità fosse controllata. Il meccanismo dell’autorizzazione mediante documentazione di titoli sembrava dovere controllare la proliferazione ma evidentemente vi erano meccanismi sotterranei più forti che determinarono sempre la proliferazione incontrollata del numero per avere altri tipi di controllo che ci permettiamo di dire piuttosto legati a un’attività remunerativa per i formatori. Questo aspetto è certamente l’elemento base che crea una grande confusione e delle ingiustizie perché accanto a un numero alto di corsi di bassa qualità vi sono stati corsi creati con molta attenzione e cura. Le domande, che oggi vengono fatte, di riaprire dei corsi di formazione per insegnanti di sostegno fanno spesso riferimento alle eccezioni e non alla regola. La regola, occorre dirlo, era una qualità tendenzialmente bassa che non dava agli insegnanti di sostegno un profilo professionale stabile. Implicitamente, e a volte anche con una certa disinvolta trasparenza, forniva gli elementi utili al reclutamento, come già abbiamo detto. Questa situazione tendeva a rimanere senza possibilità di fermarsi. L’elemento nuovo è l’avvio della formazione universitaria della scuola primaria e l’avvio della specializzazione post-laurea per diventare insegnanti della scuola secondaria. Come si colloca, allora, la formazione degli insegnanti di sostegno in questo quadro rinnovato? La prima affermazione che occorre fare è che non può più collocarsi con le forme e nelle forme che erano abituali. I corsi di formazione per gli insegnanti di sostegno dovrebbero essere definitivamente del passato e non più proponibili attualmente. Per uscire dallo stato confusionale bisogna avere la fermezza e il coraggio per dire: ”Non apriamo nuovi corsi di formazione”. Però l’avvio dell’anno scolastico o accademico, a seconda della collocazione in cui ci si pone, 1999-2000 ha visto ancora una volta proporsi un numero anche alto di corsi biennali per insegnanti di sostegno. E questa volta la piccola e anche non certo incoraggiante novità è data dal fatto che sono state alcune università a farsi garanti della stessa proliferazione, e a volte con le stesse strutture che avevano prodotto i precedenti. Questo è un paradosso perché sono loro stesse che dovrebbero per prime avere conoscenza e coscienza della novità della formazione degli insegnanti - formazione universitaria, si è detto -, e quindi dovrebbero essere le stesse università a rendersi per prime conto che cambiando sistema formativo 37 non possiamo fare ricorso a uno strumento formativo della precedente epoca. Far convivere le due forme formative vuol dire aumentare lo stato confusionale. Questo è un punto che ha anche aspetti drammatici. Viene il sospetto che persistano le forme di ricerca di remunerazione da parte dei formatori. 5. 2. Preparare una professione Sembra evidente, analizzando anche superficialmente la storia di questi anni, che il “sostegno” è stato ed è una funzione, non una professione. Sembra altrettanto evidente che tale funzione sia esercitata indipendentemente dal modello di integrazione. Cosa vogliamo dire con questo? Che è stato possibile l’utilizzo dell’insegnante di sostegno in forme che non hanno avuto la qualità dell’integrazione. Sono state quindi più forme di esclusione interna all’edificio scolastico, interna alla strutturazione degli spazi della classe, all’organizzazione del tempo, e queste forme di utilizzo dell’insegnante di sostegno non hanno prodotto una diversa organizzazione della didattica. Il passaggio da fare è verso l’utilizzo, e la formazione quindi, di un profilo professionale, di una professione: quella dell’insegnante specializzato o specializzata. Bisogna sgomberare il campo da alcuni equivoci. Uno, macroscopico, che si può esprimere in questi termini: la prospettiva dell’integrazione non ha più bisogno di una didattica specifica, di una pedagogia speciale, non ha più bisogno di competenze specializzate; la didattica normale, la pedagogia generale nell’integrazione, sono del tutto sufficienti. Questo è il primo equivoco da sgomberare ed è sicuramente un equivoco che ha prodotto alcuni danni visibili, ad esempio nelle giuste proteste che vengono dagli ambienti di tutela, chiamiamoli di rappresentanza, degli handicappati sensoriali nei confronti dei quali non è possibile una generica accettazione ma l’accettazione va accompagnata da strumenti precisi e specifici. Un secondo equivoco può essere quello, anch’esso assai banale, di ritenere necessaria una figura non necessariamente professionale, che “contenga” la persona handicappata. Che permetta, cioè, al resto dei ragazzi e delle ragazze, alla classe e alla scuola in generale, di svolgere la sua vita. Questo equivoco non è detto esplicitamente, è più affermato nei fatti. Ed è tanto vero che per molto tempo, tuttora, vi sono delle forme di, possiamo ancora chiamarlo, sostegno – è incerta la sua definizione – che vengono attuate utilizzando sia insegnanti di sostegno, sia altre figure come assistenti di base, educatori professionali, 38 obiettori, con l’evidente proposito di raggiungere il più possibile la “copertura” oraria. Avere quindi la possibilità che il tempo di permanenza scolastica di un certo soggetto venga sottoposto a un controllo da parte di figure altre rispetto all’insegnante di classe e al gruppo degli insegnanti. Questo secondo equivoco può essere la premessa a un terzo equivoco, forse quantitativamente più ridotto, ma presente anche, a volte, in alcune richieste, comprensibili, ma non per questo accettabili, e cioè quello di avere insegnanti capaci di svolgere un’attività tecnica specifica separata dall’intreccio e dal contesto scolastico degli altri. Insegnanti che abbiano, quindi, una strumentazione tecnica specifica rivolta a particolari necessità, senza proporsi l’integrazione di queste attività con il gruppo classe, con il contesto scolastico più ampio. Questo equivoco può anche essere interpretato come un punto di progresso verso le competenze, ma sono competenze separate. Possono avere tempi strategicamente utili e importanti ma devono poi riprendere una trama più complessa, un intreccio che è quello dell’integrazione. Diversamente noi avremmo non tanto realizzato delle risposte specifiche in un progetto di integrazione quanto avremmo reintrodotto delle forme di esclusione e di separazione. In questi tre principali equivoci vi sono mescolati tra loro alcuni rischi che non mettiamo in un ordine gerarchico perché possono essere tali da contaminarsi tra loro e non essere quindi leggibili in forme pure. Il rischio del ghetto affettivo, e cioè il rischio che vengano calamitati sulle persone handicappate degli elementi di grande generosità, di bontà, senza un vero progetto di integrazione. Un rischio di ghetto tecnico: la possibilità che vi siano delle forme di isolamento giustificate dalla risposta tecnica individuale o, e questo contiene un ulteriore rischio, in un gruppo ritenuto omogeneo. Il gruppo omogeneo fa rinascere le categorie e la categorizzazione per cui bisogna dare una risposta a esigenze che sono inevitabilmente diverse. Il rischio, quindi, della separazione tempo spazio: il tempo di tutti e il tempo di chi ha delle esigenze particolari e, analogamente, lo spazio di tutti e lo spazio di chi ha delle esigenze particolari. E’ chiaro che questa descrizione della funzione senza professione si allarga se prendiamo in considerazione altre problematiche, per esempio quella legata alla presenza di culture diverse e di bambini e bambine, ragazzi e ragazze che provengono da altri paesi, da altri mondi, con lingue, espressioni, conoscenze che sono diverse da quelle che noi conosciamo, che noi abbiamo. La necessità è quella di formare, invece, delle professioni. E la professione che vorremmo individuare è quella dell’insegnante 39 specializzato. Mettendo ordine ad alcuni elementi, si dovrebbe dire che l’insegnante specializzato non ha più una funzione di transizione ed è quindi necessario immaginarla come esercitata per tutto il periodo di attività lavorativa. L’insegnante specializzato o specializzata ha bisogno quindi di un profilo professionale che permetta di collegare le sue competenze alla formazione permanente avendo una formazione iniziale, e di collegare la propria attività professionale a quella del contesto più ampio che è la scuola. L’insegnante specializzato o specializzata ha bisogno di un reclutamento in quanto tale e non di una forma di transizione verso altri ruoli, altre attività, e di diventare insegnante “normale”. Una professione, una professione complementare ad altre professioni e che richiama la necessità, che non ci stanchiamo di richiamare, di avere un quadro delle professioni di aiuto. Deve essere quindi un profilo professionale che permette di avere interfaccia nei confronti delle altre professioni di aiuto: i tecnici della riabilitazione, gli specialisti e, naturalmente, gli insegnanti. E’ un insegnante ed inoltre è specializzato. E’ quindi necessario immaginare questo profilo professionale come “alto” e che ha nel percorso di formazione garantito dall’università un modello di riferimento per attuare una logica di crediti e di debiti. I crediti formativi sono l’elemento importante, che dovremmo conoscere meglio praticandolo, di una logica formativa verso la competenza complessa. L’obiettivo da raggiungere è quello di un insegnante competente che permetta al contesto scolastico di essere competente, e non limiti e chiuda, quindi, la competenza alla sua presenza ma la colleghi all’investimento strutturale dell’ambiente scolastico. Questo punto è estremamente importante e permette di individuare un percorso formativo che abbia sempre due binari: uno delle competenze tecniche individuali dell’insegnante specializzato, e l’altro delle competenze sociali, cioè collegate al gruppo di insegnanti, all’attività scolastica complessa e plurale. Non basta quindi avere un binario ma bisogna correre sui due binari. Se il primo binario ha bisogno di competenze tecniche specifiche, non reperibili all’interno di quelle già in possesso dell’università, l’università stessa deve concordare, in forme di convenzione che vanno dall’incarico di insegnamento alla convenzione con una struttura, la possibilità di avere a disposizione tali competenze, non delegando ma assumendo le specifiche competenze all’interno di un progetto formativo che rimane fortemente ancorato all’università. Analogamente, per l’altro binario, il sistema universitario deve essere il centro e deve nello stesso tempo 40 sottoporsi ai controlli di efficacia e di competenza da parte del committente, che rimane la scuola, attraverso i suoi organi tecnici capaci di valutare. Questo che stiamo prospettando dovrebbe permettere di riportare ciascun elemento del sistema che stiamo delineando nei suoi cardini. L’attività ispettiva ad esempio, cioè il ruolo degli ispettori tecnici, dovrebbe essere quella che permette il controllo da parte del committente. E’ il sistema scolastico che deve dire se la formazione universitaria è adeguata o no alle esigenze. Un’attività di negoziazione è possibile unicamente se le diverse figure di sistema sono nei loro cardini. Attualmente si ha spesso l’impressione che ciascuno si è spostato in altri ruoli e in altre funzioni, improprie, diventando docente universitario, formatore, e tante altre attività, sicuramente interessanti e a volte esercitate con grande qualità, ma che svuotano di significato le diverse funzioni proprie. Certamente l’università deve avere anche un progetto, che non deve appiattirsi sulle esigenze del committente, ma è per questo che parliamo di negoziazione, e di possibilità che il controllo non sia esercitato in termini riduttivi. Attualmente i controlli hanno delle forme molto superficiali, che dovrebbero essere di tipo quantitativo-amministrativo, ma proprio per questo consentono molte scappatoie, come abbiamo già in qualche modo fatto capire, relativamente al diffondersi, al dilagare, di corsi di specializzazione che hanno come principale necessità quella di dare risorse ai formatori, alle strutture dei formatori. Superare questa fase individuando un modello non significa certamente realizzarlo subito, ma bisogna averlo chiaro proprio per una progressione continua. E la professionalità esige quindi di avere chiari gli elementi che la compongono: - un profilo professionale, - un percorso formativo nella logica dei crediti e dei debiti, - una possibilità di negoziare, da parte dei formatori e dei committenti, la qualità della formazione stessa, e quindi di controllare l’esito della formazione, - la possibilità – quarto e altrettanto importante punto – di seguire le dinamiche delle esigenze che derivano dalla presenza di handicappati diversi da quelli che si avevano anni fa. Si pensi a due elementi di novità: per le scuole secondarie la presenza di handicappati per esito di incidenti stradali e, altro elemento di novità, la presenza di handicappati che hanno famiglie provenienti da altri paesi, da altre culture. L’esigenza di tenere una logica dei crediti aperta alla formazione permanente è proprio anche quella di permettere di adeguare continuamente il profilo professionale e i contenuti del suo profilo alle 41 esigenze che nascono. - Un quinto elemento, anche questo da non sottovalutare, è legato alla possibilità che un profilo professionale preciso consente il collegamento con altri paesi europei, e quindi l’assunzione di competenze, di strumenti, che possono derivare da uno scambio più intenso con le esperienze degli altri paesi europei uscendo dall’equivoco che, essendo il nostro l’unico – cosa che non è esatta – paese che “fa l’integrazione” sia anche necessario badare solo a sé stessi. Invece è possibile accogliere proposte per realizzare l’integrazione e, ad ogni modo, avere la possibilità di conoscere le esperienze tecniche, e non solo, che nascono in altri paesi e assumerle all’interno di una qualità professionale non più provvisoria e di transizione. 5.3. Perché la transizione sia veramente tale All’inizio di questa riflessione dicevamo come il termine “transizione” può essere svuotato di significato e far vivere una eterna provvisorietà. Perché, quindi, la transizione sia veramente tale è necessario avere alcune idee operative che permettano di non attendere nel vuoto. E’ necessario sapere preparare gli insegnanti in servizio ad assumere delle responsabilità professionali nei confronti degli handicappati, e quindi concentrare le proposte formative immediate sugli insegnanti in servizio; operazione da fare subito, senza perdere un giorno, e che può essere realizzata con migliore efficacia se le strutture locali hanno chiari i bisogni e sanno di che cosa c’è necessità nelle scuole di un certo territorio. E’ quindi necessario mettere in atto le logiche dei crediti e dei debiti, e questo va fatto in rapporto alla formazione che le università forniscono per la scuola primaria e per la specializzazione. Occorre capire in che maniera si delineerà, e quindi anche a fare delle previsioni correggibili, aggiustabili nel tempo, la specializzazione universitaria in rapporto agli insegnanti specializzati, e in questa maniera permettere di avere una banca dati dei crediti possibili, realizzabili nei sistemi formativi extrauniversitari. Faccio un esempio che ha un investimento personale: avendo da poco assunto la presidenza dei CEMEA spero che sia possibile vedere quanto i CEMEA possono fornire di esperienze formative nello specifico delle loro competenze, perché vengano attribuiti agli stage CEMEA dei possibili crediti. Atre associazioni e strutture possono avere la stessa aspirazione, più che legittima, non tanto per avere delle deleghe – è utile ripetere, quanto per dare dei contributi riconoscibili in base alle loro specificità scientifiche e 42 tecniche. E questo è possibile anche per quelle associazioni, e pensiamo soprattutto agli handicappati sensoriali, che si propongono una migliore qualità tecnica e scientifica relativamente a determinati bisogni specifici. Possono essere queste le risorse che si trasformano in crediti e se noi potessimo rapidamente attivare un catalogo o una banca dati dei diversi territori noi potremmo immediatamente immaginare quanto la formazione dell’insegnante specializzato è realizzabile in complementarietà fra sistema universitario e risorse dei territori, che sono necessariamente differenziate. Non quindi una falsa omogeneità che esige in tutta Italia le stesse competenze formative. Piuttosto una possibilità di valorizzare le specificità nate nei diversi ambiti territoriali. Un esempio che potrebbe chiarire è relativo alle esigenze specifiche dei sordo-ciechi, un numero non alto, ma esigenze che non possono essere per questo né dimenticate né corrisposte con una bassa qualità di competenze professionali dell’insegnante specializzato. E’ evidente che la buona qualità non è distribuita su tutto il territorio proprio per un numero ridotto di persone sordo-cieche; è evidente che bisogna rivolgersi a quelle strutture che hanno l’esperienza e la competenza, e non possono quindi essere organizzate delle formazioni a ore, una distribuzione di lezioni nel corso di tutto un anno o di mezzo anno ma devono essere organizzati degli stages intensivi che permettano agli insegnanti, sia in formazione sia in servizio, di assumere quella competenza laddove c’è l’esigenza. Non è quindi possibile immaginare che questa competenza sia distribuita in tutte le università ma saranno piuttosto le diverse università che attivano dei rapporti a raggio, verso un unico luogo che ha quella particolare competenza. Non si tratterà certamente di avere i grandi numeri ma sarebbe molto vantaggioso per la qualità dell’integrazione che ogni realtà territoriale avesse presente una competenza formata per quell’aspetto specifico. E’ quindi necessario avere un’attività di programmazione da parte dei due elementi che compongono questo disegno formativo: il sistema scolastico e il sistema formativo universitario. E questo permette di muoversi anche rapidamente perché il sistema dei crediti può permettere di superare lo sviluppo lineare per uno sviluppo alle occasioni, che non si trasforma in “occasionale”, parola che sembrerebbe premiare l’improvvisazione. Secondo le occasioni si possono comporre crediti, lasciando aperti i debiti da saldare in scadenze: l’insegnante che avesse una formazione specialistica alta senza avere una formazione di base completa, e non può ritenere questo debito aperto 43 per tutta la vita ma deve controllarne il saldo in tempi precisati. E’ una logica in costruzione e sarà necessario lavorarci attivamente e concretamente per realizzarla. 5. 4. Conclusioni provvisorie E’ necessario, in questo periodo, realizzare un’alleanza che contenga degli elementi di prospettiva. La sollecitazione di tanti ad avere immediatamente accesso a formazioni del passato - le considero tali - non può consentire ancora una volta di avviare le stesse formazioni in termini di provvisorietà. Si continua ad accumulare una serie di provvisorietà senza mai interrompere la catena, e quindi rimanendo continuamente con un atrio affollato di persone che hanno avuto, e quindi esigono, una formazione tipo precario, che ha dato ottimi risultati in una fase della nostra storia – possiamo anche ritenere che siano stati ottimi in rapporto allo strumento – ma che ha bisogno di essere finalmente superata. E il superamento esige fermezza. Bisogna dire: “Non possiamo attivare quello che rimane un elemento storicamente accertato ma definito e finito”. Abbiamo bisogno, però, di attivare delle forme di collaborazione più stabile con le risorse e con le università. Bisogna quindi dotare le stesse università di quegli strumenti che permettano la realizzazione di un piano del genere. Si può immaginare che, in questa fase almeno, vi siano dei distacchi per la realizzazione progettuale; che vi sia, quindi, personale che abbia le competenze per affiancare ed essere nell’università per lavorare a questo. Vi sono molti problemi, molte attività da avviare, e per questo le conclusioni sono provvisorie e non possono che essere tali. Si tratta di lavorare per la costruzione di un modello e non più per la convivenza di modelli che si annullano l’uno con l’altro. 44