la ragazza guajira

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la ragazza guajira
Autore: Martina Piras
Scuola Superiore – Padova
LA RAGAZZA GUAJIRA
Quella sera la taverna “El Toro” contrariamente al solito, brulicava di persone, come se
qualche importante avvenimento fosse avvenuto o stesse per succedere.
Anche Maria si era intrufolata in mezzo a quella calca confusa, ma appena sgusciata oltre la
porta si era fiondata sotto uno dei tavolacci di legno per evitare di farsi notare. Con il naso sotto una
panca si mise ad osservare i mulinelli di gente che cozzavano per tutta la locanda.
Spiccava il grugno paonazzo dell’oste Fidel, grondante di sudore, che boccheggiava e
sputacchiava ordini a chiunque gli capitasse sotto tiro: “Maldido cabròn,1 sì,arriva el Patròn!2
Domani mattina, capito? E qui è tutto un disastro!”
La casa padronale era stata messa a soqquadro da massicci lavori di manutenzione, pertanto
l’umile El Toro doveva essere tirata a lucido per poter ospitare el señor Pimentel Fonseca: la finca3
era in fermento giacché la notizia del suo imminente arrivo aveva colto tutti alla sprovvista.
Improvvisamente fra le gambe degli uomini che trasportavano seggiole di vimini, tavolini di
vetro e altri mobili messi in salvo dalla casa padronale, una bestiola schizzò a tutta velocità
precipitandosi fra le braccia di Maria.
“Fuori quel perro4 schifoso!”
“Timotes, razza di stupido…” ringhiò Maria.
La fanciulla se lo raccolse in grembo come una vecchia coperta ed in un lampo sgambettò
via nella morente calura dell’esterno, lasciandosi alle spalle i muggiti di Fidel.
Vide sua madre riemergere dalla polvere del pollaio china sotto il peso di due ceste piene di
uova; barcollava, una storta ombra avvolta nella sanguigna afa del crepuscolo, l’ora in cui gli spiriti
dei negritos5 cominciano ad apparire, ineffabili barlumi velati dalle tenebre della giungla.
“Maria! Buona a nulla, dammi una mano con queste ceste poi torniamo immediatamente a casa.
Vamos, mi hija!6 Ho sentito le urla di Fidel, cosa credi? Che hai combinato questa volta?”
Il mattino seguente la ragazza uscì di casa sospirando, seguita dal fedele Timotes, e si
accucciò all’ombra dello stentato banano che sua madre si ostinava a voler tenere di fronte alla
capanna. Facendosi aria con un piccolo ventaglio di foglie, socchiuse gli occhi all’abbagliante
fulgore del sole, seguendo con lo sguardo il luccichio di pulviscolo dorato che alzavano le
sporadiche camionetas7 al loro passaggio. Lasciò che Timotes, quel povero perro bastardo che
aveva adottato, appoggiasse il muso canuto e coperto di mosche sul suo ventre. Con infinita
tenerezza gli scacciò gli insetti dal naso, pensando in cuor suo che non aveva mai visto un cane più
brutto in tutta la sua vita.
“Que aburrimiento!”8 Sono di nuovo confinata qui in punizione, Tim e questa volta è tutta colpa
tua” gli mormorò adombrandosi.“Volevo solo vedere cosa stessero macchinando gli adulti in tutta
quella baraonda e tu mi hai fatto saltare la copertura. Mi sono presa una bella lavata di capo ieri
sera!”
Eppure, vedendosi riflessa nel mortificato sguardo della creatura, Maria non poté fare a
meno di cedere ad un innato moto d’affetto, perché quel cane era solo... solo come lei.
Maria non aveva molti amici. Nonostante l’indole intraprendente rimaneva timida e
scontrosa, canzonata per la sua corporatura minuta e ossuta che la faceva sentire simile
all’emaciato, storpio Timotes. In Sud America non piacciono le ragazze magre; devono essere forti
e mettere al mondo tanti figli, pertanto le Indie sono generalmente donne dalle forme generose che
dai canoni di bellezza occidentali verrebbero considerate troppo in carne.
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Gli altri bambini facevano la lotta mentre le bambine passavano il tempo a fabbricare e
scambiarsi collanine, orecchini, braccialetti, intrecciandosi fili d’erba e fiori di ibisco nei capelli, ma
Maria era una piccola solitaria. I cani raminghi, spesso con strette parentele a sciacalli, trovavano
sempre da lei qualche lauto boccone per i loro stomaci perennemente vuoti, ma Timotes era il suo
preferito fra tutti i randagi della finca e l’unico che non l’abbandonasse mai. Questa passione per
seguire i cani nei loro vagabondaggi aveva procurato a Maria il soprannome di Lobito, Lupetto, con
una connotazione alquanto dispregiativa. Era una fortuna che el Patròn avesse fatto vaccinare i
propri dipendenti da malattie come la rabbia e che facesse ammazzare i cani che ne erano affetti per
limitare il contagio.
L’esiguo agglomerato di capanne di fango dov’era nata Maria Lobito era fra i più distanti dal
villaggio, il che aumentava la sua solitudine. Solo una volta aveva visto una coetanea aggirarsi nei
dintorni, abbigliata con uno strano vestito, largo, lungo fino alle caviglie, decorato con stampe
floreali.
Si chiamava Calida. Un nome che il tempo aveva offuscato nella memoria di Maria.
In quel lontanissimo giorno era nato qualcosa fra le due bambine, che si erano spontaneamente
abbandonate all’incanto del gioco. In breve tempo si erano costruite un mondo tutto loro, fatto di
interminabili corse fra i filari di lechosas9 e trepidante caccia ai negritos, un mondo sregolato dove
ogni diversità veniva superata dall’universale idioma infantile.
Poi un giorno il padre di Maria Lobito aveva preso la piccola per il braccio e l’aveva
ricondotta in casa, dicendole in tono severo: “No, Maria. Quella lì è Guajira.”
Nonostante avesse solamente cinque anni, Maria Lobito aveva provato a ribellarsi ed a
tornare nel campo dove l’amica sicuramente l’aspettava, ma un sonoro schiaffo era bastato a farle
arrivare il dolorosissimo messaggio:era proibito.
Calida e la sua famiglia svanirono con la stessa rapidità con cui erano arrivati lasciando che
gli anni lavassero via ogni ricordo dentro Maria. Così quando rivide la bimba con cui aveva giocato
nove anni prima per lei fu come smarrirsi in un sogno ancestrale, irrequieto, familiare.
La domenica di quella stessa settimana, Maria Lobito andò al villaggio con la madre ed i
fratellini in groppa a muli per assistere alla messa di Don Benito. In tutto il Venezuela le messe
erano importanti occasioni per ritrovarsi, socializzare e fare sfoggia degli abiti migliori: le ragazze
si adornavano per assicurarsi un buon marito sin dalla giovane età e gli uomini discutevano di
lavoro, dei continui sequestri operati dalla mafia colombiana ed infine di politica, per quanto fosse
permesso loro dal regime Chavista poco favorevole ai dissensi.
In disparte stava un crocchio di Guajiri, immediatamente riconoscibili perché separati dalla
piccola folla che, all’arrivo della famiglia di Maria, si stava avviando verso l’entrata al suono del
campanaccio di Don Benito. Il corpulento frate ricorreva a quell’espediente per sostituire le vere
campane di cui la chiesa era sprovvista, essendo il finto campanile solo un muro di calce dipinta
eretto accanto al piccolo edificio consacrato.
Fra i Guajiri c’era anche una bella ragazza che un uomo teneva saldamente per la spalla, con
fare quasi possessivo. Aveva l’età di Maria ma i grandi occhi neri erano quelli di una donna.
“Quella giovane Guajira sta per sposarsi,” sussurrò la madre di Maria all’orecchio della figlia, a cui
non sfuggì il tono di voce sprezzante.“Madre de Dios, se il padre farà un buon affare vendendola e
di sicuro ci riuscirà con una figlia così graziosa, s’ubriacherà come un disgraziato, lui e tutta la
tribù. Da brava mia piccola Lobito,va’ a legare i muli e andiamo.”
Maria ubbidì e legò i muli all’apposita palizzata e mentre i suoi genitori conversavano con
Don Benito, poi sfuggì alla loro vigilanza per correre ad acquattarsi fra dei rovi, osservando i
Guajiri riuniti sotto l’ombra di un albero di aguacate.10 Gli uomini sembravano troppo assorti dalle
loro trattative, tuttavia gli occhi spenti della futura sposina scorsero Maria Lobito rannicchiata negli
sterpi. I loro sguardi si incrociarono e si riconobbero d’istinto, sebbene l’essere cresciute in due
realtà differenti le avesse rese inesorabilmente diverse l’una dall’altra.
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L’abbozzo di un sorriso incerto apparve e subito si dissolse ancora prima di fissarsi sul volto
indigeno di Calida.
Maria strisciò fuori dall’improvvisato nascondiglio, agile come le scimmie urlatrici della
giungla, si confuse nella piccola processione di fedeli e svanì.
Il ricordo e l’emozione di Calida balenarono come una scintilla, poi la ragazza Guajira si
rispense nell’apatia: era lo scudo impenetrabile di cui si serviva per proteggersi dai morsi del
mondo, un mondo di cui lei conosceva ben poco nella propria ignoranza, tanto da impedirle di
sapere di essere vittima di un’ingiustizia.
Solo nelle profondità dei suoi occhi scuri,già sfioriti in una vecchiaia dell’anima, brillava la
consapevolezza di essere.
Forse la speranza non era stata del tutto soffocata, come il fuoco che cova sotto le braci
grigie ed apparentemente senza vita.
Il suo orizzonte si limitava a quella sterminata campagna, a quei pascoli, a quelle grandi
mandrie di zebù ed a quella foresta selvaggia,alle sponde fertili del Lago di Maracaibo, alle aspre
colline arrossate dal ferro, erose dalle piogge e bruciate dal sole.
C’era di sicuro qualcosa al di là di questo, ma era così lontano. Come un miraggio nel
deserto.
Chi era lei? Nessuno, nulla. Solo una figlia della Tribù.
Note
1
“Maledetto caprone!”
2
“Il Padrone.”
3
La finca è il grande latifondo o l’azienda agricola.
4
Perro significa “cane”.
5
I negritos sono degli spiriti notturni che abitano la giungla e le abitazioni abbandonate secondo
alcune credenze popolari venezuelane.
6
“Andiamo, figlia mia!”
7
Le camionetas sono i fuoristrada o i pick-up.
8
“Che noia!”
9
La lechosa è la papaia.
10
Aguacate è l’equivalente spagnolo per “avocado”.
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