II conferenza (salvare in Windows 2002 in poi)

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II conferenza (salvare in Windows 2002 in poi)
I VOLONTARI DELLA MORTE
dott. Luca Girotto – Ricercatore e storico
12 maggio 2015
Quando si parla di compagnie della morte in molti casi si ha in mente un reparto specifico, una
compagnia di circa 250 uomini, formatasi in Valsugana nel 1915, che appunto per la propaganda,
non per le fonti ufficiali, prese questo nome, ma essa in realtà con i reparti dei “volontari tagliafili”
aveva ben poco in comune.
Ovviamente non stiamo ad approfondire le motivazioni per le quali la Prima Guerra Mondiale
scoppiò. Sappiamo che l'attentato di Sarajevo diede inizio ad una catena di eventi che sfociarono
in una dramma che l'Italia, per fortuna sua, riuscì ad evitare per quasi un anno. Infatti il 1914, il
primo anno di guerra vide un conflitto che, inizialmente era destinato a rimanere secondo le intenzioni degli strateghi un conflitto locale, una guerricciola balcanica. Invece esso si trasformò in
una guerra continentale che però fece subito emergere quelli che erano gli elementi innovativi rispetto al passato, mettendo in primo piano tre dominatori dei campi di battaglia che erano rimasti
pressochè sconosciuti nelle guerre risorgimentali: la trincea,
che è un semplicemente un fossato nel terreno, di varie
forme, all'interno del quale il difensore poteva nascondersi e
controllare la zona antistante; il filo spinato, il secondo sbarramento che, in associazione con la trincea, rendeva il campo di battaglia stesso un calvario per l'attaccante. Non bisogna dimenticare le immagini risorgimentali delle masse di
uomini lanciate al passo, gomito a gomito, in schiere dense
su una terra di nessuno ampia centinaia di metri o chilometri. Con la guerra moderna, invece, il filo spinato e la trincea
mettono l'attaccante alla mercè del terzo dominatore dei
campi di battaglia: la mitragliatrice. Se un fuciliere poteva
sparare, quando era particolarmente veloce, 2 o 3 colpi al
minuto con la sua arma individuale, la diffusione presso gli
eserciti di armi in grado di snocciolare dai 700, 800 colpi al
minuto, rendeva assolutamente improponibili le tattiche di
combattimento del secolo precedente. Improponibili ma non
irrealizzabili: effettivamente il 1914 vide ancora innumerevoli stati maggiori lanciati assurdamente in imprese in stile
ottocentesco di fronte a difese che di ottocentesco non avevano proprio nulla.
Il risultato non poteva che essere uno: il trinomio trincea, reticolato, mitragliatrice portò inevitabilmente ai disastri che misero in ginocchio lo stesso esercito austroungarico nel corso del 1914,
anno nel quale le perdite tra morti, feriti, dispersi e prigionieri per la monarchia asburgica ammontarono a 1.200.000 uomini. A questi, nei mesi che andarono dal gennaio al maggio 1915, anno di entrata in guerra dell'Italia, si aggiunsero altri 850.000 uomini. Quindi l'impero austroungarico, al momento in cui l'Italia entrò in guerra, aveva praticamente già perso la sua guerra: aveva
perso 2 milioni di uomini su un organico, che in tempo di pace, viaggiava sui 400, 450.000 uomini. L'impatto con la guerra moderna colse veramente impreparati gli stati maggiori che si erano
trovati impegnati fin dall'agosto del '14 in un conflitto le cui dimensioni difficilmente si sarebbero
potute immaginare prima dello scoppio dello stesso.
L'Austria-Ungheria, che si era trovata di fronte nel '14 ad una guerra su 3 fronti, il fronte balcanico, il fronte orientale della guerra austrorussa e il fronte occidentale dell'Inghilterra, Francia e
Belgio. Nel 1915 vide aggiungersi anche il fronte italiano.
L'Italia entrava nel conflitto assolutamente impreparata. Le strategie previste dal generale Luigi
Cadorna, capo di stato maggiore dell'esercito prevedevano un totale sbilanciamento dell'esercito
verso oriente. Infatti i 4/5 dell'esercito, III, II, IV armate e altri gruppi erano schierati sul settore
del Friuli Venezia Giulia, dove, l'obiettivo principale dei piani di guerra di Cadorna era l'avanzata
verso Trieste, la progressione nelle pianure iugoslave in direzione di Lubiana verso sud, la penetrazione attraverso la Pusteria e comunque verso est, in una operazione che portasse le armate
italiane alla battaglia decisiva contro l'esercito austroungarico nelle pianure iugoslave per poi puntare verso Vienna.
Alla Prima Armata, una sola singola armata di grosse dimensioni, spettava guarnire quello che era
detto il saliente trentino, il Welsch Tirol o Tirolo italiano che si protendeva come un cuneo minaccioso verso il cuore della pianura veneta e padana, dato che esso minacciava pericolosamente il
fianco sinistro e il tergo del grosso dell'esercito schierato in Friuli. Il compito di questa Prima Armata era quello di difendere un confine articolato prevalentemente montuoso, prevenendo un'offensiva che dal cuore del saliente tirolese, puntando verso sud est in direzione di Padova e Venezia e arrivando al mare, avrebbe tagliato fuori dal resto del Paese, con i 4/5 dell'esercito italiano,
intrappolato fra gli Austriaci ad oriente schierati sul confine e la penetrazione ad occidente, quindi
cancellando di fatto l'Italia dal conflitto. Questa convinzione strategica di Cadorna che la guerra si
sarebbe decisa sul fronte orientale isontino-carsico portò, nella prima fase del conflitto, ai massacri di nostra conoscenza. Un conflitto che, secondo le intenzioni, avrebbe dovuto essere una guerra di movimento, con l'avanzata verso le pianure jugoslave, ma che invece, grazie al reticolato,
alla trincea e alla mitragliatrice, si trasformò in una serie di testate di ariete contro un muro rappresentato dalla difese austroungariche. E soprattutto un muro che vedeva giorno dopo giorno
deprimersi il morale, le convinzioni, le motivazioni della truppa italiana che, volonterosamente entrata in guerra anche senza capirne bene le motivazioni, si trovò tra il fuoco dell'avversario dall'altra parte dei reticolati e le mitragliatrici e i moschetti dei carabinieri, che, schierati in trincea, dopo l'uscita all'attacco, avevano il compito di sparare su chi fosse rientrato e non avesse dimostrato
sufficiente entusiasmo. Prese tra due fuochi le fanterie italiane subirono, specialmente nel 1915
quegli atroci massacri che ricordiamo. Un risultato questo che appunto derivava dal mantenimento ostinato, nelle prime fasi del conflitto, di tattiche ottocentesche a fronte di difese che di ottocentesco non avevano nulla.
Questo, va detto a onor del vero, non coinvolse solo la truppa. E' vero che la truppa, nelle concezioni degli stati maggiori, rappresentava una semplice massa di manovra, ma è anche vero che
quegli stessi ufficiali che mandarono la truppa al macello, la guidarono in prima persona perché si
trattava di ufficiali che, secondo la visione ottocentesca avrebbero dovuto, e lo facevano, procedere alla loro testa, molte volte, specialmente le prime settimane di guerra, a sciabola sguainata,
con una uniforme estremamente visibile da qualsiasi tiratore scelto a causa di alamari, gradi
ecc. e fascia azzurra.
Il fronte italiano rimase immediatamente inchiodato di fronte all'impatto con le nuove tecniche di
difesa. La disponibilità di ricoveri in cemento che potevano potenziare le trincee, di reticolati che
davanti alla trincea arrestavano l'attaccante allo scoperto di fronte al fuoco del nemico e soprattutto l'enorme volume di fuoco delle armi automatiche avevano reso quasi follia, suicidio l' attacco
in massa delle fanterie. In questa situazione gli stati maggiori italiani, che erano composti da ufficiali che avevano in spregio assoluto la vita umana del singolo soldato, decisero la formazione di
reparti che avrebbero dovuto precedere l'assalto della massa delle truppe aprendo dei varchi nei
cosiddetti ostacoli passivi, che appunto erano principalmente rappresentati dai reticolati. Questi
reparti già nel giugno/luglio 1915 vennero individuati come reparti, di “volontari tagliafili” che
di volontario avevano ben poco, perché inizialmente i soldati vi aderivano per l'aumento della paga, per i premi in denaro, per le licenze promesse dopo il compimento delle azioni, ma che rapidamente si resero conto del rischio enorme a cui si andava incontro e quindi vennero a mancare.
Essi quindi vennero rapidamente affiancati e alla fine sostituiti da soldati comandati incorporati in
questi reparti. Volontari della morte, o Compagnie della morte, venivano chiamate le loro
unità proprio per il fatto che il destino a cui erano avviati era facilmente intuibile. E ancora l'ostacolo principale che questi reparti dovevano superare era quello del reticolato, che, appunto per le
sue caratteristiche, non poteva essere aperto da singoli elementi se non tagliando uno alla volta i
fili che lo componevano. Esso inoltre si rivelò un ostacolo formidabile per chi avesse cercato di
farvi un varco anche dopo un bombardamento d'artiglieria perché, anche se i fili si fossero schiantati, sul campo rimaneva comunque un groviglio di fili spinati Questo era il dramma delle fanterie,
che dopo bombardamenti durati ore o in certi casi giorni, uscivano all'attacco e si trovavano bloccati da una selva di reticolati molto meno ordinati di prima, magari non ancorati a paletti, ma che
svolgevano perfettamente la loro funzione. Il carattere statico assunto dalla guerra di trincea portò all'abbruttimento del difensore e dell'attaccante che, costretti a vivere come topi nelle trincee,
si trovavano a dovervi espletare le loro necessità della vita, mangiare, dormire, necessità corporali e combattere nello stesso ambiente. In questa situazione l'artiglieria assume un ruolo completamente diverso dal secolo precedente. Nelle guerre napoleoniche o risorgimentali il cannone aveva avuto un ruolo fondamentale quando le truppe all'attacco avanzavano le une vicino alle al-
tre, al passo, lentamente in masse ben distinguibili e il cannone allora apriva larghi vuoti sparando su bersagli ben definiti. Con la prima guerra mondiale le cose cambiano: l'artiglieria diventa un
“tritacarne” mostruoso della fanteria, che viene letteralmente macciullata non solo durante gli attacchi, quando si trova allo scoperto, ma anche nei ricoveri blindati, nelle trincee, in qualsiasi posto dove cerca di ripararsi.
Chi deve preparare gli attacchi delle fanterie, aprendo dei varchi nei reticolati, è obbligato ad avventurarsi su un terreno sconvolto dai bombardamenti precedenti ma nel quale il reticolato mantiene la sua validità di ostacolo, bloccato quindi allo scoperto di fronte alla trincea avversaria. Gli
scatti delle fanterie si arrendono regolarmente di fronte alla potenza di fuoco delle mitragliatrici
che sono letteralmente in grado di fare a brandelli i corpi umani.
Sul fronte del Trentino la prima percezione dell'assoluta inadeguatezza dell'equipaggiamento della
fanteria italiana nel superare gli sbarramenti approntati nell'anteguerra dalle forze austroungariche si ha già nel secondo giorno di guerra su quella che è chiamata la cintura fortificata degli altipiani, cioè uno sbarramento di forti voluto dall'imperatore che, sull'altopiano di Vezza, Lavarone,
Folgaria, era finalizzato, nei piani del 1907 e del 1914, a difesa della piazzaforte di Trento. Qui con
un'opera progressiva dal 1907 al '14 gli Austriaci, senza badare a spese, avevano realizzato una
cintura di opere corazzate, (Forte Luserna, Verle, Belvedere, Chermo San Sebastiano, Sommo Alto). In questa zona la prima azione degli alpini italiani per scardinare questa cintura corazzata
venne diretta verso il fortino dello Spitzwee, (arroccata sui 1904 metri del pizzo di Levico, raggiunta da un sentiero scolpito nella roccia strapiombante per oltre 1500 metri sulla Valsugana).
Era una struttura in cemento armato e roccia con cupole corazzate, protetta da sbarramenti di
reticolati ampi 6 metri.
Proprio contro questi sbarramenti vennero lanciate, nella notte del secondo giorno di guerra, due
compagnie di alpini del battaglione Val Brenta, della guarnigione territoriale di Bassano, che si
trovarono di fronte agli sbarramenti dei reticolati, ma che nessuno aveva pensato a come superare, completamente o quasi privi di strumenti idonei. In dotazione ai 500 uomini dell'attacco c'erano 3 forbici tagliareticolati, definite “cesoie da giardiniere” dai militari, ma che anche se abbastanza efficienti, servivano a ben poco. Un varco venne comunque aperto, gli alpini riuscirono a
inoltrarsi nello spazio morto fra il primo e secondo sbarramento di reticolati, dove, completamente
allo scoperto, e alla mercè delle mitragliatrici, si trovarono completamente bloccati in attesa
dell'alba. Proprio l'alba, che con la luce dava la possibilità ai tiratori austriaci di inquadrare ogni
singolo bersaglio su un terreno nudo indusse evidentemente alla fuga questi soldati che lasciarono però 40 uomini sulle pietraie fra i reticolati. Il fallimento, unitamente ai massacri che nelle settimane successive si manifestarono sul Carso, portò ad una nuova coscienza delle difficoltà nello
stato maggiore italiano, che superò questa percezione delle difficoltà in un modo decisamente inconsueto, tornando cioè, per così dire, al Medioevo. Questa soluzione per altro era già stata utilizzata alla fine del 14 nei fronti d'Europa, dove a seguito del grande numero di soldati resi inabili
per tempi molto lunghi, erano nati dei tentativi, per così dire, di protezione corporea con il ricorso
alle corazze: i Francesi misero in campo gli scudi Degrè che in esemplari quasi identici furono
prodotti su licenza dalla italiana Ansaldo. La Gran Bretagna ricorse addirittura, ad un tipo di corazza. che venne messa in vendita sul mercato privato e che quindi i singoli ufficiali o qualche
soldato abbiente potevano anche permettersi di acquistare. Non si trattava però di equipaggiamenti regolamentari: solo la Germania, affrontò metodicamente la cosa, dicendo che se una protezione serviva doveva essere il massimo dell'efficienza. Ecco allora che nacque la “Grawenpanzer”, la corazza frontale a scaglie chiamata anche a coda di gambero, che permetteva alle sentinelle, schierate in posti particolarmente esposti al tiro avversario e alle schegge, di garantirsi una
sicurezza estremamente elevata durante il servizio. A questa corazza veniva abbinata una “Stirmpanzer”, una corazzetta frontale applicabile sull'elmo che garantiva una protezione a prova di
proiettile anche al copricapo blindato. Questi equipaggiamenti chiaramente erano concepiti per
proteggere militari che facevano le sentinelle esposti in zone particolarmente scoperte. Non si
pensava assolutamente ad utilizzare questi pesantissimi equipaggiamenti (la corazza pesava più
di 15 Kg.) in operazioni d'attacco. Le corazze venivano addirittura portate sulla schiena per difendersi dalle esplosioni delle bombe pallettoni. Erano protezioni per persone particolarmente esposte, mentre i combattimenti in trincea prevedevano ben altre agilità, ben altre abilità e quindi
stimolavano la fantasia del fante, del militare che aveva escogitato altri artifici, non le corazze
troppo ingombranti e d'impaccio, per avere la meglio nei corpo a corpo, al punto che addirittura
da parte inglese si pensò di munire di baionette persino i revolver degli ufficiali.
Nell'estate del '15, quindi, con diversi mesi di ritardo rispetto al resto dell'Europa, anche nelle forze italiane compaiono le corazze ma qui esse sembrano la panacea per poter superare gli sbarramenti dei reticolati. Le prime dotazioni vanno ad equipaggiare i volontari della morte, considerati
appunto le persone più esposte. Questo viene messo in evidenza anche dalle copertine ormai ar-
cinote di Achille Beltrame della Domenica del Corriere che esalta questi militari, che, bardati quasi
come cavalieri medioevali, si lanciano verso gli sbarramenti austriaci. A beneficiare principalmente
di questa nuova politica “corazzatoria” da parte italiana è la ditta dell'ingegnere Ferruccio Farina.
Essa, in via Ruffini 10 a Milano, avvia una fiorente officina nella quale, a livello ancora artigianale,
vengono realizzate le protezioni corazzate sulle quali venne applicata con saldatura, una targhetta
con il logo della ditta produttriee. La corazza consisteva in una piastra pettorale costituita da 5
fogli di acciaio al nichel-cromo rivettati a formare un unico piastrone e da 2 spallacci altrettanto
corazzati, composti di 4 fogli ciascuno di acciaio al nichel-cromo
incernierati sulla parte principale con delle linguelle metalliche che
garantivano la flessibilità. In pratica la corazza veniva indossata
come una corazza vera e propria con dei cinghiacci che dalla parte
alta venivano passati davanti al torace, oppure, impugnata con il
braccio sinistro per mezzo di maniglie in tela, poteva essere adoperata come uno scudo, con scarsa efficacia. In abbinamento alla
corazza era previsto un elmo, sempre prodotto dall'ing. Farina,
“l'elmo Farina pesante” chiamato così, perchè ne esisteva una variante chiamata elmetto leggero (la versione leggera pesava 1,8
kg, quella pesante 3 chili, un oggetto che difficilmente si potrebbe portare per più di 10 minuti
senza far venire l'emicrania). Questi elmi erano dotati di una base posteriore in lamiera di alcuni
millimetri, mentre sulla parte anteriore avevano una corazza realizzata con 4/5 fogli di acciaio al
nichel-cromo rivettati che ufficialmente garantivano la resistenza ad un proiettile di 6,5 mm di
fucile italiano modello 91 sparato da una distanza di 125 metri. Vi
erano però 2 tipi di problemi: da un lato il carico del fucile austriaco (Steier e Mauser) era di 8 mm. In secondo luogo gli sbarramenti dei reticolati contro i quali questi volontari dovevano dirigersi erano di 15 m, (30 m quando andava bene) e così la resistenza che queste corazze e soprattutto gli elmi potevano opporre era decisamente modesta. Inoltre anche a 150 metri di distanza la fucilata che il fucile Steiner o Mauser 95 arriva a impattare
sulla parte frontale della corazza non riuscirà probabilmente a
perforarla, ma per l'occupante sarà come ricevere un colpo di
mazza in piena fronte che gli farà saltare certamente i legamenti dell'epistrofeo, cioè avere una
frattura delle vertebre cervicali e la morte istantanea. Per ovviare a questo inconveniente l'ing.
Farina applicò all'interno dell'elmo 3 cuscinetti in caucciù che avevano lo scopo di distanziare l'elmo dalla calotta cranica e ammortizzare così la mazzata. Sotto l'elmo il carissimo sig. Farina, carissimo nel senso che si faceva strapagare dall'esercito, cominciò ad applicare un cuffiotto trapuntato che praticamente era una sorta di berretto imbottito che veniva riempito di crine di cavallo.
Ecco come si presentava il volontario della morte prima di uscire verso le trincee avversarie.
Nell'agosto del 1915 venne deciso dai comandi italiani dell'altopiano di riprovare ad attaccare la
cintura corazzata, dopo settimane di bombardamenti, che avrebbero dovuto fiaccare la resistenza
di queste opere, protette sul davanti da un fossato frontale, da fasci di reticolati ancorati a paletti
di ferro infissi nel cemento alti un paio di metri. L'attacco al Forte Verle fu quindi durante l'estate
del 1915 un altro episodio nel quale il reticolato divenne dominante; nell’occasione vennero utilizzate le corazze Farina da questi reparti di volontari tagliafili che precedettero l'assalto delle fanterie lungo la piana di Vezzena. In questa zona già si erano infranti, durante i mesi di giugno e luglio, gli attacchi della fanteria italiana. Per questo gli Italiani, non avendo altri strumenti per aprire varchi nei reticolati e per mettere fuori uso le opere corazzate, erano ricorsi all'artiglieria pesante, artiglieria che nei confronti del reticolato non fa altro che rederlo più aggrovigliato ma non
lo taglia e non vi apre dei varchi. Ironia della sorte questa artiglieria era una artiglieria Krupp che
l'Italia aveva acquisito dalla Germania nel periodo prebellico e che era il bottino che aveva ricavato svuotando le fortificazioni costiere di La Spezia, di Genova, di Taranto. Infatti all'inizio della
guerra l'Italia non aveva quasi artiglieria pesante, al punto da essere costretta a mettere su affusti realizzati per l'occasione perfino dei cannoni navali da 25 cm di calibro che erano originariamente destinati ad essere montati su incrociatori da battaglia, ma che per motivi di badget, non
vennero realizzati. Essi dunque vennero portati sull'altipiano e furono usati per colpire le cupole
“Waffelkugeln” che sulla sommità dei banchi di calcestruzzo armato dei forti austriaci ospitavano dei modesti obici da piccola, breve gittata di calibro 10,5 cm ma che si rivelavano estremamente efficaci contro le fanterie italiane in avanzata. Esse avevano un diametro di 2,5 m., una
forma estremamente convessa e quindi dotata di alta resistenza nei confronti di proiettili che come quelli dei mortai provenivano dall'alto. La cupola molto arcuata permetteva di deviare una
parte di questi colpi, unitamente alla resistenza offerta da uno spessore di acciaio che sfiorava i
30 cm. In qualche caso i colpi riuscivano pur sempre ad esplodere e perforare queste corazze ma
altre volte le cupole venivano semplicemente traforate. Forte Verle nelle settimane precedenti agli
attacchi della fanteria fu sottoposto a bombardamenti violentissimi. In quei giorni si aggirava nella fortezza come sottotenente anche il famoso scrittore austriaco Fritz Weber, autore del libro “
Tappe della disfatta” e altri dove ricorda proprio la pazzia alla quale i soldati venivano spinti durante il bombardamento ad opera dell'artiglieria italiana. Ancora oggi i crateri, che si notano nel
terreno retrostante l'opera corazzata, sono perfettamente visibili. I bombardamenti avevano sì
prostrato Forte Verle, ma gli sbarramenti dei reticolati erano in piena efficienza e le cupole corazzate ancora funzionanti, finchè gli italiani a fine giugno, inizio luglio portarono in zona quello che
avevano ottenuto raschiando il fondo del barile. Da Genova e da Taranto erano stati fatti arrivare
per via ferroviaria 2 obici da costa di 305 mm, i cannoni di massimo calibro che potevano essere
rimossi dalle zone costiere ed essere portati in altopiano. Montati su affusti mostruosi, queste artiglierie che sparavano proiettili di 330-340 KG e che potevano attraversare 5 m. di cemento armato prima di esplodere, vennero utilizzati per bombardare anche Forte Verle. Il punto debole di
queste opere corazzate era la congiunzione della cupola d'acciaio con i suoi 30 cm. di spessore e il
banco di calcestruzzo armato che ne costituiva il supporto: lì un eventuale proiettile avrebbe potuto creare gravissimi danni, con il semplice spostamento d'aria conseguente all'esplosione poteva
sollevare in aria la cupola rovesciata nonostante il suo peso di oltre 25 tonnellate. Quando invece
questi colpi da 305 colpivano in pieno una delle cupole i risultati erano disastrosi: si aprivano e si
rompevano in più pezzi. Fritz Weber narra di un gruppo di 4 uomini di queste cupole corazzate
letteralmente “spalmato” sulle pareti del pozzo in conseguenza dell'esplosione di un grosso calibro. Per darvi un'idea della potenza e del volume di fuoco a cui questi forti vennero sottoposti vi
mostro due immagini che si riferiscono al fronte francese della cintura di Verdun: dopo una settimana di bombardamento in pratica il terreno è stato “arato” metro per metro, trasformato in un
paesaggio lunare dove solamente il fossato, trattandosi di una depressione, non è scomparso,
mentre gli sbarramenti di reticolati, le opere centrali e le vie di accesso sono state letteralmente
cancellate. Il quadro che Forte Verle presentava in foto aerea dopo i bombardamenti dell'artiglieria pesante italiana era questo: l'effetto della “craterizzazione” conseguente al bombardamento di
3 settimane a cui l'opera fu sottoposta.
Le compagnie della morte dei volontari tagliafili durante la notte tra il 25 e 26 agosto superarono
le 3 fasce di sbarramenti di reticolati larga ciascuna 5 m. che costituivano l'ostacolo passivo antistante il forte, su quello che era chiamato l'avanforte, cioè il terreno scoperto battuto dalle armi
automatiche delle artiglierie della fortificazione. Essa, accanto al blocco delle casamatte della
guarnigione, collegate alle casematte dell'artiglieria, era in comunicazione anche con il fortino di
controscarpa, cioè a livello del fossato attraverso un passaggio sotterraneo. I volontari tagliafili si
fecero strada attraverso il campo frantumato dai bombardamenti precedenti arrivando agli sbarramenti dei reticolati, dove il tentativo di superarli portò a gravissime perdite. Nonostante questo
gli Italiani riuscirono ad introdurre sotto i reticolati i famosi tubi di gelatina. Protetti dagli scudi e
dalle corazze questi volontari trasportavano ciascuno un tubo del diametro di circa 5-7 cm; erano
praticamente dei tubi dell'acqua, lunghi 3 m, che avevano l'estremità filettate e che venivano
riempiti di esplosivi. Una volta che si era riusciti ad avanzare, sotto la protezione delle corazze, in
prossimità del reticolato, il tubo veniva infilato sotto il reticolato stesso. Nella parte posteriore del
tubo poteva esserne avvitato un altro fornito da un altro volontario e questo permetteva di farlo
penetrare più avanti. Uniti 1, 2 o 3 tubi in sequenza, e messi in parallelo, venivano innescate le
micce e se c'era il tempo, i volontari tagliafili scappavano. L'esplosione apriva, con il semplice
spostamento d'aria, dei varchi consistenti nei reticolati. Per avvicinarsi a questi reticolati le corazze Farina non erano gli unici dispositivi di cui si disponeva, perché l'ingegnere aveva realizzato
anche altri tipi di protezione, così come anche altri artigiani e industriali. La ditta Ansaldo riprodusse lo scudo francese denominato scudo Ansaldo mentre il dott. Franzelli, un medico, produsse
il “panciotto” Franzelli che era una specie di gilè che conteneva 3 piastre corazzate, 2 pettorali e 1
inguinale per proteggere tutto il tronco. Invece gli elmi dell'ing. Farina andavano per la maggiore.
Di fronte al volume di fuoco, al calibro della artiglieria austriaca e alla distanza in cui realmente si
era, purtroppo i risultati non potevano che essere negativi. Inoltre la struttura multistrato della
corazza, quando il colpo l’attraversava con la deformazione del proiettile e la frammentazione delle singole lamine, determinava la penetrazione non solo del proiettile, ma anche di brandelli di
lamiera e di schegge metalliche all'interno della ferita, che così aveva un’altissima probabilità di
risultare letale o gravemente invalidante.
A caro prezzo le compagnie di tagliafili riuscirono ad aprire dei varchi nello sbarramento dei reticolati, permettendo alla prima ondata di attaccanti (sempre di tagliafili, però, perché la fanteria,
bloccata nelle trincee dal fuoco nemico, non riusciva ad uscire in loro appoggio) di penetrare nel
cortile nel fortino di controscarto, cioè quella casamatta in cemento che permetteva alla guarni-
gione del forte di controllare il fossato. Da qui, dopo aver massacrato la guarnigione, i giovani italiani si trovarono nella possibilità di minacciare da vicino l'interno del forte stesso, perché la penetrazione nella zona di collegamento al di sotto del fossato avrebbe permesso l'irruzione all'interno.
Luis Trenker, regista, che era anch'egli artigliere a forte Verle ricorda, non so con quanta fedeltà,
che a questo punto il comandante della fortificazione ricorse ad un artifizio per bloccare la penetrazione italiana utilizzando l'acqua che venne riversata all'interno della zona di collegamento allagando il sifone e rendendo impossibile agli italiani l'avanzata che li avrebbe portati all'interno
della fortezza. Bloccati all'interno del fortino di collegamento i pochi superstiti italiani di quella
cinquantina di uomini che si erano fatti strada fino a quella trappola non poterono far altro che
arrendersi.
L'ingegnar Farina fu tra gli armaioli quello che sfruttò meglio la ricchezza dell'amministrazione italiana riuscendo a vendere oltre 1500
corazze, ma altri costruttori si cimentarono nella stessa impresa come l'ingegner Orfei ma con scarso riconoscimento. Sempre l'ing. Farina per gli ufficiali produsse una corazza a scaglie articolate (corazza Corsi), che ebbe una certa fortuna al punto da essere ricordata
anche da Emilio Lussu nel suo libro “Un anno sull'altopiano”. Le corazze dell'ing. Farina erano acquistabili addirittura per corrispondenza: se ne trovava la pubblicità anche nella Domenica del Corriere. I
soldati che indossavano elmo e corazza avevano comunque esposti basso ventre e gambe. Quindi
si è cercato di risolvere anche il problema della protezione della parte inferiore del corpo.
In questa immagine comparsa sull'Illustrazione Italiana del 1916 appare
un soldato protetto dalla corazza Farina, ma con una protezione addominale, una ventriera che effettivamente venne prodotta, ma non venne mai
ufficialmente adottata Questa immagine rappresentava nella propaganda
italiana il prototipo del soldato tagliafili: guanti in gomma isolante per proteggersi da eventuale corrente elettrica immessa nei reticolati, stivaloni in
gomma per lo stesso motivo, ginocchiere metalliche per poter farsi strada
sul terreno accidentato, le 2 corazze, ventriera e pettorale, e una cesoia
tagiareticolati ad asta che avrebbe dovuto allontanare il pericolo, nel senso
che permetteva al soldato di stare anzichè a 30 cm, a 1m o 2 dal filo spinato ovviamente senza nessun vantaggio. Per i soldati che maneggiavano
queste cesoie tagliareticolati (brevetto Malfatti) era prevista anche un'ulteriore difesa: si pensava che potessero essere usate anche come armi bianche montando al di sopra addirittura la baionetta. Stiamo scivolando ancora di più nel Medioevo.
Erano applicabili anche delle prolunghe che ricordano molto le cesoie che i giardinieri usano per
tagliare i rami alti degli alberi.
Così procedevano queste persone: con delle corazze che a livello pettorale pesavano circa 10 kg.,
l'elmo pesava altri 3 kg., la ginocchiera e la ventriera altri 10 kg, per un totale di 24-25 kg. di corazza. E tutto questo per soldati che non devono stare fermi, ma che devono correre o comunque
avanzare o strisciare verso il reticolato nemico. Anche la cesoia modello Malfatti ha un meccanismo ingegnoso ma che rivela la tortuosità veramente patetica di questi tentativi italiani di trovare
qualcosa di efficiente per aprire i varchi nei reticolati. Essa aveva un becco di pappagallo legato
con una serie di cardini ad un meccanismo a fisarmonica che permettevano alla cesoia di chiudersi tirandola verso di sé. Questo presupponeva che il manico della cesoia arretrasse, mentre il punto dove il filo era agganciato doveva rimanere fermo, altrimenti la cesoia non si sarebbe chiusa.
Gli Austriaci però si accorsero subito di come neutralizzare queste cesoie: invece di mettere il filo
spinato teso da un paletto all'altro, lo lasciarono lasso, in modo che, una volta agganciato, non
opponesse più resistenza e quindi non potesse essere tagliato. Ancora una volta quanto più il reticolato era aggrovigliato o frantumato, tanto meno erano efficienti questi strumenti.
Nell'ottobre del '15 di fronte alla disperazione di tutti coloro che non capivano come poter superare questa empasse rappresentata dagli sbarramenti dei reticolati, abbinati alle mitragliatrici e alle
trincee, venne creata in Valsugana, a Strigno, la Compagnia della morte. In realtà essa è nata
come Compagnia volontari esploratori della XV divisione, un reparto esplorante affidato ad un tenente, poi capitano, di nome Cristoforo Baseggio, quasi cinquantenne all'epoca. Si era arruolato
da ragazzo per frequentare l'accademia militare, ma poi ne era uscito ed era andato nel Transwaal
a combattere con gli Inglesi, poi era rientrato in Italia nell'esercito, partecipando alla guerra di
Libia. Si era poi dimesso nuovamente, ma poi vi era rientrato all'inizio del conflitto mondiale e aveva operato in modo che il generale Amari gli concedesse di fondare questo reparto autonomo
che aveva chiesto fin dal settembre precedente. Questo gruppo, chiamato ufficialmente Compagnia volontari esploratori, venne però chiamato “Compagnia Baseggio”, dal nome del suo
“condottiero” come si faceva chiamare. Esso ebbe un impatto molto favorevole nell'iconografia
della propaganda, perché si trattava di un reparto completamente autonomo, dotato di salmerie,
cucine, cucinieri, muli, trasporti, in pratica un piccolo reparto che poteva essere autosufficiente
per settimane. Questa autonomia era ciò che Baseggio cercava per condurre azioni di sorpresa
nella terra di nessuno larga chilometri in Valsugana, nel periodo tra l'estate del 15 e la primavera
del 16, in cui gli Italiani non avevano ancora chiare le idee su dove gli Austriaci avrebbero schierato la loro prima linea. La compagnia autonoma poteva condurre ricognizioni, esplorazioni, puntate offensive con la massima libertà, cosa che era ben diversa da quei 50, 100 m di terreno che
separavano sul Carso e sull'Isonzo le trincee italiane ed austriache, dove c'era poco gioco per i
volontari tagliafili. Qui in Valsugana invece l'ampiezza della terra di nessuno dava un vasto agio
operativo. Il nome di compagnia della morte, con la quale Baseggio e successivamente i media
dell'epoca concordemente definirono questo reparto, era puramente propagandistico, il nome ebbe giustificazione solamente nell'ultima parte della sua esistenza. Infatti in realtà si trattava di un
reparto esplorante, che aveva un senso finché c'era una terra di nessuno ampia e le linee erano
lontane e c'era quindi necessità di sapere chi e che cosa si muovesse all'interno di questo spazio.
La compagnia di Baseggio, che aveva solidi agganci, (Baseggio era di Milano e conosceva l'ing.
Farina) venne dotata delle corazze Farina e di elmi pesanti in anticipo rispetto agli altri reparti della XV divisione. Gli addestramenti a cui Baseggio sottopose questo reparto furono più di facciata
che non reali, perché comunque quando fu il momento del cimento le tattiche di combattimento
furono, nonostante il carattere innovativo che Baseggio si attribuiva, semplicemente e solo quelle
dell'attacco frontale. Essa fu esaltata anche da Achille Beltrame che ne illustrava le prospettive e
le azioni future, ma di fronte alle armi automatiche sulle pendici del monte Panarotta nella zona
delle chiesa di S. Osvaldo contro cui venne lanciata nell'ultima operazione nell'aprile 1916, la situazione si rivelò ben diversa. Fino all'aprile 1916, dall'ottobre precedente, la compagnia Baseggio
si era guadagnata un'aura di invincibilità con operazioni che in realtà erano state poco contrastate
dall'avversario, per il semplice motivo che sempre si svolgevano nella terra di nessuno. Non c'era
quindi bisogno di attaccare sbarramenti di filo spinato e irrompere nelle trincee avversarie, tuttalpiù erano scaramucce tra pattuglie nella terra di nessuno. Quando fu il momento di attaccare una
posizione potentemente trincerata, che gli Austriaci non avevano nessuna intenzione di cedere
perché si trattava del primo gradino verso la posizione irrinunciabile del Panarotta, attorno alle
difese di S.Osvaldo si consumò la fine di questo reparto. I suoi 260 uomini vennero letteralmente
“tritati” in 3 giorni, di combattimento e alla fine, il 7 aprile, solamente meno di 50 erano ancora in
grado di combattere. La compagnia semidistrutta venne sciolta pochi giorni dopo, dopo che per 3
giorni si era cimentata in assalti rigorosamente frontali, con o senza corazze Farina addosso, alla
conquista di un cocuzzolo a quota 1450 metri, che nella settimana successiva in 15 minuti, con un
assalto di fanterie con manovra aggirante, verrà occupato dagli Italiani. La vittoria e il sacrificio di
queste fanterie italiane che il 12 aprile occuparono la postazione venne messa in secondo piano
dalla propaganda fascista rispetto all'ideale della compagnia arditi Baseggio che viene ricordata
ancora in una targa del 1916 sulla chiesetta dove si inneggia all'eroismo della compagnia stessa.
Anche qui traspare la volontà di onnipotenza di Cristoforo Baseggio il quale definisce questa sua
opera, “prefazione eroica all'arditismo italiano”. Infatti per anni dopo la guerra fece passare questo suo reparto, che ripeto era un reparto di volontari esploratori, per l'antesignano dei reparti
Arditi, che però avevano composizione, impiego e tattiche completamente diverse. La compagnia
della morte mantenne fede al suo nome solamente in questa ultima fase, in cui venne decimata
durante questi attacchi in cui arrivò a un pelo dalla vittoria. Infatti il 6 aprile il reparto ormai dissanguato venne fatto ridiscendere a valle dal comandante Baseggio, mentre il reparto di truppe
polacche che gli Austriaci avevano messo nella guarnigione di S. Osvaldo, si ritirava circa 100 m.
più in alto lasciando la chiesetta indifesa nella terra di nessuno.
Quando qualche soldato riuscì a portarsi a casa qualche ricordo delle trincee, in alcuni casi queste
corazze Farina furono trasformate anche in oggetti d'arte, con dipinti rievocativi dell'opera di questi volontari tagliafili. Non solo a S. Osvaldo o nel Carso le corazze Farina e i volontari tagliafili erano necessari, perché aprire dei varchi nei reticolati serviva anche là dove mai si sarebbe pensato. Sui ghiacciai dell'Adamello, anche lì i reparti italiani, in situazioni quasi imprendibili, riuscirono
ad avere il sopravvento. In altri casi le cose andarono diversamente: allora dai ghiacci emergono
le testimonianze più o meno sfortunate di quelle azioni, che dimostrano come non tutti i protagonisti più o meno eroici di quei giorni ebbero degna sepoltura. Infatti con il disgelo emergono non
solo reperti, ma anche ossa e cadaveri di soldati morti.
Nel 1916 finalmente si accende una lampadina non in testa a Cadorna, che si stava occupando
d'altro, quanto in quella degli artiglieri che finalmente capiscono che sacrificare uomini anziché
metallo per aprire varchi nei reticolati non aveva molto senso.
Nasce un'innovazione che però si rifà, come le corazze, al tempo passato: in pratica vengono ri-
spolverati, ma già succedeva sul fronte delle Fiandre dall'anno precedente, i vecchi mortai del
'500 e '600, le cosiddette bombarde. Lo scopo era quello di far cadere sul bersaglio una grossa
quantità di esplosivo in un proiettile leggero sparato con carica debole da breve distanza. Le
schegge di un proiettile dirompente spaccano il reticolato, ma lo lasciano un ostacolo come era
prima,. Ciò che invece apre dei varchi nei reticolati è lo spostamento d'aria, quindi è necessaria
una grossa quantità di esplosivo che può essere lanciata anche da un cannone, ma questo deve
essere molto indietro e quindi la mira è approssimativa. Allora la cosa più comoda è mettere
un'arma nella trincea, in vista del reticolato, con una gittata molto modesta visto che il bersaglio
è a 20/30 m. e con la canna sottile, perché la carica di lancio è modesta, per lanciare appunto il
proiettile a breve distanza. Ecco quindi l'utilità della bombarda che è un tubo di lamiera nella quale una modesta carica esplosiva di lancio spara un proiettile che contiene molto esplosivo ma deve
andare a breve distanza e ha quindi pareti sottili. E' quindi un'arma che a fianco del fante, già
dalla trincea, lancia a 20 /30/ 50 /200 m. un’enorme quantità di esplosivo che, arrivando sui reticolati avversari, con un semplice spostamento d'aria li sventra. Ci sono bombarde di tutti calibri,
ma le più usate sono quelle di piccolo calibro prodotte in vari esemplari. E’ un'arma che per ovviare alla mancanza di precisione ha dei cordoli posteriori per mantenere la posizione. L'involucro è
molto sottile e il proiettile è tutto esplosivo, oltre alla spoletta che lo fa esplodere: il peso totale è
di circa 40 kg. con 20 kg. di esplosivo all'interno. Esse potevano aprire nei reticolati dei varchi di
4/5m. Ma le bombarde da 400 che sparavano quantità di esplosivo intorno ai 60/65Kg (paragonabile all'esplosivo usato all'attentato alla stazione di Bologna), potevano con una sola esplosione
aprire varchi di 25/30 m. nei reticolati. Una bombarda da 240, 24 cm di diametro, apriva dei varchi dai 12 ai 14 m. Questi ordigni, che anche oggi vengono rinvenuti dai recuperanti o durante
scavi per cantieri, sono ancora estremamente pericolosi perché la gran quantità di esplosivo è avvolta da un involucro molto sottile.
Il bombardamento dall’aria
Quello che le bombarde riuscivano a fare, cambiando la vita dei fanti, durante gli attacchi alle
trincee avversarie, non riuscì a fare a quell'epoca il bombardamento dall'aria, concetto che si era
fatto strada nell'esercito italiano già durante la guerra di Libia, durante la quale si era ipotizzata la
possibilità di un'offensiva dall'aria. Ma i bombardamenti, che pure vennero utilizzati in maniera
consistente per l'epoca, durante la battaglia dell'Ortigara del 1917, non erano ancora nelle condizioni di colpire bersagli così precisi da poter creare varchi nei reticolati.
In Valsugana vennero effettuati bombardamenti con aerei Caproni. I bombardieri che utilizzavano
a quell'epoca motori di modesta potenza (anche i Caproni tanto decantati erano veicoli in legno e
tela con motori modesti), non permettevano il trasporto di grandi quantità di esplosivo e soprattutto non permettevano una buona precisione, senza contare la provvisorietà delle difese che
questi aerei potevano opporre di fronte all'artiglieria avversaria. Infatti nel 1915 i veicoli italiani
che si avventuravano sulle linee austriache avevano una velocità media dai 70 ai 90 Km/ora. Con
questa velocità era già difficile rimanere in aria, e quindi portare molte bombe era impossibile.
Inoltre questi velivoli non avevano nessun dispositivo di salvezza in caso di scontro o combattimento aereo con esito infausto. Quando un aereo si smantellava in aria le situazioni erano molto
drammatiche: il pilota veniva recuperato in condizioni pietose giorni o settimane dopo lo schianto.
Molte volte, anche senza essere colpiti o uccisi durante i combattimenti aerei, quando un aereo
prendeva fuoco, la scelta era tra morire bruciati o morire schiantati. I giornalisti non perdevano
occasione di fotografare immagini macabre: lo stampo, l'impronta lasciate al suolo da un mitragliere sbalzato da un Caproni e schiantatosi dopo un volo di 2000m.
Il risultato di questi abbattimenti sicuramente non incentivava i piloti ad impegnarsi sopra bersagli
ad alto rischio, come appunto gli sbarramenti dei reticolati in prossimità delle trincee, perché erano troppo vive nella loro memoria le immagini di colleghi maciullati nell'impatto con il suolo. Tenete conto che già a quell'epoca il paracadute esisteva, ma era in dotazione solo agli equipaggi dei
palloni frenati, quelle mongolfiere ancorate a terra che venivano usate come osservatori d'alta
quota per l'artiglieria e in cui l'equipaggio, attaccato dai caccia avversari, non aveva altra speranza di salvezza che saltare e attivando il paracadute, arrivare a terra indenni.
Sugli aerei inglesi, francesi, italiani, ma anche austriaci e germanici non si posizionarono i paracadute se non negli ultimi mesi di guerra perché si riteneva che qualora il pilota fosse stato a conoscenza della possibilità di salvarsi grazie al paracadute, sarebbe venuto meno allo spirito combattivo ed offensivo, con il risultato che, mentre gli aerei potevano essere costruiti nuovamente, addestrare i piloti era molto più difficile e vennero sacrificate le vite di centinaia di uomini, che molto
più efficacemente avrebbero potuto guidare nuovi aerei una volta salvatisi con il paracadute.