Figli di nuovo a casa - Convegni

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Figli di nuovo a casa - Convegni
S
Il rientro in famiglia dei minori allontanati
Saggi
Figli di nuovo a casa
Elaine Farmer
Bristol University
Quali fattori incidono sul rientro in famiglia dei minori allontanati? Come si può pianificare la riunificazione in modo che
abbia esiti positivi? Quali sono i fattori associati ai rientri falliti?
In letteratura c’è molto rispetto all’ingresso dei minori nei circuiti
socio-assistenziali ma si sa ancora poco in merito al rientro nella
famiglia di origine. Questo aspetto è tuttavia di fondamentale
importanza, se consideriamo che molti dei minori che ritornano
con i propri genitori subiscono poi un ulteriore allontanamento.
Il contributo passa in rassegna tutte le più significative ricerche
degli ultimi anni per focalizzare i fattori che influiscono sull’esito
del ricongiungimento con la famiglia di origine, tenendo in considerazione il ruolo dei genitori e degli affidatari prima, durante e
dopo il collocamento extrafamiliare.
Parole chiave:
Riunificazione – Intervento con la famiglia biologica – Allontanamento
del minore – Contatti con i genitori.
Disponiamo di molta letteratura riguardante l’ingresso dei minori nei circuiti
socio-assistenziali e le diverse collocazioni residenziali utilizzate in caso di allontanamento dalla famiglia, ma conosciamo ben poco in merito al rientro di questi
minori nella loro famiglia di origine. Come mai? La «presa in carico» sollecita
interesse, le dimissioni no. Il cosiddetto lavoro di «riunificazione» del minore
con i suoi genitori è un ambito della pratica professionale sul quale le politiche
sociali danno scarsi indirizzi, è trascurato dalle ricerche sul campo e non esistono
ancora linee guida chiare e consolidate prassi operative: è un ambito che soffre,
per così dire, di invisibilità. Le cose, però, potrebbero cambiare: il Libro Bianco
Care Matters (DfES, 2007) sottolinea con forza l’importanza di focalizzarsi sempre
più sul rientro dei minori presso le loro famiglie naturali.
Edizioni Erickson – Trento
lavoro sociale Vol. 10, n. 2, settembre 2010 (pp. 173-193)
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lavoro sociale Saggi/Metodologie e tecniche professionali
In Gran Bretagna, la legge del 1989 sull’assistenza ai minori (Children
Act) impegnava i Servizi a promuovere interventi di sostegno alle famiglie e
di riunificazioni nei casi di allontanamento dei minori. Nonostante ciò, nelle
ricerche successive emergono pochi risultati su questo tema.1 Comunque, il
numero dei minori che, dopo il ricongiungimento con le loro famiglie, sono
stati nuovamente allontanati è raddoppiato rispetto al periodo antecedente
l’introduzione del Children Act (Packman e Hall, 1998). Una ricerca sul tema
delle riunificazioni fra minori e genitori è stata da poco conclusa da chi scrive
(Farmer et al., 2008) e un’altra indagine è attualmente in corso (Wade et al.).
Entrambe le ricerche sono state commissionate dal Department for Schools
and Families/DCSF. Il consorzio Who Cares? nel 2006 ha realizzato un progetto
sulla riunificazione familiare. Infine, una recente ricerca sugli interventi di allontanamento ha incluso alcune domande sul rientro nella famiglia di origine.
Negli Stati Uniti è stata realizzata una più ampia attività scientifica sul tema.
È necessaria, però, una certa cautela nell’utilizzarne i dati, per le differenze nel
contesto e nel sistema dei servizi.
In questo contributo, in base alle ricerche effettuate in entrambi i Paesi,
verranno delineati alcuni aspetti chiave della riunificazione familiare, sul piano
delle politiche sociali e su quello operativo. Utilizzeremo il termine «riunificazione» per indicare il trasferimento di un minore presso la sua famiglia naturale
dopo un periodo di collocamento extrafamiliare (in comunità residenziale o in
affidamento familiare). I termini «riunione», «rientro» e «ritorno» verranno usati
con lo stesso significato.
Quali fattori incidono sul rientro in famiglia?
In alcune situazioni i minori vivono l’esperienza di un collocamento
extrafamiliare solo per brevi periodi, ad esempio a causa di un’ospedalizzazione
della madre: in questi casi il rientro a casa avviene velocemente e di solito non
è problematico. In altre situazioni il processo di riunificazione ha più incognite
e dipende dal cambiamento di relazioni familiari conflittuali o ambivalenti, dal
comportamento problematico del minore o dalla valutazione da parte degli operatori dei servizi che non vi siano più rischi di maltrattamento o di trascuratezza.
Non sorprenderà che, nei casi di collocamento extrafamiliare consensuale, la
probabilità di riunificazione dei minori con le loro famiglie di origine sia supe1
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Ci sono tre ricerche, basate su rilevazioni antecedenti al 1989, che riguardano il sottoinsieme
dei minori ricollocati presso le loro famiglie di origine con delle prescrizioni da parte dell’Autorità giudiziaria (Thoburn, 1980; Farmer e Parker, 1991 e, nell’Irlanda del Nord, Pinkerton, 1994).
Un’altra ricerca che utilizza dati antecedenti al Children Act prende invece in considerazione
tutti i differenti tipi di riunificazione (Bullock et al., 1993; rivista nel 1998). Trent (1989) ha condotto una ricerca-azione in cui ha studiato alcune buone prassi di reinserimento nella famiglia
d’origine.
Figli di nuovo a casa
riore di un terzo rispetto agli allontanamenti disposti con un provvedimento
giudiziario (Cleaver, 2000).
Inoltre, una ricerca condotta recentemente in Gran Bretagna (Dickens et al.,
2007; Sinclair et al., 2007) ha evidenziato atteggiamenti diversi nei servizi pubblici locali. Alcuni sono più propensi alla riunificazione e sono disposti a correre
rischi maggiori, forse perché hanno maggiori possibilità di offrire interventi di
sostegno alle famiglie. In questi servizi si assiste anche a un maggior numero di
riunificazioni fallite. Oltre a diversi orientamenti tra un servizio e l’altro, si sono
rilevate anche delle differenze tra l’una e l’altra équipe, all’interno dello stesso
servizio pubblico (Sinclair et al., 2007).
La ricerca condotta da Sinclair nel 2007 suggerisce alcuni fattori correlati
alla possibilità di rientro dei minori presso le loro famiglie.
Problemi dei genitori
La complessità delle problematiche delle famiglie incide sulle probabilità
che i minori possano farvi rientro (Fraser et al., 1996). Alcune ricerche statunitensi
hanno individuato una serie di difficoltà genitoriali che risultano associate a una
minore probabilità di riunificazione: povertà economica, problematiche abitative,
dipendenza da sostanze stupefacenti e patologie psichiatriche croniche (vedi, ad
esempio, Goerge, 1990; Rzepnicki et al., 1997).
Contatti
Ricerche precedenti hanno sottolineato come il mantenimento dei contatti
tra i minori e i loro genitori sia la «chiave di volta» per uscire dal procedimento di
tutela e per riaccogliere a casa i bambini (Aldgate, 1977; Fanshel e Shinn, 1978;
Millham et al., 1986). Ulteriori approfondimenti in merito hanno dimostrato
che il mantenimento dei contatti è un indicatore significativo della possibilità
di riunificazione solamente nei primi sei mesi del collocamento extrafamiliare.
Quinton et al. (1997) hanno riesaminato i dati rilevati dalla ricerca condotta da
Fanshel e Shinn: ne è emerso che, al quarto follow-up, la frequenza degli incontri
tra genitori e figli incide per una piccola percentuale (2-5%) sulla varianza del
tasso di rientri.
Questo tema è stato oggetto di un’ulteriore analisi dalla quale non risulta
chiaro il nesso fra i contatti genitori-figli e il progetto di rientro (Packman e Hall,
1998). Una ricerca di Cleaver (2000) indica che il mantenimento dei rapporti, in
sé, non è un elemento sufficiente a promuovere il rientro dei minori. È necessario
lavorare anche sui legami di attaccamento esistenti, nonché sui problemi che
avevano portato all’allontanamento. Valutare se e quando un bambino possa
tornare a casa e lavorare sulla relazione tra bambini allontanati e genitori, facendo
i conti con le ricadute emotive di tali situazioni, richiede una notevole abilità
professionale agli operatori, che non sempre c’è.
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Motivazione
La motivazione dei genitori e la loro disponibilità al cambiamento contribuiscono al buon esito della riunificazione (Cleaver, 2000; Sinclair et al., 2005).
In alcuni casi, il vedere che il figlio si comporta meglio ed è più maturo motiva i
genitori a riprenderlo a casa; in altri casi i genitori o il minore decidono di vivere
di nuovo assieme e questo li spinge a darsi da fare per superare le difficoltà.
Questa decisione spesso emerge perché i genitori sono preoccupati che il loro
figlio non sia tenuto abbastanza sotto controllo (specialmente quando è inserito
in una comunità di accoglienza), o per episodi di maltrattamento subiti nei contesti residenziali o, infine, perché genitori e figli non sono in grado di sostenere
la separazione (Fischer et al., 1986; Farmer et al., 2008).
Ricerche britanniche di qualche decennio fa (Thoburn, 1980; Farmer e Parker,
1991) hanno rilevato che spesso è la determinazione del genitore o del minore
a portare alla riunificazione, specialmente in assenza di un chiaro progetto di
intervento da parte degli operatori sociali. Dunque, il fatto di insistere per tornare
a vivere assieme può testimoniare una positiva motivazione a collaborare per
superare i problemi familiari, ma non sempre è così.
In poche altre ricerche risulta che l’atteggiamento ambivalente dei genitori
e la mancanza di motivazione sono correlati al fallimento della riunificazione
familiare (vedi Bullock et al., 1998; Harwin et al., 2001) e provocano situazioni
che divengono sempre più confusive (Farmer et al., 2008).
Indipendentemente dai motivi per cui i minori hanno fatto rientro a casa, i
genitori spesso dubitano di farcela ad affrontare adeguatamente le difficoltà comportamentali del figlio o di riuscire a ristabilire una relazione con un bambino con il quale non hanno avuto modo,
fino a quel momento, di costruire un legame significativo
Il dubbio di farcela (ibidem). Abbiamo pochi contributi circa l’atteggiamento
con cui un minore rientra a casa dopo essere stato allontanato. Dai nostri dati è risultato che, se ci sono stati maltrattamenti, trascuratezza o
abbandono, i bambini possono sentirsi insicuri all’idea di far rientro a casa ed essere
arrabbiati o spaventati per questa possibilità. I giovani intervistati per il progetto
Who Cares? (2006) avevano l’impressione che, nel decidere il loro ricongiungimento
con i genitori, il loro punto di vista non fosse stato preso in considerazione. Avrebbero preferito un progetto di rientro meglio organizzato, con un graduale aumento
degli incontri con i genitori, un maggiore coinvolgimento del minore direttamente
interessato e un progetto alternativo per potersi di nuovo allontanare da casa nel
caso in cui il rientro non avesse funzionato.
Anche dalla nostra ultima ricerca risulta che solo una piccola parte dei minori del campione è stata consultata rispetto alla definizione dei tempi e delle
modalità di rientro a casa. Per definire un buon progetto di riunificazione è necessario prendere in considerazione i sentimenti complessi che tale passaggio
suscita; bisogna parlarne, comprenderli e lavorarci su.
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Fare i conti con la realtà
C’è un piccolo numero di minori che, pur non potendo vivere stabilmente
a casa, hanno bisogno di ritornarci per ridefinire un’immagine idealizzata dei
propri genitori (vedi, ad esempio, Farmer e Parker, 1991). I bambini e i ragazzi che
hanno provato, pur senza successo, a rientrare in famiglia vivono meglio degli
altri l’accoglienza residenziale, anche quando vengono collocati in via definitiva
presso una famiglia «sostitutiva» (Fein et al., 1983). Thoburn (2003) lo chiama il
«voler dare un taglio» e lo identifica come uno dei fattori collegati al successo
degli interventi di affidamento o di adozione.
Ruolo degli affidatari
Coloro che si prendono cura dei minori allontanati (siano essi educatori
di comunità di accoglienza o genitori affidatari) giocano un ruolo importante
nel processo di riunificazione. Vernon e Fruin (1986) hanno evidenziato che gli
affidatari rivestono un ruolo significativo nel rientro a casa dei minori, quando
l’affidamento familiare viene interrotto o quando gli operatori della struttura
chiedono di dimettere un ragazzo. Inoltre, come notava Thoburn (1980), il punto
di vista degli educatori o dei genitori affidatari influenza il parere degli assistenti
sociali in merito a un eventuale ritorno nella famiglia d’origine.
In altre situazioni gli affidatari, invece di far precipitare le cose e portare
a un veloce rientro, possono stare vicino ai genitori per agevolare il rientro del
bambino. Così, i genitori possono arrivare a fidarsi degli affidatari più di quanto
non si fidino degli assistenti sociali, che «hanno il potere» di togliere loro il figlio
(Farmer e Parker, 1991). Sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti abbiamo ricerche
che testimoniano quanto sia importante che gli affidatari si occupino di seguire
attivamente i genitori naturali, facilitino i contatti con il bambino e continuino
a svolgere una funzione di sostegno anche dopo il rientro a casa (Child Welfare
Information Gateway, 2006; Farmer et al., 2008). Purtroppo, talvolta gli affidatari
fanno notare che il rientro viene progettato senza coinvolgerli. Di conseguenza,
non hanno la possibilità di aiutare i bambini a prepararsi al rientro a casa e, in
qualche caso, ritengono di costituire una risorsa che va sprecata (The Who Cares?
Trust, 2006). Sarebbe utile, invece, che i servizi per minori si interrogassero su
come meglio valorizzare il ruolo di sostegno che gli affidatari possono svolgere
nel processo di riunificazione.
Il rientro a casa dopo un affidamento a parenti
Alcune ricerche statunitensi evidenziano che, nei casi di affidamento a
parenti o amici, il rientro presso i genitori biologici avviene meno di frequente
(vedi, ad esempio, Wulczyn e Goerge, 1992; Scannapieco e Jackson, 1996). Questo
stesso dato risulta anche da una ricerca di chi scrive (Farmer e Moyers, 2008) e da
un’altra di Rowe et al. (1989): solo un terzo dei minori riuniti ai genitori proveniva
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da affidi a parenti, mentre più della metà (55%) aveva alle spalle un’altra forma
di collocamento residenziale. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che l’affido a
parenti viene attuato soprattutto quando le probabilità di rientro a casa sono
remote, oppure al fatto che le dinamiche intrafamiliari implicate nell’affidamento giocano a sfavore del ricongiungimento. Stando alla nostra ricerca del 2008,
sembrerebbe che in Gran Bretagna la prima di queste due motivazioni sia quella
più rilevante (Farmer e Moyers, 2008).
I tempi del rientro
Ricerche sia inglesi che statunitensi hanno ampiamente dimostrato che la
probabilità di riunificazione è maggiore subito dopo il collocamento eterofamiliare del bambino e diminuisce progressivamente con il passare del tempo.
Questo andamento è comunemente conosciuto come leaving care curve (curva di
fuoriuscita dal circuito assistenziale). Per fare un esempio, Sinclair et al. (2007)
hanno evidenziato che, su 100 minori che rientrano a casa, 61 lo fanno entro
i primi sei mesi dopo l’allontanamento. Tuttavia, il dato va generalizzato con
cautela: la durata del collocamento residenziale dipende da molti fattori e non
è detto, quindi, che la permanenza di un minore in struttura per un periodo superiore ai sei mesi riduca automaticamente le possibilità di riunificazione, come
sottolinea Biehal (2006).
A conferma di questo, osserviamo che molte ricerche non fanno distinzioni
fra diversi tipi di disagio minorile. Invece, i dati emersi da un’importante ricerca
statunitense evidenziano che, in genere, la leaving care curve vale per i minori
gravemente maltrattati o trascurati, non per i bambini collocati fuori dalla famiglia per via di problemi emotivi o perché i genitori non erano capaci di prendersi
cura di loro (Goerge, 1990).
D’altra parte, è stato rilevato che periodi di collocamento extrafamiliare
troppo brevi possono essere associati a rapide ricadute (vedi Wulczyn, 1991;
Davis et al., 1993) dato che, in questi casi, i minori rientrano prima che si siano
risolti i problemi per cui erano stati allontanati. In altri casi, il collocamento è
breve perché i ragazzi adolescenti o i genitori prendono in mano la situazione
e spingono per la riunificazione non perché a casa sono migliorate le cose, ma
perché sono scontenti del servizio residenziale (Farmer et al., 2008).
Tempi di rientro e tipo di maltrattamento subito
Per i minori allontanati per abuso o grave trascuratezza la durata del collocamento extrafamiliare risulta più lunga rispetto a quella dei minori inseriti
in struttura o in affidamento per altre ragioni (Davis et al., 1996; Cleaver, 2000).
Analizzando il dato più in dettaglio, alcune ricerche statunitensi indicano che i
bambini allontanati a causa di maltrattamenti fisici o abusi sessuali hanno una
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maggiore probabilità di rientrare a casa prima di quelli allontanati per trascuratezza. Inoltre, i minori che hanno subito abusi sessuali possono tornare in
famiglia relativamente presto, se è l’abusante a lasciare la casa (Courtney, 1994).
Comunque, mentre alcuni minori abusati non rientreranno mai, poiché
rischierebbero ulteriori abusi, i minori allontanati per trascuratezza grave
generalmente tornano presso i genitori, sebbene il periodo di collocamento
extrafamiliare sia spesso molto lungo (Goerge, 1990). Tra chi ha subito violenze
fisiche, le probabilità di riunificazione sono minori quanto più gravi sono state
le violenze stesse (Barth et al., 1987).
Tempi di rientro e caratteristiche del minore
Riguardo alle caratteristiche dei minori, alcune ricerche britanniche hanno
rilevato che, per i bambini con problemi di salute fisica, il collocamento residenziale dura di più rispetto agli altri (vedi Grogan Kaylor, 2001; Harris e Courtney,
2003). Abbiamo dei dati statunitensi secondo cui i minori disabili e quelli con
disabilità mentale restano in affidamento, o in struttura, più a lungo (McMurtry
e Lie, 1992; Cleaver, 2000; Berridge e Cleaver, 1987; Davis et al., 1997).
Le ricerche hanno evidenziato anche che chi passa da una comunità all’altra
(e/o da una famiglia affidataria a un’altra) di solito rientra a casa dopo un periodo
più lungo (Goerge, 1990; Webster et al., 2005). Il cambiamento di struttura di
accoglienza potrebbe essere, in alcuni casi, un indicatore di difficoltà relazionali
e comportamentali del minore, in presenza delle quali anche la riunificazione è
più difficile.
Tempi di rientro e caratteristiche della famiglia
Parecchie ricerche statunitensi hanno rilevato che, in presenza di nuclei
monoparentali (generalmente caratterizzati dalla presenza della figura materna),
i bambini rientrano a casa in tempi più lunghi rispetto a chi ha una famiglia con
i due genitori (Landsverk et al., 1996; Harris e Courtney, 2003). Altre ricerche,
sempre negli Stati Uniti, hanno associato una lunga permanenza al di fuori della
famiglia alla presenza di problemi nella relazione madre-figlio, a patologie psichiatriche della madre, a gravi difficoltà economiche dei genitori (Finch et al.,
1986; Lawder et al., 1986; Milner, 1987).
Tempi di rientro e progetti educativi
In merito a questo, dalla nostra ultima ricerca sulle riunificazioni familiari
sono emerse quattro categorie. A un estremo abbiamo il gruppo dei ragazzi
scappati a casa o ripresi dai loro genitori pochi giorni dopo il collocamento
residenziale, prima che si fosse elaborato per loro un qualche progetto di intervento. Un secondo gruppo di minori, per i quali il progetto iniziale prevedeva il
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rientro in famiglia, è composto in prevalenza da adolescenti collocati fuori dalla
famiglia volontariamente, che in media ritornano con i genitori nel giro di sei
mesi. In un terzo gruppo troviamo bambini più piccoli, per i quali il progetto
iniziale prevedeva un periodo di valutazione: questi minori erano generalmente
in affidamento su mandato dell’Autorità giudiziaria e venivano considerati a rischio; il loro collocamento extrafamiliare durava mediamente il doppio di quello
degli altri. Un ultimo gruppo, poco numeroso, era quello di chi era rientrato a
casa — in media dopo tre anni — perché non si era provveduto a elaborare il
progetto necessario.
Le pressioni di familiari, amici e parenti
La maggior parte delle ricerche dà per scontato che la riunificazione di un
minore alla sua famiglia sia appannaggio del servizio sociale, ma spesso non è
così. Alcune analisi condotte in Gran Bretagna mostrano che, in realtà, un rientro programmato che non sia stato influenzato dalle richieste del minore, dei
genitori o degli affidatari costituisce un’eccezione più che una regola (Thoburn,
1980; Farmer, 1996). Anche nella nostra ultima ricerca, nella maggioranza delle
riunificazioni — programmate o meno che fossero — abbiamo rilevato che il
background familiare del minore premeva per il suo ritorno. Queste pressioni
vanno dunque identificate come un aspetto importante del contesto in cui ha
luogo il lavoro da svolgere per realizzare una riunificazione.
La pianificazione del rientro in famiglia
Nella nostra ricerca, per la maggioranza dei casi la riunificazione era stata
programmata prima del momento in cui il minore avrebbe dovuto tornare presso i genitori. Solo in un numero relativamente basso di casi (meno della metà)
il miglioramento della situazione familiare — compreso l’allontanamento del
partner abusante — o, meno di frequente, il miglioramento del comportamento
del minore sono stati individuati come motivazione primaria della riunificazione.
Negli altri casi, il ritorno a casa era dovuto al fatto che si era previsto solo un
periodo temporaneo di intervento residenziale, c’erano difficoltà di collocazione
oppure era stato il Tribunale a disporre il rientro.
Facendo sempre riferimento alla nostra ultima ricerca, nelle riunificazioni
non previste, il minore era scappato a casa, oppure si trattava di un allontanamento consensuale e i genitori non erano più d’accordo, o non si era potuto
proseguire il progetto in una data comunità/famiglia affidataria e mancavano
collocamenti alternativi. Anche un’altra ricerca sull’affidamento familiare ha rilevato dati analoghi: il rientro in famiglia dei minori spesso non è sufficientemente
pianificato e molte volte non è che il risultato di una serie di collocamenti falliti
(Sinclair et al., 2005).
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Figli di nuovo a casa
Quanto emerge dalla nostra ultima ricerca richiama quanto già rilevato negli
Stati Uniti: troppo frequentemente i minori rientrano a casa senza che si siano
risolti i problemi che avevano portato all’allontanamento (Barth e Berry, 1987;
Fraser et al., 2008).
Negli Stati Uniti due ricerche sperimentali condotte su un progetto specificamente dedicato alle riunificazioni hanno evidenziato che un’accurata
pianificazione, caso per caso, è fondamentale: assistenti sociali e educatori dovrebbero iniziare a progettare il futuro del minore non appena inizia la presa in
carico. I vari professionisti dovrebbero delineare fin dall’inizio le diverse opzioni
possibili per il rientro a casa del minore, per facilitare il processo decisionale in
merito. Nel progetto sperimentale si utilizzava un contratto scritto per stabilire
gli accordi con i genitori (Stein e Gambrill, 1977; 1979). Secondo i ricercatori, la
definizione chiara del progetto di riunificazione era il fattore chiave che distingueva gli interventi sperimentali, per lo più andati a buon fine, da quelli attuati
abitualmente, caratterizzati da risultati meno positivi. Altro fattore facilitante
era il coinvolgimento dei genitori nel decidere assieme agli operatori obiettivi e
strategie da attuare (Walton et al., 1993).
In Gran Bretagna, Trent (1989) ha condotto un progetto di ricerca-azione in
cui ha usato le modalità che si utilizzano per l’inserimento di un minore in una
famiglia adottiva come modello per il lavoro da svolgere
quando si attua una riunificazione. Questo progetto ha
conseguito risultati promettenti e ha mostrato, ancora
una volta, l’importanza di lavorare appositamente sui Lavorare appositamente sui
rientri, con una tempistica non lasciata al caso e defi- rientri
nendo quali potrebbero essere le conseguenze se non
si dovessero raggiungere gli obiettivi. Anche altri studiosi hanno sviluppato
interessanti indicazioni operative su come lavorare per le riunificazioni, basate
su sperimentazioni di ricerca (Maluccio et al., 1986; Thoburn, 1994).
Harvin et al. (2001) hanno verificato che pianificare il rientro a casa dei minori
è particolarmente difficile con quelle madri che hanno problemi di dipendenza da
stupefacenti o da alcol, ma che, riguardo ad altri aspetti, sono spesso viste come
persone adeguate. In una ricerca successiva, Forrester e Harwin (2004) indicano
la necessità di investire maggiori risorse per il trattamento delle dipendenze
e formare meglio gli operatori, in modo che sappiano riconoscere l’abuso di
sostanze e siano in grado di elaborare valutazioni realistiche sulle possibilità di
recupero dei genitori, non viziate da un malriposto ottimismo.
Negli Stati Uniti, tre tipi di intervento per i genitori con problematiche di
dipendenza sembra abbiano dato risultati promettenti: (a) un case management intensivo, con la presenza di un coach personale che aiuta la persona ad
affrontare gli accertamenti necessari e ad accedere a un percorso terapeutico;
(b) interventi trattamentali appositamente destinati a donne con bambini; (c)
interventi di recupero socio-sanitari che coinvolgono anche i partner (Child
Welfare Gateway, 2006).
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Secondo Maluccio e Ainsworth (2003), ci sarebbe bisogno di ridefinire le
modalità di reinserimento dei minori in famiglia in modo da tener conto degli
eventuali problemi di dipendenza da stupefacenti dei genitori. Le probabilità
di maltrattamento, in queste situazioni, sembrano essere maggiori (Famularo
et al., 1992; Kelleher et al., 1994; Farmer et al., 2008) e, quando il genitore con
problemi di dipendenza è la madre, c’è un maggior rischio che il rientro in famiglia risulti fallimentare e si debba tornare ad allontanare il minore (Frame et
al., 2000). Maluccio e Ainsworth (2003) hanno studiato diversi progetti statunitensi, che prevedono la presenza di operatori specializzati in alcoldipendenza e
tossicodipendenza nelle équipe di tutela minori e un modello di intervento a tre
livelli per incoraggiare una qualche collaborazione da parte dei genitori tossicodipendenti. I diversi livelli comportano crescenti gradi di coercizione: se non si
impongono determinati requisiti come condizione per accedere agli interventi
di aiuto, è probabile che molti genitori non vi si atterranno mai. Un altro mezzo
per aiutare i genitori a cambiare è il lavoro in un gruppo fra pari. Inoltre, si stabiliscono dei limiti di tempo per la riunificazione, nell’eventualità che il periodo
necessario per il recupero dei genitori non coincida con i bisogni di crescita dei
figli e con l’esigenza di garantirne la sicurezza.
Esiti della riunificazione
Recidive
La possibilità che il minore, una volta rientrato a casa, subisca nuovi maltrattamenti è stata rilevata da ricerche condotte sia in Gran Bretagna che negli
Stati Uniti. Nella nostra indagine del 1991 (Farmer e Parker) era emerso che un
quarto dei minori seguiti dai servizi di tutela avevano subito maltrattamenti o
vissuto condizioni di trascuratezza una volta rientrati nella loro casa. Questo
dato sulle ricadute è in linea con quanto emerso da altre ricerche su minori ad
alto rischio, condotte in quegli anni (Barth e Berry, 1987; Farmer e Owen, 1995;
Gibbons et al., 1995; Brandon et al., 2005).
Nella nostra ricerca del 2008, però, il numero dei minori che hanno subito
nuovamente maltrattamenti una volta rientrati a casa è quasi il doppio di quanto
rilevato allora: è un dato allarmante, perché significa che quasi la metà (46%) dei
minori reinseriti in famiglia hanno subito maltrattamenti. C’è una sostanziale
riduzione nel numero complessivo di minori maltrattati o trascurati dopo la riunificazione, se confrontato con quello di chi ha subito abusi prima che avvenisse la
presa in carico. Tuttavia, il tasso di «recidività» per alcune forme di maltrattamento
rimane abbastanza elevato. È anche importante notare la stretta correlazione tra la
tossicodipendenza dei genitori e il maltrattamento dei bambini dopo il loro rientro
a casa. L’apparente crescita del tasso di maltrattamenti dei minori dopo la riunificazione potrebbe essere spiegata da un aumento dei problemi di tossicodipendenza,
oltre che dall’incremento nel numero complessivo delle riunificazioni.
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Un recente follow-up triennale su 596 minori in affido, in Inghilterra, ha
mostrato (com’era prevedibile) che chi ritornava a casa aveva una probabilità
molto più elevata di ricadere in situazioni di maltrattamento, rispetto a chi non
rientrava (Sinclair et al., 2005). Si è rilevato un ri-abuso evidente nell’11% dei casi
e alcuni segnali di maltrattamento nel 31% dei casi: sono dati simili a quanto
abbiamo rilevato nella nostra ricerca del 2008.
Un altro follow-up condotto in Gran Bretagna, durato tre anni, ha seguito un
gruppo di 49 bambini sotto l’anno di età, tornati a casa dopo un collocamento
extrafamiliare. Quindici (il 31%) sono stati nuovamente maltrattati o trascurati,
12 di questi sono tornati a casa di nuovo dopo l’abuso recidivo e, tra loro, 3 sono
stati ancora una volta vittime di maltrattamenti (Ellaway et al., 2004).
In un’interessante analisi americana, 120 minori «riunificati», per i quali era
stato realisticamente segnalato un maltrattamento entro i 60 giorni dal loro ritorno
a casa, sono stati comparati con altri 92 per i quali non risultava alcun pregiudizio (Fuller, 2005). È emerso che i bambini sotto i 12 anni avevano una maggiore
probabilità di essere nuovamente maltrattati, con un aumento importante del
rischio per i bambini sotto l’anno di vita. I minori che erano passati attraverso
molte collocazioni diverse (e che, quindi, era facile che presentassero problemi
emotivi e comportamentali piuttosto pesanti) avevano una probabilità maggiore
di 11 volte di essere nuovamente trascurati o maltrattati dopo il rientro, mentre i
bambini ritornati presso familiari che avevano problemi di salute mentale avevano
9 probabilità in più di essere maltrattati. Il maltrattamento recidivo, poi, era 8 volte
più probabile per i minori allontanati da 3 anni o più e 5 volte più probabile per chi
tornava a vivere assieme ai fratelli presso un genitore solo. L’analisi di questi dati
evidenzia che collocamenti precari e instabili e attuali situazioni di stress familiare
possono essere predittori di un maltrattamento reiterato, soprattutto per i bambini
più piccoli. In queste situazioni sarebbe bene programmare maggiori supporti, per
accrescere le probabilità che il ritorno a casa avvenga senza problemi.
Conseguenze psicologiche
Stando a dati empirici raccolti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, i minori
che rientrano in famiglia sperimentano spesso esiti psicologici peggiori rispetto
a quello che si verifica nel caso di un’adozione o di una lunga permanenza in
strutture di accoglienza. Quinton e Rutter (1988) hanno rilevato il grado di funzionamento psicologico in bambini tra i 7 e 13 anni, collocati in comunità, e l’hanno
successivamente confrontato con quello riscontrato sullo stesso campione 14
anni dopo. Coloro che avevano fatto rientro in famiglie pesantemente conflittuali
e disarmoniche presentavano per la maggior parte, da giovani adulti, esiti poco
felici quanto a funzionamento psicologico, in confronto a chi era rimasto in una
collocazione extrafamiliare.
Sinclair et al. (2005), in una ricerca sull’affidamento familiare, hanno individuato una correlazione tra problemi di salute mentale ed esperienze fallite di
183
lavoro sociale Saggi/Metodologie e tecniche professionali
rientro a casa. I ragazzini con un’età dagli 11 anni in poi, reinseriti in famiglia
dopo un affido, presentavano problemi emotivi e comportamentali allo stesso
livello di quelli dei minori appena inseriti in una struttura residenziale o in
affidamento: fuga, autolesionismo, abuso di sostanze, aggressività. Questi
problemi erano assai meno presenti nei minori collocati in adozione o in affido
a lungo termine. Dunque, il rientro a casa era associato a esiti emotivi e comportamentali negativi.
Un’altra indagine significativa è stata condotta negli Stati Uniti su 149 minori. Si sono comparate, alla sesta rilevazione annuale, le condizioni emotive e
comportamentali di 63 ragazzi che avevano fatto rientro a casa con quelle di altri
86 che erano rimasti in una collocazione extrafamiliare. Nel primo gruppo sono
stati rilevati comportamenti autolesionistici, difficoltà emotive, abuso di sostanze,
comportamenti a rischio e, nell’insieme, comportamenti problematici in misura
maggiore rispetto al secondo gruppo (Taussig et al., 2001). I dati emersi sono in
linea con quanto rilevato in una precedente ricerca di Lahti (1982).
Un altro elemento di criticità che si riscontra nei minori rientrati a casa dopo
un periodo di collocamento extrafamiliare è legato alle difficoltà scolastiche.
Nella ricerca di Sinclair et al. (2005), chi era tornato a
casa non risultava migliorato a scuola, né nel profitto né
nella partecipazione, a differenza di chi era stato adottato
Quali standard? o era rimasto in comunità o in affido. Sulla stessa linea
un’analisi longitudinale di Taussig et al. (2001), negli Stati
Uniti, ha rilevato che il 21% dei minori rientrati a casa avevano abbandonano
la scuola, a fronte del 9% di chi era restato fuori dalla famiglia d’origine. Sia da
quest’ultima analisi sia da quella di Sinclair risulta che gli adolescenti rientrati
a casa avrebbero maggiori probabilità di essere arrestati (49%) rispetto ai ragazzi
rimasti in collocamento extrafamiliare (30%).
Certo, è abbastanza ovvio attendersi esiti migliori nei ragazzi affidati a
genitori adottivi o affidatari ben selezionati e preparati, rispetto a chi, invece,
torna in una famiglia con delle riconosciute fragilità. L’interrogativo sollevato da
queste ricerche è molto delicato: quali dovrebbero essere gli standard accettabili per poter pensare a un rientro a casa del minore? Fino a che punto i servizi
possono controbilanciare gli svantaggi legati a cure genitoriali carenti? I servizi
intervengono abbastanza presto, quando l’accudimento del minore scade a un
livello inaccettabile? (vedi Farmer et al., 2008; Sinclair et al., 2005). Il documento
prodotto dal progetto Who cares? (2006) sottolinea l’importanza di un’attenta
valutazione della possibilità di attuare il rientro, soprattutto se non c’è un cambiamento nel piano iniziale, valutazione che dovrebbe essere sottoposta a una
commissione multidisciplinare, chiamata ad approvare il rientro e a definire quali
interventi di sostegno è necessario implementare, con il coordinamento di un
operatore particolarmente esperto. Una modalità del genere, oltre a supportare
chi lavora sul campo, sarebbe d’aiuto nell’evitare che le riunificazioni si basino
sulla pressione a ridurre il numero dei minori in carico, invece che sull’effettiva
tutela degli interessi dei più piccoli.
184
Figli di nuovo a casa
I rientri falliti
Una ricerca inglese, riferita a situazioni di collocamento extrafamiliare
consensuale, ha rilevato un tasso di fallimento corrispondente alla metà (52%)
dei rientri con il 24% dei minori che ha tentato la riunificazione più di una volta
(Packman e Hall, 1998). La nostra ultima ricerca, che include sia i collocamenti
disposti dall’Autorità giudiziaria che quelli consensuali, ha rilevato dati molto
simili, con un 47% di rientri falliti entro i due anni del periodo di indagine.
Altri dati in merito ci vengono da una ricerca condotta in Gran Bretagna su
un campione di minori presi nuovamente in carico dopo una dimissione: su 133
casi, il 15% era rientrato in struttura o in affido entro 2 anni dal ricongiungimento familiare (Dickens et al., 2007). In un altro campione, su 162 minori collocati
in affido e poi tornati a casa, il 37% risultava collocato nuovamente fuori dalla
famiglia nel giro di 3 anni (Sinclair et al., 2005). Entrambe le analisi condotte
da chi scrive mostrano che, se il rientro fallisce una prima volta, ci sono molte
probabilità che vadano male anche i tentativi successivi (Farmer e Parker, 1991;
Farmer et al., 2008). Quando progettiamo un nuovo tentativo di riunificazione
familiare di un minore che ha già vissuto una precedente esperienza fallita, dobbiamo chiederci: «Cosa è cambiato, cosa abbiamo fatto di diverso rispetto alle
altre volte?». Questa domanda è importante: nella nostra ultima ricerca emerge
chiaramente l’impatto deleterio che ha sui minori il fatto di «oscillare» più volte
dentro e fuori il sistema dei servizi.
Fattori associati ai rientri falliti
Alcuni ricercatori statunitensi hanno mostrato che fattori sociali e ambientali quali la povertà, il ricevere sussidi assistenziali pubblici, la prossimità
con chi fa uso di sostanze stupefacenti, l’abitazione inadeguata (Jones, 1998;
Scheurman et al., 1994) sono spesso associati a riunificazioni fallimentari.
Anche la presenza di un genitore solo è una condizione critica in quanto, se
associata a isolamento e difficoltà economiche, può rendere meno efficace
l’accudimento del figlio.
Anche l’appartenenza a differenti etnie è un fattore che incide sulla possibilità che il ritorno a casa dei minori funzioni; negli Stati Uniti, la maggioranza
dei rientri che si concludono con un ulteriore allontanamento riguarda minori
afro-americani (che generalmente vivono anche esperienze di collocamento
extrafamiliare più lunghe) (National Black Child Development Institute, 1993). In
Gran Bretagna è stato rilevato che il diverso trattamento con cui si affrontavano
i casi di minori neri o appartenenti a minoranze etniche (minori «BME» – Black
and Minority Ethnic) incideva sul loro rientro in famiglia (Barn, 1993). Nella nostra
ultima ricerca, risulta che per i casi di minori «BME» ci sono maggiori probabilità
che intervenga l’Autorità giudiziaria e risulta più difficile trovare una collocazione residenziale. Può darsi che i servizi individuino più precocemente un rischio
185
lavoro sociale Saggi/Metodologie e tecniche professionali
quando hanno a che fare con situazioni di «diversità», o che queste famiglie non
chiedano aiuto prima e arrivino all’attenzione dei servizi solo quando ormai i
problemi sono molto gravi (Packman e Hall, 1998) o, ancora, che questi minori
entrino in misura maggiore degli altri nel circuito penale.
I dati di ricerca mostrano in maniera del tutto evidente che i rientri falliti
sono associati a un’età più elevata del bambino al momento del ritorno a casa
(vedi Rowe et al., 1989; Farmer et al., 2008), a periodi più lunghi di collocamento extrafamiliare (Fein et al., 1983; Farmer, 1992), a carenze nella precedente
programmazione dell’intervento (Block e Libowitz, 1983): questi stessi fattori si
riscontrano anche nelle situazioni di affidamento e adozione fallite (Berridge,
1997; Sinclair, 2005).
Sembra anche che l’instabilità sperimentata dal minore nel periodo in cui
è stato lontano da casa, e specialmente gli eventuali cambiamenti da una collocazione residenziale all’altra, possano compromettere le possibilità di un rientro
duraturo (Block e Libowitz, 1983; Packman e Hall, 1998). I servizi di tutela minori
sono riusciti a ridurre gli spostamenti di scuola, tant’è vero che — stando alla
nostra ricerca — solo un quarto (26%) dei minori che rientrano in famiglia deve
cambiare scuola. Qualche tempo fa si riteneva che, se
mentre il minore era via intervenivano delle modifiche
nella composizione del suo nucleo familiare, questo coUna famiglia cambiata stituiva un fattore dall’effetto distruttivo (Packman e Hall,
1998), specialmente nel caso in cui, rientrando, il minore
trovava a casa qualche altro bambino (Farmer, 1996). Tuttavia, la nostra ultima
ricerca sembra indicare che il problema non sta nel cambiamento di per sé, ma
piuttosto nell’impatto — positivo o negativo — che esso ha su quello specifico
minore. Perciò, se si sta pensando a un rientro, è importante che gli operatori
valutino quale possa essere l’impatto di un nuovo patrigno (o matrigna), o di
altri nuovi rapporti, sul funzionamento della famiglia, e che chiedano al minore
come si trova con l’eventuale nuovo partner della mamma (o del papà). Inoltre,
considerando che la maggior parte dei minori della nostra ricerca si trovavano a
rientrare in una famiglia un po’ diversa da come l’avevano lasciata, è fondamentale preparare la riunificazione.
Qualche anno fa, abbiamo condotto una meta-analisi riguardo alle ricerche sulle riunificazioni familiari (Farmer, 2001), da cui abbiamo tratto diverse
indicazioni operative. Ad esempio, nel caso in cui avvengano dei cambiamenti
nella composizione familiare, i minori hanno bisogno di conservare il senso di
appartenenza e la sensazione che quello è ancora il loro posto; è importante
lasciare intatti il loro spazio e le loro cose, mentre sono lontani. Bullock et al.
(1993) sottolineavano che il rientro del minore nella sua famiglia di origine è
complesso e stressante almeno quanto la separazione ed è profondamente
connesso ad essa. Il «riconciliarsi» con la propria famiglia comporta riconoscere i fallimenti da entrambe le parti che, a suo tempo, avevano portato alla
separazione. Dopo un po’ arriva il momento in cui la sofferenza emerge e viene
espressa. Il superamento di questa apparente crisi, in cui il minore ha bisogno
186
Figli di nuovo a casa
di rassicurazioni sul fatto che non verrà allontanato di nuovo, costituisce la base
per costruire un rientro duraturo.
In una ricerca di Packman e Hall (1998), così come nella nostra, le probabilità
di un rientro fallimentare sono risultate maggiori quando l’allontanamento era
dovuto a patologie psichiatriche oppure ad alcolismo o tossicodipendenza dei
genitori, senza dubbio perché tali problemi erano presenti anche dopo il rientro
del minore (vedi anche Scheurman et al., 1994). Il fatto che i genitori abbiano
capacità limitate è un altro fattore associato al fallimento della riunificazione
(Hess et al., 1992; Davis et al., 1993; Courtney, 1995; Farmer et al., 2008), tanto
quanto il permanere di problemi di trascuratezza (Hess et al., 1992; Davis et al.,
1993; Courtney, 1995). Packman e Hall (1998) evidenziano che anche la rivalità
tra i fratelli e la preoccupazione per la sicurezza fisica del minore sono condizioni
associabili a un ulteriore allontanamento, oltre a tendenze autolesionistiche
o comportamenti aggressivi. Hanno poi un peso anche i problemi scolastici,
comprese le assenze ingiustificate e le eventuali sospensioni (vedi anche Lahti,
1982; Farmer e Parker, 1991; Farmer et al., 2008).
Abbiamo qualche dato sul fatto che i rientri falliti sono legati alla mancanza
di sostegno da parte della famiglia estesa, degli amici e dei vicini (Festinger, 1994;
Farmer et al., 2008). Risulta anche che un alto livello di supporti formali e un’alta
quantità di prestazioni non sono sufficienti, di per sé, a far durare la riunificazione.
Molto dipende dal tipo di supporti e da come le varie prestazioni si combinano
l’una con l’altra (Block e Libowitz, 1983). In Gran Bretagna, le indagini effettuate
hanno messo in luce l’importante contributo che può venire da interventi di lavoro
sociale proattivi, da una pianificazione mirata e dal fatto che la situazione venga
seguita con continuità (Trent, 1989; Farmer, 1996; Farmer et al., 2008).
Una ricerca statunitense ha analizzato le situazioni di 62 bambini per i quali
il rientro non è andato a buon fine. Le difficoltà emerse erano legate a problemi
nella distribuzione dei casi, a mancanza di tempo per lavorare con le famiglie da parte degli operatori, a valutazioni
professionali poco accurate (Hess et al., 1992). I progetti
elaborati dagli operatori sociali erano stati implementati Sopravvalutazione
malamente, oppure i minori erano rientrati anche se i del cambiamento
genitori non avevano seguito il programma previsto per
superare la tossicodipendenza. Anche quando i genitori si erano attenuti alle
indicazioni (ad esempio avevano frequentato, come richiesto, un apposito ciclo
di incontri), in alcuni casi ciò non aveva portato a una modifica nel loro modo di
comportarsi. Spesso si era sopravvalutato il grado di cambiamento dei genitori
e si era dato per scontato che il rientro a casa fosse nell’interesse del minore.
Come questa, altre ricerche hanno rilevato che si effettuano riunificazioni senza
che i problemi cui era dovuto l’allontanamento si siano risolti e, di conseguenza,
il minore viene collocato fuori casa ancora una volta (Fraser et al., 1996; Turner,
1984; Farmer et al., 2008).
Una recente analisi di Sinclair et al. (2005) su minori in affido familiare ha
rilevato alcuni casi in cui si è tentata diverse volte la riunificazione, anche quando
187
lavoro sociale Saggi/Metodologie e tecniche professionali
ciò non corrispondeva al migliore interesse dei minori in questione. Una volta
rientrati a casa, questi bambini e ragazzi avevano ricevuto ben poco sostegno
ulteriore dai servizi.
La maggior parte delle ricerche in tema di riunificazione non distingue tra
situazioni di pregiudizio di bambini molto piccoli e situazioni di difficoltà di
giovani adolescenti. Tuttavia, i fattori correlati al fallito rientro di un ragazzo già
grande sono talvolta diametralmente opposti a quelli che ostacolano la riunificazione di un bambino piccolo (vedi Farmer et al., 2008).
Le conclusioni delle varie ricerche suggeriscono vari modi per facilitare un
rientro a casa più duraturo: ad esempio, fare in modo che vengano effettuate
delle valutazioni in itinere quando il minore viene preso in carico; sviluppare
una programmazione proattiva, costruendo un setting facilitante (che tenga
conto dei tempi delle persone da coinvolgere) e organizzando dei servizi appositamente pensati per rispondere alle difficoltà di genitori e figli; coinvolgere i
genitori affidatari o gli educatori della comunità nel percorso di riunificazione e
nel sostegno post-rientro; organizzare delle modalità di supporto informale per
i genitori; coinvolgere la scuola ed eventuali altri servizi nel monitorare come
procedono le cose e dare un sostegno al bambino o al ragazzo.
Progetti specifici sulla riunificazione
Biehal (2006) ha analizzato i dati che emergono da alcuni progetti statunitensi specificamente dedicati alla riunificazione: i fattori chiave perché il rientro
vada a buon fine consisterebbero nella realizzazione di interventi intensivi, in
un’accurata pianificazione, nella definizione di obiettivi mirati con i genitori e,
in alcuni casi, nell’utilizzo di interventi comportamentali e/o nella stipula di un
«contratto». Tuttavia, non disponiamo di chiare evidenze rispetto a quali specifiche caratteristiche dell’intervento, o quale combinazione di caratteristiche,
siano associabili a esiti positivi, con l’eccezione di un progetto californiano da
cui risulta che ci sono maggiori probabilità di una riunificazione efficace quando
i genitori sottoscrivono un contratto scritto.
Altre esperienze americane suggeriscono che possono funzionare meglio
modalità di intervento in cui gli operatori seguono assiduamente pochi casi
alla volta, per un periodo breve e con una disponibilità 24 ore su 24. Di contro
va notato che, per prevenire la necessità di un allontanamento dei minori dal
contesto familiare, sembrerebbero più funzionali interventi di lunga durata e a
bassa intensità, così come per sostenere la permanenza a casa dopo il rientro
(Jones et al., 1976; Jones, 1985). Altro elemento cruciale da considerare attentamente sono i sentimenti di ambivalenza dei genitori connessi al rientro dei figli
e quanto la famiglia sia pronta a riprenderli con sé, avendo superato i problemi
che avevano portato all’allontanamento e anche eventuali altre difficoltà insorte
nel frattempo (National Family Preservation Network, 2003).
188
Figli di nuovo a casa
Di cosa c’è bisogno?
Su questo tema, operatori sociali e policy makers dispongono ancora di poche
ricerche su cui basarsi, benché le conclusioni dei pochi contributi esistenti siano
senz’altro coerenti nell’indicare la necessità di un approccio autorevole ma che
sia, nel contempo, fondato su una relazione empatica. In particolare, sarebbe
necessario studiare, per le diverse situazioni, quali interventi siano più efficaci
per ridurre i rischi e facilitare il rientro; quali siano le più promettenti pratiche
operative (in termini di metodi di lavoro degli operatori sociali, di strutture
organizzative e di innovazioni); quali siano gli esiti a lungo termine sui minori, in
modo da comprendere più a fondo quando la riunificazione non dovrebbe avere
luogo. Più in generale, dobbiamo tenere presente che il tema della riunificazione
con la famiglia porta con sé il grave dilemma di quali siano i criteri per definire
«sufficientemente buone» le cure genitoriali. Si tratta di una valutazione molto
delicata, nella quale l’assistente sociale necessita del supporto di una buona
supervisione e del confronto con altri professionisti e servizi.
Queste riflessioni sono in linea con le esigenze espresse dai genitori nella
nostra recente ricerca, vale a dire: riconoscere inizialmente le loro difficoltà con
i figli; aiutarli a ricostruire la fiducia in se stessi e le proprie capacità come genitori; monitorare i loro progressi dando nel contempo sostegno emotivo; dare la
possibilità di accedere a un percorso terapeutico per la dipendenza da sostanze,
esplicitando con estrema chiarezza quali saranno le conseguenze nel caso in cui
non si attivino per disintossicarsi; fornire un aiuto diretto con i figli (ad esempio,
il supporto della neuropsichiatria infantile, indicazioni su come gestire le crisi
di collera e su come comportarsi con i bambini); realizzare interventi di respite.
Nella legislazione britannica (White Paper, Children and Young Person Act,
2008) ci si è proposti di rivedere le linee guida in modo da promuovere una pianificazione efficace, che preveda di lavorare con la famiglia mentre il minore è in
affidamento o in comunità e di fornire le prestazioni necessarie quando rientra
a casa. Inoltre, è stata indicata la necessità di definire un piano individualizzato
per ogni minore che ritorna in famiglia, nel quale siano riportate le aree nelle
quali i genitori vanno sostenuti e rinforzati nelle loro capacità; tale piano dovrà
poi essere regolarmente monitorato e aggiornato. Accanto a ciò, è ovviamente
importante che ci siano maggiori risorse a disposizione per aiutare genitori e
figli ad affrontare le loro difficoltà prima della riunificazione e per sostenerli nel
periodo successivo. In casi ad alto rischio, un aiuto intensivo per un periodo
definito, accompagnato da un accordo scritto, potrebbe risultare utile per capire
quali genitori riescono a modificare le cose nei tempi necessari al proprio figlio
e quali, invece, non ce la fanno. Per lavorare con famiglie che hanno subito una
separazione e promuovere il ritorno a casa dei minori servono tempo, competenza e passione. L’attività di ricerca permette di individuare i fattori che facilitano
il successo dei rientri a casa dei bambini, ma è necessario anche individuare
prassi operative che ne tengano conto, in un’ottica multidisciplinare (The Who
Cares? Trust, 2006).
189
lavoro sociale Saggi/Metodologie e tecniche professionali
Summary
Although the Children Act 1989 heralded a new emphasis on family support and on the
reunification of children with their birth parents, there has been limited research evidence
about reunion in the UK in the research conducted since its introduction. There is a need for
much greater recognition that reunification work is highly skilled, demanding and timeconsuming. In this article, some key message for policy and practice on reunification are
drawn out using research from USA and UK, with particular emphasis on the more recent
UK studies.
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Titolo originale
Reunification with birth families. In G. Schofield e J. Simmonds (a cura di), The Child Placement Handbook. Research, policy and practice, London, British Association for Adoption &
Fostering, 2009, pp. 83-101. Traduzione di Valentina Calcaterra e Maria Luisa Raineri.
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