Apparenza e realtà
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Apparenza e realtà
Apparenza e realtà di Leonardo Ferro Luigi Pirandello: contrasto tra apparenza e sostanza, sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà. Immanuel Kant: realtà inconoscibile, “noumeno” (cosa in sé), realtà percepita, “fenomeno” (ciò che appare). Arthur Schopenhauer: contrapposizione tra realtà (volontà) e apparenza (rappresentazione). La Propaganda e la realtà: l’accettazione della menzogna o del silenzio e la propaganda e il consenso nell’Italia fascista. Victorian Compromise: under the appearance of a prosperous period based on sound principles, an uncomfortable truth hides: most people live in difficult circumstances. Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray: Dorian’s desire divides his outward appearance from his interior reality. George Bernard Shaw, Mrs Warren’s Profession: Mrs Warren’s life isn’t respectable as it appears. Apuleio: le Metamorfosi Teoria della Relatività: teoria galileiana, relatività in Einstein: relativià ristretta e generale. Paradosso dei gemelli: l’apparenza del paradosso, la non applicabilità della teoria della relatività ristretta di Einstein. Aberrazione della luce: direzione apparente nell’osservazione di una stella. Luminosità corpi celesti: magnitudine apparente e magnitudine assoluta. Geometrie non euclidee: geometria sferica, iperbolica ed ellittica. Ipotesi di Riemann: l’apparente casualità dei numeri primi e la logica nella loro distribuzione. Oggetti tridimensionali: disegni che li rappresentano, tra reale e virtuale; prospettiva, specchi e ombre; trompe l’oeil e iperrealismo. Luigi Pirandello Luigi Pirandello nasce ad Agrigento, il 28 giugno 1867. Studia a Palermo, Roma, ed infine a Bonn consegue la sua laurea nel 1891. Tornato a Roma, viene introdotto dal Capuana negli ambienti letterari e giornalistici della capitale dove si stabilisce definitivamente con la moglie. La malattia mentale della moglie che sospetta, a torto, che egli la tradisca lo pone di fronte al tema che sarà centrale nella sua produzione: il contrasto tra apparenza e realtà. Nel 1926 fonda la sua compagnia teatrale. Nel 1929 entra a far parte dell'Accademia d'Italia, una congrega di intellettuali di stampo fascista. Nel 1934 riceve il premio Nobel. Muore a Roma nel 1936. Scrittore, drammaturgo e narratore, rappresentò sulle scene l'incapacità dell'uomo di identificarsi con la propria personalità, il dramma della ricerca di una verità al di là delle convenzioni e delle apparenze. Al centro della concezione pirandelliana c’è il contrasto tra apparenza e sostanza. La critica delle illusioni va di pari passo con una drastica sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà: qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all'inattingibile verità della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile. Ciascuno vede la realtà secondo le proprie idee e i propri sentimenti, in un modo diverso da quello degli altri: a fronte della realtà esterna che si presenta una e immutabile, abbiamo le centomila realtà interne di ciascun personaggio, per cui la vera realtà è nessuna. Tra realtà e non-realtà ci sono due distinte dimensioni: 1) la dimensione della realtà oggettuale, che è esterna agli individui e che apparentemente è uguale e valida per tutti, perché presenta per ognuno le stesse caratteristiche fisiche ed è la non-realtà inafferrabile e non riconoscibile: ciò che resta nell'anima dell'individuo è la sua disintegrazione in tante piccole parti quante sono le possibilità concrete dell'individuo di vederla. Della realtà oggettuale esterna noi non cogliamo che quegli aspetti che sono maggiormente confacenti al particolare momento che stiamo vivendo, in base al quale riceviamo dalla realtà certe impressioni, certe sensazioni che sono assolutamente individuali e non possono essere provate da tutti gli altri individui; 2) la dimensione della realtà soggettuale, che è la particolare visione che ne ha il personaggio, dipendente dalle condizioni sia individuali che sociali, ci sono tante dimensioni quanti sono gli individui e quanti sono i momenti della vita dell'individuo. Per i personaggi pirandelliani non esiste, quindi, una realtà oggettuale, ma una realtà soggettuale, che, a contatto con la realtà degli altri, si disintegra e si disumanizza. L'uomo però deve adeguarsi ad una legge imposta dalla società, egli si costruisce quindi una maschera. Siccome il personaggio non ha nessuna possibilità di mutare la propria maschera si verifica la disintegrazione fisica e spirituale dei personaggi che si può riassumere nella teoria della triplicità esistenziale: 1) come il personaggio vede se stesso; 2) come il personaggio è visto dagli altri; 3) come il personaggio crede di essere visto dagli altri. Le conseguenze della triplicità sono tre: 1) il personaggio è uno quando viene messa in evidenza la realtà-forma che lui si dà; 2) è centomila quando viene messa in evidenza la realtà-forma che gli altri gli danno; 3) è nessuno quando si accorge che ciò che lui pensa e ciò che gli altri pensano non è la stessa cosa, quando la propria realtà-forma non è valida sia per sé che per gli altri, ma assume una dimensione per sé e un'altra per ciascuno degli altri. La forma è la maschera, l'aspetto esteriore che l'individuo-persona assume all'interno dell'organizzazione sociale per propria volontà o perché gli altri così lo vedono e lo giudicano. Essa è determinata dalle convenzioni sociali, dalla ipocrisia, che è alla base dei rapporti umani. Il concetto di forma nelle novelle e nei romanzi e di maschera nella produzione teatrale sono equivalenti. La maschera è la rappresentazione più evidente della condanna dell'individuo a recitare sempre la stessa parte, imposta dall'esterno, sulla base di convenzioni che reggono l'esistenza della massa. Quando il personaggio scopre di essere calato in una forma determinata da un atto accaduto una sola volta e di essere riconosciuto attraverso quell’atto e identificato in esso cade in una condizione angosciosa senza fine, perché si rende conto che: • la realtà di un momento è destinata a cambiare nel momento successivo • la realtà è un'illusione perché non si identifica in nessuna delle forme che gli altri gli hanno dato. È nella maschera che ritroviamo un contrasto più profondo fra illusione e realtà, fra l'illusione che la propria realtà sia uguale per tutti e la realtà che si vive in una forma, dalla quale il personaggio non potrà mai salvarsi. Nella società l'unico modo per evitare l'isolamento è il mantenimento della maschera: quando un personaggio cerca di rompere la forma, o quando ha capito il gioco, viene allontanato, rifiutato, non può più trovare posto nella massa in quanto si porrebbe come elemento di disturbo in seno a quel vivere apparentemente rispettabile. Tutta l'esistenza si fonda sul dilemma: o la realtà ti disperde e disintegra, o ti vincola e ti incatena fino a soffocarti. Quando interviene l'accidente che libera il personaggio, tutti pensano che la diversità di comportamento sia dovuta all'improvvisa alienazione mentale del personaggio, a una sua forma di follia che scatena in tutti il riso, perché non è comprensibile da parte della massa. Solo la follia permette al personaggio il contatto vero con la natura (quel mondo esterno alle vicende umane nel quale si può trovare la pace dello spirito) e la possibilità di scoprire che rifiutando il mondo si può scoprire se stessi. Ma questi contatti sono solo momenti passeggeri, spesso irripetibili perché troppo forte il legame con le norme della società. Così accade a Enrico IV, un nobile del primo Novecento fissato per sempre nella rappresentazione del personaggio storico da cui prende il nome, dopo aver battuto la testa per una caduta da cavallo. In Enrico IV troviamo l'esasperazione del conflitto fra apparenza e realtà, fra normalità e anormalità, fra il personaggio e la massa, fra l'interiorità e l'esteriorità. Per superare questo conflitto il personaggio tende sempre più a chiudersi in se stesso, per cui l’anormalità diventa sistema di vita. La guarigione di Enrico IV dalla pazzia, improvvisa e fisicamente inspiegabile, proietta il personaggio nelle vicende quotidiane, ma lo rende anche consapevole di non poter più recuperare i 12 anni vissuti “fuori di mente”, per cui non gli resta che fingersi ancora pazzo dopo aver constatato che nulla era rimasto ormai della sua gioventù, del suo amore, e che molti lo avevano tradito. Enrico IV assume una forma immutabile agli occhi di tutti, ma non di se stesso, rifugiandosi nel già vissuto e fingendo di essere ancora pazzo. L’esempio più appropriato della frantumazione dell’io e del relativismo pirandelliano che evidenzia il contrasto tra apparenza e realtà è il romanzo “Uno, nessuno e centomila”. Il protagonista, Vitangelo Moscarda, scopre di non essere per gli altri quell’UNO che è per sé. La moglie Dida, svelandogli che il suo naso pende verso destra, ha squarciato tutte le sue certezze, avviando una riflessione sull’intera esistenza. Ecco visualizzato lo sbriciolamento del reale che da univoco (UNO) diventerà poliedrico (CENTOMILA) e sfocerà nel nulla (NESSUNO). Vitangelo allo specchio, simbolo dell’io davanti a se stesso, scopre di vivere senza "vedersi vivere". Si getta quindi all’inseguimento dell’estraneo inscindibile da sé che gli altri conoscono in centomila identità differenti. Il protagonista si stacca dal proprio "fantoccio vivente", per se stesso è ormai nessuno: la distruzione dell’io è consumata. Maschera creata dagli altri, fantoccio della moglie, è il "caro Gengè", amato teneramente da Dida fino a trasformare Vitangelo in un’ombra vana. Il padre "banchiere – usuraio" lo ha ingabbiato nel ruolo di "buon figliuolo feroce": ecco un’altra marionetta nel "gioco della parti" della vita. La gente lo vede come uno spietato usuraio. L’aspirazione di Vitangelo è rimanere al di là dello specchio, essere un "Un uomo così e basta". E’ possibile? Egli, alla ricerca di una via di fuga dai centomila estranei a sé che vivono negli altri, decide di uccidere le sue "marionette" ma, per aver voluto dimostrare di non essere ciò che si credeva, è ritenuto pazzo: la gente non vuole accettare che il mondo sia diverso da come lo immagina. Non c’è via di fuga: Vitangelo scopre che le marionette non si possono distruggere. La decisione di vendere la banca del padre per uccidere l’usuraio Moscarda, fa sorgere una volontà che lo fa essere Uno. Questo atto, per tutti assurdo, crea attorno a lui un vuoto in cui si inserisce Anna Rosa, donna dalla psiche molto simile alla sua: frantuma la propria identità atteggiandosi davanti allo specchio, vorrebbe fermare la vita per conoscersi. Vitangelo, presentandosi come una persona completamente diversa dal Moscarda che tutti hanno davanti agli occhi da anni, perderà la moglie, la ricchezza e la "faccia", ma saprà trovare nell'ospizio per poveri da lui stesso fatto costruire, il proprio vero io che gli era stato negato. Egli, avvolto nella coperta verde "naufraga dolcemente" nella serenità della natura, senza passato né futuro. Estraniarsi da sé è l’unica via per fuggire alle centomila costruzioni che falsificano la realtà e la imprigionano in un nome immutabile. La vita "non conclude" ed è un divenire palpitante: meglio, dunque, essere nessuno poiché l’essere uno si è rivelato un’illusione di fronte allo svelarsi delle centomila maschere. Pirandello mette in rilievo non i fatti ma la vita interiore del "Fu Vitangelo Moscarda". Immanuel Kant Immanuel Kant (1724 – 1804) è stato il pensatore più cospicuo dell’età moderna: ha operato in filosofia una rivoluzione che egli stesso ha assimilato a motivo della sua radicalità, a quella operata da Copernico nell’astronomia. Noumeno e Fenomeno Il nucleo centrale della filosofia di Kant è l'affermazione che il contenuto della conoscenza umana non può corrispondere alle cose come sono realmente in se stesse. Il contenuto della coscienza non permette di conoscere le cose in modo che corrispondano alla realtà, poiché la coscienza opera sulla realtà un processo di mediazione e tale mediazione impedisce necessariamente l'accesso alla fonte autentica della realtà. La mente, in sostanza, opera sulla realtà in sé una serie di interpretazioni secondo le proprie caratteristiche, una serie di interpretazioni che si pongono nel momento stesso in cui ci si accinge a pensare. Tali interpretazioni impediscono di fatto di attingere alla reale conoscenza della realtà. In questi casi è solito fare l'esempio degli occhiali. La mente umana è come un paio di occhiali colorati che l'uomo non può togliersi. La mente è necessariamente un modo specifico di percepire la realtà, non ha la qualità di percepire le cose per come sono realmente, poiché i processi mentali filtrano la realtà attraverso i loro meccanismi peculiari. Se la mente fosse un paio di occhiali colorati, l'uomo non potrebbe che guardare la realtà attraverso il colore dominante di quelle lenti. La mente umana è dunque una lente: essa deforma e legge la realtà attraverso le sue specifiche caratteristiche. La realtà inconoscibile è chiamata da Kant "cosa in sé", la quale risulta pensata dalla mente come "noumeno", ovvero, "oggetto del pensiero", poiché la cosa in sé viene pensata ma non può essere "vista" dalla mente per come si presenta (la cosa in sé è come un oggetto mai visto contenuto in una scatola, il noumeno è il pensiero dell'oggetto che tuttavia non può essere visto). Da questo si evince che la realtà che l'uomo percepisce attraverso la mente è un fenomeno ("ciò che appare") sotto il quale esiste un'ulteriore realtà, chiusa in sé e alla conoscenza. Quella di Kant è una critica radicale al concetto di metafisica. Se essa è il tentativo di conoscere la realtà autentica delle cose attraverso la razionalità espressa dalla coscienza, per Kant, come si è visto, non si può conoscere la realtà autentica delle cose (la cosa in sé) attraverso la razionalità, ma si può solamente venire a contatto con il fenomeno sensibile costituito dal mondo. Come può affermare Kant che esiste necessariamente una cosa in sé che tuttavia rimane inaccessibile, nella forma, al pensiero? La prova dell'esistenza in sé delle cose viene necessariamente dal fatto che se il contenuto della coscienza è fenomeno e apparenza della realtà autentica, deve per forza di cose esistere una realtà alla quale questa interpretazione venga riferita, altrimenti si giungerebbe al paradosso di una apparenza che non ha alle sue spalle alcuna realtà. Arthur Schopenhauer Schopenhauer (1788 – 1860) è il più grande avversario di Hegel e considera la filosofia idealista come una concezione fasulla. Egli assume come punto di partenza e di imitazione Kant e Platone: l’elemento dualistico accomuna Platone (dualismo tra mondo sensibile e mondo delle idee) e Kant (dualismo tra i fenomeni e i noumeni), in entrambi gli autori c’è una contrapposizione tra la realtà (noumeno per Kant e mondo delle idee per Platone) e l’apparenza ingannevole (fenomeni in Kant e mondo sensibile in Platone). Volontà e rappresentazione Schopenhauer analizza la contrapposizione tra realtà (volontà) e apparenza (rappresentazione) nella sua più grande opera: “Il mondo come volontà e rappresentazione”. La rappresentazione è ciò che noi vediamo, non ha alcun fondamento oggettivo quindi quello che noi riteniamo che sia la realtà è un semplice inganno, un’illusione. La rappresentazione è come il velo di Maia: Maia era una divinità buddista che utilizzava il velo come strumento per far credere reali delle semplici illusioni. Schopenhauer vuole fuoriuscire dalla dimensione illusoria strappando il velo di Maia per giungere alla realtà. Per strapparlo, egli usa l’immagine del castello circondato dall’acqua con il ponte levatoio sollevato: il viandante può osservare il castello da tutti i lati ma ne rimarrà sempre fuori. Allo stesso modo noi possiamo esaminare la realtà da tutti i lati ma ne rimaniamo sempre fuori. Il cunicolo che ci consente di andare al di là delle illusioni è il nostro corpo, l’unica realtà che non ci è data solo come immagine poiché noi viviamo il nostro corpo anche dall’interno. La corporeità è il modo per andare al di là della rappresentazione e afferrare l’essenza delle cose. Schopenhauer non è interessato all’introspezione ma utilizza il corpo solo come un mezzo metafisico per arrivare alla realtà. Percorrendo questa strada si individua una realtà sostanziale: la volontà di vivere, che ha un valore universale. La volontà di vivere è una forza tragica apportatrice di dolore, è il fondamento del reale, la brama, il desiderio di esistere, è la vera essenza delle cose. Essa presenta quattro caratteristiche: 1) è inconscia: non riguarda solo le creature dotate di coscienza ma riguarda tutto il mondo animato e inanimato; 2) è unica perché si colloca al di là della categoria dello spazio (cioè la prima categoria della razionalità), la divisibilità e la molteplicità comportano lo spazio; 3) è eterna perché è oltre il tempo (cioè la seconda categoria razionale), c’è sempre stata e sempre sarà; 4) è incausata e senza scopo: non ha né una causa né un fine, è oltre la causalità (cioè la terza categoria della razionalità). Da ciò ne deriva che Schopenhauer ha un pensiero irrazionalistico: il fondamento della realtà è irrazionale, egli nega la presenza di qualunque realtà nelle cose, di qualsiasi carattere razionale nella realtà (contrariamente a Hegel, secondo il quale tutto è razionale), nega qualsiasi efficacia riconosciuta alla ragione. L’irrazionalismo è applicato alle categorie della razionalità: la razionalità non è in grado di cogliere la realtà quindi essa non può essere colta con le categorie della razionalità. Per afferrare la conoscenza bisogna fuoriuscire dal campo della razionalità. Dalla concezione di Shopenhauer della volontà di vivere emerge un certo pessimismo: la volontà di vivere produce sofferenza perché volere significa desiderare, cioè mancare di qualcosa. Questo senso di mancanza produce sofferenza quindi la volontà di vivere è portatrice di sofferenza. Alcuni desideri possono essere soddisfatti ma il soddisfacimento del desiderio è momentaneo perché poi si trasforma in noia, quindi si arriva alla medesima condizione di sofferenza a causa della noia. Ne consegue che il fondamento dell’esistenza è il dolore. Propaganda e realtà Da quando ci siamo messi a fare le guerre per gli altri, lo stato della nostra conoscenza è una quotidiana accettazione della menzogna o del silenzio, una quotidiana condanna a prendere per vere notizie che sappiamo false o manipolate. Sappiamo che la verità grossomodo esiste, nelle sue grandi linee, nei suoi grandi dati di fatto e soprattutto nei suoi effetti, come esiste un´etica, uno stile, un buongusto, ma oggi stanno sempre in un luogo irraggiungibile. Si può al massimo rimpiangerli, evocarli, celebrarli fra pianti e sospiri ma non riportarli fra le normalità della vita. Se si tenta di farlo si finisce immediatamente in qualche infame "anti": antiamericano, antidemocratico, antimoderno e da qualche tempo anche antifascista, l´ "anti" che non piace alla maggioranza sdoganata. La morte di Nicola Calipari a Bagdad è solo l´ultimo atto di una storia che parte da lontano. Si è cominciato con la guerra del Golfo. Per sapere come stavano le cose dovevamo accontentarci di ciò che passava il Pentagono. Una strana guerra di finte immagini che venne interrotta nel giorno in cui era vinta, per ragioni non spiegabili perché non confessabili, inerenti al mercato del petrolio. Poi a queste guerre non confessabili abbiamo cominciato a partecipare, a iniziare dalla guerra ai talebani in Afghanistan. Partì per l´Oceano Indiano la nostra flotta, per farci che nessuno ce lo spiegò, e a ragione perché non poteva muoversi di un metro senza il permesso degli americani, aveva una mini-portaerei che pareva una zanzara al confronto delle gigantesse Usa. Finì che un bel giorno la squadra fece ritorno a Taranto e a salutarla c´erano solo i parenti dei marinai. Certo non è facile dire la verità quando la verità è scomoda. Non era facile raccontare che il nostro corpo di spedizione alpino in Afghanistan mandato a caccia di ribelli e di terroristi sulle montagne deserte di Tora Bora dipendeva dagli americani per i trasporti aerei, dai loro magazzini per i rifornimenti e che avevamo come arma migliore un mortaio, arma di rado usata nelle guerre partigiane. Anche gli alpini sono tornati a casa quasi di nascosto perché non c´era nulla da celebrare. È piuttosto deludente, piuttosto umiliante, e perciò poco confessabile ripetere in peggio le già magre figure del fascismo quando per restare qualche mese in più in Libia dovettero arrivare i tedeschi dell’Afrika Korps. Raccontare le cose come stanno nell´Iraq è più che mai impossibile. I nostri tremila soldati non possono uscire dal campo trincerato di Nassiriya. Il governo dice che stanno lì per aiutare la pace e la ricostruzione ma appena gli insorti, come li chiamano, entrano in città arrivano gli aerei americani a bombardare i quartieri civili, alla faccia della ricostruzione. Su tutte le nostre vicende irachene scende una coltre di omissioni. Trattiamo con il nemico insorto per non essere attaccati, per liberare i nostri sequestrati, ma ci sdegniamo se gli americani detestano questo doppio gioco. Vogliamo fare la guerra ma fingendo che essa sia indolore. Non abbiamo molta simpatia per Edward Luttwak, esperto dell´arte militare contemporanea, ma quando ci ricorda che in guerra si muore e che i morti per fuoco "amico" sono quasi pari a quelli morti in battaglia ha perfettamente ragione, e sbaglia la nostra abitudine di coprire questa realtà con la retorica, le bandiere, i riti funebri. Di chi è stanco di questa tragica recita dice che è un antiamericano. Un insulto ai millecinquecento americani che ci hanno perso la vita, e una sacrosanta distinzione da una guerra sbagliata, che non ha risolto nessuno dei problemi del Medio Oriente e tutti li ha aggravati. La frase che più è ripetuta fra gli italiani è: "Non ci capisco più niente". Non si capisce perché un governo "del fare" contrario al "giochino della politica" faccia quel che fa a scopi prevalentemente elettorali cioè basati sulla propaganda che è l´arte della menzogna di massa. Che differenza con quel catastrofista di Winston Churchill, che, in tempi difficili, ai suoi diceva: "Posso promettervi solo lacrime e sangue". Alla fine fu il catastrofista a vincere. Propaganda e consenso nell’Italia fascista Repressione e propaganda negli stati totalitari Dopo la prima guerra mondiale, negli anni Venti e Trenta del Novecento, presero forma in Europa tre regimi politici che abbatterono nei loro paesi ogni forma di parlamentarismo e di democrazia liberale: il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania, il comunismo in Unione Sovietica. Furono tre regimi diversi, ciascuno con proprie caratteristiche e con un’ideologia specifica di riferimento; fascismo e nazismo avevano alcune radici in comune, e infatti finirono per allearsi nella seconda guerra mondiale, ma anche molti aspetti diversi. L’elemento di base sicuramente condiviso da tutti e tre i regimi fu la costruzione di uno «stato totalitario». Nel linguaggio degli studiosi di storia e di teoria politica questa espressione indica un tipo di stato che non soltanto nega le libertà e i diritti individuali (cosa che avviene in tutte le dittature), ma tende a subordinare gli individui e ogni corpo sociale (associazioni, sindacati, organizzazioni della più varia natura) a un fine superiore, coincidente con lo stato stesso e con l’ideologia di cui esso è portatore. Nei totalitarismi del Novecento la propaganda politica trovò la sua massima ragion d’essere e la sua forma più efficiente e capillare. Infatti ciò a cui puntavano quei sistemi non era semplicemente piegare il singolo all’obbedienza e alle esigenze della macchina dello stato con la paura e la forza, anche se poi è questo che perlopiù avvenne; si puntava anche a suscitare la sua intima adesione, a farne un fascista o un nazista o un comunista convinto, pronto ad accogliere senza discussioni, e anzi con entusiasmo, le direttive del capo supremo e del partito. Insomma si trattava di rimodellare le coscienze dei cittadini, di renderli artefici volontari e zelanti degli obiettivi dettati dal potere. La polizia politica, la soppressione degli oppositori, le carceri e i campi di lavoro furono gli strumenti dell’azione repressiva dei regimi totalitari; la propaganda fu lo strumento idoneo, sebbene non il solo, basta pensare alla scuola, all’altro versante del totalitarismo, cioè all’intento di condurre i cittadini a identificarsi con il regime. Controllo culturale e identificazione emotiva La propaganda si avvalse di tutti i mezzi tradizionali e di quelli nuovi messi a disposizione dalla tecnologia del tempo. Fra i primi va ricordato ovviamente il controllo sulla stampa, intesa come pubblicazioni giornalistiche (periodici, quotidiani, giornali di settore, di associazioni lavorative ecc.) e anche, in senso più ampio, come editoria libraria. I manuali per le scuole, specie quelli storici e umanistici, dovettero sottostare a commissioni di controllo e a censure; in Urss il regime staliniano giunse a organizzare un’unione degli scrittori, per cui romanzieri e poeti che non seguivano i dettami del «realismo socialista», o non erano graditi al potere per qualsivoglia altra ragione, non potevano pubblicare le loro opere, quando non venivano perseguitati o non finivano in un gulag. Sempre fra i mezzi già usati in passato c’erano i comizi politici e le adunate, che però assunsero un’imponenza mai vista prima e un’attentissima coreografia. Queste esibizioni di massa venivano preparate a tavolino con uno studio della collocazione, dei tempi e dei movimenti dei partecipanti, il tutto inquadrato dal ricorrere dei simboli del regime e mirante a creare un’intensa atmosfera emotiva di appartenenza comunitaria e di immedesimazione con il capo, che appariva e parlava nel momento culminante. Così si rafforzava e si legittimava l’identità comune e l’identificazione con il capo, secondo un meccanismo psicologico per il quale la massa viene percepita, in determinate condizioni, come un oceano che sommerge, ma al tempo stesso protegge e dà un significato all’azione del singolo. Le adunate celebrative non coinvolgevano solo i partecipanti. Attraverso la trasmissione radiofonica in diretta e i cinedocumentari, le tecnologie nuove dell’epoca, il loro effetto veniva amplificato a masse ancora più vaste. E appunto le immagini cinematografiche permettono oggi di rivedere e di studiare le grandi manifestazioni di regime, dalle monumentali parate del 1° maggio sulla Piazza Rossa di Mosca alle assemblee naziste di Norimberga. La radio e il cinema furono sfruttati come potenti mezzi di persuasione e gli stati totalitari si dotarono di enti nazionali di produzione e di emissione, sotto il controllo dei rispettivi ministeri per la propaganda. Comizio tenuto da Mussolini a Milano nel 1943. Alle spalle del palco dove si trova il duce un grande manifesto propugna la guerra contro la Gran Bretagna. La macchina del consenso in Italia Il fascismo prese il potere in un clima di violenza e intimidazione. Eppure godette per molti anni di un largo consenso. Il consenso ai regimi di destra, non nasceva tanto dall’adesione alle loro idee politiche, quanto dal forte bisogno di sentirsi parte di un insieme, di essere come gli altri. Ma siccome era il potere, attraverso il controllo su ogni aspetto della vita quotidiana, a decidere come si doveva essere si finiva per desiderare di diventare proprio come il potere ti voleva. Ci furono momenti di autentica adesione al fascismo, come nel ’36 durante la guerra d’Etiopia. In quel caso, molti ebbero l’illusione di risolvere alcuni problemi storici dell’Italia, come il sovrappopolamento e l’emigrazione verso Paesi stranieri. Il fascismo creò un’efficace macchina propagandistica utilizzando la stampa, la radio e il cinema per valorizzare i successi del regime e mantenere le masse in uno stato di mobilitazione emotiva permanente, attraverso riti e cerimonie collettive. In pochi anni Mussolini riuscì a inculcare negli italiani il senso di appartenenza a uno sforzo collettivo. In Italia si cominciò a vivere in un clima di grandi imprese, sempre annunciate e di rado portate a termine. Come quando nel ’25, per ridurre l’importazione di cereali dall’estero fu lanciata la battaglia del grano. L’obiettivo era ampliare l’area seminativa per assicurarsi l’autosufficienza alimentare. Ma la vasta opera di persuasione contribuì anche ad avvicinare i contadini al fascismo e a pacificare le zone rurali, dove le tensioni sociali erano ancora forti. Negli anni di consolidamento del regime fascista nacque il mito di Mussolini, il mito della dedizione completa al “duce”. C’era il regime, ma più in alto c’era il duce, padre carismatico e provvidente che lavorava per la grandezza del paese. Gli italiani nati dopo l’avvento del fascismo furono allevati in questo vero e proprio culto della personalità. Giochi, gare e concorsi culturali e sportivi (i famosi littoriali) concorrevano a esaltare e a rafforzare questa fede nell’uomo della provvidenza, che aveva scoperto i valori morali e nazionali della tradizione italica. Che ci sia stato un consenso diffuso in tutti gli strati sociali del paese al fascismo, o meglio alla politica di Mussolini, non c’è dubbio: un consenso, però, a tempo. Che ci siano stati poi docenti universitari che rifiutarono di sottoscrivere fedeltà al regime è verissimo, ma furono pochi, si contano sulle dita; la maggior parte l’accettarono, con poca o molta convinzione, a seconda dei casi. Del resto, fino al 1938-39, cioè fino all’emanazione delle leggi razziali italiane e alla firma del Patto d’acciaio con Hitler, Mussolini diede l’impressione di seguire una linea politica ben diversa da quella del nazionalsocialismo tedesco. Si trattava di una linea consensuale con le aspirazioni alla tranquillità sociale dei moderati. E gli italiani che desideravano, pur avendo per formazione, mentalità e criterio altro pensiero, assicurarsi una presenza attiva nella società civile, non avrebbero potuto mettersi fuori dai ranghi, da quel tanto di disciplina che la struttura e l’organizzazione dello Stato fascista esigeva. Ma il Patto d’acciaio firmato con Hitler e la legge razziale che colpiva gli Ebrei con un’azione discriminatrice (divieto di insegnare nelle scuole pubbliche, di occupare impieghi statali, espulsione degli Ebrei stranieri) tolsero, ogni velo agli occhi dei più indulgenti verso il fascismo, dei più inclini al compromesso per sopravvivere. I fattori che resero possibile il consenso plebiscitario al fascismo furono prevalentemente politici: il fallimento della classe politica prefascista, ancora troppo legata a una concezione formale dello Stato, le molte insicurezze sociali ed economiche delle classi medie nel dopoguerra. Tutto ciò disponeva ad accogliere, come una soluzione più o meno provvisoria ma comunque consensuale, la forma inedita di un paternalismo di Stato che si era dichiarato in grado, con metodi che non escludevano la violenza, di liberare il paese dalla instabilità del dopoguerra e dalle paure dei “rossi”. Ma l’opzione totalitaria del regime e le sue perverse leggi discriminatici alienarono il consenso dei moderati. Victorian Compromise The Victorian Age, so called from the name of Queen Victoria, was a period of unprecedented material progress, imperial expansion and also one of political and constitutional developments. In this reign, in fact, the liberalization of trade and the imperial expansion produced great prosperity. The positivistic ideology, that is the unconditioned confidence that the technical and scientific progress bring happiness, diffused. People, following Queen Victoria’s example, were conformists, and followed a set of moral and sexual values. It implied the possession of good manners, the ownership of a comfortable house with servants and a carriage, regular attendance at church, and charitable activity. But under this appearance of a prosperous period based on sound principles, an uncomfortable truth hides. Unfortunately the expansion of the industrial system and of international trade brought many material benefits and much wealth to a minority of the population, notably the upper and the middle classes. This image of general material improvement, however, is deceptive: layers of deprivation and suffering continued to exist and to shock. Of all the poor, one third had too low an income to meet even the most basic needs. Women and children were still exploited, working life began at an early age and continued as long as physique allowed. In spite of improvements in working conditions, the proliferation of more varied foods, and the occasional pleasure, in pubs and sport, the lives of Victorian working people remained hard and made a telling contrast to the more lavish benefits enjoyed by their middle and upper class contemporaries. From this opposition of prosperity and poverty, the word “Victorian Compromise” derives. Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray In a period in which appearance prevailed over reality, Oscar Wilde writes and publishes his “Picture of Dorian Gray”. Oscar Wilde was born in Dublin in 1854. To the Victorian Puritanism, he opposes his eccentric poses and the excesses of a life that experiences a trial and a prison for homosexual offences and poverty. He totally adopted the aesthetic ideal, searching an escape from a reality in which he doesn’t recognize in the beauty. Basil Hallward, a famous English painter, is fascinated by the beauty of a young man, Dorian Gray and decides to paint him. While the young man’s desires are satisfied, including that of eternal youth, the sign of age, experience and vice appear on the portrait. Dorian lives only for pleasure, making use of everybody and letting people die because of his insensitivity. When the painter sees the corrupted image of the portrait, Dorian kills him. Later Dorian wants to free himself of the portrait, witness to his spiritual corruption, and stabs it, but he mysteriously kills himself. In the very moment of death the picture returns to its original purity, and Dorian’s face becomes “withered, wrinkled, and loathsome”. Dorian’s desire has separated his external appearance from his interior reality. In the society his appearance, that is the exteriority, enchants everybody and even if he commits criminal acts, nobody can believe that he can be corrupted. His interiority is instead contained in Basil’s picture: a reality cognizable only by himself and because of the contrast with the appearance it will bring him to death. Mrs Warren’s Profession In George Bernard Shaw's play, Mrs Warren's Profession, Mrs Warren was a woman who ran a chain of brothels on the continent. Her daughter Vivie, a resolute young lady, desires to make her way in the city, as it then was. The play revolves around the clash of these two personalities, when the daughter discovers her mother's profession and rejects her. Not, apparently, because of what her mother was, but because she stood in the way of her, the daughter's profession. The girl learns that Mrs Warren went into prostitution as a trade which offered more security and better conditions than others which were open to her as an uneducated working-class girl. Mrs Warren’s Profession, is a deliberately shocking and provocative attack on the sacred nineteenth-century institution of sexual morality in marriage. The playwright’s aim is to cause his mainly middle-class audience to reconsider all their accepted ideas about the employment of women, who were generally exploited at that time. The importance of the play lies also in the fact that Vivie’s relationship to her mother symbolises the relation of the individual to society. Vivie tries to treat her mother as a stranger. But she can’t, and in discovering what kind of woman her mother is, the girl finds out what kind of society she is part of. Apuleio, Le Metamorfosi Le Metamorfosi (o Metamorphoseon libri XI) dello scrittore latino Apuleio costituiscono - assieme al Satyricon di Petronio - l'unica testimonianze del romanzo antico in lingua latina. Degli undici libri, i primi tre sono occupati dalle avventure del protagonista, il giovane Lucio (omonimo dell'autore, che forse proprio dal protagonista assunse il nome) prima e dopo il suo arrivo a Hypata in Tessaglia (tradizionalmente terra di maghi). Coinvolto già durante il viaggio nell'atmosfera carica di mistero che circonda il luogo, il giovane manifesta subito il tratto distintivo fondamentale del suo carattere, la curiosità, che lo conduce ad incappare nelle trame sempre più fitte di sortilegi che animano la vita della città. Ospite del ricco Milone e di sua moglie Pànfila, esperta di magia, riesce a conquistarsi i favori della servetta Fotide e la convince a farlo assistere di nascosto a una delle trasformazioni cui si sottopone la padrona. Alla vista di Pànfila che, grazie a un unguento, si muta in gufo, Lucio prega Fotide che lo aiuti a sperimentare su di sé tale metamorfosi. Fotide accetta, ma sbaglia unguento, e Lucio diventa asino, pur mantenendo facoltà raziocinanti umane. È questo l'episodio-chiave del romanzo, che muove il resto dell'intreccio. Lucio apprende da Fotide che, per riacquistare sembianze umane, dovrà cibarsi di rose: via di scampo che, subito cercata, è rimandata sino alla fine del romanzo da una lunga serie di peripezie che l'asino incontra. Una seconda sezione del romanzo comprende le vicende dell'asino in rapporto a un gruppo di briganti che lo hanno rapito, il suo trasferimento nella caverna montana che essi abitano, un tentativo di fuga insieme a una fanciulla loro prigioniera, Càrite, e la liberazione finale dei due ad opera del fidanzato di lei che, fingendosi brigante, riesce a ingannare la banda. Il racconto principale diviene cornice di un secondo racconto, ossia della celebre favola di Amore e Psiche narrata a Càrite dalla vecchia sorvegliante. Nei libri successivi, ad esclusione dell'ultimo, riprendono le tragicomiche peripezie dell'asino, che passa dalle mani di sedicenti sacerdoti della dea Siria, dediti a pratiche lascive, a quelle di un mugnaio che è ucciso dalla moglie, a quelle di un ortolano poverissimo, di un soldato romano, di due fratelli, l'uno cuoco e l'altro pasticciere. Ovunque l'asino osserva e registra azioni e intenzioni con la sua mente di uomo, spinto sia dalla curiosità, sia dal desiderio di trovare le rose che lo liberino dal sortilegio. Della sua natura ambivalente si avvedono per primi il cuoco e il pasticciere, scoperta che mette in moto la peripezia finale. Informato della stranezza, il padrone dei due artigiani, divertito, compra l'asino per farne mostra agli amici. In un crescendo di esibizioni, Lucio riesce a sfuggire, a Corinto, dall'arena in cui è stato destinato a congiungersi con una condannata a morte, e nella fuga raggiunge una spiaggia deserta dove si addormenta. Il brusco risveglio di Lucio nel cuore della notte apre l'ultimo libro. La purificazione rituale che segue e la preghiera alla Luna preparano il clima mistico che domina la parte conclusiva: Lucio riprende forma umana il giorno seguente, mangiando le rose di una corona recata da un sacerdote alla sacra processione in onore di Iside, secondo quanto la stessa dea gli aveva prescritto, apparendogli sulla spiaggia. Grato alla dea, Lucio si fa iniziare al culto di Iside a Corinto, stabilitosi a Roma, per volere di Osiride, si dedica a patrocinare le cause nel foro. Le Metamorfosi sono caratterizzate da uno stile narrativo che nell’antichità mancava di una fisionomia definita; appaiono quindi come una contaminazione di generi diversi (epica, biografia, satira menippea, racconto mitologico, ecc.). Nel caso specifico è problematico il rapporto con le fabulae Milesiae (racconti licenziosi che ispirarono anche Petronio), a cui lo stesso autore riconduce l'opera, ma la perdita pressoché totale della traduzione che Cornelio Sisenna (120 AC–67 AC) fece delle originali fabulae Milesiae di Aristide di Mileto (II secolo AC) ne rende oscure le origini. Un romanzo pervenuto nel corpus delle opere di Luciano di Samòsata, ma sicuramente spurio, sviluppa lo stesso intreccio del romanzo latino, col titolo di Lucio o l'asino, in lingua greca e in forma nettamente più concisa rispetto a quella di Apuleio; ma non sono chiari i rapporti relativi e la priorità dell'uno o dell'altro dei due scritti e se abbiano avuto una fonte comune. È certo che il finale, con l'apparizione di Iside e le successive iniziazioni ai misteri di Iside e di Osiride, appartiene ad Apuleio; anche perché il protagonista, un giovane che si definisce greco in tutto il romanzo, in questo libro, inopinatamente, diventa Madauriensis, sovrapponendo l’io–scrivente all’io-narrante. Sono comunque differenti il significato complessivo e il tono del racconto: infatti, il testo pseudolucianeo, rivela l'intenzione di una narrativa di puro intrattenimento, priva di qualsiasi proposito moralistico, mentre le Metamorfosi di Apuleio - sotto l'apparenza di una lettura di puro svago, intessuta di episodi umoristici e licenziosi - assume in realtà i caratteri del romanzo di formazione. Ne è prova la funzione della curiosità di Lucio che conduce il personaggio alla rovinosa trasformazione, dalla quale sarà liberato solo in seguito a una lunga espiazione, culminante in un drastico cambiamento di vita. A conferma del fatto che questa è una chiave di lettura suggerita dall'autore, alcuni episodi minori dell'intreccio trovano corrispondenze precise con la vicenda di Lucio, anticipandola o rispecchiandola. Emblematico è il caso della favola di Amore e Psiche che, grazie al rilievo derivante dalla posizione centrale e dalla lunga estensione, assume valore prefigurante nei confronti del destino di Lucio. La trama rispecchia tradizioni favolistiche note in tutti i tempi: la figlia minore di un re suscita l'invidia di Venere a causa della sua straordinaria bellezza, e viene, per volere della dea, data in preda a un mostro. Cupido, figlio di Venere, vedendola, se ne innamora e la libera, portandola al sicuro in un castello, dove ne diviene l'amante. Alla fanciulla, che ignora l'identità del dio, è negata la vista dell’amato, pena l'immediata separazione da lui. Tuttavia, istigata dalle due sorelle invidiose, Psiche non resiste al divieto e spia Amore mentre dorme: all'inevitabile, immediato distacco pone rimedio la dolorosa espiazione cui Psiche si sottomette, attraverso varie prove. La novella si conclude con le nozze e gli onori tributati a Psiche, assunta a dea. La favola di Amore e Psiche svolge nella struttura del romanzo una precisa funzione letteraria: riproduce in scala ridotta l'intero racconto e impone ad esso la giusta chiave di lettura. Tocca al racconto secondario, contenuto nel corpo del romanzo, rendere più complessa la prima lettura attivando una seconda linea tematica (quella religiosa), che si sovrappone alla prima linea tematica (quella dell'avventura) per conferirle un contenuto iniziatico. Le vicende di Lucio possono essere lette come le prove cui è sottoposto un essere che, dopo un tempo d'alienazione e di errabonde peripezie, è fin dall'inizio promesso alla salvezza voluta dalla dea signora delle trasformazioni. Senza l'inserzione della favola di Amore e Psiche, Apuleio non avrebbe potuto dirigere gli avvenimenti narrati verso la giusta lettura, per fare del romanzo la storia di una redenzione. L'evidente significato allegorico nulla toglie alla leggerezza del racconto che segue felicemente la tradizione favolistica. Le altre digressioni inserite nell'intreccio principale sono costituite da vicende di vario tipo, ove il magico (primi tre libri) si alterna con l'epico (storie dei briganti), col tragico, col comico, in una sperimentazione di generi diversi che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico, con la sola eccezione del libro XI, dove la componente mistica ha il sopravvento e la forma animale di Lucio ha perduto quasi totalmente importanza, mentre nel corso del romanzo proprio la presenza costante delle riflessioni dell'asino crea un effetto di continuità che forma i due livelli di lettura, e scandisce il senso complessivo della vicenda come iter progressivo verso la sapienza. Invito al lettore (1,1) At ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram auresque tuas benivolas lepido sussurro permulceam — modo si papyrum Aegyptiam argutia Nilotici calami inscriptam non spreveris inspicere — , figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas et in se rursus mutuo nexu refectas ut mireris. Exordior. "Quis ille?" Paucis accipe. Hymettos Attica et Isthmos Ephyrea et Taenaros Spartiatica, glebae felices aeternum libris felicioribus conditae, mea vetus prosapia est; ibi linguam Atthidem primis pueritiae stipendiis merui. Mox in urbe Latia advena studiorum Quiritium indigenam sermonem aerumnabili labore nullo magistro praeeunte aggressus excolui. En ecce praefamur veniam, siquid exotici ac forensis sermonis rudis locutor offendero. Iam haec equidem ipsa vocis immutatio desultoriae scientiae stilo quem accessimus respondet. Fabulam Graecanicam incipimus. Lector intende: laetaberis. Eccomi a raccontarti, o lettore, storie d'ogni genere, sul tipo di quelle milesie e a stuzzicarti le orecchie col piacevole mormorio del mio racconto, solo che tu vorrai posare lo sguardo su questo papiro egiziano vergato con un’arguzia tutta Nilotica [ovvero del Nilo; riferimento allo stile alessandrino; ndr]. E avrai di che sbalordire sentendomi dire di uomini che han preso altre fogge e mutato l’essere loro e poi sono ritornati di nuovo come erano prima. Dunque, comincio. Certamente tu ti chiederai: ‘Ma chi è costui?’ Ebbene te lo dirò in due parole. Le regioni dell’Imetto, nell’Attica, l’Istmo di Corinto e il promontorio del Tenaro nei pressi di Sparta sono terre fortunate, celebrate in opere più fortunate ancora. Di lì, anticamente, discese la mia famiglia; lì, da fanciullo, appresi i primi rudimenti della lingua attica, poi, emigrato nella città del Lazio, io che ero del tutto digiuno della parlata locale, dovetti impararla senza l’aiuto di alcun maestro, con incredibile fatica. Perciò devi scusarmi se da rozzo parlatore qual sono, mi sfuggirà qualche barbarismo o qualche espressione triviale. Del resto questa varietà del mio linguaggio ben si adatta alle storie bizzarre che ho deciso di raccontarti. Incomincio con una storiella alla greca. Attento, lettore, ti divertirai! Teoria della relatività La Teoria della Relatività è una teoria fisica sul passaggio tra due sistemi di riferimento in moto relativo. L'idea di fondo è che due osservatori che si muovono in moto relativo misurano differenti tempi e spazi per lo stesso evento, ma il contenuto delle loro osservazioni è lo stesso. Teoria galileiana Nata con la fisica classica, dal punto di vista matematico è rappresentata da un sistema di equazioni che legano le coordinate di un sistema con quelle di un secondo che si muove con velocità v rispetto ad esso. Le trasformazioni classiche consistono in: relatività galileiana, relatività di Galileo-Newton e trasformazioni di Galileo. Tuttavia le teorie galileiane non si applicavano compiutamente a tutti i campi della fisica, ad esempio non erano valida per l'elettromagnetismo. Secondo il fisico Leonardo Ricci, la relatività galileiana era già nota prima della sua formulazione, almeno nei principi generali. A sostegno della sua ipotesi, Ricci porta niente meno che Dante. Nel canto XVII dell'Inferno, e precisamenti nei versi 115-117, il Vate scrive: "Ella sen va notando lenta lenta; rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta" In un articolo pubblicato su Nature nel 2005, Ricci ci fa notare come Dante fosse ben consapevole della visione scientifica del mondo suo contemporaneo: senza di essa non avrebbe potuto scrivere la sua opera. Di passaggio, Ricci rileva che fu proprio Galileo, profondo conoscitore della Commedia, a fornire una prima stima del diametro del girone, in circa 60 km. Galilei si basò su due indicazioni precise (verso 9 del canto XXIX e ai versi 86-87 del canto XXX). Aggiunge Ricci: «Un fisico contemporaneo può dimostrare che, date queste dimensioni e qualunque sia la velocità, la forza fittizia centrifuga avvertita dal passeggero risulterebbe molto più piccola della forza superficiale dovuta al vento apparente: nessuna forza di questo genere è menzionata nella narrazione. Benché un simile ragionamento vada oltre quelle che erano le conoscenze fisiche del medioevo, Dante aveva tuttavia intuito come il suo moto fosse di fatto rettilineo: egli stesso ne indica la direzione, scomponendo il vettore che descrive il vento apparente nelle due componenti orizzontale ("al viso") e verticale ("di sotto")». Relatività in Einstein Con Albert Einstein, la teoria della relatività ebbe un ulteriore sviluppo e oggi si tende ad associare a tale teoria il nome del fisico tedesco, dimenticandosi, spesso, delle radici del problema. La sua teoria, comunque, si compone di due distinti modelli matematici, che passano sotto il nome di: • • Relatività Ristretta Relatività Generale Relatività ristretta La teoria della relatività speciale fu pubblicata nel 1905, allo scopo di rendere compatibili tra di loro la meccanica e l'elettromagnetismo per trasformazioni del sistema di riferimento. L'aggettivo speciale si riferisce al fatto che vengono considerate trasformazioni solo tra sistemi di riferimento inerziali, escludendo quindi i sistemi accelerati, come per esempio, quelli sotto l'azione della forza gravitazionale. Spazio e tempo assoluti La legge di inerzia richiede la definizione di un sistema di riferimento nel quale sia valida. Allo stesso modo deve essere definito lo scorrere del tempo, necessario per misurare la velocità di un corpo in tale sistema. Isaac Newton, scartata la possibilità di un riferimento empirico, che sarebbe stato pur sempre un'approssimazione, postulò l'esistenza di uno spazio ed un tempo assoluti, che esistono indipendentemente da ogni oggetto esterno. Grazie a queste due entità astratte, le leggi della meccanica classica mantenevano la loro validità. Esperimenti cruciali Dovevano quindi esistere esperimenti di EM in grado di mostrare lo stato di moto del sistema di riferimento rispetto all'etere, assoluto (infatti le equazioni di Maxwell dovevano valere solo nell'etere!). Ma l'esperimento di Michelson-Morley mostrò che al limite dell'errore di misura, la velocità del nostro riferimento terrestre era nulla rispetto all'etere, anche ripetendo l'esperimento 6 mesi dopo, con la Terra in moto in direzione opposta. La possibilità che l'etere fosse trascinato dalla Terra (e quindi si ottenesse per questo velocità nulla) non resse all'effetto dell'aberrazione delle stelle fisse. La prospettiva di modificare le equazioni di Maxwell per renderle invarianti non funzionò, perché Louis Fizeau mostrò che queste fornivano risultati in disaccordo con l'esperimento di trascinamento della luce nell'acqua in movimento: la composizione delle velocità non veniva rispettata dalla luce. Era allora chiaro che la teoria dell'EM era corretta, le misure di EM non potevano mostrare alcuna velocità rispetto all'etere. Allora occorreva trovare delle nuove trasformazioni con le quali sostituire quelle di Galileo e di conseguenza modificare tutta la meccanica classica per renderla invariante rispetto a queste nuove trasformazioni. • • La strada era lunga ma concettualmente semplice. Per questo motivo, Einstein non considerò mai la relatività speciale come un punto d'onore: disse invece che chiunque vi sarebbe prima o poi giunto, solo considerando le evidenze sperimentali. Il titolo originale del lavoro di Einstein avrebbe dovuto essere teoria degli invarianti, proprio a sottolineare la ricerca di equazioni che non cambiavano forma nel passaggio tra sistemi diversi. Fu Max Plank a suggerire la parola relatività, per indicare la trasformazione delle leggi fisiche tra osservatori in moto relativo tra loro. Postulati della Relatività speciale Einstein per la sua definizione partiva da due postulati: • • Primo postulato (principio di relatività): tutte le leggi fisiche sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali; Secondo Postulato (invarianza della luce): la velocità della luce ha lo stesso valore in tutti i sistemi di riferimento inerziali, indipendentemente dalla velocità dell’osservatore o dalla velocità della sorgente di luce. Il primo postulato è un’estensione di quello di Galilei. Il secondo postulato è richiesto dal primo e generalizza l'osservazione che tutte le oscillazioni meccaniche (onde acustiche, onde sull’acqua, onde su una corda) si propagano con una velocità che dipende solamente dalla caratteristiche del mezzo che le supporta e non dalla velocità con cui la sorgente dell’eccitazione si muove rispetto a tale mezzo. Questo non avviene per la luce in quanto lo spazio, rimosso l’etere inutile, è omogeneo e isotropo. Quindi non c’è bisogno di misurare l'etere e non esiste un sistema assoluto. Punto di partenza e prime conseguenze Questo significa anche la fine del concetto di etere, non solo come mezzo che trasmette la luce (sostituito dal campo EM), ma anche come riferimento assoluto: se ogni osservatore inerziale può dire a ragione di essere fermo rispetto all'etere, cade definitivamente il concetto di spazio assoluto. Ma anche il concetto di simultaneità perde la sua assolutezza; infatti, se la velocità della luce è finita ed è la stessa per ogni osservatore, due eventi simultanei in un sistema inerziale non lo sono più se osservati da un altro sistema. Se la luce emessa da due lampadine equidistanti da un osservatore O, lo raggiungerà allo stesso istante, allora O considererà i due eventi come simultanei. Ma un osservatore O' in moto con velocità v rispetto ad O, vedrà accendersi prima la lampadina verso cui si sta muovendo, essendo minore la distanza che la luce deve percorrere; solo dopo, vedrà accendersi l'altra lampadina. La simultaneità tra eventi viene quindi a dipendere dal sistema inerziale da cui si osserva. Le nuove trasformazioni Le trasformazioni che rendono invarianti le equazioni di Maxwell, sono indicate con l'espressione trasformazioni di Lorentz (TL) e si ottengono in modo concettualmente semplice applicando la costanza della velocità della luce. Rimandando alla voce specifica per i dettagli, è importante comunque osservare che: • le TL non trattano separatamente il tempo e lo spazio, ma che questi vengono invece correlati tra loro; • tali nuovi effetti dipendono da un termine β definito come β2 = v2 / c2 che diventa trascurabile per velocità non confrontabili con quelle della luce; o Viene anche definito per comodità il termine • al limite di piccole velocità, le TL si riducono alle già note di Galileo, spiegando perché negli esperimenti di meccanica classica non si possano misurare differenze. Come diretta conseguenza, le TL portano a due importanti modifiche, poiché introducono il concetto di relatività in grandezze normalmente considerate assolute: • Contrazione delle lunghezze o La lunghezza L di un corpo in movimento non è invariante, ma subisce una contrazione nella direzione del moto, data dalla formula La lunghezza massima del corpo L0 è misurata nel sistema in cui il corpo è in quiete e viene chiamata lunghezza propria. Dilatazione dei tempi o L'intervallo di tempo Δt tra due eventi non è invariante, ma subisce una dilatazione se misurato da un orologio in moto rispetto agli eventi. Tale dilatazione è data dalla formula o • La durata minima dell'intervallo di tempo è misurata da un orologio solidale con gli eventi; tale intervallo Δt0 viene chiamato tempo proprio. Si noti come in entrambi i casi le formule si riducano all'uguaglianza per velocità piccole rispetto a c. Si noti come questo limite, chiamato limite classico, possa essere concettualmente ottenuto sia per v piccolo che per c→∞; infatti, una velocità infinita della luce, significa poter stabilire una simultaneità assoluta e quindi un ritorno alla visione classica. Il limite classico è una condizione necessaria della teoria, poiché per piccoli valori di β gli effetti relativistici non devono essere misurabili, per rendere conto dell'ottimo accordo sperimentale della visione classica. o • Note • Nessun corpo può assumere velocità uguali o superiori a c; le trasformazioni di Lorentz per v ≥ c non sono definite (i valori sotto radice diventano nulli o negativi). Il valore nullo non è accettabile, in quanto compare nel denominatore delle formule: un corpo può essere accelerato in tempo finito solo ad una frazione della velocità della luce minore di 1. I corpi senza massa materiale, come i fotoni stessi, viaggiano sin dalla loro emissione alla velocità della luce. Eventuali • • particelle più veloci della luce (dette tachioni) non potrebbero invece rallentare al di sotto della velocità della luce. La contrazione delle lunghezze non deve essere vista come se il metro variasse la sua dimensione o come se l'orologio segnasse un tempo diverso. Le misure infatti saranno differenti solo se effettuate da un altro osservatore in moto relativo: la lunghezza del proprio metro e la durata del proprio minuto è la stessa per tutti gli osservatori. o La teoria ammette questi effetti come conseguenza della peculiarità di c e del moto relativo e quindi come conseguenza del nostro modo di guardare le cose. La lunghezza propria è la più grande fra tutte le lunghezze relative ai punti di vista, ma non per questo è più reale delle altre. Sarebbe come notare che più lontani siamo da un oggetto e più piccolo questo ci sembra: niente ci può dire se l'oggetto si rimpicciolisce veramente o se sia un effetto della distanza. Non ha quindi senso domandarsi se si tratti di un fenomeno reale o apparente. Le trasformazioni di Lorentz trattano il tempo alla stregua di una qualunque coordinata spaziale; dato che un evento può essere sempre individuato tramite la sua posizione nello spazio e lungo l'asse temporale, il formalismo relativistico può essere formulato in uno spazio a 4 dimensioni (spazio-tempo) di Minkowsky, nel quale le prime 3 coordinate coincidono con le normali coordinate spaziali e la 4 è rappresentata dal tempo. Un evento è individuato quindi dai 4 numeri (r, ct) = (x, y, z, ct). Paradossi Sono indicati come paradossi relativistici alcuni ipotetici esperimenti che sembrano portare a due soluzioni incompatibili tra loro. Vengono usualmente risolti individuando dove la meccanica relativistica si scosta da quella classica ed applicando la costanza di c e le sue conseguenze. Vedere la corrispondente voce per alcuni esempi, tra i quali il celeberrimo paradosso dei gemelli. Cinematica relativistica Tutto la meccanica classica venne modificata per renderla invariante per trasformazioni di Lorentz, ottenendo risultati diversi dalla visione classica; è comunque sempre valido il limite classico. Di seguito sono riportati due casi notevoli, ottenuti sempre applicando le trasformazioni di Lorentz. • Legge di trasformazione degli angoli o Si ricava che la nozione di parallelismo tra due rette è invariante, mentre non lo è quella di perpendicolarità. L'angolo tra due vettori è invariante solo se si trovano entrambi in un piano perpendicolare alla velocità relativa tra i due osservatori. • Legge di trasformazione delle velocità o Dati un sistema inerziale (1) ed un altro (2) in moto rispetto ad esso; se un corpo si muove con un una certa velocità rispetto a (2), tale velocità e quella del riferimento (2) si compongono per dare una velocità rispetto a (1), che non è la semplice somma come nel caso classico. La composizione è tale che in qualunque caso la velocità risultante non può superare c. Dinamica relativistica Basandosi sul fatto che per velocità piccole la dinamica di Newton fornisce risultati corretti, si può supporre che valgano anche in relatività le stesse grandezze, anche se è chiaro che già la legge di inerzia deve in qualche modo essere diversa, perché altrimenti sarebbe possibile accelerare un corpo oltre la velocità della luce. Come punto di partenza si può considerare la quantità di moto ed esaminare un caso semplice, che possa essere risolto con considerazioni di simmetria, che ci aspettiamo debbano valere anche le caso relativistico; p.es. un caso di urto elastico, nel quale si può imporre la conservazione della quantità di moto. • Massa e quantità di moto • • • Si trova che la massa non è invariante, ma dipende dalla velocità del proprio sistema: m = m0 ⋅ γ Quindi occorre sempre più forza per accelerare un corpo; la velocità della luce non può essere raggiunta, poiché occorrerebbe una forza infinita. La relazione tra le misure della massa in due sistemi inerziali diversi è data da: m' = γ(m - v⋅p/c2) mentre quella della quantità di moto è: p'= p + v((γ-1)v⋅p/v2 - mγ) • Legge di inerzia 2 • La legge F = m a nel caso relativistico diventa: m a = F - (F⋅u)u/c • Energia o Da considerazioni sul lavoro, si dimostra che ad ogni energia E è associata una massa inerziale pari a E/c2, che contribuisce alla massa relativistica totale del punto materiale. In altre parole, se forniamo energia ad un corpo, è come se aggiungessimo massa. o Applicando considerazioni di simmetria, si trova inoltre che l'energia di un corpo a riposo non è nulla, ma è data da 2 o E0 = m0 c o che può essere vista come l'energia associata al corpo, per il solo motivo di avere massa. Se invece il corpo è in movimento, l'energia, che comprenderà anche quella cinetica, è: 2 o E = γmc o Per piccole velocità, questa formula può essere espressa mediante un termine che descrive l'energia cinetica ed uno relativo alla massa a riposo. Evidenze sperimentali La teoria della relatività speciale è oggi universalmente accettata. Gli effetti sulle lunghezze e sugli intervalli di tempo sono normalmente osservati sia in natura che nei laboratori dove particelle elementari sono accelerate a velocità vicine a quelle della luce. Una prima conferma provenne dalla maggiore vita media dei pioni generati dai raggi cosmici: questi pioni si trovano anche a livello del mare quando, considerata la loro vita media, dovrebbero decadere entro pochi metri dalla loro generazione nell'alta atmosfera. L'equivalenza tra massa ed energia è confermata dal difetto di massa: due particelle legate tra loro hanno una massa totale minore della somma delle stesse particelle libere; la differenza di massa è contenuta nell'energia di legame. Note finali Venne osservato che le formule della relatività ristretta impediscono ad un corpo di raggiungere la velocità della luce, ma non vietano l'esistenza di particelle che viaggino sempre a velocità superiori a c, senza mai scendervi sotto: i cosiddetti tachioni. Pur essendo un'interpretazione interessante, al momento non c'è alcuna evidenza sperimentale di simili particelle. Anche se la relatività ristretta è normalmente considerata corretta, vi sono pochi scienziati che ancora oggi sperimentano vie alternative, normalmente basate sull'etere. Relatività generale La teoria della relatività generale fu pubblicata nel 1915. Al momento resta l'unica teoria della gravitazione che sia stata confermata dagli esperimenti attuali; la gravitazione viene interpretata come effetto locale della geometria dello spazio tempo sotto l'azione di una massa o energia, che per la relatività ristretta si equivalgono. Come disse lo stesso Einstein, fu il lavoro più difficile della sua carriera di teorico a causa delle difficoltà matematiche da superare, poiché si trattava di far convergere concetti di geometria euclidea in uno spazio che poteva non esserlo. Le basi matematiche erano state esplorate in precedenza dal lavoro di Lobachevsky, Bolyai e Gauss, che avevano dimostrato la non necessarietà del quinto postulato di Euclide (due rette parallele restano sempre equidistanti), mentre il formalismo per uno spazio non-euclideo era stato sviluppato da Riemann, studente di Gauss. Tale formalismo era stato messo da parte come non applicabile alla realtà, fino all'introduzione appunto della relatività generale. Riflessioni iniziali e Relatività Speciale Uno dei motivi che spinsero Einstein ad indagare in questa direzione fu una questione di simmetria: la relatività ristretta aveva stabilito l'uguaglianza di tutti i sistemi inerziali, lasciando fuori i sistemi accelerati, che presentano forze ben individuabili con un qualunque esperimento. Questo poneva tali sistemi su una posizione privilegiata, diversa rispetto agli inerziali, cosa che sembrava non corretta per Einstein. In più, la relatività ristretta aveva mostrato che lo spazio ed il tempo devono essere trattati insieme se si vogliono ottenere risultati coerenti; il tempo era diventato una coordinata come le altre 3 e ad impedire certi movimenti in questo spazio a 4 dimensioni c'è solo il principio di causalità. Una riflessione (ascensore di Einstein): su un ascensore in caduta libera, senza possibilità di vedere all'esterno, un'osservatore supporrebbe di essere in assenza di gravità; per provarlo, egli lascia cadere una moneta ed osserva che la moneta resta alla stessa altezza nella cabina. Questo porterebbe allora a dire che un sistema in caduta libera (cioè in un campo gravitazionale) è indistinguibile (almeno per un certo periodo) da un altro non sottoposto ad alcuna forza. D'altra parte, quando l'ascensore è fermo, l'osservatore sente una normale forza di gravità (e la moneta cade); non appena l'ascensore inizia a cadere, la moneta resta a mezz'aria: in questo caso l'osservatore può pensare che sia comparso all'improvviso un campo gravitazionale dalla direzione del soffitto, che bilancia esattamente quello di partenza; di nuovo non può decidere quale dei due casi sia quello vero. Quindi i sistemi accelerati non dovevano essere così eccezionali. Da questi presupposti, Einstein cercò quindi di costruire una visione della realtà parallela a quella della legge d'inerzia: mentre in quel caso un corpo si muove, non accelerato, lungo una retta se non viene sottoposto a forze, in questo caso un corpo sottoposto alla sola gravità si muove lungo una traiettoria che, nello spazio-tempo deformato, corrisponde ad una retta. La curvatura dello spazio-tempo La teoria afferma infatti che lo spazio-tempo viene più o meno curvato dalla presenza di una massa; un'altra massa più piccola si muove allora come effetto di tale curvatura. Spesso, si raffigura la situazione come una palla che deforma il piano del biliardo con il suo peso, mentre un'altra pallina viene accelerata da questa deformazione del piano ed in pratica attratta dalla prima. Questa è solo una semplificazione alle dimensioni raffigurabili, in quanto ad essere deformato è lo spazio-tempo e non solo le dimensioni spaziali, cosa impossibile da raffigurare e difficile da concepire. L'unica situazione che riusciamo a raffigurare correttamente, è quella di un universo a 1 dimensione spaziale ed una temporale. Un qualunque punto materiale è rappresentato da una linea (linea di universo), non da un punto, che fornisce la sua posizione per ogni istante: il fatto che sia fermo o in moto farà solo cambiare l'inclinazione di questa retta. Ora pensiamo di curvare tale universo usando la terza dimensione: quello che prima era la retta che descriveva un punto, ora è diventata una superficie. Su una superficie curva non vale la geometria euclidea, in particolare è possibile tracciare un triangolo i cui angoli sommati non forniscono 180° ed è anche possibile procedere sempre nella stessa direzione, ritornando dopo un certo tempo al punto di partenza. Descrizione della gravitazione Ogni particella di materia si muove a velocità costante lungo una curva, chiamata geodetica che in ogni momento (cioé localmente) può essere considerata retta. La sua velocità è data dal rapporto tra la distanza spaziale percorsa ed il tempo proprio, dove il tempo proprio è quello misurato nel riferimento della particella, mentre la distanza spaziale dipende dalla metrica che definisce la struttura dello spazio-tempo. La curvatura determina l'effettiva forma delle geodetiche e quindi il cammino che un corpo segue nel tempo. In altre parole, un corpo si muove nello spazio-tempo sempre lungo una geodetica, allo stesso modo in cui nella meccanica classica un corpo non sottoposto a forze si muove lungo una retta. Se la struttura dello spazio-tempo in quel punto è piatta, la geodetica sarà proprio una retta, altrimenti assumerà forme diverse, ma il corpo la seguirà comunque. In questo modo, la gravità viene ad essere inglobata nella struttura dello spazio-tempo. Ancora una volta, è da notare che tale curvatura è applicata non solo alle coordinate spaziali, ma anche a quella temporale; questo porta a notevoli difficoltà pratica nel tentare di immagine una simile superficie a 4 dimensioni. Fondamenti della teoria In presenza di sistemi accelerati (o, che è lo stesso, sistemi sotto l'influenza della gravità), si possono definire come inerziali solo zone locali di riferimenti e per brevi periodi. Questo corrisponde ad approssimare con un piano ciò che sarebbe curvo su larga scala). In tali situazioni valgono ancora le leggi di Newton. Ora il principio di equivalenza afferma che non esiste un esperimento locale per distinguere tra una caduta libera in un campo gravitazionale ed un moto uniforme in assenza di campo (ascensore di Einstein) Matematicamente, Einstein descrive lo spazio-tempo come uno pseudo-spazio di Riemann a 4 dimensioni; la sua equazione di campo lega la curvatura in punto al tensore energia in quel punto, essendo tale tensore dipendente dalla densità di materia ed energia. L'equazione di campo indicata da Einstein non è l'unica possibile, ma si distingue per la semplicità dell'accoppiamento tra materia/energia e curvatura. Conferme sperimentali Pur essendo stata formulata quasi un secolo fa, ancora oggi la relatività generale resta per molti un quadro piuttosto oscuro, che probabilmente ancora nessuno riesce a comprendere appieno, come affermò anche lo stesso Feynman. Ancora oggi si vengono proposti esperimenti per la conferma o meno di tale teoria, che al momento attuale ha sempre resistito, ottenendo anche qualche successo notevole. Sono indicati qui sotto solo i più importanti. La prima conferma si ebbe nel 1919, quando osservazioni di Arthur Eddington durante un'eclisse di Sole confermarono la visibilità di alcune stelle vicine al bordo solare, che in realtà avrebbero dovuto essere invisibili: i fotoni luminosi venivano deviati dal Sole, della quantità prevista dalle equazioni. È relativamente recente la scoperta indiretta dell'esistenza dei buchi neri, oggetti pesanti e compatti, dalla cui superficie non può sfuggire (quasi) nulla, essendo la velocità di fuga superiore a quella della luce. Quasi nulla in quanto il fisico Stephen Hawking ha dimostrato che i buchi neri evaporano perdendo particelle, per lo più fotoni, tanto più velocemente quanto più piccola è la massa del buco nero. Sono recentemente in atto alcuni esperimenti per la registrazione di onde gravitazionali, anch'esse previste dalla teoria: tali onde si svilupperebbero quando due corpi con un enorme campo gravitazionale orbitano a distanza ravvicinata l'uno con l'altro. Uno dei più grandi rilevatori è il progetto VIRGO, situato a Cascina, vicino Pisa. Un'altro risultato che confermerebbe la teoria è il cosiddetto frame dragging, ossia il trascinamento del sistema di riferimento da parte di masse in rotazione: oltra alla sonda Gravity Probe B della NASA, un articolo di ricercatori dell'Università di Lecce e del Maryland hanno utilizzato i dati delle orbite di alcuni satelliti, confermando entro l'errrore dell'un percento le previsioni della teoria. Nel 2004, alcuni ricercatori della Cornell University hanno provato a simulare una diversa costante gravitazionale per fermioni e bosoni, e hanno rilevato che questa ipotesi sembra essere in accordo con l'abbondanza relativa dell'elio nell'universo primordiale. Paradosso dei gemelli Consideriamo un'astronave che parta dalla Terra nell'anno 3000, diretta a Wolf 359, distante 8 anni luce dal nostro pianeta. Supponiamo che l'astronave viaggi alla velocità V di 240.000 km/sec, cioè V = 0,8 c; con queste premesse il tempo necessario per il viaggio è 10 anni nel sistema di riferimento della Terra. Sull'astronave, il tempo viaggia più lentamente , cioè al 60%, del tempo della Terra. Quindi il tempo per il viaggio sull'astronave sarà di 6 anni. Volutamente, nei calcoli trascuriamo per semplicità l'accelerazione e la decelerazione della navetta, anche se per portarsi a velocità relativistiche in tempi brevi, occorrono accelerazioni che spappolerebbero letteralmente l'astronave e l'astronauta. Ma questa è un'altra storia... Se l'astronauta parte dalla terra nell'anno 3000, arriverà sulla stella nell'anno 3010 (tempo della Terra), mentre l'orologio dell'astronauta segna l'anno 3006 (per lui il tempo si è contratto). Però la luce che arriva dalla stella risale all'anno 3002 (la distanza tra Terra e Wolf 359 è di 8 anni luce). Quindi, sommando dilatazione temporale ed effetto Doppler, il tempo sulla Terra scorre ad un terzo di quello sulla nave, 2 anni contro 6. Considerando il tempo della terra, la nave arriva nell'anno 3010, ma la si vedrà giungere sulla stella solo nel 3018 (8 anni più tardi), mentre sulla nave l'orologio all'arrivo segna il 3006. Quindi anche l'osservatore sulla terra vedrà l'orologio andare ad un terzo della velocità: 6 anni contro 18. Ora, per il ritorno, occorrono altri 10 anni tempo della Terra, quindi partendo nell'anno 3010 della Terra arriverà nell'anno 3020. Quindi, per il viaggio di ritorno, dalla Terra sembrano necessari 2 anni (partenza 3018 e arrivo nel 3020), mentre sulla nave ne trascorrono 6. Quindi il tempo sembra andare tre volte più veloce sulla nave che sulla Terra. Per l'astronauta, mentre all'inizio del viaggio un orologio sulla Terra segna l'anno 3002, all'arrivo segna l'anno 3020, quindi 18 anni, tre volte più velocemente sulla terra rispetto alla nave. Questo è il risultato della somma dell'effetto doppler e della dilatazione temporale, facendo in modo che ognuno veda il tempo dell'altro accelerato o rallentato dello stesso fattore. Ora però cosa rende differenti i due sistemi? Se per l'astronauta sembra essere la terra che si allontana a 0.8 c, lo stesso vale per la terra. A chi va applicato il principio di dilatazione temporale? Chi viaggia? Relativamente parlando chi sta sulla Terra potrebbe dire "io ho viaggiato rispetto all'astronave" ed è qui che nasce il paradosso. Perché si calcola il tempo dilatato per l'astronauta e non per la terra? Semplice: il principio si applica a chi varia la sua velocità, cioè a chi accelera. Visto che è l'astronave ad effettuare manovre, è l'astronave che non si trova sempre in un sistema di riferimento inerziale, e sarà lei a subire gli effetti relativistici. Un'ultima nota: se l'astronauta viaggia a 0.8 c, ed impiega 6 anni per giungere alla stella, allora nel suo sistema di riferimeno la stella dista 4,8 anni luce. Cioè, la distanza si contrae dello stesso fattore di rallentamento del tempo, 0,6. Sembrerebbe esserci un paradosso ma il paradosso è solo apparente. Infatti la relatività ristretta può essere applicata solo se gli osservatori si muovono sempre a velocità costante uno rispetto all’altro, ma in questo caso non è così: l’astronave del gemello che va nello spazio infatti per tornare indietro deve decelerare e poi di nuovo accelerare. In questo arco di tempo la teoria della relatività ristretta di Einstein non si può applicare. Aberrazione della luce Quando noi osserviamo una stella, la direzione secondo cui la vediamo non è quella effettiva, data dalla congiungente il punto di osservazione con la stella, ma è solo una direzione apparente. Il fenomeno dell'aberrazione della luce si deve al fatto che gli oggetti astronomici che osserviamo sono generalmente in moto rispetto al nostro telescopio (oppure, copernicanamente, siamo noi in moto rispetto a loro). Per questo, noi vediamo i raggi di luce provenire da una direzione differente rispetto a quella che misureremmo se fossimo fermi. Questo fenomeno, che appare strano, è dovuto semplicemente alla legge di composizione delle velocità. Per chiarirlo, si può usare questa analogia: supponiamo di essere in movimento su una automobile (che corrisponde al nostro pianeta). Supponiamo poi che ci sia un'altra auto che si sta muovendo su una strada perpendicolare alla nostra (l'altra auto è nell'analogia il raggio di luce di un astro lontano). Se ora facciamo lo sforzo mentale di assumere che siamo noi ad essere fermi (e che quindi sia la strada a muoversi sotto di noi), abbiamo l'impressione che l'altra macchina non si stia muovendo perpendicolarmente a noi, ma che la sua direzione sia inclinata, e che si stia avvicinando. Un altro esempio: se guardiamo le traiettorie delle gocce di pioggia che cadono (verticalmente) da un finestrino di un treno in moto abbiamo l'impressione che cadano obliquamente. Lo stesso succede per i raggi di luce. Naturalmente l'entità di questo effetto è tanto più grande quanto maggiore è la velocità (relativa) tra i due oggetti. Quando si osserva una stella, la componente di velocità relativa più importante è la velocità orbitale della Terra attorno al Sole, che è di circa 30 km/s. Osservando la Luna, la velocità relativa tra Terra e Luna è molto minore, dell'ordine di 1 km/s, e di conseguenza l'effetto dell'aberrazione è molto meno sensibile. L'effetto dell'aberrazione è di modificare l'angolo misurato di una quantità grossomodo dell'ordine di v/c, dove v è la velocità dell'oggetto, e c quella della luce (pari a 300000 km/s). Ad esempio, l'aberrazione angolare per la Luna è di circa 0.7 secondi d'arco (da confrontarsi con la dimensione angolare della Luna, pari a 0.5 gradi, cioè 1800 secondi d'arco). Le aberrazioni dovute al moto della Terra attorno al Sole sono più sensibili, precisamente 30 volte maggiori. Luminosità corpi celesti Con il termine magnitudine si intende la misura della quantità di luce che ci arriva da un corpo celeste (stelle, galassie, nebulose...). Questa quantità di luce dipende da molti fattori come la distanza dell'astro in questione, la sua grandezza e la sua temperatura. Guardando il cielo si vede subito che alcune stelle sono più luminose di altre. Inoltre la luce che la stella emette, durante il tragitto fino alla Terra, deve attraversare una quantità di materia interstellare che ne assorbe una parte (assorbimento interstellare); la stessa atmosfera terrestre contribuisce a questo assorbimento. Per cui una stella che magari è più luminosa ma più lontana di un'altra, ci appare più debole. Sorge allora la necessità di avere un metro valido in generale per misurare la luminosità di un astro. La magnitudine (luminosità) si distingue in: a) magnitudine apparente: la dicitura apparente è dovuta al fatto che ci si riferisce alle luminosità delle stelle così come appaiono viste dalla superficie terrestre. In realtà questa scala non ci permette di classificare e quindi confrontare correttamente le stelle tra di loro, in quanto non tiene conto né elle dimensioni effettive dell’astro né della sua distanza dalla Terra; b) magnitudine assoluta: è la luminosità effettiva e reale della stella. Si è deciso di costituire un sistema di magnitudini assolute in cui si misura la luminosità che avrebbero gli astri se fossero tutti alla distanza (arbitraria) di 10 Parsec dalla Terra. Il legame tra la magnitudine relativa ( m ) a quella assoluta ( M ) è dato dalla seguente relazione: m =d M dove d è la distanza della stella in Parsec. Se si conosce la distanza di una stella se ne può determinare la magnitudine assoluta; viceversa se si conosce la magnitudine assoluta si può risalire alla distanza, e questo è quello che ci permettono di fare le variabili cefeidi. La scala delle grandezze è progressiva all’incontrario, cioè più la massa della stella è grande e meno sarà luminosa la stella. Geometrie non euclidee .. sappiamo che se andiamo oltre questa stanza e guardiamo molto più lontano, il modello euclideo non funziona più. E' adatto per un numero ristretto di casi, ma non va bene in altre situazioni. Allora, cosa fanno i fisici? Cercano di scoprire quali modelli siano adatti. Ma a un matematico, voglio dire a un matematico puro, non importa se i modelli da lui immaginati possano essere applicati o no. Un matematico puro costruisce dei bei modelli, geometrici, e non si cura se tali modelli possano essere usati per descrivere l'universo oppure no. L'importante è che siano belli. Serge Lang, 1985 Le geometrie non-euclidee nascono dal tentativo di dimostrare, per assurdo, il V Postulato di Euclide. Quest'ultimo ha rappresentato, nel corso dei secoli, un grosso scoglio filosofico alla evidente correttezza della geometria euclidea. Assiomi e postulati, infatti, non valgono solo come punto di partenza per la deduzione formale, ma anche come principi veri di per sé, che garantiscono il contenuto della scienza che viene edificata a partire da essi proprio con la loro evidenza. Il V postulato suscitò diverse perplessità circa la sua evidenza che dovevano aver tormentato lo stesso Euclide. Nessun teorema fino al teorema 29, infatti, dipende da esso, mentre tutti i teoremi successivi (escluso il 31) sì; questo fa sospettare che Euclide abbia cercato di differire l'uso del V postulato il più a lungo possibile. Ci sono inoltre dei teoremi che egli dimostra senza ricorrere al V postulato, nonostante la dimostrazione sarebbe stata più semplice con l'introduzione di esso. Si direbbe dunque che Euclide abbia cercato di ottenere il maggior numero di proposizioni senza utilizzare il V postulato. Per spiegare questo modo di procedere potremmo ipotizzare che Euclide abbia cercato di dimostrare il V postulato partendo dai primi quattro per ottenerlo come teorema. Non giungendo però alla dimostrazione, essendo tuttavia convinto della verità di tale proposizione, la inserì fra i postulati. Dunque il primo uomo a sfidare Euclide fu Euclide stesso! Se sono date due rette r ed s che formano con la trasversale t angoli la cui somma è "piccola", è evidente che le rette si incontrano in un punto P, come richiesto dal V postulato. Se si mantengono fisse t ed s e si fa ruotare r in senso antiorario intorno a B, il postulato afferma che r continuerà ad incontrare s finchè α + β < 2 retti. Possiamo però notare che, al ruotare di r, il punto P si allontana sempre di più da A su s, cessando di essere osservabile. Quindi non è possibile verificare che la retta r non abbia più un punto in comune con s quando α + β = 2 retti. Il diverso grado di evidenza del V postulato può essere rilevato in modo ancora più convincente se si fa riferimento ad un'altra sua possibile formulazione: dati in un piano una retta e un punto fuori di essa, esiste nel piano una sola retta passante per il punto e parallela alla retta data. Questa proposizione, ad esempio, risulta falsa in un universo di dimensioni finite. Immaginiamo infatti che il piano contenente r e P sia limitato alla zona interna ad un cerchio, si vede immediatamente che vi sono molte rette passanti per P che non incontrano r, contro la nuova formulazione del V postulato. All'aumentare del raggio del cerchio, diminuisce la quantità di rette passanti per P che non incontrano r, ma esse restano sempre in numero infinito. Cosa ci assicura che questa situazione non sussista più quando il piano è illimitato? La verità del V postulato non è affatto immediata! Euclide non riuscì a dimostrare il V postulato e a depennarlo dalle proposizioni primitive, da allora, per più di 20 secoli, tutta la matematica occidentale cercherà di farlo. Le possibilità sono evidentemente le tre seguenti: - scelto P fuori di r non esistono parallele per P a r, in altri termini tutte le rette per P intersecano r (geometria ellittica riemaniana sulla sfera); - ottenere una dimostrazione del V postulato a partire dagli altri e dalle proposizioni da essi dedotte; - esistono più rette per P che non intersecano r (geometria iperbolica: piano di Klein). La geometria di Riemann Negando il V postulato euclideo si può ammettere che per un punto esterno ad una retta passino, nel piano, almeno due rette che non la incontrano, ma anche che per il punto non passi alcuna retta che non incontra la retta data. La prima ipotesi porta a sviluppare la geometria iperbolica, la seconda introduce un sistema in cui non esistono rette parallele: la geometria introdotta da Riemann. Assioma Di Riemann: Due rette qualsiasi di un piano hanno sempre almeno un punto in comune. Geometria sferica e geometria ellittica Dall'introduzione dell'assioma di Riemann si possono ottenere, a seconda delle modifiche apportate agli assiomi, due geometrie: una detta sferica ed una detta ellittica. Partendo dall' ipotesi che due rette in un piano hanno sempre almeno un punto in comune e che quindi in un piano non si può condurre (nel senso euclideo del termine) una retta parallela ad un'altra, per un punto ad essa esterno, si può arrivare a dimostrare che tutte le perpendicolari ad una retta r da una stessa parte di essa, passano per un punto P, equidistante da ogni punto di r. Se immaginiamo, poi, tutte le rette della parte opposta, possiamo notare che queste si incontrano tutte in un punto P', con le stesse caratteristiche di P. Al problema di sapere se P ed P' coincidono possiamo dare due risposte: - P e P' non coincidono, ma sono due punti distinti: due rette hanno perciò sempre due punti in comune e si intersecano in una coppia di punti distinti: questo sistema viene chiamato Geometria sferica, ed è assimilabile alla geometria euclidea della sfera se per "rette" assumiamo le circonferenze massime. - P e P' coincidono: due rette si incontrano in un solo punto e due punti distinti individuano una sola retta: questo secondo sistema viene chiamato Geometria ellittica. C'è uno stretto legame fra le due, e se ci si limita a considerazioni di carattere locale le due teorie coincidono. Descrizione delle caratteristiche principali della geometria sferica Pensiamo di dividere l'insieme dei punti del piano in coppie di punti, tali che ogni punto appartiene ad una sola coppia e i punti di ciascuna coppia sono distinti. Per due punti appartenenti a coppie distinte passa una sola retta, mentre per i due punti di una stessa coppia passano più rette. Definiamo antipodali due punti appartenenti ad una stessa coppia. In questa geometria le rette sono linee chiuse, due punti antipodali dividono la retta in due parti congruenti, e tutte le rette che passano per un punto dato passano anche per il suo antipodale. Vediamo alcune delle principali caratteristiche di questa geometria: - le rette sono linee chiuse - tutte le rette sono congruenti, hanno tutte la stessa lunghezza (finita) - per due punti passa almeno una retta, per coppie di punti antipodali ce ne possono essere infinite - tutte le rette che passano per un punto dato passano anche per il suo antipodale - la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180°, essa tende a 180° à quando l'area del triangolo tende a 0. Parleremo in questo caso di eccesso angolare (in contrapposizione al difetto angolare della geometria iperbolica), che sarà dato da α+β+γ180° . - non esistono triangoli o poligoni simili con aree differenti - due rette perpendicolari alla stessa retta si intersecano; tutte le perpendicolari alla stessa retta passano per due punti antipodali - due rette qualsiasi hanno un unica perpendicolare in comune - non esistono rettangoli - il teorema di Pitagora non vale, ma si avvicina al vero col tendere a zero dell'area del triangolo. Principali caratteristiche non euclidee della geometria sulla sfera Aiutandoci sempre con il modello sferico, immaginando dunque che il nostro ambiente geometrico non sia più il piano euclideo ma la superficie sferica S2, riesaminiamo rapidamente le principali caratteristiche non euclidee di questa nuova geometria. Teniamo presente che il piano e la superficie sferica sono ambienti bidimensionali, anche se la sfera in sé è un oggetto tridimensionale. - Le linee "rette" sulla superficie sferica sono le circonferenze massime, infatti, esse ci forniscono il percorso più breve tra due punti, non antipodali, di S2. (L'analogia tra le rette del piano euclideo e le rette della superficie sferica è molto forte: entrambe sono caratterizzate dal fatto di essere le linee più brevi, l'unica differenza è che per punti antipodali si perde l'unicità del percorso minimo!); - per due punti del piano euclideo passa una e una sola retta, lo stesso accade per due punti non antipodali di S2, ma per due punti antipodali passano infinite rette; - due rette euclidee hanno al più un punto in comune mentre due rette di S2 hanno sempre due punti in comune; - nel piano euclideo esistono rette parallele, mentre non esistono rette parallele (cioè rette che non si intersechino) in S2, ad esempio tutte le rette perpendicolari ad una retta data, che nel piano euclideo sono tutte parallele tra loro, in S2 si intersecano in una coppia di punti antipodali, detti in questo caso poli (si pensi alla superficie terrestre: i meridiani sono tutti perpendicolari all'equatore e si incontrano ai poli); - nel piano euclideo esiste una e una sola retta passante per un dato punto P e perpendicolare a una data retta, in S2 ciò è vero se e solo se P non è un polo per la retta; - le rette euclidee sono tutte infinitamente estese, mentre in S2 hanno tutte la stessa lunghezza finita; 2 - il piano euclideo è infinitamente esteso, mentre S ha area finita; - di tre punti qualsiasi di una retta euclidea, uno e uno solo sta tra gli altri due, la stessa cosa non si può dire per una retta di S2 trattandosi di una linea chiusa, quindi se due punti nel piano euclideo individuano un unico segmento, in S2 due punti individuano due segmenti. - altra differenza con la geometria euclidea è il fatto che la somma degli angoli di un triangolo in S2 è maggiore di due angoli retti. In figura è rappresentato il modello della geometria sferica, in cui il piano è rappresentato dalle coppie di punti antipodali, e dalle rette che sono i cerchi massimi. L'immagine mostra un triangolo con le tre altezze che si incontrano nei poli; misurando gli angoli del triangolo si trova che la loro somma è maggiore di 180°. La geometria ellittica e la fisica moderna A partire dalla pubblicazione del saggio di Riemann, vennero intraprese diverse ricerche nel campo della matematica pura e della fisica matematica che fanno uso del concetto di varietà. In particolare, si indagò sulla possibilità di estendere alcune discipline classiche della fisica matematica agli spazi a curvatura non nulla, nella speranza di trovare nuove soluzioni ai problemi rimasti irrisolti. La condizione indispensabile per queste ricerche era la necessità di esprimere le equazioni fondamentali della fisica matematica in una notazione generale che restasse valida per ogni tipo di spazio, euclideo e non. Da queste ricerche nasceva la nozione di tensore e di calcolo tensoriale elaborata da RicciCurbastro e Levi-Civita verso la fine del secolo. Intorno al 1912, Einstein si servì degli strumenti matematici elaborati da Gauss, Riemann, Levi-Civita e Ricci-Curbastro per elaborare la teoria della relatività generale. Nella conferenza di Kyoto del 1922, Einstein affermò: Se tutti i sistemi sono equivalenti allora la geometria euclidea non può valere in ciascuno di essi. Abbandonare la geometria e conservare le leggi fisiche è come descrivere i pensieri senza parole. Bisogna cercare le parole prima di poter esprimere i pensieri. Che cosa si doveva cercare a questo punto? Tale problema rimase insolubile per me fino al 1912, quando all'improvviso mi resi conto che la teoria di Gauss delle superfici forniva la chiave per svelare questo mistero. Compresi che le coordinate di una superficie di Gauss avevano un profondo significato. Non sapevo però a quell'epoca che Riemann aveva studiato i fondamenti della geometria in maniera ancora più profonda. [...] Mi resi conto che i fondamenti della geometria avevano un significato fisico. Quando da Praga tornai a Zurigo, vi trovai il matematico Grossmann, mio caro amico: da lui appresi le prime notizie sul lavoro di Ricci e in seguito su quello di Riemann. La geometria ellittica possiede un'interpretazione particolarmente importante nello spazio fisico, fornendo il quadro matematico per la teoria della relatività generale. Einstein nella sua teoria suppone che la curvatura dell'universo sia influenzata dalla massa degli oggetti contenuti. Più un oggetto è denso, maggiore sarà la curvatura e quindi in quel punto lo spazio sarà più "spigoloso". Nei pressi della Terra questo fenomeno non è osservabile, ma già lo spazio nei pressi del Sole è sufficientemente curvo da deviare leggermente i raggi delle stelle che lo attraversano. Il fenomeno che si osserva è un apparente spostamento delle stelle dalla loro consueta posizione. I corpi celesti più interessanti in questo campo sono i Buchi Neri, la cui origine è data da una stella massiccia che termina la sua vita in un corpo dalla densità e massa altissime, tali da trattenere la luce che emette. La teoria di Einstein prevede che lo spazio intorno ad un buco nero sia così deformato da provocare fenomeni molto strani. Per esempio, un raggio di luce che passasse alla distanza di una volta e mezzo il raggio dell'orizzonte degli eventi (limite oltre il quale nemmeno la luce può sfuggire) si fermerebbe su un'orbita intorno all'oggetto, se passasse più vicino formerebbe una curva molto stretta, simile ad una parabola, se passasse invece più lontano formerebbe una curva un po’ più larga. Si può notare che, se i raggi di luce rappresentano le rette, lo spazio intorno al buco nero è fortemente curvato, ed è descrivibile solo con una geometria non euclidea. Introduzione alla geometria iperbolica Uno dei postulati logicamente equivalenti al V è quello di Playfair, quindi una buona negazione del V può essere formulata come la negazione del postulato di Playfair. Ovvero: Esistono almeno un punto P ed una retta AB tali che i) P non è su AB né sul suo prolungamento ii) per P passano almeno 2 rette parallele ad AB Come è possibile che vi siano due parallele alla stessa retta passanti per lo stesso punto? Siamo abituati a pensare che, data AB ed il punto P, ci sia solo la retta CD come parallela alla prima. fig.1 Ma proviamo a pensare che ne esista una seconda: pensiamo ad una retta passante per P che non coincida con CD. fig.2 Diremmo che questa non possa essere parallela ad AB perché convinti che incontri AB in un certo punto prima o poi. Ma proviamo a prescindere dall'apparenza del disegno; possiamo dimostrare che il prolungamento di EF debba per forza incontrare AB? Teniamo presente che siamo in una geometria a cui abbiamo aggiunto la negazione del postulato di Playfair, non abbiamo più il teorema 30 di Euclide che ci dice che rette parallele ad una stessa retta sono parallele fra loro, quindi non deve disturbarci il fatto che nel nostro caso EF e CD, entrambe parallele ad AB, si incontrino in P. E ancora, non abbiamo più il postulato di Euclide che ci porterebbe a dire che, poiché PQB+QPF<180°, fig.3 le due rette AB e EF si incontrano. E potremmo andare avanti ancora, scontrandoci con asserzioni logicamente equivalenti al V postulato, e trovandoci a dover ogni volta ricordare che l'abbiamo negato. La verità è che nel disegno sembra talmente evidente che EF incontrerà AB che crediamo di poterlo dimostrare, ma significherebbe dimostrare che AB è l'unica parallela, ovvero dimostrare il postulato euclideo, problema che è stato spina nel fianco dei matematici per 2000 anni! Ai nostri occhi può sembrare che la negazione del postulato di Playfair sia "incompatibile con la natura di una linea retta", per dirla alla Saccheri, ma dobbiamo sforzarci di superare ed ingannare il consueto modo di pensare la geometria e non spaventarci dal fatto che la geometria iperbolica sfugge da ogni tentativo di rappresentazione intuitiva. Proviamo a passare da un sistema assiomatico materiale, o teoria scientifica, a un sistema assiomatico formale. E convinciamoci che un sistema matematico (sistema assiomatico formale) è sostanzialmente una pura struttura logica, alla quale si può annettere un significato o meno. Forse in questo modo la geometria iperbolica ci disarmerà un po' meno. Proviamo per un attimo a credere che le rette CD e EF siano entrambe parallele ad AB senza pretendere che questo abbia il significato che siamo soliti attribuire alla geometria che descrive il nostro mondo fisico. Disegniamo in questo modo le nostre rette: fig.4 Ora forse è più facile credere che EF non necessariamente incontrerà AB. Del resto possiamo accettare questo disegno poiché la geometria iperbolica è un sistema assiomatico formale e "linea retta" è un termine non definito e non possiamo realmente sapere come si comporti quando la prolunghiamo. Di EF sappiamo che è parallela ad AB e che non la incontrerà, effettivamente l'ultimo disegno tiene conto di questo e non ci costringe a dubitare. N.B. Con il disegno di fig.4 non intendo dire che nella geometria iperbolica le linee rette si incurvano. In realtà non sappiamo ancora come si comportino; "linea retta" è semplicemente un'espressione per indicare uno dei tipi di oggetti di cui la geometria iperbolica si occupa. E' importante capire che fig.4 offre una rappresentazione non meno valida di fig.2. Il modello di Poincaré Le geometrie non Euclidee possono essere rappresentate utilizzando modelli che si basano sulle ordinarie figure della geometria euclidea. Il modello di Poincaré è un modello di geometria iperbolica in cui l'idea di punto è simile a quanto conosciamo nella geometria di Euclide, mentre quella di retta è sostanzialmente diversa. La cosa comunque importante è costituita dal fatto che non vale il postulato delle parallele nella forma di Euclide. Consideriamo un cerchio, che indichiamo con ∑ di centro O e raggio r, e nella seguente tabella diamo la definizione degli enti utilizzati nel modello di Poincaré: Punto Punto interno a ∑ Diametro di ∑ o arco di circonferenza ortogonale a ∑ con estremi Retta su ∑ e interna ad esso Punto su una retta Punto che appartiene in senso euclideo alla retta Punto tra due Punto tra i due punti della retta punti di una retta ln(ABUV)| dove U e V sono i punti di ∑ che si trovano sulla retta Lunghezza di un passante per A e B. Nel birapporto (ABUV) i segmenti sono intesi in segmento AB senso euclideo usuale Ampiezza di un Ampiezza in radianti dell’angolo euclideo tra le semirette lati angolo dell’angolo Segmenti Segmenti di uguale lunghezza congruenti Angoli congruenti Angoli di uguale ampiezza Rappresentiamo gli enti così descritti attraverso il seguente modello grafico: Lunghezza di segmenti Per quanto riguarda la lunghezza dimostriamo che la definizione data ben si accorda con il concetto intuitivo di lunghezza e le proprietà relative. Infatti essa è sempre definita in quanto A e B sono interni al cerchio e quindi il birapporto, argomento del logaritmo, è sempre positivo. La lunghezza di un segmento è sempre positiva grazie all’uso del valore assoluto; nel caso in cui il punto A coincida con il punto B la lunghezza di AB è nulla. La lunghezza di AB è sempre uguale a quella di BA, grazie alle proprietà del birapporto, è additiva grazie alle proprietà del logaritmo. Nel caso in cui teniamo fisso il punto A e facciamo tendere il punto B al punto U, il birapporto (ABUV) tende all’infinito, così come il suo logaritmo. Perciò la lunghezza di AB tende all’infinito, il punto U, che non fa parte del nostro insieme di punti perché collocato sul bordo del cerchio, è infinitamente distante dai punti della retta. Analogamente per il punto V se facciamo tendere B a V. Simmetrie Nel modello di Poincaré è interessante analizzare il concetto di simmetria rispetto ad una retta, che abbiamo visto essere di due tipi, o un diametro o un arco di circonferenza ortogonale. Data una retta h del primo tipo (un diametro) per simmetria rispetto a h intendiamo l’ordinaria simmetria del piano euclideo, ad ogni punto P interno a ∑ associamo il punto P’ tale che h è asse di PP’. Data invece una retta h del secondo tipo (un arco di circonferenza) per simmetria rispetto ad h intendiamo l’inversione circolare che ha come cerchio di inversione il cerchio che contiene h come arco. Il cerchio ∑ è unito rispetto a tale inversione ed è immediato constatare che i punti interni di ∑ sono mutati in punti ∑ ed esterni al cerchio che interni a ∑ . Punti che sono nella parte di piano compresa tra ∑ e h sono mutati in punti interni a contiene h. Inoltre una simmetria muta rette in rette, infatti se s è una retta diametro o arco di circonferenza ortogonale a ∑ essa viene mutata in un cerchio che deve essere ortogonale a ∑, poiché nell’inversione circolare si conservano gli angoli. Dal momento che punti interni a ∑ rimangono dopo l’inversione sempre interni a ∑ , l’arco di circonferenza corrispondente a s é un arco ortogonale a ∑ , e di conseguenza una retta. In conclusione le simmetrie rispetto ad una retta hanno le seguenti proprietà: 1. 2. 3. 4. sono corrispondenze biunivoche tra i punti interni di ∑ conservano la lunghezza dei segmenti conservano le rette conservano l’ampiezza degli angoli Queste proprietà sono ovvie se la retta è del primo tipo, sono conseguenza dell’inversione circolare per simmetrie rispetto a rette del secondo tipo. Infine è possibile dimostrare che se P è un punto interno a ∑ , e O il centro di ∑ , esiste una simmetria che manda P in O. Ipotesi di Riemann L'ipotesi di Riemann è una congettura sulla distribuzione degli zeri nella funzione zeta di Riemann ζ(s). Tuttora risulta uno dei principali problemi aperti della matematica; un premio da 1.000.000 di dollari è stato offerto dal Clay Mathematics Institute per chi scoprirà una dimostrazione della congettura. La funzione zeta di Riemann ζ(s) ha alcuni zeri definiti "banali" per s = -2, s = -4, s = 6, ... La congettura di Riemann riguarda questi zeri e dice che: La parte reale di ogni radice non banale è 1/2 Così le radici non banali dovrebbero trovarsi tutte sulla linea critica, e sarebbero della forma s = 1/2 + it con t numero reale e i unità immaginaria. La congettura, espressa in questo modo, potrebbe sembrare limitata alla conoscenza di questa funzione; ha invece una correlazione sottile ed importante con la teoria dei numeri primi. Eulero scoprì infatti che, effettuando la moltiplicatoria con p che spazia su tutti i numeri primi, la funzione zeta può anche essere scritta come: Ove {pj} è l'insieme di tutti i numeri primi. L'andamento della funzione zeta (ed in particolare la distribuzione dei suoi zeri) risulta quindi (attraverso altri passaggi che non riporto) legato alla distribuzione dei numeri primi immersi nell'insieme dei numeri naturali. Parte reale della funzione Z lungo la linea critica Pare che Riemann avesse risolto la congettura che porta il suo nome, ma purtroppo le sue carte furono distrutte; non possiamo quindi sapere per certo se egli avesse solo impostato o risolto quel mistero. Stabilire una regola matematica che dimostri se esiste o no una logica nell'assenza di una cadenza nella distribuzione dei numeri primi, significherebbe comprendere se vi è una "aritmia" totale in quest'ultima o meno e negare l’apparente casualità dei numeri primi; questo potrebbe avere importanti ricadute sulle applicazioni informatiche odierne e future, poiché la crittografia utilizza sovente come chiavi numeri interi la cui fattorizzazione in numeri primi (molto grandi) non deve essere calcolabile in tempi accettabili. L'eventuale conoscenza della distribuzione di tale sequenza permetterebbe quindi di facilitare la fattorizzazione di cui sopra: si renderebbe perciò necessario trovare altre tecniche di sicurezza telematica, quali ad esempio la crittografia con le funzioni ellittiche modulari, che però sono anch'esse soggette ad una congettura pendente, o la crittografia quantistica, che per il momento sembra inattaccabile. Oggetti tridimensionali Nell’ambito della percezione visiva, alcuni aspetti dell’opposizione tra apparenza e realtà (in particolare: tra oggetti tridimensionali e i disegni che li rappresentano, tra reale e virtuale) possono essere indagati con l’aiuto di semplici strumenti fisici, i quali permettono di eseguire esperienze che sono state storicamente rilevanti per lo sviluppo del pensiero matematico e delle tecniche di costruzione e manipolazione delle immagini. Prospettiva • • • • • • Vetro del Dürer Prospettiva di un traliccio cubico Prospettografo dell’abate di Lerino Il problema della restituzione prospettica Anamorfosi ottica Camera di Ames Specchi • • Anamorfosi catottriche: cono, piramide, cilindro Anamorfosi catottriche: cono (punto di vista proprio non appartenente all’asse) Ombre • • • • • Ombra di un traliccio cubico Proiezione di una circonferenza in ellisse Proiezione figure poligonali Ombre di figure piane Ombre solari Trompe l’oeil • • • Trompe l’oeil René Magritte Iperrealismo Prospettiva Immaginiamo di collocare un oggetto (tridimensionale) dietro una lastra trasparente piana; guardiamolo attraverso la lastra con un occhio solo, immobile in posizione prestabilita (può essere d’aiuto un foro, praticato in un supporto fissato a terra) e disegniamo sulla lastra il contorno apparente dell’oggetto. Otteniamo così una immagine bidimensionale: la prospettiva dell’oggetto utilizzato. Chiunque (lasciando invariata la collocazione dell’oggetto e della lastra) guardi tale immagine ponendo il proprio occhio nel medesimo luogo in cui lo ha tenuto chi l’ha eseguita, vedrà che essa si sovrappone esattamente alla realtà (vedi Vetro del Dürer, Prospettiva di un traliccio cubico). Esperienze di questo tipo, che si possono “meccanizzare” in molti modi (vedi per esempio Prospettografo dell’abate di Lerino) sono state fondamentali per la scoperta delle regole geometriche cui deve attenersi la costruzione, entro la superficie piana di un quadro, di rappresentazioni prospettiche del mondo esterno (paesaggi, architetture, persone, animali ecc.). In tali esperienze, chi osserva ha contemporaneamente di fronte ciò che è rappresentato (la realtà) e la sua immagine (il disegno, la figura). Ma quando ci troviamo davanti a un quadro che contiene prospettive, quasi sempre le cose rappresentate sono altrove (spesso soltanto nella mente del pittore): nemmeno è possibile ricostruirle come presenze concrete, perché oggetti diversi possono avere la medesima prospettiva (vedi Il problema della restituzione prospettica). Scopo originario della prospettiva è riprodurre il mondo esterno introducendo nel piano l’illusione della profondità: è stata quindi di solito molto curata la somiglianza tra il rappresentato (reale o fantastico) e il rappresentante (l’immagine). Tuttavia, le regole della prospettiva permettono anche di distruggere questa somiglianza: ciò si verifica ad esempio quando il punto di vista scelto dal pittore ha una posizione anomala (fortemente laterale rispetto al quadro), mentre chi osserva l’immagine si colloca invece in posizione frontale. (vedi Anamorfosi ottica). Può anche accadere che oggetti tridimensionali opportunamente deformati o distorti riacquistino, se osservati da un particolare punto di vista (e con un solo occhio) il loro aspetto normale. (vedi Camera di Ames). Vetro (finestra) di A. DÜRER Dopo una serie minuziosa di istruzioni per fabbricarsi in proprio lo strumento, Dürer conclude: “Tenendo un occhio saldamento appoggiato all’oculare, ricalca sul vetro, mediante un pennello, ciò che vedi all’interno della cornice. Poi, potrai riportare il disegno sulla superficie che avrai scelto per il tuo quadro”. La distanza massima tra oculare e quadro è pari alla lunghezza del braccio di chi disegna. Nel modello, è stato ricalcato sul vetro una scacchiera e un cubo: guardando attraverso l'oculare, il disegno si sovrappone alla realtà. Prospettiva di un traliccio cubico In questo modello si verifica che la figura disegnata sulla lastra è una prospettiva del traliccio cubico. Guardando attraverso il foro V con uno dei due occhi (il foro serve a mantenere l'occhio immobile V nella posizione corretta) si vedrà che la figura W tracciata sulla lastra si sovrappone esattamente all’oggetto reale. Tale figura è (secondo la definizione classica di prospettiva) l'intersezione tra la piramide visuale (costituita dai raggi che provengono dall'oggetto e convergono all'occhio) e il vetro attraverso cui l'oggetto viene osservato. Spostando l'occhio nel foro W non si ha più sovrapposizione: la prospettiva è cambiata. È importante osservare che la faccia del cubo parallela al quadro e più lontana dall'occhio dell'osservatore ha come immagine, nello “scorcio”, il quadrato interno; la faccia del cubo parallela al quadro e più vicina all'occhio dell'osservatore ha invece come immagine il quadrato esterno L’immagine prospettica qui presentata si può ottenere anche come ombra (vedi il modello “Ombra di un traliccio cubico”). Prospettografo di D.Girolamo da Perugina (Abate di Lerino) Questo strumento consente ad un operatore di realizzare l’ immagine prospettica di un oggetto senza osservarlo direttamente dal punto di vista prefissato. I raggi visuali sono materializzati con un filo teso fra un punto dell’oggetto e un gancio immobile in una posizione scelta arbitrariamente. Due aste rigide ruotano mantenendosi in un piano e vengono posizionate in modo da individuare il punto di intersezione fra il filo teso e il piano stesso (che rappresenta il quadro). Ciò fatto, si toglie il filo; si dispone un foglio sul piano individuato dalle aste rigide; si ricopia su tale foglio il punto di intersezione fra le aste. Ripetendo l’operazione per diversi punti dell’oggetto è possibile costruirne l’ immagine prospettica. La sovrapposizione tra il foglio su cui si disegna e il quadro è ottenuta con un dispositivo meccanico. E’ chiaro che l’operatore non usa il suo occhio per guardare l’oggetto ma soltanto per controllare la correttezza delle sue operazioni: quindi egli non vede l’immagine prospettica che sarà disegnata. Lo strumento non riproduce ciò che viene osservato, ma ciò che si dovrebbe vedere dal punto di vista prescelto. Il problema della restituzione prospettica Prima parte. Si osserva dall'oculare la prospettiva di un traliccio avente forma quadrata, disposto su un piano parallelo al quadro. Nella parete di fondo si vede l'ombra che sarebbe generata da una lampada puntiforme situata al posto dell'occhio. Seconda parte. La medesima immagine prospettica e la medesima ombra si ricavano da un traliccio sghembo: ciò dimostra che oggetti diversi possono dare origine a piramidi visuali identiche. E’ quindi impossibile ricostruire un oggetto tridimensionale conoscendone soltanto la prospettiva o l’ombra: occorrono ulteriori informazioni. Anamorfosi ottica Le anamorfosi ottiche sono tracciate su superfici bidimensionali (piane nei casi più semplici) e osservabili direttamente a occhio nudo (”per radium directum”). Nella costruzione si seguono le leggi geometriche della prospettiva normale, ma si trasgredisce alle norme del codice prospettico dominante tra Quattrocento e Cinquecento, nel quale: • l’occhio e l’osservatore sono in posizione frontale; • il punto di distanza consente un angolo visivo inferiore a 90°; • l’altezza dell’orizzonte corrisponde a una statura normale. Invece nelle anamorfosi ottiche: • la posizione del punto di vista è fortemente laterale, in modo che tutti i raggi visuali colpiscano l'oggetto molto obliquamente; • il punto di distanza è vicino al punto di fuga; • l'altezza dell'orizzonte può essere scelta arbitrariamente Per riconoscere l’oggetto rappresentato è necessario collocarsi esattamente nel punto di vista scelto dal disegnatore Camera di Ames E’ una camera la cui forma irregolare si discosta in misura maggiore o minore da quella di un parallelepipedo (la più frequente nelle case in cui viviamo) ma che tuttavia, se osservata con un occhio solo da uno spioncino (punto di vista) aperto su una delle pareti, ci appare normale, perfettamente squadrata. Fu lo psicologo e oftalmologo statunitense Adelbert Ames Jr. (famoso per le sue illusioni sperimentali riguardanti la valutazione di misure e distanze) a realizzare (1946) i primi esemplari di camere distorte, legando così ad esse il proprio nome: egli utilizzò idee elaborate, nella seconda metà del XIX secolo, da Hermann Helmoltz, studioso di fisiologia della percezione. Esistono molti tipi diversi di camere di Ames, sia abitabili, sia in scala ridotta. In questa immagine, tre delle quattro pareti si incontrano formando angoli di 90°; la quarta parete (quella di fondo, in cui sono aperte due finestre) è invece inclinata rispetto alle pareti laterali; anche soffitto e pavimento sono inclinati, e come la parete di fondo hanno forma trapezoidale. Per la costruzione occorre considerare la piramide visiva individuata dai raggi che proiettano i vertici di un parallelepipedo (modello della stanza percepita) dal punto di vista scelto su una delle facce. La camera di Ames sarà poi progettata in modo che i vertici delle sue pareti appartengano ai raggi di tale piramide visiva: così ogni faccia rettangolare del parallelepipedo si può considerare immagine prospettica di una delle pareti della camera di Ames. La figura illustra la fase iniziale del procedimento; mostra infatti come si determina: la pianta di una stanza distorta (linee continue) partendo da quella (quadrata, linee tratteggiate) della stanza percepita; la larghezza (sulla parete obliqua di fondo) di due finestre che appariranno uguali. Il punto P rappresenta il piede dell’osservatore. Si noti che vi sono infinite possibilità di scelta per l’inclinazione (la lunghezza) della parete di fondo. Ames ha sostenuto che è la nostra assuefazione alla forma usuale delle stanze a farci vedere dallo spioncino (punto di vista) una immagine virtuale priva di distorsioni e a farcela assumere come sistema di riferimento: sicché due figure identiche, inserite vicino alla parete di fondo, vengono percepite come se fossero alla stessa distanza, ma di dimensioni diverse (una più piccola, mentre in realtà è più lontana, l’altra più grande, mentre in realtà è più vicina). Specchi Sappiamo dall’esperienza quotidiana che uno specchio ci rinvia immagini solo se gli si trovano davanti o in prossimità oggetti o persone. Invece le cose raffigurate in un quadro sono di solito distanti, irraggiungibili nella realtà. Ma c’è una profonda differenza tra gli specchi piani e quelli incurvati: mentre i primi producono immagini virtuali che a prima vista sembrano copie esatte di ciò che vi viene riflesso, gli altri creano immagini profondamente deformate, talvolta irriconoscibili. Soprattutto nel XVII secolo, questo fatto ha suscitato curiosità ed interesse tra i filosofi, i pittori, gli scenografi, gli studiosi della natura. Dato un oggetto reale, come prevedere quale ne sarà l’immagine virtuale rinviata all’osservatore da uno specchio ricurvo? Ci si è concentrati in modo particolare sul problema inverso (la cui soluzione permette di costruire immagini crittografate) : data la forma dello specchio (geometricamente semplice, ad esempio piramide, cono, sfera, cilindro), progettare un oggetto (o disegno) deforme che, osservato da un particolare punto di vista entro lo specchio scelto, dia origine per riflessione a una immagine virtuale predeterminata (ben proporzionata e riconoscibile). Si possono osservare qui: • figure piane distorte che, decodificate per riflessione mediante specchi conici o cilindrici, riacquistano forme normali (vedi Anamorfosi catottriche, specchi conici, specchio cilindrico). • quattro immagini reali separate che uno specchio piramidale (a base quadrata) riproporziona e ricompone (entro la base della piramide stessa) in un’unica immagine virtuale (vedi Anamorfosi catottriche, specchio piramidale). Anamorfosi catottriche Uno specchio piano, inclinato su un piano orizzontale π, fa corrispondere ad ogni figura reale R di π, costituita dai punti Q, una figura virtuale F, giacente sul piano σ (simmetrico di π rispetto al piano dello specchio) è formata dai punti I. Supponiamo che un osservatore guardi lo specchio con un occhio solo, collocato (rispetto a π) ad una distanza sufficiente per poter considerare paralleli i raggi visuali convergenti all’occhio, e infine che tali raggi abbiano direzione perpendicolare a π. In queste ipotesi, egli vede i punti I proiettati ortogonalmente in P su π (e quindi la proiezione ortogonale di F su π). Piramide In una piramide, le facce laterali sono specchi triangolari. Nella illustrazione a fianco si mostrano (con riferimento ad una piramide retta a base quadrata) sia le quattro regioni triangolari (esterne alla piramide) che contengono le quattro parti, opportunamente deformate, in cui è smembrata una figura reale R , sia le quattro regioni triangolari corrispondenti: queste formano il quadrato di base della piramide, entro la quale l’occhio dell’osservatore (situato a grande distanza dall’asse) vede ricomporsi (ben proporzionata) l’ immagine virtuale di R. Gli oculari individuano la posizione corretta e la distanza (minima) da cui guardare. Cono Se si aumenta il numero n dei lati del poligono regolare di base lasciando invariato il diametro della circonferenza circoscritta, le regioni triangolari (reali e virtuali) si assottigliano. Per n tendente ad infinito il poligono di base tenderà a coincidere con la circonferenza circoscritta e la piramide con un cono retto. Gli oculari individuano la posizione corretta e la distanza (minima) da cui guardare. Cono da un punto di vista proprio non appartenente all’asse La superficie riflettente del cono di vertice V genera una corrispondenza tra i punti P interni al triangolo per l’asse e i punti Q del piano di base. Studiando questa corrispondenza è possibile determinare quale figura F’ deve essere disegnata sul piano di base (nella regione esterna al cono) affinché un osservatore posto in O ne raccolga, all’interno del triangolo per l’asse, una immagine virtuale F prefissata. Osservazione: solo se si guarda attraverso l’oculare (situato in O) l’immagine virtuale F coincide con quella utilizzata per eseguire i calcoli. Cilindro La superficie riflettente del cilindro genera una corrispondenza tra i punti P del piano γ (parallelo all’asse del cilindro e secante il cilindro C lungo le rette di contatto TT', ZZ' dei piani tangenti a C uscenti da O) e i punti Q del piano di base. Studiando questa corrispondenza è possibile determinare quale figura F’ deve essere disegnata sul piano di base (nella regione esterna al cilindro) affinché un osservatore posto in O ne raccolga sul piano g una immagine virtuale F prefissata. Osservazione: Solo se si guarda attraverso l’oculare l’immagine virtuale F coincide con quella utilizzata per eseguire i calcoli. Ombre Confrontando le ombre prodotte da alcuni oggetti su superfici piane, per opera di sorgenti luminose puntiformi, con le loro immagini prospettiche rilevate su quadri piani si nota subito che c’è “qualcosa” in comune: per esempio, il disegno in prospettiva di un traliccio cubico può essere ottenuto identico come ombra (vedi Ombra di un traliccio cubico). I matematici, attraverso studi protrattisi fino al XIX secolo, sono giunti alla conclusione che ombre e prospettive si costruiscono con le stesse regole geometriche: nella teoria delle proiezioni la formazione di ombre e quella delle immagini prospettiche vengono trattate unitariamente. Poiché i raggi luminosi si propagano in linea retta, è talvolta opportuno rappresentarli con fili tesi. Se questi fili convergono ad un unico punto, si può immaginare che individuino raggi uscenti da quel punto (dove si troverà allora la sorgente di luce), oppure raggi provenienti da un corpo osservato e concorrenti verso l’occhio fisso di chi guarda (vedi Prospettografo dell’abate di Lerino). Cosi ad esempio nel modello Proiezione di una circonferenza in ellisse, è possibile considerare l’ellisse come ombra (proiezione) del cerchio, e il cerchio come prospettiva (proiezione) dell’ellisse. Anche il modello Proiezione figure poligonali suggerisce di interpretare le figure poligonali giacenti su uno qualsiasi dei due piani come proiezioni di quelle giacenti sull’altro. Già sappiamo che corpi diversi possono avere immagini prospettiche uguali (vedi Il problema della restituzione prospettica): potranno dunque originare anche ombre uguali. Infatti nel modello citato è facile aggiungere con la fantasia fili convergenti sull’oculare che raccordino, sfiorando il contorno dell’oggetto, i punti della prospettiva a quelli dell’ombra rappresentata sulla parete di fondo. I modelli Proiezione di una circonferenza in ellisse e Ombre di figure piane mostrano, nel caso particolare di oggetti bidimensionali, che è possibile muovere contemporaneamente il quadro (l’oggetto illuminato) e l’occhio (la sorgente luminosa) in modo da lasciare invariata la prospettiva (l’ombra). Si noti infine: se la sorgente luminosa è a distanza molto grande, i raggi luminosi diventano quasi paralleli. Quindi il modello Ombre solari illustra (sempre nel caso particolare di un oggetto bidimensionale) il processo di formazione delle ombre solari. Ombra di un traliccio cubico Una sorgente luminosa proietta sulla parete di fondo l’ombra di un traliccio cubico posto all’interno della scatola. Si osserva che: • Quando la sorgente luminosa si trova nella posizione centrale S, l’ombra prodotta coincide con l’immagine realizzata nel modello “Prospettiva di un traliccio cubico”. Però in questo caso la faccia del cubo parallela alla parete di fondo e più lontana dalla sorgente ha come ombra il quadrato interno; quella parallela alla parete di fondo e più vicina alla sorgente ha invece come ombra il quadrato esterno. • Confrontando i due modelli fisici si conclude quindi che la medesima immagine può essere interpretata sia come ombra sia come prospettiva. Per mettere in evidenza questo fatto occorre però che nella proiezione dell'ombra non vengano nascoste, dalla opacità dell'oggetto, parti che risultano essenziali per poterlo riconoscere. La sorgente luminosa può essere spostata a destra o a sinistra della posizione S, generando per moto continuo diverse ombre (o prospettive) del cubo. Per osservare le ombre non occorre disporsi in un luogo preciso (come invece è opportuno, a volte necessario, nel caso delle prospettive). Proiezione di una circonferenza in ellisse A partire dai primi decenni del Seicento, dopo gli studi fondamentali di G. Del Monte, B. Pascal e G. Desargues, la trattazione delle coniche viene completamente inserita entro la teoria delle proiezioni. Le coniche infatti si possono considerare come ombre (o prospettive, o anamorfosi) delle circonferenze. In questo modello fisico i fili tesi possono essere interpretati sia come raggi visuali convergenti all’occhio di un osservatore, sia come raggi luminosi uscenti da una sorgente puntiforme. Essi stabiliscono una corrispondenza tra i piani incidenti σ e τ: sono corrispondenti punti collegati dal medesimo filo. Possiamo anche dire: ogni filo proietta un punto di σ in un punto di τ; centro di proiezione è il punto di convergenza dei fili. Il modello mostra che la circonferenza giacente sul piano σ è proiettata sul piano τ da un centro proprio (non appartenente né a σ né a τ) in modo da ottenere una ellisse. Possiamo anche dire: la circonferenza è immagine prospettica dell’ellisse; l’ellisse è ombra della circonferenza. Il piano della circonferenza e il centro di proiezione possono essere ruotati contemporaneamente per mezzo di un parallelepipedo articolato in modo tale che la corrispondenza tra ellisse e circonferenza rimanga invariata (Teorema di Stevin). Si noti che σ ruoti intorno alla propria intersezione con τ (retta luogo di punti uniti). Proiezione di figure poligonali Si osservano due piani incidenti π e π’ uno dei quali (π) viene proiettato sull’altro (π’) da un punto esterno ad entrambi. Alcuni fili tesi collegano coppie di punti corrispondenti al centro di proiezione O. La formazione dell’immagine prospettica e dell’ombra di una figura piana sono casi particolari della corrispondenza più generale illustrata da questo modello fisico. Il modello mostra inoltre : • che è possibile muovere in centro di proiezione O assieme al piano π in modo che le coppie di punti corrispondenti restino invariate e allineate con O durante il movimento (Teorema di Stevin). • che i punti di π giacenti da parti opposte rispetto alla retta intersezione tra il piano π e il piano parallelo a π’ passante per O (retta limite di π) vengono proiettati su π’ in semipiani opposti aventi come origine comune la retta di intersezione tra π e π’ (retta luogo di punti uniti). A rette su π corrispondono rette su π’, ma il parallelismo non è conservato. Ombre di figure piane Prima parte. Il parallelepipedo articolato permette di muovere contemporaneamente punto di vista e quadro mantenendo invariata l'immagine prospettica della figura giacente sul piano di terra. (Il quadro π ruota attorno alla linea di terra; il punto di vista O descrive una circonferenza avente come centro l‘ intersezione tra il piano di terra π’ e la retta per O parallela a π). π O π' Seconda parte. Il meccanismo è identico (controllare aprendo lo sportello), ma ora sposta una lampada puntiforme insieme a un quadro in cui sono praticate due aperture: i contorni delle ombre proiettate rimangono immutati. (Teorema di Stevin). Ombre solari I due piani π e σ sono posti in corrispondenza mediante fili tesi paralleli (i punti corrispondenti sono congiunti da un medesimo filo). Le figure del piano σ si possono considerare ombre solari di quelle disegnate su π : infatti possiamo ritenere che i raggi solari (materializzati con fili tesi) siano paralleli essendo la sorgente luminosa a grande distanza. Il modello fisico illustra il caso in cui due punti corrispondenti qualsiasi sono equidistanti dalla retta t (retta di intersezione fra i piani, luogo di punti uniti). Se, con una rotazione attorno alla retta t, i piani π e σ sono sovrapposti in modo che le coppie di punti che si corrispondono appartengano al medesimo semipiano (avente t come origine), i raggi che congiungono punti corrispondenti risultano paralleli alla retta t: si può dimostrare che le aree di due figure corrispondenti risultano uguali. Trompe l’oeil Trompe l’oeil è un termine francese che significa letteralmente “inganna l’occhio”. Il trompe l'oeil è un'antichissima forma di decorazione di estremo, accurato realismo che vuole dare l'impressione di essere la cosa rappresentata attraverso l'uso sapiente della prospettiva e dei giochi di luce ed ombra. Eseguito con tecniche diverse, il Trompe l'Oeil fu conosciuto fin dall'antichità; addirittura ne abbiamo tracce all'interno delle piramidi egizie. Ebbe momenti di grande popolarità anche in Grecia ed a Roma. E proprio nelle case private di Pompei (vedi foto a destra) le decorazioni sulle pareti cominciano ad evolversi secondo lo stampo moderno, queste infatti comprendevano elementi architettonici raffigurati secondo una prospettiva di intuitiva esattezza che volevano sembrare veri. A partire dal Cinquecento, con la scoperta della prospettiva, il Trompe l'Oeil si evolse ancora, fino a raggiungere il massimo splendore nel Seicento. Ai giorni nostri il il Trompe l'Oeil ha trovato utilizzo nella pittura iperrealista diventando così una imitazione così realistica della realtà che spesso è confusa con una fotografia. Solo il pavimento in parquet è reale, il resto è dipinto René Magritte “L’uso della parola I” è un dipinto raffigurante una pipa e recante una ben chiara scritta: “Ceci n’est pas une pipe”, cioè “Questo non è una pipa”. Magritte vuole sottolineare la differenza tra l’oggetto reale (la pipa) e la sua rappresentazione (la pipa dipinta). E’ ovvio che la pipa e la sua immagine non coincidono, non sono la stessa cosa. Inoltre nessuno potrebbe mai fumare una pipa dipinta, pertanto l’oggetto reale e la sua rappresentazione non hanno neppure le stesse funzioni: hanno proprietà e caratteri diversi. Ognuno ha quotidiana esperienza di questo curioso quanto inavvertibile equivoco dovuto alla convenzione che lega a ogni oggetto un nome. E’ questo il contrasto tra apparenza e realtà. In “La bella prigioniera”, vengono mostrati tre oggetti in riva al mare: una roccia, una tela dipinta posta su un cavalletto e una tuba infuocata. Lo strumento musicale immaginato in fiamme è stato decontestualizzato ed è stato modificato. Magritte inoltre, rende possibile vedere allo stesso tempo e dal medesimo punto di vista sia l’oggetto reale sia la sua rappresentazione pittorica. Infatti sulla tela è raffigurato, come in un trompe l’oeil, esattamente quello che è al di là d’essa e che essa stessa ci nasconde: una porzione di spiaggia, di mare e di cielo tempestoso. Il paesaggio quindi esiste sia nella mente di chi osserva, sia nella realtà sia sulla tela. Iperrealismo Tendenza affermatasi soprattutto negli Stati Uniti all'inizio degli anni Settanta e caratterizzata da un ritorno alla realtà colta nei suoi aspetti più consueti, quotidiani, a volte banali. Il prefisso "iper" indica rispetto alla tradizione del realismo americano, non tanto una accentuazione della qualità illusionistica dell'immagine, quanto piuttosto il suo divenire, attraverso la mediazione della tecnica fotografica immagine "seconda": l'artista, cioè, rielabora un testo fotografico, ovvero l'oggetto quale appare attraverso il filtro non innocente della macchina. La descrizione dettagliata delle forme, la loro riproduzione "oggettiva", in una parola il trompe l'oeil non cancella la deformazione subita dall'ingrandimento del negativo: gli oggetti, perdute la dimensioni consuete, divengono paradossali e insoliti. Si avverte, nella ricerca di "neutralità" propria del ricorso alla fotografia, un'aria di famiglia con le di poco precedenti esperienze della pop-art incentrate, almeno in alcuni degli esempi più significativi, sulla cancellazione del tocco della mano dell'artista. I rappresentanti maggiori dell'iperrealismo sono Chuck Close, con i macroscopici ritratti come fotografie più o meno messe a fuoco; John De Andrea con gli impassibili nudi realizzati da calchi dal vivo con tanto di capelli e peli veri; Duane Hanson, con le sue figure tipiche della società americana ostentante i più vistosi feticci del consumismo. La poetica iperrealista non ripesca nel passato le gratificanti vanità del trompe l'oeil, in quanto è positivamente inquinata da un senso di totale spersonalizzazione dell'immagine, di assoluta astrazione e asetticità nonostante la resa di scene "più vere del vero", inutilmente brillanti e coloratissime, tanto da dare un senso di vuoto e di squallore e un senso di fastidio per tanta fredda perfezione illusionistica. La vena allucinata dell'immagine iperrealista è incrementata dalla distanza emotiva che viene imposta dall'autore con il procedimento pittorico della resa fedele al vero sino all'esasperazione, una distanza che si avverte incongruente con l'immagine pittorica. Questo lato di tragica ironia, cui non è estranea una sotterranea tematica di critica sociale, rende il lavoro iperrealista interessante e giustificato. L'Iperrealismo si confronta con la fotografia in una gara di abilità illusionistica (vedi foto a sinistra) usando i tradizionali mezzi pittorici e privilegiando le immagini del reale ordinario tipico delle fotografie turistiche o di costume. Per fare questo ricorre ad un accentuato accademismo che contribuisce a raffreddare e spersonalizzare l'immagine, sospendendola in una irrealtà raggelata verosimile e somigliante al reale cui si riferisce ma che in effetti sostituisce con una sorta di parodia più o meno tragica. Quanto più è densa di particolari non approssimativi, non mediati dal calore dell'imperfezione pittorica, quanto più risulta copia esatta dell'originale, tanto più l'immagine iperrealista rivela il suo lato inutile e grottesco che funge da veicolo di conoscenza dell'assurdo del suo modello reale. Il movimento ha alcuni significativi protagonisti, ma vita breve in quanto tale, rimanendo in auge più o meno dalla metà degli anni Sessanta a quella degli anni Settanta, dopo di che, non potendosi evolvere data la sua intrinseca rigidità, si ritrova solo come tecnica accessoria o accenno in altre espressioni.