Apparenza e realtà

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Apparenza e realtà
Apparenza e realtà
di Leonardo Ferro
Luigi Pirandello: contrasto tra apparenza e sostanza, sfiducia nella possibilità di
conoscere la realtà.
Immanuel Kant: realtà inconoscibile, “noumeno” (cosa in sé), realtà percepita,
“fenomeno” (ciò che appare).
Arthur Schopenhauer: contrapposizione tra realtà (volontà) e apparenza
(rappresentazione).
La Propaganda e la realtà: l’accettazione della menzogna o del silenzio e la
propaganda e il consenso nell’Italia fascista.
Victorian Compromise: under the appearance of a prosperous period based on sound
principles, an uncomfortable truth hides: most people live in difficult circumstances.
Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray: Dorian’s desire divides his outward
appearance from his interior reality.
George Bernard Shaw, Mrs Warren’s Profession: Mrs Warren’s life isn’t respectable
as it appears.
Apuleio: le Metamorfosi
Teoria della Relatività: teoria galileiana, relatività in Einstein: relativià ristretta e
generale.
Paradosso dei gemelli: l’apparenza del paradosso, la non applicabilità della teoria
della relatività ristretta di Einstein.
Aberrazione della luce: direzione apparente nell’osservazione di una stella.
Luminosità corpi celesti: magnitudine apparente e magnitudine assoluta.
Geometrie non euclidee: geometria sferica, iperbolica ed ellittica.
Ipotesi di Riemann: l’apparente casualità dei numeri primi e la logica nella loro
distribuzione.
Oggetti tridimensionali: disegni che li rappresentano, tra reale e virtuale; prospettiva,
specchi e ombre; trompe l’oeil e iperrealismo.
Luigi Pirandello
Luigi Pirandello nasce ad Agrigento, il 28
giugno 1867.
Studia a Palermo, Roma, ed infine a Bonn
consegue la sua laurea nel 1891.
Tornato a Roma, viene introdotto dal Capuana
negli ambienti letterari e giornalistici della
capitale dove si stabilisce definitivamente con
la moglie.
La malattia mentale della moglie che
sospetta, a torto, che egli la tradisca lo pone
di fronte al tema che sarà centrale nella sua
produzione: il contrasto tra apparenza e
realtà.
Nel 1926 fonda la sua compagnia teatrale.
Nel 1929 entra a far parte dell'Accademia
d'Italia, una congrega di intellettuali di
stampo fascista.
Nel 1934 riceve il premio Nobel.
Muore a Roma nel 1936.
Scrittore, drammaturgo e narratore, rappresentò sulle scene l'incapacità dell'uomo di
identificarsi con la propria personalità, il dramma della ricerca di una verità al di là delle
convenzioni e delle apparenze.
Al centro della concezione pirandelliana c’è il contrasto tra apparenza e sostanza. La
critica delle illusioni va di pari passo con una drastica sfiducia nella possibilità di
conoscere la realtà: qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata
all'inattingibile verità della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e
inarrestabile.
Ciascuno vede la realtà secondo le proprie idee e i propri sentimenti, in un modo diverso
da quello degli altri: a fronte della realtà esterna che si presenta una e immutabile,
abbiamo le centomila realtà interne di ciascun personaggio, per cui la vera realtà è
nessuna. Tra realtà e non-realtà ci sono due distinte dimensioni:
1) la dimensione della realtà oggettuale, che è esterna agli individui e che
apparentemente è uguale e valida per tutti, perché presenta per ognuno le stesse
caratteristiche fisiche ed è la non-realtà inafferrabile e non riconoscibile: ciò che resta
nell'anima dell'individuo è la sua disintegrazione in tante piccole parti quante sono le
possibilità concrete dell'individuo di vederla. Della realtà oggettuale esterna noi non
cogliamo che quegli aspetti che sono maggiormente confacenti al particolare
momento che stiamo vivendo, in base al quale riceviamo dalla realtà certe
impressioni, certe sensazioni che sono assolutamente individuali e non possono
essere provate da tutti gli altri individui;
2) la dimensione della realtà soggettuale, che è la particolare visione che ne ha il
personaggio, dipendente dalle condizioni sia individuali che sociali, ci sono tante
dimensioni quanti sono gli individui e quanti sono i momenti della vita dell'individuo.
Per i personaggi pirandelliani non esiste, quindi, una realtà oggettuale, ma una realtà
soggettuale, che, a contatto con la realtà degli altri, si disintegra e si disumanizza.
L'uomo però deve adeguarsi ad una legge imposta dalla società, egli si costruisce
quindi una maschera. Siccome il personaggio non ha nessuna possibilità di mutare la
propria maschera si verifica la disintegrazione fisica e spirituale dei personaggi che si
può riassumere nella teoria della triplicità esistenziale:
1) come il personaggio vede se stesso;
2) come il personaggio è visto dagli altri;
3) come il personaggio crede di essere visto dagli altri.
Le conseguenze della triplicità sono tre:
1) il personaggio è uno quando viene messa in evidenza la realtà-forma che lui si dà;
2) è centomila quando viene messa in evidenza la realtà-forma che gli altri gli danno;
3) è nessuno quando si accorge che ciò che lui pensa e ciò che gli altri pensano non è la
stessa cosa, quando la propria realtà-forma non è valida sia per sé che per gli altri,
ma assume una dimensione per sé e un'altra per ciascuno degli altri.
La forma è la maschera, l'aspetto esteriore che l'individuo-persona assume all'interno
dell'organizzazione sociale per propria volontà o perché gli altri così lo vedono e lo
giudicano. Essa è determinata dalle convenzioni sociali, dalla ipocrisia, che è alla base
dei rapporti umani.
Il concetto di forma nelle novelle e nei romanzi e di maschera nella produzione teatrale
sono equivalenti. La maschera è la rappresentazione più evidente della condanna
dell'individuo a recitare sempre la stessa parte, imposta dall'esterno, sulla base di
convenzioni che reggono l'esistenza della massa.
Quando il personaggio scopre di essere calato in una forma determinata da un atto
accaduto una sola volta e di essere riconosciuto attraverso quell’atto e identificato in
esso cade in una condizione angosciosa senza fine, perché si rende conto che:
• la realtà di un momento è destinata a cambiare nel momento successivo
• la realtà è un'illusione perché non si identifica in nessuna delle forme che gli altri gli
hanno dato.
È nella maschera che ritroviamo un contrasto più profondo fra illusione e realtà, fra
l'illusione che la propria realtà sia uguale per tutti e la realtà che si vive in una forma,
dalla quale il personaggio non potrà mai salvarsi.
Nella società l'unico modo per evitare l'isolamento è il mantenimento della maschera:
quando un personaggio cerca di rompere la forma, o quando ha capito il gioco, viene
allontanato, rifiutato, non può più trovare posto nella massa in quanto si porrebbe come
elemento di disturbo in seno a quel vivere apparentemente rispettabile. Tutta l'esistenza
si fonda sul dilemma: o la realtà ti disperde e disintegra, o ti vincola e ti incatena fino a
soffocarti.
Quando interviene l'accidente che libera il personaggio, tutti pensano che la diversità
di comportamento sia dovuta all'improvvisa alienazione mentale del personaggio, a una
sua forma di follia che scatena in tutti il riso, perché non è comprensibile da parte della
massa. Solo la follia permette al personaggio il contatto vero con la natura (quel mondo
esterno alle vicende umane nel quale si può trovare la pace dello spirito) e la possibilità
di scoprire che rifiutando il mondo si può scoprire se stessi. Ma questi contatti sono solo
momenti passeggeri, spesso irripetibili perché troppo
forte il legame con le norme della società.
Così accade a Enrico IV, un nobile del primo Novecento fissato per sempre nella
rappresentazione del personaggio storico da cui prende il nome, dopo aver battuto la
testa per una caduta da cavallo. In Enrico IV troviamo l'esasperazione del conflitto fra
apparenza e realtà, fra normalità e anormalità, fra il personaggio e la massa, fra
l'interiorità e l'esteriorità. Per superare questo conflitto il personaggio tende sempre più
a chiudersi in se stesso, per cui l’anormalità diventa sistema di vita.
La guarigione di Enrico IV dalla pazzia, improvvisa e fisicamente inspiegabile, proietta il
personaggio nelle vicende quotidiane, ma lo rende anche consapevole di non poter più
recuperare i 12 anni vissuti “fuori di mente”, per cui non gli resta che fingersi ancora
pazzo dopo aver constatato che nulla era rimasto ormai della sua gioventù, del suo
amore, e che molti lo avevano tradito.
Enrico IV assume una forma immutabile agli occhi di tutti, ma non di se stesso,
rifugiandosi nel già vissuto e fingendo di essere ancora pazzo.
L’esempio più appropriato della frantumazione dell’io e del relativismo pirandelliano
che evidenzia il contrasto tra apparenza e realtà è il romanzo “Uno, nessuno e
centomila”.
Il protagonista, Vitangelo Moscarda, scopre di non essere per gli altri quell’UNO che
è per sé. La moglie Dida, svelandogli che il suo naso pende verso destra, ha squarciato
tutte le sue certezze, avviando una riflessione sull’intera esistenza. Ecco visualizzato lo
sbriciolamento del reale che da univoco (UNO) diventerà poliedrico (CENTOMILA) e
sfocerà nel nulla (NESSUNO).
Vitangelo allo specchio, simbolo dell’io davanti a se stesso, scopre di vivere senza
"vedersi vivere". Si getta quindi all’inseguimento dell’estraneo inscindibile da sé che gli
altri conoscono in centomila identità differenti. Il protagonista si stacca dal proprio
"fantoccio vivente", per se stesso è ormai nessuno: la distruzione dell’io è consumata.
Maschera creata dagli altri, fantoccio della moglie, è il "caro Gengè", amato teneramente
da Dida fino a trasformare Vitangelo in un’ombra vana. Il padre "banchiere – usuraio" lo
ha ingabbiato nel ruolo di "buon figliuolo feroce": ecco un’altra marionetta nel "gioco
della parti" della vita. La gente lo vede come uno spietato usuraio.
L’aspirazione di Vitangelo è rimanere al di là dello specchio, essere un "Un uomo così e
basta". E’ possibile? Egli, alla ricerca di una via di fuga dai centomila estranei a sé che
vivono negli altri, decide di uccidere le sue "marionette" ma, per aver voluto dimostrare
di non essere ciò che si credeva, è ritenuto pazzo: la gente non vuole accettare che il
mondo sia diverso da come lo immagina. Non c’è via di fuga: Vitangelo scopre che le
marionette non si possono distruggere.
La decisione di vendere la banca del padre per uccidere l’usuraio Moscarda, fa sorgere
una volontà che lo fa essere Uno. Questo atto, per tutti assurdo, crea attorno a lui un
vuoto in cui si inserisce Anna Rosa, donna dalla psiche molto simile alla sua: frantuma la
propria identità atteggiandosi davanti allo specchio, vorrebbe fermare la vita per
conoscersi.
Vitangelo, presentandosi come una persona completamente diversa dal Moscarda che
tutti hanno davanti agli occhi da anni, perderà la moglie, la ricchezza e la "faccia", ma
saprà trovare nell'ospizio per poveri da lui stesso fatto costruire, il proprio vero io che gli
era stato negato.
Egli, avvolto nella coperta verde "naufraga dolcemente" nella serenità della natura,
senza passato né futuro. Estraniarsi da sé è l’unica via per fuggire alle centomila
costruzioni che falsificano la realtà e la imprigionano in un nome immutabile.
La vita "non conclude" ed è un divenire palpitante: meglio, dunque, essere nessuno
poiché l’essere uno si è rivelato un’illusione di fronte allo svelarsi delle centomila
maschere.
Pirandello mette in rilievo non i fatti ma la vita interiore del "Fu Vitangelo Moscarda".
Immanuel Kant
Immanuel Kant (1724 – 1804) è stato il pensatore più cospicuo
dell’età moderna: ha operato in filosofia una rivoluzione che egli
stesso ha assimilato a motivo della sua radicalità, a quella
operata da Copernico nell’astronomia.
Noumeno e Fenomeno
Il nucleo centrale della filosofia di Kant è l'affermazione che il contenuto della
conoscenza umana non può corrispondere alle cose come sono realmente in se stesse. Il
contenuto della coscienza non permette di conoscere le cose in modo che corrispondano
alla realtà, poiché la coscienza opera sulla realtà un processo di mediazione e tale
mediazione impedisce necessariamente l'accesso alla fonte autentica della realtà. La
mente, in sostanza, opera sulla realtà in sé una serie di interpretazioni secondo le
proprie caratteristiche, una serie di interpretazioni che si pongono nel momento stesso
in cui ci si accinge a pensare. Tali interpretazioni impediscono di fatto di attingere alla
reale conoscenza della realtà.
In questi casi è solito fare l'esempio degli occhiali. La mente umana è come un paio di
occhiali colorati che l'uomo non può togliersi. La mente è necessariamente un modo
specifico di percepire la realtà, non ha la qualità di percepire le cose per come sono
realmente, poiché i processi mentali filtrano la realtà attraverso i loro meccanismi
peculiari. Se la mente fosse un paio di occhiali colorati, l'uomo non potrebbe che
guardare la realtà attraverso il colore dominante di quelle lenti. La mente umana è
dunque una lente: essa deforma e legge la realtà attraverso le sue specifiche
caratteristiche.
La realtà inconoscibile è chiamata da Kant "cosa in sé", la quale risulta pensata dalla
mente come "noumeno", ovvero, "oggetto del pensiero", poiché la cosa in sé viene
pensata ma non può essere "vista" dalla mente per come si presenta (la cosa in sé è
come un oggetto mai visto contenuto in una scatola, il noumeno è il pensiero
dell'oggetto che tuttavia non può essere visto). Da questo si evince che la realtà che
l'uomo percepisce attraverso la mente è un fenomeno ("ciò che appare") sotto il quale
esiste un'ulteriore realtà, chiusa in sé e alla conoscenza.
Quella di Kant è una critica radicale al concetto di metafisica. Se essa è il tentativo di
conoscere la realtà autentica delle cose attraverso la razionalità espressa dalla
coscienza, per Kant, come si è visto, non si può conoscere la realtà autentica delle cose
(la cosa in sé) attraverso la razionalità, ma si può solamente venire a contatto con il
fenomeno sensibile costituito dal mondo.
Come può affermare Kant che esiste necessariamente una cosa in sé che tuttavia
rimane inaccessibile, nella forma, al pensiero? La prova dell'esistenza in sé delle cose
viene necessariamente dal fatto che se il contenuto della coscienza è fenomeno e
apparenza della realtà autentica, deve per forza di cose esistere una realtà alla quale
questa interpretazione venga riferita, altrimenti si giungerebbe al paradosso di una
apparenza che non ha alle sue spalle alcuna realtà.
Arthur Schopenhauer
Schopenhauer (1788 – 1860) è il più grande
avversario di Hegel e considera la filosofia
idealista come una concezione fasulla.
Egli assume come punto di partenza e di
imitazione Kant e Platone: l’elemento dualistico
accomuna Platone (dualismo tra mondo sensibile
e mondo delle idee) e Kant (dualismo tra i
fenomeni e i noumeni), in entrambi gli autori c’è
una contrapposizione tra la realtà (noumeno per
Kant e mondo delle idee per Platone) e
l’apparenza ingannevole (fenomeni in Kant e
mondo sensibile in Platone).
Volontà e rappresentazione
Schopenhauer analizza la contrapposizione tra realtà (volontà) e apparenza
(rappresentazione) nella sua più grande opera: “Il mondo come volontà e
rappresentazione”.
La rappresentazione è ciò che noi vediamo, non ha alcun fondamento oggettivo quindi
quello che noi riteniamo che sia la realtà è un semplice inganno, un’illusione.
La rappresentazione è come il velo di Maia: Maia era una divinità buddista che utilizzava
il velo come strumento per far credere reali delle semplici illusioni. Schopenhauer vuole
fuoriuscire dalla dimensione illusoria strappando il velo di Maia per giungere alla realtà.
Per strapparlo, egli usa l’immagine del castello circondato dall’acqua con il ponte
levatoio sollevato: il viandante può osservare il castello da tutti i lati ma ne rimarrà
sempre fuori. Allo stesso modo noi possiamo esaminare la realtà da tutti i lati ma ne
rimaniamo sempre fuori. Il cunicolo che ci consente di andare al di là delle illusioni è il
nostro corpo, l’unica realtà che non ci è data solo come immagine poiché noi viviamo il
nostro corpo anche dall’interno. La corporeità è il modo per andare al di là della
rappresentazione e afferrare l’essenza delle cose. Schopenhauer non è interessato
all’introspezione ma utilizza il corpo solo come un mezzo metafisico per arrivare alla
realtà. Percorrendo questa strada si individua una realtà sostanziale: la volontà di
vivere, che ha un valore universale.
La volontà di vivere è una forza tragica apportatrice di dolore, è il fondamento del
reale, la brama, il desiderio di esistere, è la vera essenza delle cose. Essa presenta
quattro caratteristiche:
1) è inconscia: non riguarda solo le creature dotate di coscienza ma riguarda tutto il
mondo animato e inanimato;
2) è unica perché si colloca al di là della categoria dello spazio (cioè la prima
categoria della razionalità), la divisibilità e la molteplicità comportano lo spazio;
3) è eterna perché è oltre il tempo (cioè la seconda categoria razionale), c’è sempre
stata e sempre sarà;
4) è incausata e senza scopo: non ha né una causa né un fine, è oltre la causalità
(cioè la terza categoria della razionalità).
Da ciò ne deriva che Schopenhauer ha un pensiero irrazionalistico: il fondamento
della realtà è irrazionale, egli nega la presenza di qualunque realtà nelle cose, di
qualsiasi carattere razionale nella realtà (contrariamente a Hegel, secondo il quale tutto
è razionale), nega qualsiasi efficacia riconosciuta alla ragione. L’irrazionalismo è
applicato alle categorie della razionalità: la razionalità non è in grado di cogliere la realtà
quindi essa non può essere colta con le categorie della razionalità. Per afferrare la
conoscenza bisogna fuoriuscire dal campo della razionalità.
Dalla concezione di Shopenhauer della volontà di vivere emerge un certo
pessimismo: la volontà di vivere produce sofferenza perché volere significa desiderare,
cioè mancare di qualcosa. Questo senso di mancanza produce sofferenza quindi la
volontà di vivere è portatrice di sofferenza.
Alcuni desideri possono essere soddisfatti ma il soddisfacimento del desiderio è
momentaneo perché poi si trasforma in noia, quindi si arriva alla medesima condizione
di sofferenza a causa della noia. Ne consegue che il fondamento dell’esistenza è il
dolore.
Propaganda e realtà
Da quando ci siamo messi a fare le guerre per gli altri, lo stato della nostra conoscenza
è una quotidiana accettazione della menzogna o del silenzio, una quotidiana
condanna a prendere per vere notizie che sappiamo false o manipolate. Sappiamo
che la verità grossomodo esiste, nelle sue grandi linee, nei suoi grandi dati di fatto e
soprattutto nei suoi effetti, come esiste un´etica, uno stile, un buongusto, ma oggi
stanno sempre in un luogo irraggiungibile. Si può al massimo rimpiangerli, evocarli,
celebrarli fra pianti e sospiri ma non riportarli fra le normalità della vita. Se si tenta di
farlo si finisce immediatamente in qualche infame "anti": antiamericano,
antidemocratico, antimoderno e da qualche tempo anche antifascista, l´ "anti" che non
piace alla maggioranza sdoganata. La morte di Nicola Calipari a Bagdad è solo
l´ultimo atto di una storia che parte da lontano. Si è cominciato con la guerra del
Golfo. Per sapere come stavano le cose dovevamo accontentarci di ciò che passava il
Pentagono. Una strana guerra di finte immagini che venne interrotta nel giorno in cui
era vinta, per ragioni non spiegabili perché non confessabili, inerenti al mercato del
petrolio. Poi a queste guerre non confessabili abbiamo cominciato a partecipare, a
iniziare dalla guerra ai talebani in Afghanistan. Partì per l´Oceano Indiano la nostra
flotta, per farci che nessuno ce lo spiegò, e a ragione perché non poteva muoversi di un
metro senza il permesso degli americani, aveva una mini-portaerei che pareva una
zanzara al confronto delle gigantesse Usa. Finì che un bel giorno la squadra fece ritorno
a Taranto e a salutarla c´erano solo i parenti dei marinai. Certo non è facile dire la
verità quando la verità è scomoda. Non era facile raccontare che il nostro corpo di
spedizione alpino in Afghanistan mandato a caccia di ribelli e di terroristi sulle montagne
deserte di Tora Bora dipendeva dagli americani per i trasporti aerei, dai loro magazzini
per i rifornimenti e che avevamo come arma migliore un mortaio, arma di rado usata
nelle guerre partigiane. Anche gli alpini sono tornati a casa quasi di nascosto perché non
c´era nulla da celebrare. È piuttosto deludente, piuttosto umiliante, e perciò poco
confessabile ripetere in peggio le già magre figure del fascismo quando per restare
qualche mese in più in Libia dovettero arrivare i tedeschi dell’Afrika Korps. Raccontare le
cose come stanno nell´Iraq è più che mai impossibile. I nostri tremila soldati non
possono uscire dal campo trincerato di Nassiriya. Il governo dice che stanno lì per
aiutare la pace e la ricostruzione ma appena gli insorti, come li chiamano, entrano in
città arrivano gli aerei americani a bombardare i quartieri civili, alla faccia della
ricostruzione. Su tutte le nostre vicende irachene scende una coltre di omissioni.
Trattiamo con il nemico insorto per non essere attaccati, per liberare i nostri sequestrati,
ma ci sdegniamo se gli americani detestano questo doppio gioco. Vogliamo fare la
guerra ma fingendo che essa sia indolore. Non abbiamo molta simpatia per Edward
Luttwak, esperto dell´arte militare contemporanea, ma quando ci ricorda che in guerra
si muore e che i morti per fuoco "amico" sono quasi pari a quelli morti in battaglia ha
perfettamente ragione, e sbaglia la nostra abitudine di coprire questa realtà con la
retorica, le bandiere, i riti funebri. Di chi è stanco di questa tragica recita dice che è un
antiamericano. Un insulto ai millecinquecento americani che ci hanno perso la vita, e
una sacrosanta distinzione da una guerra sbagliata, che non ha risolto nessuno dei
problemi del Medio Oriente e tutti li ha aggravati. La frase che più è ripetuta fra gli
italiani è: "Non ci capisco più niente". Non si capisce perché un governo "del fare"
contrario al "giochino della politica" faccia quel che fa a scopi prevalentemente elettorali
cioè basati sulla propaganda che è l´arte della menzogna di massa. Che differenza
con quel catastrofista di Winston Churchill, che, in tempi difficili, ai suoi diceva: "Posso
promettervi solo lacrime e sangue". Alla fine fu il catastrofista a vincere.
Propaganda e consenso nell’Italia fascista
Repressione e propaganda negli stati totalitari
Dopo la prima guerra mondiale, negli anni Venti e Trenta del Novecento, presero
forma in Europa tre regimi politici che abbatterono nei loro paesi ogni forma di
parlamentarismo e di democrazia liberale: il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo
in Germania, il comunismo in Unione Sovietica. Furono tre regimi diversi, ciascuno
con proprie caratteristiche e con un’ideologia specifica di riferimento; fascismo e
nazismo avevano alcune radici in comune, e infatti finirono per allearsi nella seconda
guerra mondiale, ma anche molti aspetti diversi. L’elemento di base sicuramente
condiviso da tutti e tre i regimi fu la costruzione di uno «stato totalitario». Nel
linguaggio degli studiosi di storia e di teoria politica questa espressione indica un tipo di
stato che non soltanto nega le libertà e i diritti individuali (cosa che avviene in tutte le
dittature), ma tende a subordinare gli individui e ogni corpo sociale (associazioni,
sindacati, organizzazioni della più varia natura) a un fine superiore, coincidente con lo
stato stesso e con l’ideologia di cui esso è portatore. Nei totalitarismi del Novecento la
propaganda politica trovò la sua massima ragion d’essere e la sua forma più efficiente e
capillare. Infatti ciò a cui puntavano quei sistemi non era semplicemente piegare il
singolo all’obbedienza e alle esigenze della macchina dello stato con la paura e la
forza, anche se poi è questo che perlopiù avvenne; si puntava anche a suscitare la sua
intima adesione, a farne un fascista o un nazista o un comunista convinto, pronto ad
accogliere senza discussioni, e anzi con entusiasmo, le direttive del capo supremo e del
partito. Insomma si trattava di rimodellare le coscienze dei cittadini, di renderli
artefici volontari e zelanti degli obiettivi dettati dal potere. La polizia politica, la
soppressione degli oppositori, le carceri e i campi di lavoro furono gli strumenti
dell’azione repressiva dei regimi totalitari; la propaganda fu lo strumento idoneo,
sebbene non il solo, basta pensare alla scuola, all’altro versante del totalitarismo, cioè
all’intento di condurre i cittadini a identificarsi con il regime.
Controllo culturale e identificazione emotiva
La propaganda si avvalse di tutti i mezzi tradizionali e di quelli nuovi messi a
disposizione dalla tecnologia del tempo. Fra i primi va ricordato ovviamente il controllo
sulla stampa, intesa come pubblicazioni giornalistiche (periodici, quotidiani, giornali di
settore, di associazioni lavorative ecc.) e anche, in senso più ampio, come editoria
libraria. I manuali per le scuole, specie quelli storici e umanistici, dovettero sottostare a
commissioni di controllo e a censure; in Urss il regime staliniano giunse a organizzare
un’unione degli scrittori, per cui romanzieri e poeti che non seguivano i dettami del
«realismo socialista», o non erano graditi al potere per qualsivoglia altra ragione, non
potevano pubblicare le loro opere, quando non venivano perseguitati o non finivano in
un gulag. Sempre fra i mezzi già usati in passato c’erano i comizi politici e le adunate,
che però assunsero un’imponenza mai vista prima e un’attentissima coreografia. Queste
esibizioni di massa venivano preparate a tavolino con uno studio della collocazione, dei
tempi e dei movimenti dei partecipanti, il tutto inquadrato dal ricorrere dei simboli del
regime e mirante a creare un’intensa atmosfera emotiva di appartenenza comunitaria e
di immedesimazione con il capo, che appariva e parlava nel momento culminante. Così
si rafforzava e si legittimava l’identità comune e l’identificazione con il capo, secondo un
meccanismo psicologico per il quale la massa viene percepita, in determinate condizioni,
come un oceano che sommerge, ma al tempo stesso protegge e dà un significato
all’azione del singolo.
Le adunate celebrative non coinvolgevano solo i partecipanti. Attraverso la
trasmissione radiofonica in diretta e i
cinedocumentari,
le
tecnologie
nuove
dell’epoca, il loro effetto veniva amplificato a
masse ancora più vaste. E appunto le immagini
cinematografiche permettono oggi di rivedere e
di studiare le grandi manifestazioni di regime,
dalle monumentali parate del 1° maggio sulla
Piazza Rossa di Mosca alle assemblee naziste di
Norimberga. La radio e il cinema furono sfruttati
come potenti mezzi di persuasione e gli stati
totalitari si dotarono di enti nazionali di
produzione e di emissione, sotto il controllo dei
rispettivi ministeri per la propaganda.
Comizio tenuto da Mussolini
a Milano nel 1943.
Alle spalle del palco dove
si trova il duce un grande
manifesto propugna la guerra
contro la Gran Bretagna.
La macchina del consenso in Italia
Il fascismo prese il potere in un clima di violenza e intimidazione. Eppure godette per
molti anni di un largo consenso.
Il consenso ai regimi di destra, non nasceva tanto dall’adesione alle loro idee politiche,
quanto dal forte bisogno di sentirsi parte di un insieme, di essere come gli altri. Ma
siccome era il potere, attraverso il controllo su ogni aspetto della vita quotidiana, a
decidere come si doveva essere si finiva per desiderare di diventare proprio come il
potere ti voleva. Ci furono momenti di autentica adesione al fascismo, come nel ’36
durante la guerra d’Etiopia. In quel caso, molti ebbero l’illusione di risolvere alcuni
problemi storici dell’Italia, come il sovrappopolamento e l’emigrazione verso Paesi
stranieri.
Il fascismo creò un’efficace macchina propagandistica
utilizzando la stampa, la radio e il cinema per
valorizzare i successi del regime e mantenere le masse
in uno stato di mobilitazione emotiva permanente,
attraverso riti e cerimonie collettive.
In pochi anni Mussolini riuscì a inculcare negli italiani il senso
di appartenenza a uno sforzo collettivo. In Italia si cominciò a
vivere in un clima di grandi imprese, sempre annunciate e di
rado portate a termine. Come quando nel ’25, per ridurre
l’importazione di cereali dall’estero fu lanciata la battaglia
del grano. L’obiettivo era ampliare l’area seminativa per
assicurarsi l’autosufficienza alimentare. Ma la vasta opera di
persuasione contribuì anche ad avvicinare i contadini al
fascismo e a pacificare le zone rurali, dove le tensioni sociali
erano ancora forti.
Negli anni di consolidamento del regime fascista nacque il mito di Mussolini, il mito della
dedizione completa al “duce”. C’era il regime, ma più in alto c’era il duce, padre
carismatico e provvidente che lavorava per la grandezza del paese.
Gli italiani nati dopo l’avvento del fascismo furono allevati in questo vero e proprio culto
della personalità. Giochi, gare e concorsi culturali e sportivi (i famosi littoriali)
concorrevano a esaltare e a rafforzare questa fede nell’uomo della provvidenza, che
aveva scoperto i valori morali e nazionali della tradizione italica.
Che ci sia stato un consenso diffuso in tutti gli strati sociali del paese al fascismo, o
meglio alla politica di Mussolini, non c’è dubbio: un consenso, però, a tempo. Che ci
siano stati poi docenti universitari che rifiutarono di sottoscrivere fedeltà al regime è
verissimo, ma furono pochi, si contano sulle dita; la maggior parte l’accettarono, con
poca o molta convinzione, a seconda dei casi.
Del resto, fino al 1938-39, cioè fino all’emanazione delle leggi razziali italiane e alla
firma del Patto d’acciaio con Hitler, Mussolini diede l’impressione di seguire una linea
politica ben diversa da quella del nazionalsocialismo tedesco. Si trattava di una linea
consensuale con le aspirazioni alla tranquillità sociale dei moderati. E gli italiani che
desideravano, pur avendo per formazione, mentalità e criterio altro pensiero, assicurarsi
una presenza attiva nella società civile, non avrebbero potuto mettersi fuori dai ranghi,
da quel tanto di disciplina che la struttura e l’organizzazione dello Stato fascista esigeva.
Ma il Patto d’acciaio firmato con Hitler e la legge razziale che colpiva gli Ebrei con
un’azione discriminatrice (divieto di insegnare nelle scuole pubbliche, di occupare
impieghi statali, espulsione degli Ebrei stranieri) tolsero, ogni velo agli occhi dei più
indulgenti verso il fascismo, dei più inclini al compromesso per sopravvivere.
I fattori che resero possibile il consenso plebiscitario al fascismo furono prevalentemente
politici: il fallimento della classe politica prefascista, ancora troppo legata a una
concezione formale dello Stato, le molte insicurezze sociali ed economiche delle classi
medie nel dopoguerra. Tutto ciò disponeva ad accogliere, come una soluzione più o
meno provvisoria ma comunque consensuale, la forma inedita di un paternalismo di
Stato che si era dichiarato in grado, con metodi che non escludevano la violenza, di
liberare il paese dalla instabilità del dopoguerra e dalle paure dei “rossi”. Ma l’opzione
totalitaria del regime e le sue perverse leggi discriminatici alienarono il consenso dei
moderati.
Victorian Compromise
The Victorian Age, so called from the name of Queen Victoria, was a period of
unprecedented material progress, imperial expansion and also one of political and
constitutional developments. In this reign, in fact, the liberalization of trade and the
imperial expansion produced great prosperity. The positivistic ideology, that is the
unconditioned confidence that the technical and scientific progress bring happiness,
diffused.
People, following Queen Victoria’s example, were conformists, and followed a set of
moral and sexual values. It implied the possession of good manners, the ownership of a
comfortable house with servants and a carriage, regular attendance at church, and
charitable activity.
But under this appearance of a prosperous period based on sound principles, an
uncomfortable truth hides. Unfortunately the expansion of the industrial system and of
international trade brought many material benefits and much wealth to a minority of the
population, notably the upper and the middle classes.
This image of general material improvement, however, is deceptive: layers of
deprivation and suffering continued to exist and to shock. Of all the poor, one third had
too low an income to meet even the most basic needs. Women and children were still
exploited, working life began at an early age and continued as long as physique allowed.
In spite of improvements in working conditions, the proliferation of more varied foods,
and the occasional pleasure, in pubs and sport, the lives of Victorian working people
remained hard and made a telling contrast to the more lavish benefits enjoyed by their
middle and upper class contemporaries. From this opposition of prosperity and poverty,
the word “Victorian Compromise” derives.
Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray
In a period in which appearance prevailed over reality, Oscar Wilde writes and publishes
his “Picture of Dorian Gray”.
Oscar Wilde was born in Dublin in 1854.
To the Victorian Puritanism, he opposes his eccentric poses and
the excesses of a life that experiences a trial and a prison for
homosexual offences and poverty.
He totally adopted the aesthetic ideal, searching an escape from
a reality in which he doesn’t recognize in the beauty.
Basil Hallward, a famous English painter, is fascinated by the beauty of a young man,
Dorian Gray and decides to paint him. While the young man’s desires are satisfied,
including that of eternal youth, the sign of age, experience and vice appear on the
portrait. Dorian lives only for pleasure, making use of everybody and letting people die
because of his insensitivity. When the painter sees the corrupted image of the portrait,
Dorian kills him. Later Dorian wants to free himself of the portrait, witness to his
spiritual corruption, and stabs it, but he mysteriously kills himself. In the very moment
of death the picture returns to its original purity, and Dorian’s face becomes “withered,
wrinkled, and loathsome”.
Dorian’s desire has separated his external appearance from his interior reality. In the
society his appearance, that is the exteriority, enchants everybody and even if he
commits criminal acts, nobody can believe that he can be corrupted. His interiority is
instead contained in Basil’s picture: a reality cognizable only by himself and because of
the contrast with the appearance it will bring him to death.
Mrs Warren’s Profession
In George Bernard Shaw's play, Mrs Warren's Profession, Mrs Warren was a woman
who ran a chain of brothels on the continent. Her daughter Vivie, a resolute young lady,
desires to make her way in the city, as it then was.
The play revolves around the clash of these two personalities, when the daughter
discovers her mother's profession and rejects her. Not, apparently, because of what her
mother was, but because she stood in the way of her, the daughter's profession.
The girl learns that Mrs Warren went into prostitution as a trade which offered more
security and better conditions than others which were open to her as an uneducated
working-class girl.
Mrs Warren’s Profession, is a deliberately shocking and provocative attack on the sacred
nineteenth-century institution of sexual morality in marriage. The playwright’s aim is to
cause his mainly middle-class audience to reconsider all their accepted ideas about the
employment of women, who were generally exploited at that time.
The importance of the play lies also in the fact that Vivie’s relationship to her mother
symbolises the relation of the individual to society. Vivie tries to treat her mother as a
stranger. But she can’t, and in discovering what kind of woman her mother is, the girl
finds out what kind of society she is part of.
Apuleio, Le Metamorfosi
Le Metamorfosi (o Metamorphoseon libri XI) dello scrittore latino Apuleio
costituiscono - assieme al Satyricon di Petronio - l'unica testimonianze del romanzo
antico in lingua latina.
Degli undici libri, i primi tre sono occupati dalle avventure del protagonista, il giovane
Lucio (omonimo dell'autore, che forse proprio dal protagonista assunse il nome) prima e
dopo il suo arrivo a Hypata in Tessaglia (tradizionalmente terra di maghi). Coinvolto già
durante il viaggio nell'atmosfera carica di mistero che circonda il luogo, il giovane
manifesta subito il tratto distintivo fondamentale del suo carattere, la curiosità, che lo
conduce ad incappare nelle trame sempre più fitte di sortilegi che animano la vita della
città.
Ospite del ricco Milone e di sua moglie Pànfila, esperta di magia, riesce a conquistarsi i
favori della servetta Fotide e la convince a farlo assistere di nascosto a una delle
trasformazioni cui si sottopone la padrona. Alla vista di Pànfila che, grazie a un
unguento, si muta in gufo, Lucio prega Fotide che lo aiuti a sperimentare su di sé tale
metamorfosi. Fotide accetta, ma sbaglia unguento, e Lucio diventa asino, pur
mantenendo facoltà raziocinanti umane.
È questo l'episodio-chiave del romanzo, che muove il resto dell'intreccio. Lucio apprende
da Fotide che, per riacquistare sembianze umane, dovrà cibarsi di rose: via di scampo
che, subito cercata, è rimandata sino alla fine del romanzo da una lunga serie di
peripezie che l'asino incontra.
Una seconda sezione del romanzo comprende le vicende dell'asino in rapporto a un
gruppo di briganti che lo hanno rapito, il suo trasferimento nella caverna montana che
essi abitano, un tentativo di fuga insieme a una fanciulla loro prigioniera, Càrite, e la
liberazione finale dei due ad opera del fidanzato di lei che, fingendosi brigante, riesce a
ingannare la banda.
Il racconto principale diviene cornice di un secondo racconto, ossia della celebre favola
di Amore e Psiche narrata a Càrite dalla vecchia sorvegliante. Nei libri successivi, ad
esclusione dell'ultimo, riprendono le tragicomiche peripezie dell'asino, che passa dalle
mani di sedicenti sacerdoti della dea Siria, dediti a pratiche lascive, a quelle di un
mugnaio che è ucciso dalla moglie, a quelle di un ortolano poverissimo, di un soldato
romano, di due fratelli, l'uno cuoco e l'altro pasticciere.
Ovunque l'asino osserva e registra azioni e intenzioni con la sua mente di uomo, spinto
sia dalla curiosità, sia dal desiderio di trovare le rose che lo liberino dal sortilegio. Della
sua natura ambivalente si avvedono per primi il cuoco e il pasticciere, scoperta che
mette in moto la peripezia finale. Informato della stranezza, il padrone dei due artigiani,
divertito, compra l'asino per farne mostra agli amici. In un crescendo di esibizioni, Lucio
riesce a sfuggire, a Corinto, dall'arena in cui è stato destinato a congiungersi con una
condannata a morte, e nella fuga raggiunge una spiaggia deserta dove si addormenta.
Il brusco risveglio di Lucio nel cuore della notte apre l'ultimo libro. La purificazione
rituale che segue e la preghiera alla Luna preparano il clima mistico che domina la parte
conclusiva: Lucio riprende forma umana il giorno seguente, mangiando le rose di una
corona recata da un sacerdote alla sacra processione in onore di Iside, secondo quanto
la stessa dea gli aveva prescritto, apparendogli sulla spiaggia. Grato alla dea, Lucio si fa
iniziare al culto di Iside a Corinto, stabilitosi a Roma, per volere di Osiride, si dedica a
patrocinare le cause nel foro.
Le Metamorfosi sono caratterizzate da uno stile narrativo che nell’antichità mancava di
una fisionomia definita; appaiono quindi come una contaminazione di generi diversi
(epica, biografia, satira menippea, racconto mitologico, ecc.). Nel caso specifico è
problematico il rapporto con le fabulae Milesiae (racconti licenziosi che ispirarono anche
Petronio), a cui lo stesso autore riconduce l'opera, ma la perdita pressoché totale della
traduzione che Cornelio Sisenna (120 AC–67 AC) fece delle originali fabulae Milesiae di
Aristide di Mileto (II secolo AC) ne rende oscure le origini.
Un romanzo pervenuto nel corpus delle opere di Luciano di Samòsata, ma sicuramente
spurio, sviluppa lo stesso intreccio del romanzo latino, col titolo di Lucio o l'asino, in
lingua greca e in forma nettamente più concisa rispetto a quella di Apuleio; ma non sono
chiari i rapporti relativi e la priorità dell'uno o dell'altro dei due scritti e se abbiano avuto
una fonte comune.
È certo che il finale, con l'apparizione di Iside e le successive iniziazioni ai misteri di
Iside e di Osiride, appartiene ad Apuleio; anche perché il protagonista, un giovane che si
definisce greco in tutto il romanzo, in questo libro, inopinatamente, diventa
Madauriensis, sovrapponendo l’io–scrivente all’io-narrante.
Sono comunque differenti il significato complessivo e il tono del racconto: infatti, il testo
pseudolucianeo, rivela l'intenzione di una narrativa di puro intrattenimento, priva di
qualsiasi proposito moralistico, mentre le Metamorfosi di Apuleio - sotto l'apparenza di
una lettura di puro svago, intessuta di episodi umoristici e licenziosi - assume in realtà i
caratteri del romanzo di formazione. Ne è prova la funzione della curiosità di Lucio che
conduce il personaggio alla rovinosa trasformazione, dalla quale sarà liberato solo in
seguito a una lunga espiazione, culminante in un drastico cambiamento di vita.
A conferma del fatto che questa è una chiave di lettura suggerita dall'autore, alcuni
episodi minori dell'intreccio trovano corrispondenze precise con la vicenda di Lucio,
anticipandola o rispecchiandola. Emblematico è il caso della favola di Amore e Psiche
che, grazie al rilievo derivante dalla posizione centrale e dalla lunga estensione, assume
valore prefigurante nei confronti del destino di Lucio.
La trama rispecchia tradizioni favolistiche note in tutti i tempi: la figlia minore di un re
suscita l'invidia di Venere a causa della sua straordinaria bellezza, e viene, per volere
della dea, data in preda a un mostro. Cupido, figlio di Venere, vedendola, se ne
innamora e la libera, portandola al sicuro in un castello, dove ne diviene l'amante. Alla
fanciulla, che ignora l'identità del dio, è negata la vista dell’amato, pena l'immediata
separazione da lui. Tuttavia, istigata dalle due sorelle invidiose, Psiche non resiste al
divieto e spia Amore mentre dorme: all'inevitabile, immediato distacco pone rimedio la
dolorosa espiazione cui Psiche si sottomette, attraverso varie prove. La novella si
conclude con le nozze e gli onori tributati a Psiche, assunta a dea.
La favola di Amore e Psiche svolge nella struttura del romanzo una precisa funzione
letteraria: riproduce in scala ridotta l'intero racconto e impone ad esso la giusta chiave
di lettura. Tocca al racconto secondario, contenuto nel corpo del romanzo, rendere più
complessa la prima lettura attivando una seconda linea tematica (quella religiosa), che
si sovrappone alla prima linea tematica (quella dell'avventura) per conferirle un
contenuto iniziatico.
Le vicende di Lucio possono essere lette come le prove cui è sottoposto un essere che,
dopo un tempo d'alienazione e di errabonde peripezie, è fin dall'inizio promesso alla
salvezza voluta dalla dea signora delle trasformazioni. Senza l'inserzione della favola di
Amore e Psiche, Apuleio non avrebbe potuto dirigere gli avvenimenti narrati verso la
giusta lettura, per fare del romanzo la storia di una redenzione. L'evidente significato
allegorico nulla toglie alla leggerezza del racconto che segue felicemente la tradizione
favolistica.
Le altre digressioni inserite nell'intreccio principale sono costituite da vicende di vario
tipo, ove il magico (primi tre libri) si alterna con l'epico (storie dei briganti), col tragico,
col comico, in una sperimentazione di generi diversi che trova corrispondenza nello
sperimentalismo linguistico, con la sola eccezione del libro XI, dove la componente
mistica ha il sopravvento e la forma animale di Lucio ha perduto quasi totalmente
importanza, mentre nel corso del romanzo proprio la presenza costante delle riflessioni
dell'asino crea un effetto di continuità che forma i due livelli di lettura, e scandisce il
senso complessivo della vicenda come iter progressivo verso la sapienza.
Invito al lettore (1,1)
At ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram auresque tuas benivolas lepido
sussurro permulceam — modo si papyrum Aegyptiam argutia Nilotici calami inscriptam
non spreveris inspicere — , figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas et
in se rursus mutuo nexu refectas ut mireris. Exordior. "Quis ille?" Paucis accipe.
Hymettos Attica et Isthmos Ephyrea et Taenaros Spartiatica, glebae felices aeternum
libris felicioribus conditae, mea vetus prosapia est; ibi linguam Atthidem primis pueritiae
stipendiis merui. Mox in urbe Latia advena studiorum Quiritium indigenam sermonem
aerumnabili labore nullo magistro praeeunte aggressus excolui. En ecce praefamur
veniam, siquid exotici ac forensis sermonis rudis locutor offendero. Iam haec equidem
ipsa vocis immutatio desultoriae scientiae stilo quem accessimus respondet. Fabulam
Graecanicam incipimus. Lector intende: laetaberis.
Eccomi a raccontarti, o lettore, storie d'ogni genere, sul tipo di quelle milesie e a
stuzzicarti le orecchie col piacevole mormorio del mio racconto, solo che tu vorrai posare
lo sguardo su questo papiro egiziano vergato con un’arguzia tutta Nilotica [ovvero del
Nilo; riferimento allo stile alessandrino; ndr]. E avrai di che sbalordire sentendomi dire
di uomini che han preso altre fogge e mutato l’essere loro e poi sono ritornati di nuovo
come erano prima. Dunque, comincio. Certamente tu ti chiederai: ‘Ma chi è costui?’
Ebbene te lo dirò in due parole. Le regioni dell’Imetto, nell’Attica, l’Istmo di Corinto e il
promontorio del Tenaro nei pressi di Sparta sono terre fortunate, celebrate in opere più
fortunate ancora. Di lì, anticamente, discese la mia famiglia; lì, da fanciullo, appresi i
primi rudimenti della lingua attica, poi, emigrato nella città del Lazio, io che ero del tutto
digiuno della parlata locale, dovetti impararla senza l’aiuto di alcun maestro, con
incredibile fatica. Perciò devi scusarmi se da rozzo parlatore qual sono, mi sfuggirà
qualche barbarismo o qualche espressione triviale. Del resto questa varietà del mio
linguaggio ben si adatta alle storie bizzarre che ho deciso di raccontarti. Incomincio con
una storiella alla greca. Attento, lettore, ti divertirai!
Teoria della relatività
La Teoria della Relatività è una teoria fisica sul passaggio tra due sistemi di
riferimento in moto relativo.
L'idea di fondo è che due osservatori che si muovono in moto relativo misurano
differenti tempi e spazi per lo stesso evento, ma il contenuto delle loro osservazioni è lo
stesso.
Teoria galileiana
Nata con la fisica classica, dal punto di vista matematico è rappresentata da un sistema
di equazioni che legano le coordinate di un sistema con quelle di un secondo che si
muove con velocità v rispetto ad esso. Le trasformazioni classiche consistono in:
relatività galileiana, relatività di Galileo-Newton e trasformazioni di Galileo.
Tuttavia le teorie galileiane non si applicavano compiutamente a tutti i campi della fisica,
ad esempio non erano valida per l'elettromagnetismo.
Secondo il fisico Leonardo Ricci, la relatività galileiana era già nota prima della sua
formulazione, almeno nei principi generali. A sostegno della sua ipotesi, Ricci porta
niente meno che Dante. Nel canto XVII dell'Inferno, e precisamenti nei versi 115-117, il
Vate scrive:
"Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n'accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta"
In un articolo pubblicato su Nature nel 2005, Ricci ci fa notare come Dante fosse ben
consapevole della visione scientifica del mondo suo contemporaneo: senza di essa non
avrebbe potuto scrivere la sua opera. Di passaggio, Ricci rileva che fu proprio Galileo,
profondo conoscitore della Commedia, a fornire una prima stima del diametro del
girone, in circa 60 km. Galilei si basò su due indicazioni precise (verso 9 del canto XXIX
e ai versi 86-87 del canto XXX). Aggiunge Ricci:
«Un fisico contemporaneo può dimostrare che, date queste dimensioni e qualunque sia la velocità,
la forza fittizia centrifuga avvertita dal passeggero risulterebbe molto più piccola della forza
superficiale dovuta al vento apparente: nessuna forza di questo genere è menzionata nella
narrazione. Benché un simile ragionamento vada oltre quelle che erano le conoscenze fisiche del
medioevo, Dante aveva tuttavia intuito come il suo moto fosse di fatto rettilineo: egli stesso ne
indica la direzione, scomponendo il vettore che descrive il vento apparente nelle due componenti
orizzontale ("al viso") e verticale ("di sotto")».
Relatività in Einstein
Con Albert Einstein, la teoria della relatività ebbe un ulteriore sviluppo e oggi si tende ad
associare a tale teoria il nome del fisico tedesco, dimenticandosi, spesso, delle radici del
problema. La sua teoria, comunque, si compone di due distinti modelli matematici, che
passano sotto il nome di:
•
•
Relatività Ristretta
Relatività Generale
Relatività ristretta
La teoria della relatività speciale fu pubblicata nel 1905, allo scopo di rendere
compatibili tra di loro la meccanica e l'elettromagnetismo per trasformazioni del sistema
di riferimento. L'aggettivo speciale si riferisce al fatto che vengono considerate
trasformazioni solo tra sistemi di riferimento inerziali, escludendo quindi i sistemi
accelerati, come per esempio, quelli sotto l'azione della forza gravitazionale.
Spazio e tempo assoluti
La legge di inerzia richiede la definizione di un sistema di riferimento nel quale sia
valida. Allo stesso modo deve essere definito lo scorrere del tempo, necessario per
misurare
la
velocità
di
un
corpo
in
tale
sistema.
Isaac Newton, scartata la possibilità di un riferimento empirico, che sarebbe stato pur
sempre un'approssimazione, postulò l'esistenza di uno spazio ed un tempo assoluti, che
esistono indipendentemente da ogni oggetto esterno. Grazie a queste due entità
astratte, le leggi della meccanica classica mantenevano la loro validità.
Esperimenti cruciali
Dovevano quindi esistere esperimenti di EM in grado di mostrare lo stato di moto del
sistema di riferimento rispetto all'etere, assoluto (infatti le equazioni di Maxwell
dovevano
valere
solo
nell'etere!).
Ma l'esperimento di Michelson-Morley mostrò che al limite dell'errore di misura, la
velocità del nostro riferimento terrestre era nulla rispetto all'etere, anche ripetendo
l'esperimento 6 mesi dopo, con la Terra in moto in direzione opposta.
La possibilità che l'etere fosse trascinato dalla Terra (e quindi si ottenesse per questo
velocità
nulla)
non
resse
all'effetto
dell'aberrazione
delle
stelle
fisse.
La prospettiva di modificare le equazioni di Maxwell per renderle invarianti non funzionò,
perché Louis Fizeau mostrò che queste fornivano risultati in disaccordo con
l'esperimento di trascinamento della luce nell'acqua in movimento: la composizione delle
velocità non veniva rispettata dalla luce.
Era allora chiaro che la teoria dell'EM era corretta, le misure di EM non potevano
mostrare alcuna velocità rispetto all'etere. Allora occorreva trovare delle nuove
trasformazioni con le quali sostituire quelle di Galileo e di conseguenza modificare tutta
la meccanica classica per renderla invariante rispetto a queste nuove trasformazioni.
•
•
La strada era lunga ma concettualmente semplice. Per questo motivo, Einstein
non considerò mai la relatività speciale come un punto d'onore: disse invece che
chiunque vi sarebbe prima o poi giunto, solo considerando le evidenze
sperimentali.
Il titolo originale del lavoro di Einstein avrebbe dovuto essere teoria degli
invarianti, proprio a sottolineare la ricerca di equazioni che non cambiavano forma
nel passaggio tra sistemi diversi. Fu Max Plank a suggerire la parola relatività, per
indicare la trasformazione delle leggi fisiche tra osservatori in moto relativo tra
loro.
Postulati della Relatività speciale
Einstein per la sua definizione partiva da due postulati:
•
•
Primo postulato (principio di relatività): tutte le leggi fisiche sono le stesse in tutti
i sistemi di riferimento inerziali;
Secondo Postulato (invarianza della luce): la velocità della luce ha lo stesso valore
in tutti i sistemi di riferimento inerziali, indipendentemente dalla velocità
dell’osservatore o dalla velocità della sorgente di luce.
Il primo postulato è un’estensione di quello di Galilei. Il secondo postulato è richiesto dal
primo e generalizza l'osservazione che tutte le oscillazioni meccaniche (onde acustiche,
onde sull’acqua, onde su una corda) si propagano con una velocità che dipende
solamente dalla caratteristiche del mezzo che le supporta e non dalla velocità con cui la
sorgente dell’eccitazione si muove rispetto a tale mezzo. Questo non avviene per la luce
in quanto lo spazio, rimosso l’etere inutile, è omogeneo e isotropo. Quindi non c’è
bisogno di misurare l'etere e non esiste un sistema assoluto.
Punto di partenza e prime conseguenze
Questo significa anche la fine del concetto di etere, non solo come mezzo che trasmette
la luce (sostituito dal campo EM), ma anche come riferimento assoluto: se ogni
osservatore inerziale può dire a ragione di essere fermo rispetto all'etere, cade
definitivamente
il
concetto
di
spazio
assoluto.
Ma anche il concetto di simultaneità perde la sua assolutezza; infatti, se la velocità della
luce è finita ed è la stessa per ogni osservatore, due eventi simultanei in un sistema
inerziale non lo sono più se osservati da un altro sistema.
Se la luce emessa da due lampadine equidistanti da un osservatore O, lo
raggiungerà allo stesso istante, allora O considererà i due eventi come simultanei.
Ma un osservatore O' in moto con velocità v rispetto ad O, vedrà accendersi prima
la lampadina verso cui si sta muovendo, essendo minore la distanza che la luce
deve percorrere; solo dopo, vedrà accendersi l'altra lampadina.
La simultaneità tra eventi viene quindi a dipendere dal sistema inerziale da cui si
osserva.
Le nuove trasformazioni
Le trasformazioni che rendono invarianti le equazioni di Maxwell, sono indicate con
l'espressione trasformazioni di Lorentz (TL) e si ottengono in modo concettualmente
semplice applicando la costanza della velocità della luce. Rimandando alla voce specifica
per i dettagli, è importante comunque osservare che:
•
le TL non trattano separatamente il tempo e lo spazio, ma che questi vengono
invece correlati tra loro;
•
tali nuovi effetti dipendono da un termine β definito come β2 = v2 / c2 che diventa
trascurabile per velocità non confrontabili
con quelle della
luce;
o Viene anche definito per comodità il
termine
•
al limite di piccole velocità, le TL si riducono alle già note di Galileo, spiegando
perché negli esperimenti di meccanica classica non si possano misurare differenze.
Come diretta conseguenza, le TL portano a due importanti modifiche, poiché
introducono il concetto di relatività in grandezze normalmente considerate assolute:
•
Contrazione delle lunghezze
o La lunghezza L di un corpo in movimento non è invariante, ma subisce una
contrazione nella direzione del moto, data dalla formula
La lunghezza massima del corpo L0 è misurata nel sistema in cui il corpo è in
quiete e viene chiamata lunghezza propria.
Dilatazione dei tempi
o L'intervallo di tempo Δt tra due eventi non è invariante, ma subisce una
dilatazione se misurato da un orologio in moto rispetto agli eventi. Tale
dilatazione è data dalla formula
o
•
La durata minima dell'intervallo di tempo è misurata da un orologio solidale
con gli eventi; tale intervallo Δt0 viene chiamato tempo proprio.
Si noti come in entrambi i casi le formule si riducano all'uguaglianza per velocità
piccole rispetto a c. Si noti come questo limite, chiamato limite classico, possa
essere concettualmente ottenuto sia per v piccolo che per c→∞; infatti, una
velocità infinita della luce, significa poter stabilire una simultaneità assoluta e
quindi un ritorno alla visione classica. Il limite classico è una condizione necessaria
della teoria, poiché per piccoli valori di β gli effetti relativistici non devono essere
misurabili, per rendere conto dell'ottimo accordo sperimentale della visione
classica.
o
•
Note
•
Nessun corpo può assumere velocità uguali o superiori a c; le trasformazioni di
Lorentz per v ≥ c non sono definite (i valori sotto radice diventano nulli o
negativi). Il valore nullo non è accettabile, in quanto compare nel denominatore
delle formule: un corpo può essere accelerato in tempo finito solo ad una frazione
della velocità della luce minore di 1. I corpi senza massa materiale, come i fotoni
stessi, viaggiano sin dalla loro emissione alla velocità della luce. Eventuali
•
•
particelle più veloci della luce (dette tachioni) non potrebbero invece rallentare al
di sotto della velocità della luce.
La contrazione delle lunghezze non deve essere vista come se il metro variasse la
sua dimensione o come se l'orologio segnasse un tempo diverso. Le misure infatti
saranno differenti solo se effettuate da un altro osservatore in moto relativo: la
lunghezza del proprio metro e la durata del proprio minuto è la stessa per tutti gli
osservatori.
o La teoria ammette questi effetti come conseguenza della peculiarità di c e
del moto relativo e quindi come conseguenza del nostro modo di guardare le
cose. La lunghezza propria è la più grande fra tutte le lunghezze relative ai
punti di vista, ma non per questo è più reale delle altre. Sarebbe come
notare che più lontani siamo da un oggetto e più piccolo questo ci sembra:
niente ci può dire se l'oggetto si rimpicciolisce veramente o se sia un effetto
della distanza. Non ha quindi senso domandarsi se si tratti di un fenomeno
reale o apparente.
Le trasformazioni di Lorentz trattano il tempo alla stregua di una qualunque
coordinata spaziale; dato che un evento può essere sempre individuato tramite la
sua posizione nello spazio e lungo l'asse temporale, il formalismo relativistico può
essere formulato in uno spazio a 4 dimensioni (spazio-tempo) di Minkowsky, nel
quale le prime 3 coordinate coincidono con le normali coordinate spaziali e la 4 è
rappresentata dal tempo. Un evento è individuato quindi dai 4 numeri
(r, ct) = (x, y, z, ct).
Paradossi
Sono indicati come paradossi relativistici alcuni ipotetici esperimenti che sembrano
portare a due soluzioni incompatibili tra loro. Vengono usualmente risolti individuando
dove la meccanica relativistica si scosta da quella classica ed applicando la costanza di c
e le sue conseguenze. Vedere la corrispondente voce per alcuni esempi, tra i quali il
celeberrimo paradosso dei gemelli.
Cinematica relativistica
Tutto la meccanica classica venne modificata per renderla invariante per trasformazioni
di Lorentz, ottenendo risultati diversi dalla visione classica; è comunque sempre valido il
limite classico. Di seguito sono riportati due casi notevoli, ottenuti sempre applicando le
trasformazioni di Lorentz.
•
Legge di trasformazione degli angoli
o Si ricava che la nozione di parallelismo tra due rette è invariante, mentre
non lo è quella di perpendicolarità. L'angolo tra due vettori è invariante solo
se si trovano entrambi in un piano perpendicolare alla velocità relativa tra i
due osservatori.
•
Legge di trasformazione delle velocità
o Dati un sistema inerziale (1) ed un altro (2) in moto rispetto ad esso; se un
corpo si muove con un una certa velocità rispetto a (2), tale velocità e quella
del riferimento (2) si compongono per dare una velocità rispetto a (1), che
non è la semplice somma come nel caso classico. La composizione è tale che
in qualunque caso la velocità risultante non può superare c.
Dinamica relativistica
Basandosi sul fatto che per velocità piccole la dinamica di Newton fornisce risultati
corretti, si può supporre che valgano anche in relatività le stesse grandezze, anche se è
chiaro che già la legge di inerzia deve in qualche modo essere diversa, perché altrimenti
sarebbe
possibile
accelerare
un
corpo
oltre
la
velocità
della
luce.
Come punto di partenza si può considerare la quantità di moto ed esaminare un caso
semplice, che possa essere risolto con considerazioni di simmetria, che ci aspettiamo
debbano valere anche le caso relativistico; p.es. un caso di urto elastico, nel quale si
può imporre la conservazione della quantità di moto.
• Massa e quantità di moto
•
•
•
Si trova che la massa non è invariante, ma dipende dalla velocità del proprio
sistema: m = m0 ⋅ γ
Quindi occorre sempre più forza per accelerare un corpo; la velocità della luce non
può essere raggiunta, poiché occorrerebbe una forza infinita.
La relazione tra le misure della massa in due sistemi inerziali diversi è data da: m'
= γ(m - v⋅p/c2) mentre quella della quantità di moto è: p'= p + v((γ-1)v⋅p/v2 - mγ)
• Legge di inerzia
2
•
La legge F = m a nel caso relativistico diventa: m a = F - (F⋅u)u/c
•
Energia
o Da considerazioni sul lavoro, si dimostra che ad ogni energia E è associata
una massa inerziale pari a E/c2, che contribuisce alla massa relativistica
totale del punto materiale. In altre parole, se forniamo energia ad un corpo,
è come se aggiungessimo massa.
o Applicando considerazioni di simmetria, si trova inoltre che l'energia di un
corpo a riposo non è nulla, ma è data da
2
o E0 = m0 c
o che può essere vista come l'energia associata al corpo, per il solo motivo di
avere massa. Se invece il corpo è in movimento, l'energia, che comprenderà
anche quella cinetica, è:
2
o E = γmc
o Per piccole velocità, questa formula può essere espressa mediante un
termine che descrive l'energia cinetica ed uno relativo alla massa a riposo.
Evidenze sperimentali
La teoria della relatività speciale è oggi universalmente accettata. Gli effetti sulle
lunghezze e sugli intervalli di tempo sono normalmente osservati sia in natura che nei
laboratori dove particelle elementari sono accelerate a velocità vicine a quelle della luce.
Una prima conferma provenne dalla maggiore vita media dei pioni generati dai raggi
cosmici: questi pioni si trovano anche a livello del mare quando, considerata la loro vita
media, dovrebbero decadere entro pochi metri dalla loro generazione nell'alta
atmosfera.
L'equivalenza tra massa ed energia è confermata dal difetto di massa: due particelle
legate tra loro hanno una massa totale minore della somma delle stesse particelle
libere; la differenza di massa è contenuta nell'energia di legame.
Note finali
Venne osservato che le formule della relatività ristretta impediscono ad un corpo di
raggiungere la velocità della luce, ma non vietano l'esistenza di particelle che viaggino
sempre a velocità superiori a c, senza mai scendervi sotto: i cosiddetti tachioni. Pur
essendo un'interpretazione interessante, al momento non c'è alcuna evidenza
sperimentale di simili particelle.
Anche se la relatività ristretta è normalmente considerata corretta, vi sono pochi
scienziati che ancora oggi sperimentano vie alternative, normalmente basate sull'etere.
Relatività generale
La teoria della relatività generale fu pubblicata nel 1915. Al momento resta l'unica teoria
della gravitazione che sia stata confermata dagli esperimenti attuali; la gravitazione
viene interpretata come effetto locale della geometria dello spazio tempo sotto l'azione
di una massa o energia, che per la relatività ristretta si equivalgono.
Come disse lo stesso Einstein, fu il lavoro più difficile della sua carriera di teorico a
causa delle difficoltà matematiche da superare, poiché si trattava di far convergere
concetti di geometria euclidea in uno spazio che poteva non esserlo.
Le basi matematiche erano state esplorate in precedenza dal lavoro di Lobachevsky,
Bolyai e Gauss, che avevano dimostrato la non necessarietà del quinto postulato di
Euclide (due rette parallele restano sempre equidistanti), mentre il formalismo per uno
spazio non-euclideo era stato sviluppato da Riemann, studente di Gauss. Tale
formalismo era stato messo da parte come non applicabile alla realtà, fino
all'introduzione appunto della relatività generale.
Riflessioni iniziali e Relatività Speciale
Uno dei motivi che spinsero Einstein ad indagare in questa direzione fu una questione di
simmetria: la relatività ristretta aveva stabilito l'uguaglianza di tutti i sistemi inerziali,
lasciando fuori i sistemi accelerati, che presentano forze ben individuabili con un
qualunque esperimento. Questo poneva tali sistemi su una posizione privilegiata, diversa
rispetto agli inerziali, cosa che sembrava non corretta per Einstein.
In più, la relatività ristretta aveva mostrato che lo spazio ed il tempo devono essere
trattati insieme se si vogliono ottenere risultati coerenti; il tempo era diventato una
coordinata come le altre 3 e ad impedire certi movimenti in questo spazio a 4 dimensioni
c'è solo il principio di causalità.
Una riflessione (ascensore di Einstein): su un ascensore in caduta libera, senza
possibilità di vedere all'esterno, un'osservatore supporrebbe di essere in assenza di
gravità; per provarlo, egli lascia cadere una moneta ed osserva che la moneta resta alla
stessa altezza nella cabina. Questo porterebbe allora a dire che un sistema in caduta
libera (cioè in un campo gravitazionale) è indistinguibile (almeno per un certo periodo)
da
un
altro
non
sottoposto
ad
alcuna
forza.
D'altra parte, quando l'ascensore è fermo, l'osservatore sente una normale forza di
gravità (e la moneta cade); non appena l'ascensore inizia a cadere, la moneta resta a
mezz'aria: in questo caso l'osservatore può pensare che sia comparso all'improvviso un
campo gravitazionale dalla direzione del soffitto, che bilancia esattamente quello di
partenza; di nuovo non può decidere quale dei due casi sia quello vero.
Quindi i sistemi accelerati non dovevano essere così eccezionali.
Da questi presupposti, Einstein cercò quindi di costruire una visione della realtà parallela
a quella della legge d'inerzia: mentre in quel caso un corpo si muove, non accelerato,
lungo una retta se non viene sottoposto a forze, in questo caso un corpo sottoposto alla
sola gravità si muove lungo una traiettoria che, nello spazio-tempo deformato,
corrisponde ad una retta.
La curvatura dello spazio-tempo
La teoria afferma infatti che lo spazio-tempo viene più o meno curvato dalla presenza di
una massa; un'altra massa più piccola si muove allora come effetto di tale curvatura.
Spesso, si raffigura la situazione come una palla che deforma il piano del biliardo con il
suo peso, mentre un'altra pallina viene accelerata da questa deformazione del piano ed
in
pratica
attratta
dalla
prima.
Questa è solo una semplificazione alle dimensioni raffigurabili, in quanto ad essere
deformato è lo spazio-tempo e non solo le dimensioni spaziali, cosa impossibile da
raffigurare e difficile da concepire.
L'unica situazione che riusciamo a raffigurare correttamente, è quella di un universo a 1
dimensione spaziale ed una temporale. Un qualunque punto materiale è rappresentato
da una linea (linea di universo), non da un punto, che fornisce la sua posizione per ogni
istante: il fatto che sia fermo o in moto farà solo cambiare l'inclinazione di questa retta.
Ora pensiamo di curvare tale universo usando la terza dimensione: quello che prima era
la retta che descriveva un punto, ora è diventata una superficie.
Su una superficie curva non vale la geometria euclidea, in particolare è possibile
tracciare un triangolo i cui angoli sommati non forniscono 180° ed è anche possibile
procedere sempre nella stessa direzione, ritornando dopo un certo tempo al punto di
partenza.
Descrizione della gravitazione
Ogni particella di materia si muove a velocità costante lungo una curva, chiamata
geodetica che in ogni momento (cioé localmente) può essere considerata retta. La sua
velocità è data dal rapporto tra la distanza spaziale percorsa ed il tempo proprio, dove il
tempo proprio è quello misurato nel riferimento della particella, mentre la distanza
spaziale dipende dalla metrica che definisce la struttura dello spazio-tempo. La
curvatura determina l'effettiva forma delle geodetiche e quindi il cammino che un corpo
segue
nel
tempo.
In altre parole, un corpo si muove nello spazio-tempo sempre lungo una geodetica, allo
stesso modo in cui nella meccanica classica un corpo non sottoposto a forze si muove
lungo una retta. Se la struttura dello spazio-tempo in quel punto è piatta, la geodetica
sarà proprio una retta, altrimenti assumerà forme diverse, ma il corpo la seguirà
comunque. In questo modo, la gravità viene ad essere inglobata nella struttura dello
spazio-tempo.
Ancora una volta, è da notare che tale curvatura è applicata non solo alle coordinate
spaziali, ma anche a quella temporale; questo porta a notevoli difficoltà pratica nel
tentare di immagine una simile superficie a 4 dimensioni.
Fondamenti della teoria
In presenza di sistemi accelerati (o, che è lo stesso, sistemi sotto l'influenza della
gravità), si possono definire come inerziali solo zone locali di riferimenti e per brevi
periodi. Questo corrisponde ad approssimare con un piano ciò che sarebbe curvo su
larga scala). In tali situazioni valgono ancora le leggi di Newton.
Ora il principio di equivalenza afferma che non esiste un esperimento locale per
distinguere tra una caduta libera in un campo gravitazionale ed un moto uniforme in
assenza di campo (ascensore di Einstein)
Matematicamente, Einstein descrive lo spazio-tempo come uno pseudo-spazio di
Riemann a 4 dimensioni; la sua equazione di campo lega la curvatura in punto al
tensore energia in quel punto, essendo tale tensore dipendente dalla densità di materia
ed
energia.
L'equazione di campo indicata da Einstein non è l'unica possibile, ma si distingue per la
semplicità dell'accoppiamento tra materia/energia e curvatura.
Conferme sperimentali
Pur essendo stata formulata quasi un secolo fa, ancora oggi la relatività generale resta
per molti un quadro piuttosto oscuro, che probabilmente ancora nessuno riesce a
comprendere
appieno,
come
affermò
anche
lo
stesso
Feynman.
Ancora oggi si vengono proposti esperimenti per la conferma o meno di tale teoria, che
al momento attuale ha sempre resistito, ottenendo anche qualche successo notevole.
Sono indicati qui sotto solo i più importanti.
La prima conferma si ebbe nel 1919, quando osservazioni di Arthur Eddington durante
un'eclisse di Sole confermarono la visibilità di alcune stelle vicine al bordo solare, che in
realtà avrebbero dovuto essere invisibili: i fotoni luminosi venivano deviati dal Sole,
della quantità prevista dalle equazioni.
È relativamente recente la scoperta indiretta dell'esistenza dei buchi neri, oggetti
pesanti e compatti, dalla cui superficie non può sfuggire (quasi) nulla, essendo la
velocità di fuga superiore a quella della luce. Quasi nulla in quanto il fisico Stephen
Hawking ha dimostrato che i buchi neri evaporano perdendo particelle, per lo più fotoni,
tanto più velocemente quanto più piccola è la massa del buco nero.
Sono recentemente in atto alcuni esperimenti per la registrazione di onde gravitazionali,
anch'esse previste dalla teoria: tali onde si svilupperebbero quando due corpi con un
enorme campo gravitazionale orbitano a distanza ravvicinata l'uno con l'altro. Uno dei
più grandi rilevatori è il progetto VIRGO, situato a Cascina, vicino Pisa.
Un'altro risultato che confermerebbe la teoria è il cosiddetto frame dragging, ossia il
trascinamento del sistema di riferimento da parte di masse in rotazione: oltra alla sonda
Gravity Probe B della NASA, un articolo di ricercatori dell'Università di Lecce e del
Maryland hanno utilizzato i dati delle orbite di alcuni satelliti, confermando entro
l'errrore dell'un percento le previsioni della teoria.
Nel 2004, alcuni ricercatori della Cornell University hanno provato a simulare una
diversa costante gravitazionale per fermioni e bosoni, e hanno rilevato che questa
ipotesi sembra essere in accordo con l'abbondanza relativa dell'elio nell'universo
primordiale.
Paradosso dei gemelli
Consideriamo un'astronave che parta dalla Terra nell'anno 3000, diretta a Wolf 359,
distante 8 anni luce dal nostro pianeta. Supponiamo che l'astronave viaggi alla velocità
V di 240.000 km/sec, cioè V = 0,8 c; con queste premesse il tempo necessario per il
viaggio è 10 anni nel sistema di riferimento della Terra. Sull'astronave, il tempo viaggia
più lentamente
,
cioè al 60%, del tempo della Terra. Quindi il tempo per il viaggio sull'astronave sarà di 6
anni.
Volutamente, nei calcoli trascuriamo per semplicità l'accelerazione e la decelerazione
della navetta, anche se per portarsi a velocità relativistiche in tempi brevi, occorrono
accelerazioni che spappolerebbero letteralmente l'astronave e l'astronauta. Ma questa è
un'altra storia...
Se l'astronauta parte dalla terra nell'anno 3000, arriverà sulla stella nell'anno 3010
(tempo della Terra), mentre l'orologio dell'astronauta segna l'anno 3006 (per lui il
tempo si è contratto).
Però la luce che arriva dalla stella risale all'anno 3002 (la distanza tra Terra e Wolf 359 è
di 8 anni luce). Quindi, sommando dilatazione temporale ed effetto Doppler, il tempo
sulla Terra scorre ad un terzo di quello sulla nave, 2 anni contro 6.
Considerando il tempo della terra, la nave arriva nell'anno 3010, ma la si vedrà giungere
sulla stella solo nel 3018 (8 anni più tardi), mentre sulla nave l'orologio all'arrivo segna
il 3006. Quindi anche l'osservatore sulla terra vedrà l'orologio andare ad un terzo della
velocità: 6 anni contro 18.
Ora, per il ritorno, occorrono altri 10 anni tempo della Terra, quindi partendo nell'anno
3010 della Terra arriverà nell'anno 3020. Quindi, per il viaggio di ritorno, dalla Terra
sembrano necessari 2 anni (partenza 3018 e arrivo nel 3020), mentre sulla nave ne
trascorrono 6. Quindi il tempo sembra andare tre volte più veloce sulla nave che sulla
Terra. Per l'astronauta, mentre all'inizio del viaggio un orologio sulla Terra segna l'anno
3002, all'arrivo segna l'anno 3020, quindi 18 anni, tre volte più velocemente sulla terra
rispetto alla nave. Questo è il risultato della somma dell'effetto doppler e della
dilatazione temporale, facendo in modo che ognuno veda il tempo dell'altro accelerato o
rallentato dello stesso fattore.
Ora però cosa rende differenti i due sistemi? Se per l'astronauta sembra essere la terra
che si allontana a 0.8 c, lo stesso vale per la terra. A chi va applicato il principio di
dilatazione temporale? Chi viaggia? Relativamente parlando chi sta sulla Terra potrebbe
dire "io ho viaggiato rispetto all'astronave" ed è qui che nasce il paradosso.
Perché si calcola il tempo dilatato per l'astronauta e non per la terra? Semplice: il
principio si applica a chi varia la sua velocità, cioè a chi accelera. Visto che è l'astronave
ad effettuare manovre, è l'astronave che non si trova sempre in un sistema di
riferimento inerziale, e sarà lei a subire gli effetti relativistici.
Un'ultima nota: se l'astronauta viaggia a 0.8 c, ed impiega 6 anni per giungere alla
stella, allora nel suo sistema di riferimeno la stella dista 4,8 anni luce. Cioè, la distanza
si contrae dello stesso fattore di rallentamento del tempo, 0,6.
Sembrerebbe esserci un paradosso ma il paradosso è solo apparente. Infatti la relatività
ristretta può essere applicata solo se gli osservatori si muovono sempre a velocità
costante uno rispetto all’altro, ma in questo caso non è così: l’astronave del gemello che
va nello spazio infatti per tornare indietro deve decelerare e poi di nuovo accelerare. In
questo arco di tempo la teoria della relatività ristretta di Einstein non si può applicare.
Aberrazione della luce
Quando noi osserviamo una stella, la direzione secondo cui la vediamo non è quella
effettiva, data dalla congiungente il punto di osservazione con la stella, ma è solo una
direzione apparente.
Il fenomeno dell'aberrazione della luce si deve al fatto che gli oggetti astronomici che
osserviamo sono generalmente in moto rispetto al nostro telescopio (oppure,
copernicanamente, siamo noi in moto rispetto a loro). Per questo, noi vediamo i raggi di
luce provenire da una direzione differente rispetto a quella che misureremmo se fossimo
fermi. Questo fenomeno, che appare strano, è dovuto semplicemente alla legge di
composizione delle velocità. Per chiarirlo, si può usare questa analogia: supponiamo di
essere in movimento su una automobile (che corrisponde al nostro pianeta).
Supponiamo poi che ci sia un'altra auto che si sta muovendo su una strada
perpendicolare alla nostra (l'altra auto è nell'analogia il raggio di luce di un astro
lontano). Se ora facciamo lo sforzo mentale di assumere che siamo noi ad essere fermi
(e che quindi sia la strada a muoversi sotto di noi), abbiamo l'impressione che l'altra
macchina non si stia muovendo perpendicolarmente a noi, ma che la sua direzione sia
inclinata, e che si stia avvicinando. Un altro esempio: se guardiamo le traiettorie delle
gocce di pioggia che cadono (verticalmente) da un finestrino di un treno in moto
abbiamo l'impressione che cadano obliquamente. Lo stesso succede per i raggi di luce.
Naturalmente l'entità di questo effetto è tanto più grande quanto maggiore è la velocità
(relativa) tra i due oggetti. Quando si osserva una stella, la componente di velocità
relativa più importante è la velocità orbitale della Terra attorno al Sole, che è di circa 30
km/s. Osservando la Luna, la velocità relativa tra Terra e Luna è molto minore,
dell'ordine di 1 km/s, e di conseguenza l'effetto dell'aberrazione è molto meno sensibile.
L'effetto dell'aberrazione è di modificare l'angolo misurato di una quantità grossomodo
dell'ordine di v/c, dove v è la velocità dell'oggetto, e c quella della luce (pari a 300000
km/s). Ad esempio, l'aberrazione angolare per la Luna è di circa 0.7 secondi d'arco (da
confrontarsi con la dimensione angolare della Luna, pari a 0.5 gradi, cioè 1800 secondi
d'arco). Le aberrazioni dovute al moto della Terra attorno al Sole sono più sensibili,
precisamente 30 volte maggiori.
Luminosità corpi celesti
Con il termine magnitudine si
intende la misura della quantità di
luce che ci arriva da un corpo
celeste
(stelle,
galassie,
nebulose...). Questa quantità di
luce dipende da molti fattori come
la distanza dell'astro in questione,
la sua grandezza e la sua
temperatura.
Guardando il cielo si vede subito
che
alcune
stelle
sono
più
luminose di altre. Inoltre la luce
che la stella emette, durante il tragitto fino alla Terra, deve attraversare una quantità di
materia interstellare che ne assorbe una parte (assorbimento interstellare); la stessa
atmosfera terrestre contribuisce a questo assorbimento.
Per cui una stella che magari è più luminosa ma più lontana di un'altra, ci appare più
debole. Sorge allora la necessità di avere un metro valido in generale per misurare la
luminosità di un astro.
La magnitudine (luminosità) si distingue in:
a) magnitudine apparente: la dicitura apparente è dovuta al fatto che ci si riferisce
alle luminosità delle stelle così come appaiono viste dalla superficie terrestre. In
realtà questa scala non ci permette di classificare e quindi confrontare correttamente
le stelle tra di loro, in quanto non tiene conto né elle dimensioni effettive dell’astro né
della sua distanza dalla Terra;
b) magnitudine assoluta: è la luminosità effettiva e reale della stella. Si è deciso di
costituire un sistema di magnitudini assolute in cui si misura la luminosità che
avrebbero gli astri se fossero tutti alla distanza (arbitraria) di 10 Parsec dalla Terra.
Il legame tra la magnitudine relativa ( m ) a quella assoluta ( M ) è dato dalla seguente
relazione:
m
=d
M
dove d è la distanza della stella in Parsec.
Se si conosce la distanza di una stella se ne può determinare la magnitudine assoluta;
viceversa se si conosce la magnitudine assoluta si può risalire alla distanza, e questo è
quello che ci permettono di fare le variabili cefeidi.
La scala delle grandezze è progressiva all’incontrario, cioè più la massa della stella è
grande e meno sarà luminosa la stella.
Geometrie non euclidee
.. sappiamo che se andiamo oltre questa stanza e guardiamo molto più lontano, il modello euclideo non
funziona più. E' adatto per un numero ristretto di casi, ma non va bene in altre situazioni. Allora, cosa
fanno i fisici? Cercano di scoprire quali modelli siano adatti. Ma a un matematico, voglio dire a un
matematico puro, non importa se i modelli da lui immaginati possano essere applicati o no. Un
matematico puro costruisce dei bei modelli, geometrici, e non si cura se tali modelli possano essere usati
per
descrivere
l'universo
oppure
no.
L'importante
è
che
siano
belli.
Serge Lang, 1985
Le geometrie non-euclidee nascono dal tentativo di dimostrare, per assurdo, il V
Postulato di Euclide. Quest'ultimo ha rappresentato, nel corso dei secoli, un grosso
scoglio filosofico alla evidente correttezza della geometria euclidea. Assiomi e postulati,
infatti, non valgono solo come punto di partenza per la deduzione formale, ma anche
come principi veri di per sé, che garantiscono il contenuto della scienza che viene
edificata
a
partire
da
essi
proprio
con
la
loro
evidenza.
Il V postulato suscitò diverse perplessità circa la sua evidenza che dovevano aver
tormentato lo stesso Euclide. Nessun teorema fino al teorema 29, infatti, dipende da
esso, mentre tutti i teoremi successivi (escluso il 31) sì; questo fa sospettare che
Euclide abbia cercato di differire l'uso del V postulato il più a lungo possibile.
Ci sono inoltre dei teoremi che egli dimostra senza ricorrere al V postulato, nonostante
la dimostrazione sarebbe stata più semplice con l'introduzione di esso. Si direbbe
dunque che Euclide abbia cercato di ottenere il maggior numero di proposizioni senza
utilizzare il V postulato. Per spiegare questo modo di procedere potremmo ipotizzare che
Euclide abbia cercato di dimostrare il V postulato partendo dai primi quattro per
ottenerlo come teorema. Non giungendo però alla dimostrazione, essendo tuttavia
convinto
della
verità
di
tale
proposizione,
la
inserì
fra
i
postulati.
Dunque il primo uomo a sfidare Euclide fu Euclide stesso!
Se sono date due rette r ed s che formano con la trasversale t angoli la cui somma è
"piccola", è evidente che le rette si incontrano in un punto P, come richiesto dal V
postulato.
Se si mantengono fisse t ed s e si fa ruotare r in senso antiorario intorno a B, il
postulato afferma che
r continuerà ad incontrare s finchè α + β < 2 retti.
Possiamo però notare che, al ruotare di r, il punto P si allontana sempre di più da A su s,
cessando di essere osservabile. Quindi non è possibile verificare che la retta r non abbia
più un punto in comune con s quando α + β = 2 retti.
Il diverso grado di evidenza del V postulato può essere rilevato in modo ancora più
convincente se si fa riferimento ad un'altra sua possibile formulazione:
dati in un piano una retta e un punto fuori di essa, esiste nel piano una sola retta
passante per il punto e parallela alla retta data.
Questa proposizione, ad esempio, risulta falsa in un universo di dimensioni finite.
Immaginiamo infatti che il piano contenente r e P sia limitato alla zona interna ad un
cerchio, si vede immediatamente che vi sono molte rette passanti per P che non
incontrano r, contro la nuova formulazione del V postulato.
All'aumentare del raggio del cerchio, diminuisce la quantità di rette passanti per P che
non
incontrano
r,
ma
esse
restano
sempre
in
numero
infinito.
Cosa ci assicura che questa situazione non sussista più quando il piano è illimitato?
La verità del V postulato non è affatto immediata!
Euclide non riuscì a dimostrare il V postulato e a depennarlo dalle proposizioni primitive,
da allora, per più di 20 secoli, tutta la matematica occidentale cercherà di farlo.
Le possibilità sono evidentemente le tre seguenti:
- scelto P fuori di r non esistono parallele per P a r, in altri termini tutte le rette per P
intersecano
r
(geometria
ellittica
riemaniana
sulla
sfera);
- ottenere una dimostrazione del V postulato a partire dagli altri e dalle proposizioni da
essi
dedotte;
- esistono più rette per P che non intersecano r (geometria iperbolica: piano di
Klein).
La geometria di Riemann
Negando il V postulato euclideo si può ammettere che per un punto esterno ad una retta
passino, nel piano, almeno due rette che non la incontrano, ma anche che per il punto
non
passi
alcuna
retta
che
non
incontra
la
retta
data.
La prima ipotesi porta a sviluppare la geometria iperbolica, la seconda introduce un
sistema in cui non esistono rette parallele: la geometria introdotta da Riemann.
Assioma Di Riemann: Due rette qualsiasi di un piano hanno sempre almeno un punto in
comune.
Geometria sferica e geometria ellittica
Dall'introduzione dell'assioma di Riemann si possono ottenere, a seconda delle modifiche
apportate agli assiomi, due geometrie: una detta sferica ed una detta ellittica.
Partendo dall' ipotesi che due rette in un piano hanno sempre almeno un punto in
comune e che quindi in un piano non si può condurre (nel senso euclideo del termine)
una retta parallela ad un'altra, per un punto ad essa esterno, si può arrivare a
dimostrare che tutte le perpendicolari ad una retta r da una stessa parte di essa,
passano per un punto P, equidistante da ogni punto di r.
Se immaginiamo, poi, tutte le rette della parte opposta, possiamo notare che queste si
incontrano tutte in un punto P', con le stesse caratteristiche di P.
Al problema di sapere se P ed P' coincidono possiamo dare due risposte:
- P e P' non coincidono, ma sono due punti distinti: due rette hanno perciò sempre due
punti in comune e si intersecano in una coppia di punti distinti: questo sistema viene
chiamato Geometria sferica, ed è assimilabile alla geometria euclidea della sfera se per
"rette" assumiamo le circonferenze massime.
- P e P' coincidono: due rette si incontrano in un solo punto e due punti distinti
individuano una sola retta: questo secondo sistema viene chiamato Geometria ellittica.
C'è uno stretto legame fra le due, e se ci si limita a considerazioni di carattere locale le
due teorie coincidono.
Descrizione delle caratteristiche principali della geometria sferica
Pensiamo di dividere l'insieme dei punti del piano in coppie di punti, tali che ogni punto
appartiene ad una sola coppia e i punti di ciascuna coppia sono distinti. Per due punti
appartenenti a coppie distinte passa una sola retta, mentre per i due punti di una stessa
coppia passano più rette.
Definiamo antipodali due punti appartenenti ad una stessa coppia.
In questa geometria le rette sono linee chiuse, due punti antipodali dividono la retta in
due parti congruenti, e tutte le rette che passano per un punto dato passano anche per
il suo antipodale.
Vediamo alcune delle principali caratteristiche di questa geometria:
- le rette sono linee chiuse
- tutte le rette sono congruenti, hanno tutte la stessa lunghezza (finita)
- per due punti passa almeno una retta, per coppie di punti antipodali ce ne possono
essere infinite
- tutte le rette che passano per un punto dato passano anche per il suo antipodale
- la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180°, essa tende a 180° à quando
l'area del triangolo tende a 0. Parleremo in questo caso di eccesso angolare (in
contrapposizione al difetto angolare della geometria iperbolica), che sarà dato da α+β+γ180° .
- non esistono triangoli o poligoni simili con aree differenti
- due rette perpendicolari alla stessa retta si intersecano; tutte le perpendicolari alla
stessa retta passano per due punti antipodali
- due rette qualsiasi hanno un unica perpendicolare in comune
- non esistono rettangoli
- il teorema di Pitagora non vale, ma si avvicina al vero col tendere a zero dell'area del
triangolo.
Principali caratteristiche non euclidee della geometria sulla sfera
Aiutandoci sempre con il modello sferico, immaginando dunque che il nostro ambiente
geometrico non sia più il piano euclideo ma la superficie sferica S2, riesaminiamo
rapidamente le principali caratteristiche non euclidee di questa nuova geometria.
Teniamo presente che il piano e la superficie sferica sono ambienti bidimensionali, anche
se la sfera in sé è un oggetto tridimensionale.
- Le linee "rette" sulla superficie sferica sono le circonferenze massime, infatti, esse ci
forniscono il percorso più breve tra due punti, non antipodali, di S2. (L'analogia tra le
rette del piano euclideo e le rette della superficie sferica è molto forte: entrambe sono
caratterizzate dal fatto di essere le linee più brevi, l'unica differenza è che per punti
antipodali si perde l'unicità del percorso minimo!);
- per due punti del piano euclideo passa una e una sola retta, lo stesso accade per due
punti non antipodali di S2, ma per due punti antipodali passano infinite rette;
- due rette euclidee hanno al più un punto in comune mentre due rette di S2 hanno
sempre
due
punti
in
comune;
- nel piano euclideo esistono rette parallele, mentre non esistono rette parallele (cioè
rette che non si intersechino) in S2, ad esempio tutte le rette perpendicolari ad una retta
data, che nel piano euclideo sono tutte parallele tra loro, in S2 si intersecano in una
coppia di punti antipodali, detti in questo caso poli (si pensi alla superficie terrestre: i
meridiani sono tutti perpendicolari all'equatore e si incontrano ai poli);
- nel piano euclideo esiste una e una sola retta passante per un dato punto P e
perpendicolare a una data retta, in S2 ciò è vero se e solo se P non è un polo per la
retta;
- le rette euclidee sono tutte infinitamente estese, mentre in S2 hanno tutte la stessa
lunghezza
finita;
2
- il piano euclideo è infinitamente esteso, mentre S
ha area finita;
- di tre punti qualsiasi di una retta euclidea, uno e uno solo sta tra gli altri due, la stessa
cosa non si può dire per una retta di S2 trattandosi di una linea chiusa, quindi se due
punti nel piano euclideo individuano un unico segmento, in S2 due punti individuano due
segmenti.
- altra differenza con la geometria euclidea è il fatto che la somma degli angoli di un
triangolo
in
S2
è
maggiore
di
due
angoli
retti.
In figura è rappresentato il modello della geometria sferica, in cui il piano è
rappresentato dalle coppie di punti antipodali, e dalle rette che sono i cerchi massimi.
L'immagine mostra un triangolo con le tre altezze che si incontrano nei poli; misurando
gli angoli del triangolo si trova che la loro somma è maggiore di 180°.
La geometria ellittica e la fisica moderna
A partire dalla pubblicazione del saggio di Riemann, vennero intraprese diverse ricerche
nel campo della matematica pura e della fisica matematica che fanno uso del concetto di
varietà. In particolare, si indagò sulla possibilità di estendere alcune discipline classiche
della fisica matematica agli spazi a curvatura non nulla, nella speranza di trovare nuove
soluzioni ai problemi rimasti irrisolti. La condizione indispensabile per queste ricerche
era la necessità di esprimere le equazioni fondamentali della fisica matematica in una
notazione generale che restasse valida per ogni tipo di spazio, euclideo e non. Da queste
ricerche nasceva la nozione di tensore e di calcolo tensoriale elaborata da RicciCurbastro e Levi-Civita verso la fine del secolo. Intorno al 1912, Einstein si servì degli
strumenti matematici elaborati da Gauss, Riemann, Levi-Civita e Ricci-Curbastro per
elaborare la teoria della relatività generale. Nella conferenza di Kyoto del 1922, Einstein
affermò:
Se tutti i sistemi sono equivalenti allora la geometria euclidea non può valere in ciascuno di essi.
Abbandonare la geometria e conservare le leggi fisiche è come descrivere i pensieri senza parole. Bisogna
cercare le parole prima di poter esprimere i pensieri. Che cosa si doveva cercare a questo punto? Tale
problema rimase insolubile per me fino al 1912, quando all'improvviso mi resi conto che la teoria di Gauss
delle superfici forniva la chiave per svelare questo mistero. Compresi che le coordinate di una superficie di
Gauss avevano un profondo significato. Non sapevo però a quell'epoca che Riemann aveva studiato i
fondamenti della geometria in maniera ancora più profonda. [...] Mi resi conto che i fondamenti della
geometria avevano un significato fisico. Quando da Praga tornai a Zurigo, vi trovai il matematico
Grossmann, mio caro amico: da lui appresi le prime notizie sul lavoro di Ricci e in seguito su quello di
Riemann.
La geometria ellittica possiede un'interpretazione particolarmente importante nello
spazio fisico, fornendo il quadro matematico per la teoria della relatività generale.
Einstein nella sua teoria suppone che la curvatura dell'universo sia influenzata dalla
massa degli oggetti contenuti. Più un oggetto è denso, maggiore sarà la curvatura e
quindi in quel punto lo spazio sarà più "spigoloso". Nei pressi della Terra questo
fenomeno non è osservabile, ma già lo spazio nei pressi del Sole è sufficientemente
curvo da deviare leggermente i raggi delle stelle che lo attraversano. Il fenomeno che si
osserva è un apparente spostamento delle stelle dalla loro consueta posizione.
I corpi celesti più interessanti in questo campo sono i Buchi Neri, la cui origine è data
da una stella massiccia che termina la sua vita in un corpo dalla densità e massa
altissime, tali da trattenere la luce che emette. La teoria di Einstein prevede che lo
spazio intorno ad un buco nero sia così deformato da provocare fenomeni molto strani.
Per esempio, un raggio di luce che passasse alla distanza di una volta e mezzo il raggio
dell'orizzonte degli eventi (limite oltre il quale nemmeno la luce può sfuggire) si
fermerebbe su un'orbita intorno all'oggetto, se passasse più vicino formerebbe una
curva molto stretta, simile ad una parabola, se passasse invece più lontano formerebbe
una curva un po’ più larga. Si può notare che, se i raggi di luce rappresentano le rette,
lo spazio intorno al buco nero è fortemente curvato, ed è descrivibile solo con una
geometria non euclidea.
Introduzione alla geometria iperbolica
Uno dei postulati logicamente equivalenti al V è quello di Playfair, quindi una buona
negazione del V può essere formulata come la negazione del postulato di Playfair.
Ovvero:
Esistono
almeno
un
punto
P
ed
una
retta
AB
tali
che
i)
P
non
è
su
AB
né
sul
suo
prolungamento
ii) per P passano almeno 2 rette parallele ad AB
Come è possibile che vi siano due parallele alla stessa retta passanti per lo stesso
punto?
Siamo abituati a pensare che, data AB ed il punto P, ci sia solo la retta CD come
parallela alla prima.
fig.1
Ma proviamo a pensare che ne esista una seconda: pensiamo ad una retta passante per
P che non coincida con CD.
fig.2
Diremmo che questa non possa essere parallela ad AB perché convinti che incontri AB in
un certo punto prima o poi. Ma proviamo a prescindere dall'apparenza del disegno;
possiamo dimostrare che il prolungamento di EF debba per forza incontrare AB?
Teniamo presente che siamo in una geometria a cui abbiamo aggiunto la negazione del
postulato di Playfair, non abbiamo più il teorema 30 di Euclide che ci dice che rette
parallele ad una stessa retta sono parallele fra loro, quindi non deve disturbarci il fatto
che nel nostro caso EF e CD, entrambe parallele ad AB, si incontrino in P.
E ancora, non abbiamo più il postulato di Euclide che ci porterebbe a dire che, poiché
PQB+QPF<180°,
fig.3
le
due
rette
AB
e
EF
si
incontrano.
E potremmo andare avanti ancora, scontrandoci con asserzioni logicamente equivalenti
al V postulato, e trovandoci a dover ogni volta ricordare che l'abbiamo negato.
La verità è che nel disegno sembra talmente evidente che EF incontrerà AB che
crediamo di poterlo dimostrare, ma significherebbe dimostrare che AB è l'unica parallela,
ovvero dimostrare il postulato euclideo, problema che è stato spina nel fianco dei
matematici
per
2000
anni!
Ai nostri occhi può sembrare che la negazione del postulato di Playfair sia "incompatibile
con la natura di una linea retta", per dirla alla Saccheri, ma dobbiamo sforzarci di
superare ed ingannare il consueto modo di pensare la geometria e non spaventarci dal
fatto che la geometria iperbolica sfugge da ogni tentativo di rappresentazione intuitiva.
Proviamo a passare da un sistema assiomatico materiale, o teoria scientifica, a un
sistema
assiomatico
formale.
E convinciamoci che un sistema matematico (sistema assiomatico formale) è
sostanzialmente una pura struttura logica, alla quale si può annettere un significato o
meno.
Forse in questo modo la geometria iperbolica ci disarmerà un po' meno.
Proviamo per un attimo a credere che le rette CD e EF siano entrambe parallele ad AB
senza pretendere che questo abbia il significato che siamo soliti attribuire alla geometria
che descrive il nostro mondo fisico.
Disegniamo in questo
modo le nostre rette:
fig.4
Ora forse è più facile credere che EF non necessariamente incontrerà AB.
Del resto possiamo accettare questo disegno poiché la geometria iperbolica è un sistema
assiomatico formale e "linea retta" è un termine non definito e non possiamo realmente
sapere
come
si
comporti
quando
la
prolunghiamo.
Di EF sappiamo che è parallela ad AB e che non la incontrerà, effettivamente l'ultimo
disegno tiene conto di questo e non ci costringe a dubitare.
N.B. Con il disegno di fig.4 non intendo dire che nella geometria iperbolica le linee rette
si
incurvano.
In realtà non sappiamo ancora come si comportino; "linea retta" è semplicemente
un'espressione per indicare uno dei tipi di oggetti di cui la geometria iperbolica si
occupa.
E' importante capire che fig.4 offre una rappresentazione non meno valida di fig.2.
Il modello di Poincaré
Le geometrie non Euclidee possono essere rappresentate utilizzando modelli che si
basano sulle ordinarie figure della geometria euclidea.
Il modello di Poincaré è un modello di geometria iperbolica in cui l'idea di punto è simile
a quanto conosciamo nella geometria di Euclide, mentre quella di retta è
sostanzialmente diversa.
La cosa comunque importante è costituita dal fatto che non vale il postulato delle
parallele nella forma di Euclide.
Consideriamo un cerchio, che indichiamo con ∑ di centro O e raggio r, e nella seguente
tabella diamo la definizione degli enti utilizzati nel modello di Poincaré:
Punto
Punto interno a ∑
Diametro di ∑ o arco di circonferenza ortogonale a ∑ con estremi
Retta
su ∑ e interna ad esso
Punto su una retta Punto che appartiene in senso euclideo alla retta
Punto
tra
due
Punto tra i due punti della retta
punti di una retta
ln(ABUV)| dove U e V sono i punti di ∑ che si trovano sulla retta
Lunghezza di un
passante per A e B. Nel birapporto (ABUV) i segmenti sono intesi in
segmento AB
senso euclideo usuale
Ampiezza di un Ampiezza in radianti dell’angolo euclideo tra le semirette lati
angolo
dell’angolo
Segmenti
Segmenti di uguale lunghezza
congruenti
Angoli congruenti Angoli di uguale ampiezza
Rappresentiamo gli enti così descritti attraverso il seguente modello grafico:
Lunghezza di segmenti
Per quanto riguarda la lunghezza dimostriamo che la definizione data ben si accorda con
il concetto intuitivo di lunghezza e le proprietà relative.
Infatti essa è sempre definita in quanto A e B sono interni al cerchio e quindi il
birapporto, argomento del logaritmo, è sempre positivo.
La lunghezza di un segmento è sempre positiva grazie all’uso del valore assoluto; nel
caso in cui il punto A coincida con il punto B la lunghezza di AB è nulla.
La lunghezza di AB è sempre uguale a quella di BA, grazie alle proprietà del birapporto,
è additiva grazie alle proprietà del logaritmo.
Nel caso in cui teniamo fisso il punto A e facciamo tendere il punto B al punto U, il
birapporto (ABUV) tende all’infinito, così come il suo logaritmo. Perciò la lunghezza di AB
tende all’infinito, il punto U, che non fa parte del nostro insieme di punti perché
collocato sul bordo del cerchio, è infinitamente distante dai punti della retta.
Analogamente per il punto V se facciamo tendere B a V.
Simmetrie
Nel modello di Poincaré è interessante analizzare il concetto di simmetria rispetto ad una
retta, che abbiamo visto essere di due tipi, o un diametro o un arco di circonferenza
ortogonale.
Data una retta h del primo tipo (un diametro) per simmetria rispetto a h intendiamo
l’ordinaria simmetria del piano euclideo, ad ogni punto P interno a ∑ associamo il punto
P’ tale che h è asse di PP’.
Data invece una retta h del secondo tipo (un arco di circonferenza) per simmetria
rispetto ad h intendiamo l’inversione circolare che ha come cerchio di inversione il
cerchio che contiene h come arco.
Il cerchio ∑ è unito rispetto a tale inversione ed è immediato constatare che i punti
interni di ∑ sono mutati in punti ∑ ed esterni al cerchio che interni a ∑ . Punti che sono
nella parte di piano compresa tra ∑ e h sono mutati in punti interni a contiene h. Inoltre
una simmetria muta rette in rette, infatti se s è una retta diametro o arco di
circonferenza ortogonale a ∑ essa viene mutata in un cerchio che deve essere
ortogonale a ∑, poiché nell’inversione circolare si conservano gli angoli.
Dal momento che punti interni a ∑ rimangono dopo l’inversione sempre interni a ∑ ,
l’arco di circonferenza corrispondente a s é un arco ortogonale a ∑ , e di conseguenza
una retta. In conclusione le simmetrie rispetto ad una retta hanno le seguenti proprietà:
1.
2.
3.
4.
sono corrispondenze biunivoche tra i punti interni di ∑
conservano la lunghezza dei segmenti
conservano le rette
conservano l’ampiezza degli angoli
Queste proprietà sono ovvie se la retta è del primo tipo, sono conseguenza
dell’inversione circolare per simmetrie rispetto a rette del secondo tipo.
Infine è possibile dimostrare che se P è un punto interno a ∑ , e O il centro di ∑ , esiste
una simmetria che manda P in O.
Ipotesi di Riemann
L'ipotesi di Riemann è una congettura sulla distribuzione degli zeri nella funzione zeta
di Riemann ζ(s). Tuttora risulta uno dei principali problemi aperti della matematica; un
premio da 1.000.000 di dollari è stato offerto dal Clay Mathematics Institute per chi
scoprirà una dimostrazione della congettura.
La funzione zeta di Riemann ζ(s) ha alcuni zeri definiti "banali" per s = -2, s = -4, s = 6, ... La congettura di Riemann riguarda questi zeri e dice che:
La parte reale di ogni radice non banale è 1/2
Così le radici non banali dovrebbero trovarsi tutte sulla linea critica, e sarebbero della
forma s = 1/2 + it con t numero reale e i unità immaginaria.
La congettura, espressa in questo modo, potrebbe sembrare limitata alla conoscenza di
questa funzione; ha invece una correlazione sottile ed importante con la teoria dei
numeri primi. Eulero scoprì infatti che, effettuando la moltiplicatoria con p che spazia su
tutti i numeri primi, la funzione zeta può anche essere scritta come:
Ove {pj} è l'insieme di tutti i numeri primi.
L'andamento della funzione zeta (ed in particolare la distribuzione dei suoi zeri) risulta
quindi (attraverso altri passaggi che non riporto) legato alla distribuzione dei numeri
primi immersi nell'insieme dei numeri naturali.
Parte reale della funzione Z lungo la linea critica
Pare che Riemann avesse risolto la congettura che porta il suo nome, ma purtroppo le
sue carte furono distrutte; non possiamo quindi sapere per certo se egli avesse solo
impostato o risolto quel mistero.
Stabilire una regola matematica che dimostri se esiste o no una logica nell'assenza di
una cadenza nella distribuzione dei numeri primi, significherebbe comprendere se vi è
una "aritmia" totale in quest'ultima o meno e negare l’apparente casualità dei numeri
primi; questo potrebbe avere importanti ricadute sulle applicazioni informatiche odierne
e future, poiché la crittografia utilizza sovente come chiavi numeri interi la cui
fattorizzazione in numeri primi (molto grandi) non deve essere calcolabile in tempi
accettabili.
L'eventuale conoscenza della distribuzione di tale sequenza permetterebbe quindi di
facilitare la fattorizzazione di cui sopra: si renderebbe perciò necessario trovare altre
tecniche di sicurezza telematica, quali ad esempio la crittografia con le funzioni ellittiche
modulari, che però sono anch'esse soggette ad una congettura pendente, o la
crittografia quantistica, che per il momento sembra inattaccabile.
Oggetti tridimensionali
Nell’ambito della percezione visiva, alcuni aspetti dell’opposizione tra apparenza e realtà
(in particolare: tra oggetti tridimensionali e i disegni che li rappresentano, tra reale e
virtuale) possono essere indagati con l’aiuto di semplici strumenti fisici, i quali
permettono di eseguire esperienze che sono state storicamente rilevanti per lo sviluppo
del pensiero matematico e delle tecniche di costruzione e manipolazione delle immagini.
Prospettiva
•
•
•
•
•
•
Vetro del Dürer
Prospettiva di un traliccio cubico
Prospettografo dell’abate di Lerino
Il problema della restituzione prospettica
Anamorfosi ottica
Camera di Ames
Specchi
•
•
Anamorfosi catottriche: cono, piramide, cilindro
Anamorfosi catottriche: cono (punto di vista
proprio non appartenente all’asse)
Ombre
•
•
•
•
•
Ombra di un traliccio cubico
Proiezione di una circonferenza in ellisse
Proiezione figure poligonali
Ombre di figure piane
Ombre solari
Trompe l’oeil
•
•
•
Trompe l’oeil
René Magritte
Iperrealismo
Prospettiva
Immaginiamo di collocare un oggetto (tridimensionale) dietro una lastra trasparente
piana; guardiamolo attraverso la lastra con un occhio solo, immobile in posizione
prestabilita (può essere d’aiuto un foro, praticato in un supporto fissato a terra) e
disegniamo sulla lastra il contorno apparente dell’oggetto. Otteniamo così una immagine
bidimensionale: la prospettiva dell’oggetto utilizzato. Chiunque (lasciando invariata la
collocazione dell’oggetto e della lastra) guardi tale immagine ponendo il proprio occhio
nel medesimo luogo in cui lo ha tenuto chi l’ha eseguita, vedrà che essa si sovrappone
esattamente alla realtà (vedi Vetro del Dürer, Prospettiva di un traliccio cubico).
Esperienze di questo tipo, che si possono “meccanizzare” in molti modi (vedi per
esempio Prospettografo dell’abate di Lerino) sono state fondamentali per la scoperta
delle regole geometriche cui deve attenersi la costruzione, entro la superficie piana di un
quadro, di rappresentazioni prospettiche del mondo esterno (paesaggi, architetture,
persone, animali ecc.). In tali esperienze, chi osserva ha contemporaneamente di fronte
ciò che è rappresentato (la realtà) e la sua immagine (il disegno, la figura).
Ma quando ci troviamo davanti a un quadro che contiene prospettive, quasi sempre le
cose rappresentate sono altrove (spesso soltanto nella mente del pittore): nemmeno è
possibile ricostruirle come presenze concrete, perché oggetti diversi possono avere la
medesima prospettiva (vedi Il problema della restituzione prospettica).
Scopo originario della prospettiva è riprodurre il mondo esterno introducendo nel piano
l’illusione della profondità: è stata quindi di solito molto curata la somiglianza tra il
rappresentato (reale o fantastico) e il rappresentante (l’immagine). Tuttavia, le regole
della prospettiva permettono anche di distruggere questa somiglianza: ciò si verifica ad
esempio quando il punto di vista scelto dal pittore ha una posizione anomala
(fortemente laterale rispetto al quadro), mentre chi osserva l’immagine si colloca invece
in posizione frontale. (vedi Anamorfosi ottica). Può anche accadere che oggetti
tridimensionali opportunamente deformati o distorti riacquistino, se osservati da un
particolare punto di vista (e con un solo occhio) il loro aspetto normale. (vedi Camera di
Ames).
Vetro (finestra) di A. DÜRER
Dopo una serie minuziosa di istruzioni per fabbricarsi in proprio lo strumento, Dürer
conclude:
“Tenendo un occhio saldamento appoggiato all’oculare, ricalca sul vetro, mediante un
pennello, ciò che vedi all’interno della cornice. Poi, potrai riportare il disegno sulla
superficie
che
avrai
scelto
per
il
tuo
quadro”.
La distanza massima tra oculare e quadro è pari alla lunghezza del braccio di chi
disegna.
Nel modello, è stato ricalcato sul
vetro una scacchiera e un cubo:
guardando attraverso l'oculare, il
disegno si sovrappone alla realtà.
Prospettiva di un traliccio cubico
In questo modello si verifica che la figura disegnata
sulla lastra è una prospettiva del traliccio cubico.
Guardando attraverso il foro V con uno dei due
occhi (il foro serve a mantenere l'occhio immobile V
nella posizione corretta) si vedrà che la figura
W
tracciata sulla lastra si sovrappone esattamente
all’oggetto
reale.
Tale figura è (secondo la definizione classica di
prospettiva) l'intersezione tra la piramide visuale
(costituita dai raggi che provengono dall'oggetto e
convergono all'occhio) e il vetro attraverso cui l'oggetto viene osservato.
Spostando l'occhio nel foro W non si ha più sovrapposizione: la prospettiva è cambiata.
È importante osservare che la faccia del cubo parallela al quadro e più lontana
dall'occhio dell'osservatore ha come immagine, nello “scorcio”, il quadrato interno; la
faccia del cubo parallela al quadro e più vicina all'occhio dell'osservatore ha invece come
immagine
il
quadrato
esterno
L’immagine prospettica qui presentata si può ottenere anche come ombra (vedi il
modello “Ombra di un traliccio cubico”).
Prospettografo di D.Girolamo da Perugina (Abate di Lerino)
Questo strumento consente ad un operatore di realizzare l’ immagine prospettica di un
oggetto senza osservarlo direttamente dal punto di
vista prefissato. I raggi visuali sono materializzati con
un filo teso fra un punto dell’oggetto e un gancio
immobile in una posizione scelta arbitrariamente. Due
aste rigide ruotano mantenendosi in un
piano e
vengono posizionate in modo da individuare il punto di
intersezione fra il filo teso e il piano stesso (che
rappresenta il quadro). Ciò fatto, si toglie il filo; si
dispone un foglio sul piano individuato dalle aste
rigide; si ricopia su tale foglio il punto di intersezione fra le aste. Ripetendo l’operazione
per diversi punti dell’oggetto è possibile costruirne l’
immagine prospettica.
La sovrapposizione tra il foglio su cui si disegna e il
quadro è ottenuta con un dispositivo meccanico.
E’ chiaro che l’operatore non usa il suo occhio per
guardare l’oggetto ma soltanto per controllare la
correttezza delle sue operazioni: quindi egli non vede
l’immagine prospettica che sarà disegnata. Lo strumento
non riproduce ciò che viene osservato, ma ciò che si
dovrebbe
vedere
dal punto di vista
prescelto.
Il problema della restituzione prospettica
Prima parte. Si osserva dall'oculare la prospettiva di un traliccio
avente forma quadrata, disposto su un piano parallelo al quadro.
Nella parete di fondo si vede l'ombra che sarebbe generata da una
lampada puntiforme situata al posto dell'occhio.
Seconda parte. La medesima immagine prospettica e la medesima
ombra si ricavano da un traliccio sghembo: ciò dimostra che
oggetti diversi possono dare origine a piramidi visuali identiche.
E’ quindi impossibile ricostruire un oggetto tridimensionale
conoscendone soltanto la prospettiva o l’ombra: occorrono ulteriori
informazioni.
Anamorfosi ottica
Le anamorfosi ottiche sono tracciate su superfici bidimensionali
(piane nei casi più semplici) e osservabili direttamente a occhio
nudo (”per radium directum”). Nella costruzione si seguono le
leggi geometriche della prospettiva normale, ma si trasgredisce
alle norme del codice prospettico dominante tra Quattrocento e
Cinquecento, nel quale:
• l’occhio e l’osservatore sono in posizione frontale;
• il punto di distanza consente un angolo visivo inferiore a 90°;
• l’altezza dell’orizzonte corrisponde a una statura normale.
Invece nelle anamorfosi ottiche:
• la posizione del punto di vista è fortemente laterale, in modo che tutti i raggi
visuali colpiscano l'oggetto
molto
obliquamente;
• il punto di distanza è vicino al punto di fuga;
• l'altezza dell'orizzonte può essere scelta
arbitrariamente
Per riconoscere l’oggetto rappresentato è necessario
collocarsi esattamente nel punto di vista scelto dal
disegnatore
Camera di Ames
E’ una camera la cui forma irregolare si discosta in misura maggiore o minore da quella
di un parallelepipedo (la più frequente nelle case in cui viviamo) ma che tuttavia, se
osservata con un occhio solo da uno spioncino (punto di vista) aperto su una delle
pareti, ci appare normale, perfettamente squadrata.
Fu lo psicologo e oftalmologo statunitense Adelbert Ames Jr.
(famoso per le sue illusioni sperimentali riguardanti la
valutazione di misure e distanze) a realizzare (1946) i primi
esemplari di camere distorte, legando così ad esse il proprio
nome: egli utilizzò idee elaborate, nella seconda metà del XIX
secolo, da Hermann Helmoltz, studioso di fisiologia della
percezione.
Esistono molti tipi diversi di camere di Ames, sia abitabili, sia in
scala ridotta. In questa immagine, tre delle quattro pareti si
incontrano formando angoli di 90°; la quarta parete (quella di
fondo, in cui sono aperte due finestre) è invece inclinata rispetto alle pareti laterali;
anche soffitto e pavimento sono inclinati, e come la parete di fondo hanno forma
trapezoidale.
Per la costruzione occorre considerare la piramide visiva individuata dai raggi che
proiettano i vertici di un parallelepipedo (modello della stanza percepita) dal punto di
vista scelto su una delle facce. La camera di Ames sarà poi progettata in modo che i
vertici delle sue pareti appartengano ai raggi di tale piramide visiva: così ogni faccia
rettangolare del parallelepipedo si può considerare immagine prospettica di una delle
pareti della camera di Ames.
La figura illustra la fase iniziale del procedimento; mostra infatti come
si determina:
la pianta di una stanza distorta (linee continue) partendo da quella
(quadrata, linee tratteggiate) della stanza percepita;
la larghezza (sulla parete obliqua di fondo) di due finestre che
appariranno uguali.
Il punto P rappresenta il piede dell’osservatore. Si noti che vi sono
infinite possibilità di scelta per l’inclinazione (la lunghezza) della
parete di fondo.
Ames ha sostenuto che è la nostra assuefazione alla forma usuale delle stanze a farci
vedere dallo spioncino (punto di vista) una immagine virtuale priva di distorsioni e a
farcela assumere come sistema di riferimento: sicché due figure identiche, inserite
vicino alla parete di fondo, vengono percepite come se fossero alla stessa distanza, ma
di dimensioni diverse (una più piccola, mentre in realtà è più lontana, l’altra più grande,
mentre in realtà è più vicina).
Specchi
Sappiamo dall’esperienza quotidiana che uno specchio ci rinvia immagini solo se gli si
trovano davanti o in prossimità oggetti o persone. Invece le cose raffigurate in un
quadro sono di solito distanti, irraggiungibili nella realtà.
Ma c’è una profonda differenza tra gli specchi piani e quelli
incurvati: mentre i primi producono immagini virtuali che a
prima vista sembrano copie esatte di ciò che vi viene riflesso,
gli altri creano immagini profondamente deformate, talvolta
irriconoscibili.
Soprattutto nel XVII secolo, questo fatto ha suscitato curiosità
ed interesse tra i filosofi, i pittori, gli scenografi, gli studiosi
della natura. Dato un oggetto reale, come prevedere quale ne
sarà l’immagine virtuale rinviata all’osservatore da uno
specchio ricurvo?
Ci si è concentrati in modo particolare sul problema inverso (la cui soluzione permette
di costruire immagini crittografate) : data la forma dello specchio (geometricamente
semplice, ad esempio piramide, cono, sfera, cilindro), progettare un oggetto (o disegno)
deforme che, osservato da un particolare punto di vista entro lo specchio scelto, dia
origine per riflessione a una immagine virtuale predeterminata (ben proporzionata e
riconoscibile).
Si possono osservare qui:
• figure piane distorte che, decodificate per riflessione mediante specchi conici o
cilindrici, riacquistano forme normali (vedi Anamorfosi catottriche, specchi conici,
specchio cilindrico).
• quattro immagini reali separate che uno specchio piramidale (a base quadrata)
riproporziona e ricompone (entro la base della piramide stessa) in un’unica
immagine virtuale (vedi Anamorfosi catottriche, specchio piramidale).
Anamorfosi catottriche
Uno specchio piano, inclinato su un piano orizzontale π, fa
corrispondere ad ogni figura reale R di π, costituita dai punti
Q, una figura virtuale F, giacente sul piano σ (simmetrico di π
rispetto al piano dello specchio) è formata dai punti I.
Supponiamo che un osservatore guardi lo specchio con un
occhio solo, collocato (rispetto a π) ad una distanza
sufficiente per poter considerare paralleli i raggi visuali
convergenti all’occhio, e infine che tali raggi abbiano
direzione perpendicolare a π. In queste ipotesi, egli vede i
punti I proiettati ortogonalmente in P su π (e quindi la
proiezione ortogonale di F su π).
Piramide
In una piramide, le facce laterali sono specchi triangolari.
Nella illustrazione a fianco si mostrano (con riferimento ad
una piramide retta a base quadrata) sia le quattro regioni
triangolari (esterne alla piramide) che contengono le
quattro parti, opportunamente deformate, in cui
è
smembrata una figura reale R , sia le quattro regioni
triangolari corrispondenti: queste formano il quadrato di
base della piramide, entro la quale l’occhio dell’osservatore
(situato a grande distanza dall’asse) vede ricomporsi (ben
proporzionata) l’ immagine virtuale di R.
Gli oculari individuano la posizione corretta e la distanza (minima) da cui guardare.
Cono
Se si aumenta il numero n dei lati del poligono regolare di base
lasciando invariato il diametro della circonferenza circoscritta, le
regioni triangolari (reali e virtuali) si assottigliano. Per n tendente
ad infinito il poligono di base tenderà a coincidere con la
circonferenza circoscritta e la piramide con un cono retto.
Gli oculari individuano la posizione
corretta e la distanza (minima) da cui
guardare.
Cono da un punto di vista proprio non appartenente all’asse
La superficie riflettente del cono di vertice V genera una
corrispondenza tra i punti P interni al triangolo per l’asse e i punti Q del
piano di base.
Studiando questa corrispondenza è possibile determinare quale figura
F’ deve essere disegnata sul piano di base (nella regione esterna al
cono) affinché un osservatore posto in O ne raccolga, all’interno del
triangolo per l’asse, una immagine virtuale F prefissata.
Osservazione: solo se si guarda attraverso l’oculare (situato in O)
l’immagine virtuale F coincide con quella utilizzata per eseguire i
calcoli.
Cilindro
La superficie riflettente del cilindro genera una corrispondenza tra i punti P del piano γ
(parallelo all’asse del cilindro e secante il cilindro C lungo le rette di contatto TT', ZZ' dei
piani tangenti a C uscenti da O) e i punti Q del piano di base. Studiando questa
corrispondenza è possibile determinare quale figura F’ deve essere disegnata sul piano
di base (nella regione esterna al cilindro) affinché un osservatore posto in O ne raccolga
sul piano g una immagine virtuale F prefissata.
Osservazione: Solo se si guarda attraverso l’oculare l’immagine virtuale F coincide con
quella utilizzata per eseguire i calcoli.
Ombre
Confrontando le ombre prodotte da alcuni oggetti su superfici piane, per opera di
sorgenti luminose puntiformi, con le loro immagini prospettiche rilevate su quadri piani
si nota subito che c’è “qualcosa” in comune: per esempio, il disegno in prospettiva di un
traliccio cubico può essere ottenuto identico come ombra (vedi Ombra di un traliccio
cubico).
I matematici, attraverso studi protrattisi fino al XIX secolo, sono giunti alla conclusione
che ombre e prospettive si costruiscono con le stesse regole geometriche: nella teoria
delle proiezioni la formazione di ombre e quella delle immagini prospettiche vengono
trattate unitariamente.
Poiché i raggi luminosi si propagano in linea retta, è talvolta
opportuno rappresentarli con fili tesi. Se questi fili
convergono ad un unico punto, si può immaginare che
individuino raggi uscenti da quel punto (dove si troverà
allora la sorgente di luce), oppure raggi provenienti da un
corpo osservato e concorrenti verso l’occhio fisso di chi
guarda (vedi Prospettografo dell’abate di Lerino).
Cosi ad esempio nel modello Proiezione di una circonferenza
in ellisse, è possibile considerare l’ellisse come ombra
(proiezione) del cerchio, e il cerchio come prospettiva
(proiezione) dell’ellisse. Anche il modello Proiezione figure poligonali suggerisce di
interpretare le figure poligonali giacenti su uno qualsiasi dei due piani come proiezioni di
quelle giacenti sull’altro.
Già sappiamo che corpi diversi possono avere immagini prospettiche uguali (vedi Il
problema della restituzione prospettica): potranno dunque originare anche ombre
uguali. Infatti nel modello citato è facile aggiungere con la fantasia fili convergenti
sull’oculare che raccordino, sfiorando il contorno dell’oggetto, i punti della prospettiva a
quelli dell’ombra rappresentata sulla parete di fondo.
I modelli Proiezione di una circonferenza in ellisse e Ombre di figure piane mostrano,
nel caso particolare di oggetti bidimensionali, che è possibile muovere
contemporaneamente il quadro (l’oggetto illuminato) e l’occhio (la sorgente luminosa) in
modo da lasciare invariata la prospettiva (l’ombra).
Si noti infine: se la sorgente luminosa è a distanza molto grande, i raggi luminosi
diventano quasi paralleli. Quindi il modello Ombre solari illustra (sempre nel caso
particolare di un oggetto bidimensionale) il processo di formazione delle ombre solari.
Ombra di un traliccio cubico
Una sorgente luminosa proietta sulla parete di
fondo l’ombra di un traliccio cubico posto all’interno
della scatola. Si osserva che:
• Quando la sorgente luminosa si trova nella
posizione centrale S, l’ombra prodotta
coincide con l’immagine
realizzata nel
modello “Prospettiva di un traliccio cubico”. Però in questo caso la faccia del cubo
parallela alla parete di fondo e più lontana dalla sorgente ha come ombra il
quadrato interno; quella parallela alla parete di fondo e più vicina alla sorgente ha
invece come ombra il quadrato esterno.
• Confrontando i due modelli fisici si conclude quindi che la medesima immagine può
essere interpretata sia come ombra sia come prospettiva. Per mettere in evidenza
questo fatto occorre però che nella proiezione dell'ombra non vengano nascoste,
dalla opacità dell'oggetto, parti che risultano essenziali per poterlo riconoscere.
La sorgente luminosa può essere spostata a destra o a sinistra della posizione S,
generando per moto continuo diverse ombre (o prospettive) del cubo. Per osservare le
ombre non occorre disporsi in un luogo preciso (come invece è opportuno, a volte
necessario, nel caso delle prospettive).
Proiezione di una circonferenza in ellisse
A partire dai primi decenni del Seicento, dopo gli studi fondamentali di G. Del Monte, B.
Pascal e G. Desargues, la trattazione delle coniche viene completamente inserita entro
la teoria delle proiezioni. Le coniche infatti si possono considerare come ombre (o
prospettive, o anamorfosi) delle
circonferenze.
In questo modello fisico i fili tesi
possono essere interpretati sia
come
raggi visuali convergenti
all’occhio di un osservatore, sia
come raggi luminosi uscenti da
una sorgente puntiforme. Essi
stabiliscono una corrispondenza
tra i piani incidenti σ e τ: sono
corrispondenti punti collegati dal medesimo filo. Possiamo anche dire: ogni filo proietta
un punto di σ in un punto di τ; centro di proiezione è il punto di convergenza dei fili.
Il modello mostra che la circonferenza giacente sul piano σ è proiettata sul piano τ da un
centro proprio (non appartenente né a σ né a τ) in modo da ottenere una ellisse.
Possiamo
anche
dire:
la
circonferenza
è
immagine
prospettica dell’ellisse; l’ellisse
è ombra della circonferenza.
Il piano della circonferenza e il
centro di proiezione possono
essere
ruotati
contemporaneamente
per
mezzo di un parallelepipedo
articolato in modo tale che la
corrispondenza tra ellisse e
circonferenza rimanga invariata
(Teorema di Stevin). Si noti che σ ruoti intorno alla propria
intersezione con τ (retta luogo di punti uniti).
Proiezione di figure poligonali
Si osservano due piani incidenti π e π’ uno dei quali (π) viene
proiettato sull’altro (π’) da un punto esterno ad entrambi. Alcuni fili
tesi collegano coppie di punti corrispondenti al centro di proiezione
O. La formazione dell’immagine prospettica e dell’ombra di una
figura piana sono casi particolari della corrispondenza più generale
illustrata da questo modello fisico.
Il modello mostra inoltre :
• che è possibile muovere in centro di proiezione O assieme al piano π in modo che
le coppie di punti corrispondenti restino invariate e allineate con O durante il
movimento (Teorema di Stevin).
• che i punti di π giacenti da parti
opposte rispetto alla retta intersezione
tra il piano π e il piano parallelo a π’
passante per O (retta limite di π)
vengono proiettati su π’ in semipiani
opposti aventi come origine comune la
retta di intersezione tra π e π’ (retta
luogo di punti uniti). A rette su
π
corrispondono rette su
π’, ma il
parallelismo non è conservato.
Ombre di figure piane
Prima parte. Il parallelepipedo articolato permette
di muovere contemporaneamente punto di vista e
quadro
mantenendo
invariata
l'immagine
prospettica della figura giacente sul piano di terra.
(Il quadro π ruota attorno alla linea di terra; il
punto di vista O descrive una circonferenza avente
come centro l‘ intersezione tra il piano di terra π’ e
la retta per O parallela a π).
π
O
π'
Seconda parte. Il meccanismo è identico
(controllare aprendo lo sportello), ma ora sposta
una lampada puntiforme insieme a un quadro in
cui sono praticate due aperture: i contorni delle
ombre proiettate rimangono immutati. (Teorema
di Stevin).
Ombre solari
I due piani π e σ sono posti in corrispondenza mediante fili tesi
paralleli (i punti corrispondenti sono congiunti da un medesimo
filo). Le figure del piano σ si possono considerare ombre solari
di quelle disegnate su π : infatti possiamo ritenere che i raggi
solari (materializzati con fili tesi) siano paralleli essendo la
sorgente luminosa a grande distanza. Il modello fisico illustra il
caso in cui due punti corrispondenti qualsiasi sono equidistanti
dalla retta t (retta di intersezione fra i piani, luogo di punti
uniti).
Se, con una rotazione attorno alla retta
t, i piani π e σ sono sovrapposti in
modo che le coppie di punti che si
corrispondono
appartengano
al
medesimo semipiano (avente t come
origine), i raggi che congiungono punti
corrispondenti risultano paralleli alla
retta t: si può dimostrare che le aree di
due figure corrispondenti risultano
uguali.
Trompe l’oeil
Trompe l’oeil è un termine francese che significa letteralmente “inganna l’occhio”.
Il trompe l'oeil è un'antichissima forma di decorazione di estremo, accurato realismo che
vuole dare l'impressione di essere la cosa rappresentata attraverso l'uso sapiente della
prospettiva e dei giochi di luce ed ombra.
Eseguito con tecniche diverse, il Trompe l'Oeil fu conosciuto fin dall'antichità; addirittura
ne abbiamo tracce all'interno delle piramidi egizie.
Ebbe momenti di grande popolarità anche in Grecia ed
a Roma. E proprio nelle case private di Pompei (vedi
foto a destra) le decorazioni sulle pareti cominciano
ad evolversi secondo lo stampo moderno, queste
infatti
comprendevano
elementi
architettonici
raffigurati secondo una prospettiva di intuitiva
esattezza che volevano sembrare veri.
A partire dal Cinquecento, con la scoperta della
prospettiva, il Trompe l'Oeil si evolse ancora, fino a
raggiungere il massimo splendore nel Seicento.
Ai giorni nostri il il Trompe l'Oeil ha trovato utilizzo
nella pittura iperrealista diventando così una
imitazione così realistica della realtà che spesso è
confusa con una fotografia.
Solo il pavimento in parquet è reale, il resto è dipinto
René Magritte
“L’uso della parola I” è un dipinto raffigurante una
pipa e recante una ben chiara scritta: “Ceci n’est
pas une pipe”, cioè “Questo non è una pipa”.
Magritte vuole sottolineare la differenza tra
l’oggetto reale (la pipa) e la sua rappresentazione
(la pipa dipinta).
E’ ovvio che la pipa e la sua immagine non
coincidono, non sono la stessa cosa. Inoltre
nessuno potrebbe mai fumare una pipa dipinta,
pertanto l’oggetto reale e la sua rappresentazione
non hanno neppure le stesse funzioni: hanno
proprietà e caratteri diversi.
Ognuno ha quotidiana esperienza di questo curioso quanto inavvertibile equivoco
dovuto alla convenzione che lega a ogni oggetto un nome. E’ questo il contrasto tra
apparenza e realtà.
In “La bella prigioniera”,
vengono
mostrati
tre
oggetti in riva al mare:
una roccia, una tela
dipinta
posta
su
un
cavalletto e una tuba
infuocata.
Lo strumento musicale
immaginato in fiamme è
stato decontestualizzato
ed è stato modificato.
Magritte inoltre, rende
possibile
vedere
allo
stesso
tempo
e
dal
medesimo punto di vista
sia l’oggetto reale sia la
sua
rappresentazione
pittorica.
Infatti
sulla
tela
è
raffigurato, come in un
trompe
l’oeil,
esattamente quello che è al di là d’essa e che essa stessa ci nasconde: una porzione di
spiaggia, di mare e di cielo tempestoso. Il paesaggio quindi esiste sia nella mente di chi
osserva, sia nella realtà sia sulla tela.
Iperrealismo
Tendenza affermatasi soprattutto negli Stati Uniti all'inizio degli anni Settanta e
caratterizzata da un ritorno alla realtà colta nei suoi aspetti più consueti, quotidiani, a
volte banali. Il prefisso "iper" indica rispetto alla tradizione del realismo americano, non
tanto una accentuazione della qualità illusionistica dell'immagine, quanto piuttosto il suo
divenire, attraverso la mediazione della tecnica fotografica immagine "seconda":
l'artista, cioè, rielabora un testo fotografico, ovvero l'oggetto quale appare attraverso il
filtro non innocente della macchina. La descrizione dettagliata delle forme, la loro
riproduzione "oggettiva", in una parola il trompe l'oeil non cancella la deformazione
subita dall'ingrandimento del negativo: gli oggetti, perdute la dimensioni consuete,
divengono paradossali e insoliti.
Si avverte, nella ricerca di "neutralità" propria del ricorso alla fotografia, un'aria di
famiglia con le di poco precedenti esperienze della pop-art incentrate, almeno in alcuni
degli esempi più significativi, sulla cancellazione del tocco della mano dell'artista.
I rappresentanti maggiori dell'iperrealismo sono Chuck Close, con i macroscopici ritratti
come fotografie più o meno messe a fuoco; John De Andrea con gli impassibili nudi
realizzati da calchi dal vivo con tanto di capelli e peli veri; Duane Hanson, con le sue
figure tipiche della società americana ostentante i più vistosi feticci del consumismo.
La poetica iperrealista non ripesca nel passato le gratificanti vanità del trompe l'oeil, in
quanto è positivamente inquinata da un senso di totale spersonalizzazione
dell'immagine, di assoluta astrazione e asetticità nonostante la resa di scene "più vere
del vero", inutilmente brillanti e coloratissime, tanto da dare un senso di vuoto e di
squallore e un senso di fastidio per tanta fredda perfezione illusionistica.
La vena allucinata dell'immagine iperrealista è incrementata dalla distanza emotiva che
viene imposta dall'autore con il procedimento pittorico della resa fedele al vero sino
all'esasperazione, una distanza che si avverte incongruente con l'immagine pittorica.
Questo lato di tragica ironia, cui non è estranea una sotterranea tematica di critica
sociale,
rende
il
lavoro
iperrealista
interessante
e
giustificato.
L'Iperrealismo si confronta con la fotografia in una gara di abilità illusionistica (vedi foto
a sinistra) usando i tradizionali mezzi pittorici e privilegiando le immagini del reale
ordinario tipico delle fotografie turistiche o di costume.
Per fare questo ricorre ad un accentuato accademismo
che contribuisce a raffreddare e spersonalizzare
l'immagine, sospendendola in una irrealtà raggelata
verosimile e somigliante al reale cui si riferisce ma che in
effetti sostituisce con una sorta di parodia più o meno
tragica. Quanto più è densa di particolari non
approssimativi, non mediati dal calore dell'imperfezione
pittorica, quanto più risulta copia esatta dell'originale,
tanto più l'immagine iperrealista rivela il suo lato inutile e
grottesco che funge da veicolo di conoscenza dell'assurdo
del suo modello reale. Il movimento ha alcuni significativi
protagonisti, ma vita breve in quanto tale, rimanendo in
auge più o meno dalla metà degli anni Sessanta a quella
degli anni Settanta, dopo di che, non potendosi evolvere data la sua intrinseca rigidità,
si ritrova solo come tecnica accessoria o accenno in altre espressioni.