Il ritorno in Egitto. Il primo incontro con il faraone: occasione dl
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Il ritorno in Egitto. Il primo incontro con il faraone: occasione dl
Il ritorno in Egitto. Il primo incontro con il faraone: occasione dl smarrimento e di lamentela (Esodo 4,18 – 6,1; 6,9 – 7,7) I. Note introduttive • Questa quarta “lettura biblica” concentrerà la nostra lettura spirituale dell'Esodo sulla sezione che va da 4,18 a 6,1 e da 6,9 a 7,7 (i vv. 2-8 del cap. 6 sono già stati presi in considerazione nella lettura III). • Dal punto di vista redazionale, la narrazione contenuta in 4,18 – 6,1 è il frutto di un fitto intreccio di materiali provenienti dalle tradizioni jahvista e elohista. Tutta la sezione 6,9 – 7,7, invece, rientra in un ampio blocco di materiali appartenenti alla tradizione sacerdotale. • Dal punto di vista tematico, queste pagine dell'Esodo ci presentano, dopo il ritorno di Mosè in Egitto, il suo primo incontro con il faraone. Siamo alle prime battute di un conflitto, che sarà sviluppato a fondo nelle pagine successive, ma che fin da questo momento si annuncia ricco di molteplici suggestioni tematiche. Ne coglieremo alcune, orientandole alla formulazione di qualche linea dl lettura spirituale. • Tra i molti elementi che concorrono a definire il quadro narrativo, entro cui si svolge lo scontro tra l'inviato di Dio e il faraone, assume particolare rilievo la sottolineatura dell'opposizione inflessibile con cui il faraone contrasterà l'opera di Dio. A questo proposito, vaI la pena di segnalare, una volta per tutte, che l'affermazione secondo cui Dio «indurisce il cuore del faraone» (cfr. Es 7,3, come pure in molti altri luoghi), non è altro che un'espressione di stampo semitico, mediante la quale si intende ricondurre sotto il dominio della potenza divina anche la più radicale opposizione a essa. Tale affermazione, insomma, non ha alcun rapporto con quelle problematiche teologiche che riguardano l'esercizio della libertà umana e il corrispettivo attuarsi della volontà divina: essa proclama semplicemente che persino la più feroce contrapposizione a Dio, con tutte le responsabilità che essa suppone, non esce dall'ambito di una sovraeminente libertà divina. Il. Indicazioni per una lettura spirituale Il duplice scontro che stringe la vita di Mosè La chiamata di Mosè segna bruscamente la fine della sua vita di contemplativo solitario. Ormai egli è gettato nel pieno delle contraddizioni che caratterizzano il cammino degli uomini verso la liberazione. Tutto nella sua vita sembra preannunciare tensioni e conflitti, che solo pochi giorni prima sarebbero stati insospettabili. JHWH garantisce a Mosè l'assistenza dei suoi «segni» (cfr. 4,2-9), ma questi per l'appunto – oltre che segni della presenza del Signore – sono segni di uno scontro violento, che ormai minaccia di lacerare da cima a fondo l'esistenza di Mosè. Egli capisce che ormai è in gioco la sua «carne» (cfr. 4,6s.) ed il suo «sangue» (cfr. 4,8s.); vorrebbe «fuggire» (cfr. 4,3), ma si rende conto che non gli è più possibile, dato che ogni giorno che passa lo lega in modo sempre più prepotente alla testimonianza di un evento, la cui affascinante evidenza egli non può contestare: «Questo perché credano che ti è apparso JHWH, il Dio dei loro padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (4,5). Lo scontro che si preannuncia nella vita di Mosè si presenta in termini complessi e apparentemente contraddittori. Da un lato, Mosè sente di essere sempre più fortemente coinvolto nel mistero della presenza di Dio; sente che il Signore lo lancia verso uno scontro con il faraone, nel quale a lui competerà il ruolo ingratissimo di far valere i diritti e le esigenze di Dio stesso: «Il Signore disse a Mosè: "Mentre tu parti per tornare in Egitto, sappi che tu compirai alla presenza del faraone tutti i prodigi che ti ho messi in mano; ma io indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il mio popolo. Allora tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: Lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire. Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito!"» (4,2123). Sembra, dunque, che Mosè debba sostenere la parte del portavoce e del rappresentante di JHWH nel conflitto da questi aperto contro il faraone al fine di liberare il suo «figlio primogenito» Israele. Da un lato, quindi, la sua figura tende a identificarsi con le iniziative e i progetti di Dio stesso. Ma basta proseguire di poche righe la lettura del capitolo 4 per trovarsi di fronte a una situazione totalmente diversa. Leggiamo infatti che, «mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne contro e cercò di farlo morire» (4,24). Sono parole altamente enigmatiche, che introducono un episodio tra i più misteriosi (cfr. 4,25s.). Quel che appare certo è che qui si parla di uno scontro che ha come contendenti il Signore e Mosè: sembra quasi che la vocazione di Mosè lo abbia ingaggiato in un combattimento in cui il vero avversario è Dio stesso. In effetti, Mosè si accorge che quel Signore di cui ha ascoltato la voce, sta divorando insaziabilmente tutta la sua vita: gli ha tolto pace e tranquillità, gli ha procurato opposizioni e amarezze ... ora lo affronta direttamente, faccia a faccia, in una lotta notturna, che ricorda l'esperienza vissuta secoli prima dal patriarca Giacobbe (cfr. Gen 32,23-33). Il fatto è che Mosè si sta rendendo conto, a sue spese, di quanto l'amore di Dio sia un amore «geloso» (cfr. Es 20,5; 34,14; Dt 6,14s.); ed è a sue spese che egli deve imparare come il Dio da lui incontrato presso il Sinai voglia essere l'unico Signore della sua vita, finché questa non sarà integralmente trasfigurata e in essa trasparirà soltanto il volto di Dio. Le vicende che attendono Mosè saranno sempre più esemplari in questa prospettiva; per ora, la strana avventura di quella notte rivela a Mosè qualcosa di totalmente imprevisto: JHWH gli ruba la moglie, la quale – secondo una interpretazione del testo – «si ritirò da lui» (Es 4,26). La ritroveremo più avanti, accanto a suo padre, presso il quale se ne era ritornata insieme con i figli (cfr. 18,2-6). Mosè, dunque, rimane solo nel suo scontro a tu per tu con Dio. La condizione umana di Mosè è realmente carica di contraddizioni. Egli è come schiacciato in mezzo a una duplice opposizione, che non gli lascia più tregua. Da un lato, egli deve sostenere il fronte aperto contro l'ostilità radicale del faraone, in nome della libertà che Dio progetta per il suo popolo; dall'altro lato, Dio stesso lo stringe, rubandogli a brani la vita intera e riducendolo in uno stato di solitudine tale per cui soltanto JHWH possa essere Signore della sua intimità. I “fratelli” di Mosè La missione che apre a Mosè un orizzonte di nuovi impegni e di nuove responsabilità, si ricongiunge con l'antica passione, che aveva mosso il giovane Mosè a intervenire a favore dei «suoi fratelli» (cfr. 2,11-14). Dopo l'esperienza del Sinai, Mosè va dal suocero e gli dice: «Lascia che io parta e torni dai miei fratelli che sono in Egitto, per vedere se sono ancora vivi!» (4,18). Tutto si svolge, quindi, nell'identica prospettiva in cui già una prima volta Mosè «si era recato dai suoi fratelli e aveva notato i lavori pesanti da cui erano oppressi» (2,11). Ma se tutto sembra ripetersi uguale, tutto è in realtà diverso. Il movimento di Mosè verso i suoi fratelli non è più l'intervento generoso, ma ingenuo e presuntuoso, di un giovane pieno di energie: ora il viaggio che Mosè intraprende da Madian per ritornare in Egitto è disposto, in tutto e per tutto, da Dio, ed egli è un povero anziano a cui solo la chiamata di Dio dà slancio e vigore. «Mosè prese la moglie e i figli, li fece salire sull'asino e tornò nel paese d'Egitto. Mosè prese in mano anche il bastone di Dio» (4,20). Ed ecco che il secondo viaggio di Mosè verso i suoi fratelli si riempie di eventi nuovi. Già precedentemente il Signore, di fronte alle obiezioni di Mosè, gli aveva ricordato: «Non vi è forse il tuo fratello Aronne, il levita? Io so che lui sa parlar bene. Anzi sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo» (4,14). Infatti il racconto ci dice che «il Signore disse ad Aronne: "Va' incontro a Mosè nel deserto!". Andò e lo incontrò presso il monte di Dio e lo baciò» (4,27). Il giorno in cui Mosè riceve da Dio la sua missione non segna per lui l'avvio di un frenetico attivismo pastorale; anzi, egli non ha ancora cominciato il suo viaggio verso i suoi fratelli che già questi – nella persona di Aronne – gli muovono incontro. Mosè si trova ancora presso il «monte di Dio»; e in quello stesso luogo lo raggiungono i suoi fratelli, che scambiano con lui il «bacio» dell'amicizia e della pace. Man mano che l'impegno missionario di Mosè andrà prendendo corpo nei fatti, in riferimento a delle situazioni concrete, egli sarà costretto a constatare di essere ogni giorno scavalcato dall'iniziativa di Dio, che lo previene. Per chi è veramente chiamato al servizio dei propri fratelli, tutto accade come a gente sorpresa da un dono: quando forse ci si sta predisponendo a qualche grande impresa apostolica ecco che ci accorgiamo, pieni di meraviglia, che i nostri fratelli sono già accanto a noi, «presso il monte di Dio», uniti a noi dalla comunione che il Signore dona agli uomini, chiamati a un'unica salvezza. Nel caso di Mosè, anzi, Dio gli mette accanto un «fratello» che svolgerà un ruolo decisivo nell'opera della redenzione di Israele; questo fratello è Aronne, sulla cui figura il racconto biblico ritornerà ancora. Per ora egli viene presentato come il collaboratore che consentirà a Mosè di superare qualunque imbarazzo: «Parlerà lui al popolo per te: allora egli sarà per te come bocca e tu farai per lui le veci di Dio» (4,16). Mosè, dunque, non è più del tutto solo; il Signore fa spuntare al suo fianco, come d'incanto, un soccorso inaspettato: il conforto di un amico, la parola di un fratello. Gli ultimi versetti del capitolo 4 ci mostrano le prime esperienze e i primi risultati della collaborazione tra i due fratelli: «Mosè e Aronne andarono e adunarono tutti gli anziani degli Israeliti. Aronne parlò al popolo, riferendo tutte le parole che il Signore aveva detto a Mosè, e compì i segni davanti agli occhi del popolo» (4,29s.). Avviene allora ciò che nessuno poteva immaginare e che anche Mosè aveva dichiarato impossibile («Ecco, non mi crederanno ... »: 4,1); infatti, con lapidario rigore narrativo, che accresce il valore dell'annotazione, il testo del capitolo 4 così si conclude: «Allora il popolo credette. Essi PINO STANCARI, Lettura spirituale dell’Esodo: IV scheda 2 intesero che il Signore aveva visitato gli Israeliti e che aveva visto la loro afflizione; si inginocchiarono e si prostrarono» (4,31). È questa un'affermazione di principio, che – seppure verrà smentita ripetutamente dai singoli episodi che scandiranno il corso degli avvenimenti futuri – suona come un annuncio ormai incontrovertibile. Lo stesso Mosè si è sbagliato; siamo già all'alba del giorno della resurrezione, un filo di luce filtra all'orizzonte: è il Signore «che viene a visitarci dall'alto come un sole che sorge» (Lc. 1,78). Inginocchiamoci e adoriamo. Un “popolo di Dio” ancora non nato Quando Mosè, accompagnato dal fratello Aronne, si presenta alla corte del faraone, egli si immagina forse che tutta la faccenda debba risolversi entro breve tempo. In fondo, con profonda meraviglia, Mosè ha dovuto constatare la positiva e generosa rispondenza della sua gente. L'episodio immediatamente precedente, infatti, si era concluso con una affermazione perentoria: «Allora il popolo credette ... » (Es 4,31). Mosè ha sentito stringerglisi attorno quella massa di schiavi, che aveva abbandonato tanti anni prima, e ha l'impressione che quella gente, improvvisamente risorta, costituisca ormai un vero e proprio «popolo», pronto ad affrontare il proprio destino. È così che, senza alcuna paura, Mosè affronta il faraone e gli annuncia il suo messaggio: «Dice il Signore, il Dio d'Israele: Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto!» (5,1). Israele, dunque, comincia ad affacciarsi alla storia dell'umanità, forte della sua prerogativa di popolo di Dio; e fin dal primo momento la vocazione d'Israele è segnata: il popolo di Dio esiste per celebrare una festa a JHWH, nel deserto. Tutto si riassume, dunque, nella scoperta di un'intimità particolare, che ormai lega indissolubilmente gli Israeliti a quel Dio di cui Mosè ha loro parlato. L'emozione di questa scoperta è talmente intensa, che forse Mosè si illude di aver concluso la sua missione nel momento stesso in cui proclama al faraone il suo messaggio. Egli immagina che ormai tutto sia chiarito e risolto: d'ora in poi, Dio stesso parlerà al suo popolo, lo raccoglierà nel deserto e l'inviterà alla gioia della sua «festa». Quanto a lui, Mosè, egli ritiene probabilmente che la sua funzione si sia esaurita in quel suo coraggioso proclama verbale (cfr. 5,1): non gli resta che scomparire dietro le quinte. In realtà, Mosè si ritira, convinto com'è di essere ormai diventato inutile: lo vedremo ricomparire soltanto al v. 20, quando si saranno chiarificati molti elementi della situazione che attualmente definisce il popolo di Dio. Nel frattempo, si assiste all'emergere in primo piano della comunità degli Israeliti in quanto tale. Dal v. 3 al v. 19 del capitolo 5, vediamo in azione gente che ormai si è assunta la gestione del proprio avvenire: sono gli Israeliti stessi che trattano direttamente con il faraone e affrontano a viso aperto i loro problemi. Essi si sentono ormai investiti della funzione di “popolo di Dio” e, in uno slancio d'entusiasmo, assumono su di sé, in prima persona, la stessa vocazione di Mosè; infatti, recatisi dal faraone, gli Israeliti gli dicono: «Il Dio degli Ebrei si è presentato a noi... » (5,3). La vocazione personale di Mosè sfuma all'orizzonte, mentre il suo posto viene occupato dal popolo intero, da questa massa di schiavi che un brivido di euforia ha trasformato in una improvvisata comunità di gente, che si sente assai sicura della propria vocazione e della propria comunione d'intenti. Gli Ebrei parlano ormai in prima persona plurale («noi...!») e addirittura ragionano come se essi stessi fossero stati presenti al Sinai, e come se a essi là Dio si fosse manifestato... Si sentono già “popolo di Dio”; è per questo che, con una certa arroganza, ripetono il proclama di Mosè, scimmiottandone però e forzandone grossolanamente i termini: «Ci sia dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio, perché non ci colpisca di peste o di spada!» (5,3). Certo, si fa presto a confondere i propri sentimenti solidaristici con la vocazione del popolo di Dio. Per ora gli Israeliti si illudono di essere ormai giunti alla conclusione della loro storia: come Mosè, anch'essi pensano di essere già arrivati prima ancora di partire. Eppure, qualcosa dimostrerà che il vero Israele, quello cbe realmente potrà essere detto “popolo di Dio”, non è forse ancora nemmeno nato! Lo smarrimento degli Israeliti Il fatto è che, prima di uscire dall'Egitto, Israele deve fare i conti con l'ostilità del faraone e deve superarne l'opposizione. E per fare questo sarà necessaria una lunga lotta e una lenta maturazione interiore. Già ora, comunque, la risposta del faraone spazza via, in un attimo, tutte le pie illusioni di Mosè: «Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce per lasciar partire Israele? Non conosco il Signore e neppure lascerò partire Israele!» (5,2). E all'ingenua arroganza degli Israeliti il faraone oppone la sua arroganza, ben più feroce e ben più interessata: «Ecco, ora sono numerosi più del popolo del paese, e voi li vorreste far cessare dai lavori forzati!» (5,5). Alle sue parole seguono immediatamente i fatti: «In quel giorno il faraone diede questi ordini ai sorveglianti del popolo e ai suoi scribi: Non darete più la paglia al popolo per fabbricare i mattoni come facevate prima. Si PINO STANCARI, Lettura spirituale dell’Esodo: IV scheda 3 procureranno da sé la paglia. Però voi dovete esigere il numero di mattoni che facevano prima, senza ridurlo ... » (5,6-8). Mentre si scatena, impetuosa e incontrollata, la reazione del faraone (cfr. 5,6-11), la gente d'Israele si trova improvvisamente ricondotta alla sua situazione di schiavitù: dopo un momento di illusoria commozione, è forse più duro ripiombare sotto il bastone dei propri aguzzini, e vedersi costretti a “raccattare”, a schiena curva, le stoppie necessarie per i mattoni (cfr. 5,12-14). Gli Israeliti sono presi dallo stordimento; infatti, sta succedendo esattamente il contrario di quel che si attendevano: anzi, sembra che proprio il loro impegno per il bene abbia sciolto una nuova catena di mali! Questa constatazione ha in sé qualcosa di mostruoso e di rivoltante: come è mai possibile che i guai e le ingiustizie sembrino aumentare proporzionalmente all'intensità della speranza con cui si lavora per l'affermazione della libertà e della giustizia? Sotto i colpi dei loro sorveglianti, gli Israeliti vedono frantumarsi sul nascere le loro prime ipotesi di liberazione. Lo smarrimento è tale per cui gli Israeliti in realtà non vogliono ancora credere a quel che sta loro capitando. È per questo che «gli scribi degli Israeliti» si recano dal faraone a reclamare giustizia, con quel tanto d'ingenuità che sempre caratterizza coloro i quali non sanno capacitarsi della potenza del male, cosicché amerebbero quasi rendersela amica (cfr. 5,15s.). Il discorsetto con cui gli scribi degli Israeliti si rivolgono al faraone è, a questo proposito, assai illuminante; si ha l'impressione, infatti, che essi vogliano commuovere il faraone, proclamandosi suoi «servi» e dichiarandogli la loro fedeltà (cfr. 5,15): anzi, sembra quasi che essi si rechino dal faraone per ottenere giustizia da lui, a cui riconoscono competenza e autorità in merito a questioni di bene e di male! Non solo: c'è un'espressione del loro discorso che merita una particolare attenzione. Tentando di accattivarsi la simpatia del faraone, infatti, essi giungono ad affermare, più o meno, quanto segue: “Se noi oggi siamo bastonati, questa è un'ingiustizia contro il tuo popolo” (cfr. 5,16). In altre parole, gli Israeliti, quasi senza accorgersene, si dichiarano niente meno che “popolo del faraone”! Altro che “popolo di Dio” ...; è bastato un primo impatto con la solidità del male, perché questo popolo si mostrasse pronto a vendersi al migliore offerente: anche allo stesso faraone – se necessario –, proprio a colui che di quel male era il diretto responsabile. È bastato un primo scontro con lo scandalo dell'autoritarismo ingiusto e della violenza reazionaria, perché Israele smarrisse del tutto il proprio orientamento e si riconoscesse addirittura nei panni del “popolo del faraone”, implorante uno sguardo di compassione da parte di quel beneamato signore! Il lamento di Mosè Ed ecco che rispunta Mosè. Possiamo immaginare che egli, ritiratosi in disparte, abbia osservato tutta la scena, con i suoi imprevisti sviluppi, subendo lui pure lo scandalo della situazione creatasi in seguito al suo proclama (cfr. 5,1). Ora, gli scribi degli Israeliti, ulteriormente maltrattati dal faraone, uscendo dalla sua presenza, «incontrano Mosè e Aronne» (cfr. 5,19s.). È così che tutta la rabbia e il livore, che essi non hanno saputo tradurre in un'adeguata contestazione del faraone, si scaricano ora addosso a quei due poveretti: «Il Signore proceda contro di voi e vi giudichi; perché ci avete resi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri, mettendo loro in mano la spada per ucciderci!» (5,21). Secondo l'opinione degli Israeliti, dunque, la grave colpa di Mosè e di Aronne consisterebbe nell’aver causato il raffreddamento dei favori che essi godevano presso la corte! Non c'è che dire: lo scandalo del male nel mondo suscita lamenti e proteste di ogni genere, ma – a quel che sembra – l'aspetto più scandaloso e preoccupante della faccenda sta nel fatto che spesso si smarrisce addirittura l'obiettivo e la misura delle proprie lamentele. E così che pure Mosè impara a lamentarsi: «Allora Mosè si rivolse al Signore e disse: "Mio Signore, perché hai maItrattato questo popolo? Perché dunque mi hai inviato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male a questo popolo e tu non hai per nulla liberato il tuo popolo!"» (5,22s.). C'è comunque una nota singolare e profondamente nuova nel lamento di Mosè: è questa la prima volta che un uomo si lamenta con Dio; ed è dinanzi a Dio che, per la prima volta, un uomo denuncia l'apparente trionfo del male sul bene. Lo scandalo di quella situazione, attraverso la voce di Mosè, investe e coinvolge direttamente la responsabilità di JHWH: «Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male … e tu non hai per nulla liberato il tuo popolo!» (5,23). Nessuno degli antichi patriarchi aveva mai osato tanto, perché nessuno aveva mai nemmeno immaginato di poter rimproverare a Dio il suo operato, il fallimento dei suoi piani di liberazione e il crescente successo dei malvagi e degli ingiusti. Con il suo lamento Mosè apre la via a una lunga serie di personaggi, che daranno sfogo, attraverso le pagine della Scrittura, al loro grido di protesta e di contestazione: tutti personaggi che, secondo la testimonianza esemplare di Giobbe, mentre rimproverano a Dio lo scandalo di un'ingiustizia dilagante, che soffoca gli innocenti ed emargina i santi, ne subiranno fino in fondo, in prima persona, tutte le conseguenze. Finché, dall'alto della croce, Gesù stesso griderà il salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai PINO STANCARI, Lettura spirituale dell’Esodo: IV scheda 4 abbandonato?» (Sal 22,2). Siamo soltanto alle prime battute dello scontro tra Mosè, rappresentante di Dio, e il faraone; eppure Mosè ha ormai compreso che la sua missione comporta una precisa rinuncia a ogni ipotesi di lieto fine. Nulla garantisce ai credenti il successo, la vittoria e le soddisfazioni, che forse si aspettano: per i credenti, infatti, tutto deve essere riposto nelle mani di Dio. Solamente Dio conosce i tempi e le scadenze che riguardano il suo piano di liberazione; nessuno di noi può mitizzare i meriti della propria buona volontà; e nessuno di noi può pretendere che le sue cose vadano automaticamente a finir bene, perché Dio solo è in grado di giudicare, al di là della vita e della morte, il bene e il male, il giusto e l'ingiusto. Per questo, tutto il racconto rimane ora appeso all'iniziativa e alla parola di Dio: «Il Signore disse a Mosè: "Ora vedrai quello che sto per fare al faraone con mano potente: li lascerà andare, anzi con mano potente li caccerà dal suo paese!"» (6,1). La missione solidarietà di Mosè, tra solitudine e La sezione 6,9 – 7,7 ha come linea unificante il terna della collaborazione tra Mosè e Aronne. Non mancheranno altre pagine, nel corso dell'Esodo, in cui avremo a che fare con queste due figure e con le loro diverse funzioni. Per ora, il nostro testo insiste soltanto sulla comune origine dei due personaggi (essi sono fratelli: cfr. 6,20) e sulla stretta complementarietà delle loro rispettive missioni (cfr. 7,1s.). A dire il vero, questa pagina dell'Esodo sembra mossa dal bisogno di fare spazio, accanto a Mosè, al personaggio Aronne, che altrimenti resterebbe troppo in secondo piano. D'altronde, questo testo appartiene alla tradizione sacerdotale, cosicché non fa meraviglia constatare come si senta il bisogno di valorizzare la figura di Aronne, che sarà appunto il capostipite di tutta la discendenza sacerdotale. Aronne assume così un ruolo decisivo in ordine al compimento della stessa missione di Mosè: se la parola di questi è «impacciata» (cfr. 6,12.30) Dio gli mette accanto Aronne, il quale presterà la sua voce perché venga proclamato il messaggio affidato a Mosè (cfr. 6,29; 7,1s.). In questo senso, la presenza di Aronne acquista quasi un carattere di necessità: solo in forza della sua cooperazione Mosè potrà realizzare la sua propria missione. Anzi, il nostro testo giunge al punto di porre sullo stesso piano Mosè e Aronne, quasi che la medesima missione riguardasse allo stesso modo l'uno e l'altro: «Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne, e diede loro un incarico presso gli Israeliti e presso il faraone re d'Egitto, per far uscire gli Israeliti dal paese d'Egitto» (6,13). Addirittura, Aronne viene commemorato come fratello “maggiore” di Mosè: «Mosè e Aronne eseguirono quanto il Signore aveva loro comandato; in tal modo esattamente operarono. Mosè aveva ottant'anni e Aronne ottantatrè, quando parlarono al faraone» (7,6s.). A prescindere da ogni questione di carattere storico e letterario, queste considerazioni ci aiutano a cogliere meglio quali siano le dimensioni che definiscono il personaggio Mosè nel libro dell'Esodo. Si tratta di due dimensioni fondamentali, che, malgrado la loro apparente contraddittorietà, sarà bene tenere sempre presenti insieme, nel corso della nostra lettura. Per un verso, infatti, si sottolinea fortemente la solitudine di Mosè, il quale si lamenta con Dio per essere stato inviato a un'opera che sembra inutile, o senza senso, o spropositata. È per questo che assai frequentemente sentiamo risuonare sulle sue labbra, o riecheggiare nel suo cuore, questo angoscioso interrogativo: «Perché dunque mi hai inviato?» (cfr. 5,22). Tutto preso dal suo dialogo esclusivo con Dio, più volte Mosè dovrà constatare la scarsa rispondenza che la sua missione incontrerà presso il cosiddetto “popolo di Dio”. Per un altro verso, comunque, il procedere della narrazione segnalerà sempre meglio la vacuità di qualunque immagine di Mosè tendente a farne un eroe solitario e lontano: Mosè non è e non sarà mai un eremita ... , nella misura in cui la sua vocazione non può esistere al di fuori di un piano comune. In questo senso, Mosè non ha più diritto a un destino tutto suo: ormai, per definizione, egli è innestato in un dialogo di collaborazione e di servizio che lo lega al popolo verso cui Dio l'ha inviato. La stessa comparsa del fratello Aronne non sta a simboleggiare altro che questa appartenenza di Mosè alla sua gente: è appunto la struttura interiore della sua vocazione che impone a Mosè un'ineludibile solidarietà con il suo popolo. Per questo, sempre meglio si porrà in risalto il radicamento di Mosè in Israele. Si tratta già, secondo il racconto, di una comunanza di nascita e di provenienza familiare; ma sempre più si andrà caratterizzando come una comunanza di speranza, di lamenti, di destino. PINO STANCARI, Lettura spirituale dell’Esodo: IV scheda 5