7. La voce dal roveto ardente

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7. La voce dal roveto ardente
[ Ehyeh-Asher-Ehyeh ]
« Io sono colui che sono » (Esodo 3,14): la voce dal roveto ardente
(MARC CHAGALL, Mosè davanti al roveto ardente, Nizza, Museo Nazionale del Messaggio Biblico)
Con un’immagine altamente poetica, Chagall ci racconta la visione di Mosè al monte di Dio e
l’incontro con il Signore - il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe – che gli affida la
missione di liberare “il mio popolo” dalla schiavitù d’Egitto.
… il re d’ Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e
il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua
alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese
pensiero. (Esodo 2, 23-25).
La vocazione di Mosè è la risposta al grido degli Israeliti. Dio, che vuole intervenire come
“difensore” del suo popolo e come “giudice” nella contesa che oppone Israele all’Egitto, chiama
Mosè e gli affida la missione di liberarlo. Per leggere il racconto di Esodo 3 ci faremo guidare da
Paolo De Benedetti, docente emerito di Giudaismo e collaboratore del card. Martini alla Cattedra
dei non-credenti.
Nella cena ebraica di pasqua, si dice: « In ogni generazione ciascuno ha il dovere di
considerare se stesso come se egli fosse uscito dall’Egitto». Non si potrebbe esprimere meglio
non solo il significato permanente dell’Esodo ma il senso dell’Antico Testamento e della
Bibbia intera, e più in generale il carattere della fede ebraica e cristiana: la storia come
sacramento, il “sacramento della storia”.
Nel caso di Abramo e in quello di Mosè la “vocazione” era così oscura, che la Lettera agli
Ebrei vi vede esempi di fede piuttosto che di grazia: «Per la fede, Abramo, chiamato da Dio.
obbedì [...] e partì senza sapere dove andava» (Ebrei 11, 8). «Per la fede, Mosè, fattosi
grande, ricusò d’essere chiamato figlio della figlia d’un Faraone, [...] e per la fede abbandonò
l’Egitto » (Ebrei 11, 24-27). (PAOLO DE BENEDETTI, La morte di Mosé) .
Mosè
I racconti di vocazione hanno lo scopo di legittimare una missione, specialmente quando il
profeta deve affrontare le critiche degli avversari e l’opposizione del popolo riottoso. Il testo di
Esodo 3 ci racconta – nello stile delle vocazioni profetiche - la manifestazione del Signore all’Oreb,
la chiamata, le obiezioni di Mosè e la promessa: Io sarò con te:
Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse
il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve
in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il
fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare
questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato
per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non
avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E
disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe».
Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. (Esodo 3,1-6).
L’incontro coglie Mosè in un momento difficile della sua vita: dopo anni di esilio, nel deserto,
mentre pascola il gregge del suocero. E in quella situazione riceve l’autorità che gli era mancata
fin’ora. Lascia il gregge e si avvicina per osservare lo strano fenomeno. Come un bambino, o uno
scienziato come Newton, si stupisce e si chiede: « perché il roveto non brucia? ». È la domanda che
l’ha accompagnato per tutta la vita. Alla voce che lo chiama dal roveto risponde come Abramo:
«Eccomi». E come dirà il Signore a Isaia: « lo invocherai e il Signore ti risponderà; implorerai aiuto ed
egli dirà: “Eccomi!”» (Is 58:9). Per realizzare la sua missione, Mosè dovrà imparare a vedere con gli
occhi di Dio, a sentire con gli orecchi di Dio: allora sarà capace di condurre Israele sulla via della
libertà.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a
causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere
dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra
dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il
Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo. Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho
visto come gli Egiziani li opprimono. Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire
dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!». Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal
faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?». Rispose: «Io sarò con te. Questo sarà per te il
segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su
questo monte». (Esodo 3,7-12).
Per realizzare i suoi progetti, Dio ha bisogno di uomini liberi, non di esecutori passivi. Le
obiezioni dei profeti alla loro vocazione sono un segno di autenticità. Mosè avanza quattro
obiezioni: « La prima: «Chi sono io per compiere una tale missione» (Es 3,11). La seconda tocca
l’identità del mandante: «Chi sei tu? Qual è il tuo nome?» (Es 3,13). La terza riguarda le possibili
difficoltà dei destinatari: «Crederanno?» (Es 4,1). La quarta è identica a quella di Geremia: «Non so
parlare!» (Es 4,10; Ger 1,6). ». In risposta alla seconda obiezione, riceve la rivelazione del Nome:
Mosè disse a Dio: “Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha
mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?”. Dio disse a
Mosè: “Io sono colui che sono!” [ Ehyeh-Asher-Ehyeh ]. Poi disse: “Dirai agli Israeliti: Io Sono mi ha mandato a voi”. Dio aggiunse a Mosè: “Dirai agli Israeliti: Il Signore, il Dio dei
vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi.
Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in
generazione. (Esodo 3,1-15).
L’espressione Ehyeh-Asher-Ehyeh – tradotta nella Bibbia CEI, conformemente al testo greco e
latino, Io sono colui che sono, esprime il nome proprio del Dio d’Israele. Ascoltiamo Paolo De
Benedetti.
Mosè
Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, «Io sono colui che sono» o, come
abbiamo precisato altre volte, «colui che sarò», cioè con l’idea di futuro. Cosa c’è in questa
espressione così difficile, così misteriosa, indefinita ?
È un’espressione che è stata lungamente fraintesa. Nella teologia del mondo
occidentale, c’è stato qualcuno - ricordo persino qualche mio docente quando ero studente
universitario - che diceva: « Dio rivela l’essere per essenza. Qui c’è il germe della filosofia
dell’essere ». No. Perché il verbo “essere” ebraico non è il verbo “essere” delle lingue
indoeuropee. Il verbo essere ebraico si dovrebbe piuttosto tradurre con “esserci”. Si dovrebbe
tradurre «Io sarò con te», piuttosto che “io sono”. “Con te”. Il verbo essere qui è usato nella
forma indefinita che può significare imperfetto o futuro. Quindi è quasi impossibile tradurre
questa formula con poche parole. Bisognerebbe dire «io ero, sono e sarò colui che ero, sono e
sarò». Ma nemmeno così va bene. Bisogna aggiungere “con te”, “con voi”. C’è una grande
abbondanza di interpretazioni. Per esempio, nei maestri d’Israele qui si legge anche: «Sarò
con voi nelle vostre sofferenze future, come sono adesso con voi nelle sofferenze presenti, e
come ero con voi nelle sofferenze passate». E qui c’è un bel passo in cui si fa dire a Mosè:
«Ma non hanno già abbastanza dolori, i figli di Israele, perché tu annunci loro che sarai con
loro nelle sofferenze future?». E allora Dio gli risponde: «Hai parlato bene. Di’ loro: “Io
sono”, senza aggiungere alcun riferimento ai dolori futuri». (PAOLO DE BENEDETTI, E il loro
grido salì a Dio. Commento all’Esodo)
P.D.B.:
Dopo il peccato d’Israele, la costruzione del vitello d’oro, il perdono del Signore è sancito con la
consegna a Mosè delle nuove tavole di pietra e dalla discesa del Signore nella nube, dove proclama
ancora una volta il suo Nome:
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il
Signore passò davanti a lui proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e
pietoso, lento all’ ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille
generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza
punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta
generazione”. (Esodo 34:5-7).
Per noi cristiani l’ «Io sono» di Esodo 3,14.15 risuona nei molti «Io sono» del Vangelo di
Giovanni e nell’Apocalisse: « In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono »
(Giovanni 8:58), « Io sono l’ Alfa e l’ Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene,
l’ Onnipotente! (Apocalisse 1:8). Nel Padre nostro diciamo: « sia santificato il tuo Nome » :
Gesù è venuto a insegnarci a “santificare il nome di Dio”, cioè a trattare Dio come Dio, a non
trattare come Dio nient’altro che Dio e la sua gloria, ad amarlo di un amore sommo ed
esclusivo, a esaltarlo al di sopra di tutto e specialmente al di sopra di noi stessi, a non metterlo
mai nel nostro cuore in competizione con un bene terreno, a essere entusiasti di lui. La
sicurezza e la fiducia che Gesù riesce a comunicarci, insegnandoci a pregare così, ci fa
presentire che questo desiderio è già esaudito, nel senso che Dio sta già manifestando la sua
misericordia e la sua gloria nel mondo e sta già portando a compimento il suo disegno di
salvezza. In ultima analisi, Dio solo è autore della propria glorificazione e chi prega così come
Gesù ha insegnato sa di esserne partecipe e ne desidera il compimento in sé e in tutti, oggi, e
soprattutto nella manifestazione regale che egli farà di se stesso alla fine del mondo (cf Ez
36,23)» (CARLO MARIA MARTINI, Padre nostro).
Mosè