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“IL GIUDIZIO PENALE: LE FASI
PROCESSUALI RIVISTE DALLA
PSICOLOGIA”
PROF. FRANCESCO ROSA
Università Telematica Pegaso
Il giudizio penale: le fasi processuali riviste
dalla psicologia
Indice
1
LA PSICOLOGIA GIURIDICA -------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
IL DIBATTIMENTO PENALE --------------------------------------------------------------------------------------------- 4
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 10
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 La Psicologia Giuridica
La Psicologia Giuridica è una Disciplina che studia la persona umana (nei suoi aspetti
intellettivi, caratteriologici ed attitudinali) mentre “svolge la sua personalità” in uno o più contesti,
o formazioni sociali, o assume particolari posizioni giuridiche in specifici procedimenti giudiziari,
per comprendere gli “stati cognitivo-comportamentali” esibiti nella ritualità del Processo ed
essere posti al vaglio dall’Autorità Giudiziaria, giudicante.
Si definisce, perciò,
“Psicologia Giuridica dei Processi Cognitivi” l’applicazione dei
concetti, dei metodi, delle euristiche e degli studi scientifici della cognizione, all’interno delle fasi
del Giudizio (civile e penale) nel quale sono trasferiti i metodi della Psicologia per l’analisi delle
dinamiche cognitive che si dispiegano in tale ambito.
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2 Il Dibattimento penale
Anche il “dibattimento penale”, infatti, può essere concepito come il palcoscenico in cui gli
interagenti stabiliscono, elaborano, attuano ed utilizzano variegate e diversificate modalità
comportamentali, poiché nel continuo e attivo rapportarci all’ambiente, le mappe cognitive, che
rappresentano le conoscenze che abbiamo del mondo e che costituiscono gli schemi dell’ambiente
circostante, forniscono un meccanismo di anticipazione che guida la sua esplorazione e che, a sua
volta, viene modificato dall’informazione nuova che l’ambiente medesimo fornisce (Gibson, 1979).
Già i romani, alla fine dell’età repubblicana indicavano con il termine “cognitio” il
Processo, nel quale i fatti venivano rimessi, per l’appunto, alla “cognizione” del giudice, e, per le
liti sottratte alla giurisdizione del pretore urbano, idearono un nuovo procedimento, che, in relazione
all’ordo, venne definito “cognitio extra ordinem”, all’interno del quale colui che era munito di
rappresentanza processuale prendeva il nome di “cognitor” (Sanfilippo, 1986)
E così, pur potendo valutare da una siffatta prospettiva scientifica ogni aspetto del fenomeno
giuridico, essendo la Psicologia cognitiva in grado di offrire informazioni sul modo in cui i giuristi
ragionano, prendono decisioni e costruiscono sistemi normativi, l’attenzione di questo corso si
soffermerà all’indagine dell’espressione concreta, all’interno delle dinamiche processuali penali,
dell’uso normativo che gli attori del Processo realizzano, come manifestazioni della cognizione.
Questo approccio, che si intende utilizzare per la comprensione delle dinamiche cognitivorituali dei singoli in tale contesto (Alberto De Toni e Comello, 2007), comporterà l’utilizzo dei
metodi della Psicologia creando una contaminatio tra i due ambiti scientifici (giuridico e
Psicologico) al fine di riguardare con occhi diversi e nuovi il Processo penale e le sue regole, a
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garanzia di una maggiore attenzione alla sistematica del codice di procedura penale, così come
prevista ed attuata in tutte le fasi di cui è composto. Si tratterà, quindi, di mettere in evidenza i dati
cognitivi che emergono durante tale rigida ritualizzazione, da tradurre in formati comunicativi di
diversa natura (comportamentali non verbali, verbali), al fine per realizzare quel programma di
comprensione, che come evidenziato, ha conosciuto i suoi primi sostenitori sotto l’imperio del
diritto romano classico e mai completamente approfondito dal nostro legislatore, che, sopraffatto
dall’estrema difficoltà di considerare e tradurre in norme giuridiche la complessità “dell’interno
neuropsichico” (Fassone, 2002), si è limitato a riguardare e regolamentare i soli aspetti tecnici del
processo, abbandonando il percorso mentale utilizzato dai giuristi romani. Lo studio scientifico ed
empirico delle decisioni giudiziarie deve divenire pertanto l’oggetto dell’interesse sia dei giuristi
che degli psicologi, per integrare metodi e conoscenze e per fare emergere nuove competenze, da
tradurre in percorsi formativi e profili professionali.
Il contesto giudiziario, infatti, nella sua complessità, necessita di una nuova comprensione
scientifica, risultando l’aula di un tribunale e, più nello specifico, una udienza penale, una
organizzazione dove più persone fisiche, le parti processuali, seppur determinate nei loro
comportamenti dalle regole del codice di procedura penale, subiscono continue modifiche
singolarmente prevedibili, ma di cui non è possibile, o è molto difficile, considerarne lo stato futuro.
Si tratta di individuare differenti livelli di analisi (microanalisi e macroanalisi) all’interno
dei quali collocare gli attori giudiziari che realizzano diverse tipologie di interazioni nel “teatro
ritualizzato del processo” tra di loro (microanalisi, ossia dialogo tra le varie parti processuali) e del
livello della macroanalisi che emerge dall’interazione locale tra le parti.
Il meccanismo in parola, ampiamente spiegato da Erwin Goffman (1968) attraverso la
“teoria delle cornici”, impone, in una qualsiasi interazione, l’attenzione dell’ascolto e dello
sguardo, per cogliere, oltre all’enunciato verbale, anche l’importanza degli sguardi, degli oggetti
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che circondano le persone, delle parole interrotte, dei gesti veloci e subito dimenticati, poiché
qualsiasi elemento del contesto può dimostrarsi l’anello mancante di una catena interpretativa,
impensata eppure reale.
Tutto, pertanto, conta ed è rilevante per interpretare noi stessi e gli altri, noi stessi e gli
strumenti che ci circondano nella vita quotidiana e in quel suo sottoinsieme che chiamiamo vita
professionale.
Il mondo, infatti, non è popolato solo dal linguaggio ma anche dagli oggetti di cui si parla o
con cui si comunica anche quello che non volevamo comunicare intenzionalmente (Goffman,
2003).
Tale motivo ripropone l’emergenza dell’acquisizione di nuove ed ulteriori conoscenze,
metodologie, strumenti conoscitivi e di valutazione, rispetto al diritto, quali, soprattutto, la
comprensione delle tecniche dell’audizione e del linguaggio non verbale, per permettere, il più
possibile senza errori, una maggiore e più opportuna ricerca della verità processuale a vantaggio
della giustizia.
Pertanto, anche la comunicazione giudiziaria - escusso, parti processuali e risultanze
testimoniali - si sviluppa attraverso dinamiche cognitive complesse, con trame comportamentali
articolate che vanno dall’esibizione di comunicazione verbale e non verbale dell’escusso e degli
altri attori del giudizio, coinvolgendo processi cognitivi quali la testimonianza-acquisizione
dell’informazione, l’interpretazione-riscrittura e la successiva valutazione testimoniale ai fini della
sentenza finale.
Chi interroga, giova evidenziare, è portato, anche inconsciamente, ad utilizzare “sistemi
persuasivi”, spesso rappresentati dalle cosiddette “domande guidate” che trasferiscono nella mente
dell’escusso, magari a motivo del tono della voce o del contatto fisico, l’impressione che la
circostanza sia data per scontata (Loftus, 2003).
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L’intervista, d’altro canto, quale strumento di raccolta di informazioni è tra i più diffusi,
perché si adatta con efficacia alle caratteristiche individuali delle persone interrogate ( c.d.
soggettività nelle risposte a seconda dell’input dell’intervistatore) e consiste in una conversazione
tra un intervistatore, che pone le domande, e un intervistato, che risponde, mentre un magnetofono,
come avviene spesso nelle aule di giustizia, riproduce fedelmente il colloquio, consentendo di
analizzarlo in un secondo tempo, per cogliere, particolarmente nelle risposte, tutte quelle sfumature
che solitamente non si riesce a mettere a fuoco nel contesto dell’interazione.
L’intervistatore, che nell’aula di un tribunale penale è rappresentato dal Giudice, dal
Pubblico ministero e dalla difesa, complessivamente intesa, attraverso una discovering incrociata,
inizia e conduce la conversazione sulla base di una meta precedentemente stabilita e può adeguarsi
via via alle esigenze dell’intervistato, che tuttavia non deve influenzare, né direttamente con le sue
domande, né indirettamente con il tono della voce, il comportamento, i gesti e la mimica facciale.
L’esperienza ha infatti dimostrato le conseguenze negative di tali espedienti, il cui uso
andrebbe scoraggiato per far spazio alla spontanea deposizione, attraverso la quale il giudice,
lasciando la completa libertà del racconto, si limita a chiedere all’interrogato semplicemente cosa sa
di un determinato avvenimento, rimettendo le richieste specifiche ad un secondo momento
(Gazzaniga, 1998).
Tale specificità impone una analisi sui metodi e sugli strumenti da utilizzare in aula,
soprattutto nella fase dell’escussione testimoniale, valutando che la ricerca psicologica, da sempre,
si avvale di varie metodologie che, seppur rigorose, risultano diverse da quelle utilizzate dalle
Scienze Naturali, non potendosi osservare e verificare i comportamenti umani allo stesso modo in
cui si studia una cellula, una molecola o un atomo.
La Psicologia, infatti, che procede per ipotesi e verifiche, raccogliendo sistematicamente
prove empiriche che confermino o meno l’ipotesi data, offre, di fronte ad un preciso fenomeno, un
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ampio quadro di ricerca per controllare la validità dei diversi e possibili metodi ipotizzati, i cui
risultati, devono giungere a conclusioni generalizzabili.
Il legislatore italiano per regolare questa complicata materia ha posto il divieto nell’esame
del testimone “di fare domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte” (art. 499 c.p.p.,
comma secondo), ma la formulazione di questa norma, essendo molto generica, rende nella prassi
difficile l’adempimento, mancando indicazioni precise che aiutino l’esaminatore a comprendere che
cosa renda suggestiva una domanda.
La testimonianza, d’altro canto, è un evento eminentemente psicologico che il codice di
procedura penale include nei mezzi di prova senza però spiegarne il suo significato, come deve
essere valutato e a quali meccanismi faccia riferimento.
Il Legislatore, come predetto, sopraffatto dall’estrema complessità, ha ritenuto di limitarsi a
considerarne i soli aspetti tecnici, producendo l’ingenerata convinzione che l’obiettività della
testimonianza, postulata dalle norme, appaia illusoria a chi consideri “l’interno neuropsichico”.
Tale topos o insieme di topoi si articola secondo la psicologia in una serie di processi che
realizzano le attività cognitive dispiegate nella complessa rete di dinamiche che intervengono a
livello processuale: dai processi percettivi che intercorrono a livello visivo-uditivo, alla
realizzazione di comportamenti verbali - non verbali – emozionali - rituali; dalla memoria alle false
memorie, fino all’oblio; dalla messa a punto di strategie di linguaggio–pensiero alla processazione
di informazione; dall’interpretazione congruente dei dati, attraverso la creazione di mappe e schemi
mentali, con la possibile presenza di comportamenti di insight (Koehler, 1960), sistemi decisionali
per la creazione di un tessuto connettivo–interpretativo che valuti il quadro complessivo emerso per
realizzare le sentenze.
Tale riflessione, in ambito giudiziario, sulle forme dell’apprendimento cognitivo e
principalmente della superiore funzione dell’insight è derivata dalla necessità di considerare che
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essa consiste nella comprensione improvvisa e intuitiva della soluzione di un caso, che si verifica
quando un soggetto, mettendo da parte il procedimento adottato in precedenza, si pone di fronte ad
un problema con la mente libera da preconcetti, riuscendo ad afferrarne la soluzione, essendo
attraverso l’intuizione che la mente ristruttura, con creatività, i dati di un problema.
L’intuizione, infatti, differisce dalla riflessione, perché non costituisce un procedimento
graduale, ma improvviso.
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