IL CAVALLO DEL PALIO 1- Il barbero del Palio `alla lunga` I cavalli

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IL CAVALLO DEL PALIO 1- Il barbero del Palio `alla lunga` I cavalli
IL CAVALLO DEL PALIO
1- Il barbero del Palio ‘alla lunga’
I cavalli che i Senesi hanno visto, nei secoli, contendersi il Palio sono il barbero e il cavallo di
servizio. Il primo, allevato per correre, fu il protagonista del Palio più antico, quello ‘alla lunga’,
che si disputava lungo le vie cittadine o extraurbane, soppresso all’inizio dell’800. Che in antico la
qualifica di cavallo da corsa fosse riservata al barbero, lo deduciamo da numerose fonti, in primis
dai regolamenti che disciplinarono il Palio, evento diffuso in tutta l’Italia centro-settentrionale
durante il Medioevo e nel Rinascimento. Ad esempio quello emanato dalle Autorità senesi nel 1592
specifica: ‘Che non possi correre alcuno se non con cavallo che sia barbero vero’. Esso stabilisce,
quindi, una distinzione rispetto ai modesti cavalli di servizio, destinati al tiro leggero ed
occasionalmente alla sella. Questi ultimi saranno le pazienti cavalcature della lotta a suon di nerbate
tra le contrade nel Palio ‘alla tonda’, che vide la luce alla metà del ‘600 nella piazza del Campo. In
Piazza, il cavallo da corsa comparirà, invece, solo in tempi recenti: nel Palio ‘alla tonda’ che
potremmo qualificare come ‘moderno’. Che barbero sia sinonimo di cavallo da corsa appare
evidente anche da una curiosità del regolamento del 1758, che prevedeva la possibilità di usufruire
di gabbie di partenza. Il barbero poteva correre ‘con fanciulli sopra o senza’: ‘a vuoto’, si diceva.
La possibilità di far partire il barbero scosso non fu, però, sempre ammessa; in ogni tempo ne fu
ammessa, invece, la vittoria, come è ancora costume nel Palio di oggi. La cosa, tuttavia, non fu
sempre pacifica. Infatti, prima del 1592, furono in vigore varie limitazioni alla vittoria dello scosso,
che fu ritenuta valida solo se la caduta (o la volontaria discesa) del fantino fosse avvenuta dopo un
particolare punto del percorso.
Una regola, che comunque fu per molto tempo fonte di polemiche. La più famosa è quella di Cesare
Borgia che, in una lettera alla Signoria di Siena, reclama la vittoria per il suo barbero arrivato primo
al traguardo, pur essendo il fantino smontato prima del limite stabilito. Smontare da cavallo, per
alleggerirlo nella fase finale della corsa, può essere stato un trucco ricorrente, dato che la lunghezza
del percorso era notevole: circa 2000 metri, da Fontebecci a Porta Camollia, per il Palio della
Maddalena, e 1500 metri, dal Santuccio al Duomo (che equivalgono a non meno di 2000 metri per
via della lunga salita di via di Città) nel caso di quello dell’Assunta. Distanze degne dei moderni
purosangue.
Il palio ‘alla lunga’ fu corsa di gusto aristocratico, dove il prestigio della vittoria del proprio barbero
superava il valore del premio. A Siena, come in altre città dell’Italia settentrionale, di palii se ne
correva ogni anno più di uno: il 15 agosto, per onorare la Regina della Città e Stato di Siena, il 22
luglio, nella ricorrenza di Maria Maddalena, per esaltare il potere del magnifico Pandolfo Petrucci,
e il 4 di agosto per celebrare il beato Ambrogio Sansedoni. Nel caso dei Gonzaga, partecipanti
abituali di tutti i principali palii dell’Italia centro-settentrionale, non si può certo escludere, accanto
alla soddisfazione dell’orgoglio, anche un robusto interesse commerciale. I signori di Mantova,
infatti, erano proprietari, oltre che di una blasonata scuderia, anche di un fiorentissimo allevamento:
non solo di barberi, ma anche di cavalli da guerra e di servizio 1. Essi riuscirono, quasi due secoli
prima degli Inglesi, a selezionare un cavallo specializzato per le corse, mediante accurati incroci
dell’arabo orientale col berbero, prevalentemente allevato in Spagna col nome di ginnetto. Il primo
era conosciuto nel Rinascimento soprattutto col nome di cavallo ‘turco’, cioè originario dell’area
turco-balcanica.
E’ interessante sapere che, a quell’epoca, in terra di Siena fioriva l’allevamento di questo tipo di
cavallo. Molti suoi prodotti furono protagonisti dei palii più prestigiosi. Uno di essi, il sauro Turco
da Siena, figurava perfino nelle scuderie dei Gonzaga, che lo schierarono nel Palio dell’Assunta del
1 Per quanto concerne i Gonzaga, e i palii del Rinascimento in generale, ho attinto numerose informazioni da due opere
fondamentali degli studiosi mantovani, Galeazzo Nosari e Franco Canova: ‘Il palio nel rinascimento’ e ‘ I cavalli di dei
Gonzaga della razza de la la casa’ E.Lui editore, Mantova
1494, contro l’Armellino e il Guerzo, i campioni di Lorenzo il Magnifico. I Gonzaga non erano,
infatti, i soli appassionati di cavalli. Lo furono tutti i signori rinascimentali, dai Medici agli Este, dai
Borgia, ai Malatesta, molti cardinali e anche privati cittadini, come il pittore Sodoma, vincitore nel
1514.
I Signori di Mantova hanno però il merito di aver attuato una metodologia di selezione che
possiamo definire moderna: cercare di elevare la statura dell’arabo con l’apporto del berbero,
conservandone l’agilità, la resistenza e la garosità. Più o meno quello che fecero gli Inglesi con il
purosangue, quando incrociarono i tre patriarchi arabi con le loro cavalle, alcune delle quali
provenienti da Torino e da Mantova. Per quanto riguarda le analogie morfologiche dei barberi
mantovani con i purosangue è interessante osservarli nelle figure del libro dei palii di Francesco II.
I barberi, già a ventiquattro mesi, venivano selezionati accuratamente nelle correrie, cimentandoli
contro soggetti esperti: proprio come si fa oggigiorno. Venivano preparati dai barbarescatori (gli
equivalenti degli allenatori), sorvegliati e curati da marescalchi: vale a dire maniscalchi con
funzioni anche di veterinari. I più promettenti venivano destinati ai palii più prestigiosi, come quelli
che - come ho già detto - si correvano a Siena. Se si voleva farli correre ‘a vuoto’, li si
raccomandava ad un amico locale, mentre quelli che si desiderava far correre montati, arrivavano
accompagnati dal proprio fantino; cioè un ragazzino, che a volte era addirittura un bambino di 10
anni. La giovane età di questi cavalieri che galoppavano a pelo, ci fa intuire che le cadute
accidentali, non solo quelle per alleggerire il barbero, erano la causa dei molti scossi che
giungevano al traguardo. Come nel nostro Palio, essi si fregiavano di soprannomi, che a volte
paiono gridi di battaglia: Prega Idio et nostra Donna, fatti inante che ti bisogna. Oppure: Se arà
onore arà il palio. Altre volte, alludono all’aspetto fisico, come Ranocchio del fico maturo, che fa
pensare a un povero bambinello rachitico, ghiotto di fichi. Alcuni soprannomi, infine, ricordano più
da vicino quelli dei nostri campioni, come Fiasco, Zampogna, Expazacampagna, Partivai,
quest’ultimo ripreso in tempi moderni. Tutti i palii seguivano più o meno lo stesso un rituale.
Il più importante dei nostri prevedeva, nel XVIII secolo, che il 14 di agosto i barberi fossero
presentati ai Deputati della Festa, e quindi marcati sulla fronte: presumibilmente con un colore, o
forse già con l’apposizione della spennacchiera. Veniva poi sorteggiato il posto alla mossa.
Successivamente, un corteo di Autorità e nobili cavalieri sfilava lungo il percorso fino al Santuccio,
luogo deputato alla partenza. La mossa era, anche in passato, un momento chiave della gara,
ancorché meno drammatico di oggi: almeno a sentire quanto recita il regolamento del 1758. I
proprietari potevano, infatti, scegliere di far partire i loro barberi ‘a stanzino’, cioè con l’ausilio
delle gabbie, come ho già accennato, o ‘a campo’, cioè liberi lungo il canapo. La mossa era valida
se i barberi partivano solo dopo che il canapo era stato calato, ma non prima, di uno squillo di
tromba. Il canapo doveva, quindi, servire solo per contenere i concorrenti, durante le operazioni di
allineamento. La corsa non procedeva poi senza intoppi: almeno a giudicare dalle pene pecuniarie e
perfino, in una città, dai tratti di corda minacciati a chi arrecasse danno ai concorrenti. Questi
sfilavano in un lampo davanti a due ali di folla, un po’ come succede nelle corse ciclistiche. Nelle
quali, prima dell’avvento della televisione, non erano rare le interferenze positive e negative degli
spettatori. Incidenti a parte, vigevano anche tattiche moderne, come quella d’iscrivere due cavalli
della stessa scuderia, di cui uno fungeva da battistrada.
Una stagione, quella dei palii del nostro Rinascimento, che può davvero essere considerata la madre
dell’Ippica moderna. Però, con una differenza, per quanto riguarda le sue motivazioni, rispetto a
quella che si affermò un paio di secoli dopo in Inghilterra.
In quella italiana, infatti, è il desiderio del principe di abbagliare con la propria immagine gli ex
concittadini, divenuti ormai suoi sudditi, che lo spinge a far gareggiare i propri campioni nelle
principali città della penisola. Perfino a Siena, tenacemente repubblicana, Pandolfo Petrucci fece in
tempo, durante la sua effimera signoria, a istituire un palio, quello della Maddalena, onde celebrare
la protettrice della sua casata. Si tratta, quindi, di motivazioni strettamente politiche.
L’ippica inglese, al contrario, affonda le sue radici nella passione, tutta privata, per le scommesse.
Per il signore rinascimentale italiano conta, invece, soprattutto il primato, il potere che il trionfo del
proprio barbero esprime e incarna. E’ la stessa motivazione che spinge i Senesi a spendere una
fortuna per aggiudicarsi uno stendardo dipinto: qualcosa che lascia perplessi i nostri visitatori,
specie se anglosassoni.
Vero è che la passione per le corse dei barberi rifulse nell’epoca di maggior splendore, culturale e
politico, della nostra Patria. Un’epoca d’oro, purtroppo lontana e irrimediabilmente perduta.
Ma chissà, se nelle vie della nostra splendida, magica città che videro sfilare i barberi dell’antico
palio ‘alla lunga’, nel breve silenzio tra gli ultimi schiamazzi notturni dei nuovi barbari e il primo
sferragliare delle spazzatrici meccaniche, è talvolta possibile, tendendo l’orecchio, percepire ancora,
soffocata dal silenzio dei secoli, la batticina del Turco da Siena, dell’Armellino, del Guerzo che
lottano testa a testa, incitati dalle grida di Fiasco, di Zampogna, di Ranocchio del fico maturo, per
guadagnare ai loro magnifici signori venti braccia di prezioso broccato o di velluto cremisino. E’
infatti questo desiderio di magnificenza, cui subordinare il denaro, l’eredità che il palio ‘alla lunga’
ci ha lasciato.
Un desiderio che potremmo riassumere in un motto: ‘spendere per splendere’.
Per noi fortunati Senesi, lo spirito di quell’epoca rivive, due volte l’anno, nel gesto regale
dell’alfiere che saluta la Piazza, nel nerbo levato in segno di trionfo dal fantino che conquista il
Palio: l’ultimo sopravvissuto, anche se in forme diverse, inimitabile e profondamente vero…
2- Il cavallo del palio ‘alla tonda’
Tra il Palio ‘alla lunga’ e quello ‘alla tonda’ non c’è parentela. I due tipi di palio ebbero, infatti,
origini, modalità e partecipanti diversi. Infatti, nonostante che nel 1605 si sia tentato di far correre
’alla tonda’ i barberi del Palio ‘alla lunga’, su una distanza di cinque o sei giri, l’esperimento non
deve aver funzionato, giacché, in seguito, si continuò a parlare sempre di Palio ‘alla lunga’.
Il Palio alla ‘tonda’ ricompare stabilmente quasi mezzo secolo dopo, ma corso con cavalli e non con
barberi e su soli tre giri, distanza più adatta per simili soggetti.
Un cambiamento che può essere spiegato, considerando il Palio ‘alla tonda’ come la mèta finale di
un processo di ‘addomesticazione’ delle gare di forza praticate da secoli nella Piazza mediante la
progressiva riduzione delle schiere di pugilatori a gruppi di sostegno di un campione montato su un
asino, una bufala e, infine, un modesto ronzino.
L’Asinata, ad esempio, può essere definire una scazzottata in movimento. In questa gara, infatti, il
giumento, montato da un concorrente veniva circondato da una squadra di pugilatori che lo
difendevano, lo facevano avanzare o aggredivano gli avversari per impedirne il cammino. La gara
poteva durare ore, e non merita il titolo di corsa. Un po’meno violenta era la Bufalata, in cui il
Buttero era aiutato, nel lento e discontinuo movimento della sua cavalcatura, da sei pungolatori
muniti di appuntiti bastoni, di cui possiamo facilmente ipotizzare anche altri usi. Il cavallo, infine, è
l’ultimo e definitivo passo verso l’eliminazione dei fiancheggiatori. La violenza, ormai monopolio
del solo fantino armato col ‘sovatto’ (dal 1721 col nerbo), può essere controllata facilmente rispetto
a quella delle schiere dei pugnanti o dalle squadre che accompagnano asini e bufale.
Il Palio alla ‘tonda’ continua, tuttavia, ad esercitare un ruolo politico. Lo fa ora a vantaggio per
l’oligarchia patrizia che, dopo la caduta della Repubblica, funge da cuscinetto tra un popolo
tradizionalmente ‘inimicissimo del nome fiorentino’ e la Signoria Medicea. Infatti, le capitolazioni
concesse da Cosimo de’ Medici, come agente generale dell’Imperatore, lasciarono un sottile
margine di indipendenza alla città, che divenne così la capitale dello Stato Nuovo nell’ambito dello
stato regionale mediceo. Un ruolo che i patrizi si sentiranno obbligati a mostrar di meritare ogni
qualvolta un potente si affaccerà sulla Piazza per ammirare gruppi di popolani sfilare travestiti da
ninfe, dietro la loro ‘inventione’. Spettacolo partorito dalla fantasia degli eruditi patrizi e
impersonato a puntino da un popolo, che nel 1790 il Granduca Pietro Leopoldo descrive come
‘buono, quieto, obbedientissimo’. Tuttavia, onde evitare che gli illustri ospiti non finiscano con lo
smascellarsi dagli sbadigli, è opportuno concludere lo spettacolo con un ricordo dell’animosità delle
antiche milizie. Nulla di meglio, allora, che fare entrare sul gran palcoscenico del Campo un pugno
di sciagurati che se le suonano di santa ragione, in groppa ad animali ben diversi dai barberi del
Palio ‘alla lunga’. Si tratta dei cavalli dei ‘postieri’. Questi erano i titolari di una stazione dove
avveniva il cambio dei cavalli, sia per le carrozze a quattro posti tirate da due pariglie (o ‘gubbie’),
sia per la più leggera sedia postale a due posti e una sola gubbia, entrambe condotte da postiglioni
in sella al cavallo di sinistra., che, se il terreno lo permetteva, potevano avanzare al galoppo, talvolta
sfrenato, detto ‘a carriera battuta’.2
Dunque, ben diversamente dai massicci animali che trainavano le diligenze, quelli della posta erano
cavalli, certamente robusti, ma che, in certa misura, sapevano galoppare, anche montati. Si trattava
comunque di animali che percorrevano normalmente circa 40 km al giorno. Presumibilmente, erano
esenti da vizi fisici e caratteriali, che altrimenti ne avrebbero provocato la riforma. Inoltre dovevano
essere assai abituati al contatto con la gente e soliti riposare in stalle più rumorose dei box in cui
oggi sbadigliano i moderni cavalli da corsa.
Ma quanto durava, una carriera? I nonni parlavano di palii corsi normalmente in 2-3 minuti.
Supponendo una cadenza pari a 300-400 metri al minuto si può facilmente dar loro credito. E, in
quel lasso di tempo, ne succedevano di tutti i colori.
Leggiamo quanto Antonio Zazzeroni riporta a proposito del Palio di agosto del 1814: ‘…il Nicchio
scappò il primo ma alla seconda girata fu arrivato dall’Oca e dalla Torre ed allora il Nicchio si
azzuffò con la Torre, e poi con l’Oca e gli riuscì di saltare nel di lui cavallo, e così per mezza girata
il cavallo dell’Oca corse con due fantini addosso...’
Tuttavia, è proprio nel Palio non più inteso come corsa, ma come giostra, in cui i fantini si nerbano,
parano gli avversari più veloci o addirittura ne afferrano le redini, che la passione dei Senesi per la
loro Festa affonda le sue radici. Una passione alimentata da infiniti episodi, che generano inimicizie
e alleanze, beffe e tradimenti, che fa rivivere in forme nuove l’antico spirito guerriero dell’Elmora e
della Pugna: quest’ultima in forma davvero non simbolica, per via delle frequenti cazzottate che
accompagnavano l’esito di ogni carriera. Una passione capace di risuscitare per un giorno lo spirito
e i rituali dell’antica città libera.
Sul tufo, tuttavia, non troviamo solo i cavalli dei postieri. Vi sono spesso anche quelli dei loro
concorrenti, gli osti, proprietari di locande con stallaggio, e saltuariamente i ronzini di ortolani e
panettieri, probabilmente aggiunti all’ultimo momento per completare il lotto dei dieci.
Col passare del tempo, tuttavia, i proprietari cambiano, se pur lentamente. Scorrendone l’elenco, si
nota, infatti, con crescente frequenza, anche la presenza di nomi riconducibili a quello che oggi
definiamo ceto medio: commercianti, fattori, piccoli possidenti e perfino qualche sacerdote: mai,
però, il nome illustre di qualche patrizio. Poco a poco nasce così il ‘cavallaio’: figura borghese,
spesso campagnola, che, per passione e prestigio, si ritaglia, in questo modo, un ruolo tra i patrizi,
che dirigono, e i popolani, che animano la Festa.
Il fenomeno cresce rapidamente, man mano che la ferrovia, prima, e la motorizzazione, poi, fanno
uscire di scena i legni dei postieri e le carrozze dei vetturini, e infine, nel secondo dopoguerra,
anche gli ultimi calessi. Siamo ormai alla vigilia di un rientro sulla scena di una vecchia
conoscenza: il cavallo allevato solo per correre e per dare lustro, con le sue vittorie, al proprietario.
La transizione dal cavallo al barbero è però graduale. Possiamo farla convenzionalmente iniziare a
partire dal primo dopoguerra, quando al deposito stalloni di Grosseto vengono assegnati alcuni
purosangue per migliorare le rimonte dell’Esercito. I prodotti più prestigiosi di tale opera di
miglioramento, furono due fratelli: Ruello e Folco capaci di aggiudicarsi, tra il 1931 e il ’39, ben 11
carriere sulle 15, cui l’uno o l’altro o entrambi parteciparono.
Sebbene il loro impiego giornaliero fosse quello di trainare il calesse dei loro proprietari, non si
trattava comunque di cavalli da poco. Le immagini evidenziano morfologie di soggetti insanguati e
2 Ho tratto le notizie sui cavalli della posta dal bel libro ‘I corrieri del Mangia’ di Giuseppe Pallini e Paolo Saletti
in piena forma, avvezzi come erano a trottare tutto l’anno e galoppare la domenica in qualche palio
di provincia, un residuo dei palii ‘alla lunga’ del passato. Questi si svolgevano, infatti, lungo le vie
di un paese o addirittura su strade campestri. Vi prendevano corpo le notizie sui nuovi cavalli e il
grado di allenamento dei fantini, notizie che giungevano a Siena, già quasi leggenda, sulla bocca dei
pochi proprietari dei mezzi per assistervi. Pareva, allora, che, dalla val d’Arbia, dalla val d’Orcia,
dall’Amiata, dalla lontana Maremma, man mano che i colori della primavera avanzata ne vestivano
gli orizzonti, quasi vaporasse il mistero che, un tempo, alimentava l’attesa del Palio.
La 500 e la Vespa, rendendoli inutili, determinò la scomparsa dei cavalli di servizio.
In Piazza comparvero allora soggetti di vario modello e provenienza, tra cui diversi purosangue
scartati dagli ippodromi e perfino qualche cavallo da sella.
Ma la rinascita non tardò ad arrivare, grazie ad un benemerito gruppo di appassionati cavallai e alla
Sardegna, con i suoi fiorenti allevamenti di anglo arabi. Da quel momento, i tempi del Palio
iniziarono a diminuire rapidamente, e la giostra prese allora a mutarsi in corsa. Una tendenza
accentuata anche dalle maggiori disponibilità delle contrade e dal livellamento in alto dei cavalli.
In passato, infatti, accanto a due o tre primi cavalli, c’erano sempre qualche cavallo da gioco, oltre a
un complemento di brenne senza speranza. Di conseguenza, se la Tratta non era stata favorevole o
le finanze erano a zero, non c’era nessuna vergogna a far cassetta o ad aiutare le alleate.
Di conseguenza, in passato, erano in pochi a ‘rombare’.
Invece, oggi, quanto fu tentato nel 1605: vale a dire il Palio ‘alla tonda’, corso dai barberi del Palio
‘alla lunga’, è ormai realtà. Infatti, il tempo medio degli ultimi otto palii è ormai sceso a 73 secondi
e 64 centesimi.
La trasformazione della Piazza, da arena a pista, non è stata indolore. La notorietà che la nostra
Festa ha conosciuto, ben oltre la ristretta cerchia delle mura cittadine ha reso necessario introdurre
verifiche e procedure che hanno indubbiamente appesantito la gestione del Palio. Di conseguenza,
tutto si è professionalizzato, certamente con vantaggio della qualità e sicurezza dei cavalli, nonché
della preparazione dei fantini. Ma la maggiore professionalità ha prodotto anche effetti meno
positivi: ha finito, ad esempio, col privilegiare la tecnica sulla creatività, gli automatismi della spesa
sulla fantasia dell’astuzia.
L’ostentazione della monta ‘firmata’, il gergo da ippodromo, le minute informazioni su cavalli e
fantini, le meticolose indagini statistiche, le analisi alla moviola di concetti balistici come le
traiettorie, appannano la percezione delle reali peculiarità del Palio; ne minano la teatralità a
vantaggio dello stupore per la performance, concetto più adatto ad un evento sportivo.
Di conseguenza, i piccoli o grandi interessi degli ‘addetti ai lavori’, svelandone ogni segreto,
razionalizzando ogni suo evento, mercificandone la sostanza, logorano il genuino tessuto del Palio.
Soprattutto, rischiano di relegare al ruolo di spettatori un numero crescente di contradaioli, alla cui
attiva partecipazione si deve se a Siena il Palio, non è, come altrove, rievocazione, ma vita vissuta;
se ancora oggi per loro, ‘tutti i tesori della Terra’ riposano tra gli occhi del cavallo che ne porta in
trionfo i colori. E’indispensabile, allora, che il cavallo da Palio sappia non solo volare pur non
avendo ali, ma anche combattere pur non avendo spada per evocare, con la sua misteriosa
personalità, la sublime follia che del nostro Palio è l’essenza. La follìa: oggetto di scherno per gli
sciocchi e di meraviglia per i savi. La meraviglia, che traspare da queste parole del grande filosofo
Immanuel Kant: ’Chi nascendo non ricevette da Dio un pizzico di follìa, non sarà mai giovane, né
innamorato, né poeta, né conquistatore’.