La dama e l`oceano - Lega Navale Italiana

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La dama e l`oceano - Lega Navale Italiana
La dama
e l’oceano
Ovvero dell’etica del comando
di Enrico Cernuschi
I
Una bella dama d’altri
tempi seppe dimostrare
di avere una grazia
innata e il piglio
di un Conquistador
n occasione di alcune conferenze che
ho pronunciato in
Accademia Navale nel
corso dell’ultimo decennio, ho avuto modo di
osservare più volte l’atteggiamento e la mentalità molto militari (ovvero caratterizzate da
un’assoluta chiarezza di
pensiero) messe in evidenza dalle allieve di questo
storico Istituto.
Recentemente ho poi incrociato al largo di Capo
Bon, durante la crociera dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia, nave Libra, unità al comando (è la prima volta) di una donna, il tenente di
vascello Catia Pellegrino, proveniente da questa
nuova linfa, vitale per la Marina. Qualche mese fa,
infine, ho collaborato con una guardiamarina (termine che adesso il caso fa tornare ad essere usato
in maniera corretta, in quanto fino a tutto il XIX
secolo, questo grado era al femminile anche per
gli uomini, perché designava ufficiali abilitati ad
essere “guardie marine”, N.d.R.), ora sottotenente
di vascello, in occasione di una ricerca molto impegnativa e di una certa rilevanza pratica di stretta
attualità: ho avuto modo, in altre parole, di assistere all’intera curva in ascesa, dal 1999 in poi, di
quest’evoluzione.
Ritengo perciò opportuno spendere qualche pagina in merito a quella che è considerata, comunemente, la prima donna ammiraglio della storia. Si
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tratta di un episodio curioso (e drammatico)
poco noto, nel quale rifulgono, ritengo, quelle
che devono essere, sotto ogni latitudine e indipendentemente dal
sesso, le doti (e gli oneri) del comando superiore in mare.
L’esploratore controvoglia
I nomi di Guadalcanal, Santa Cruz e della varie
isole dell’arcipelago delle Salomone, nel Pacifico
meridionale, rievocano le numerose battaglie aeronavali combattute tra statunitensi e giapponesi
nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Questi nomi sono, peraltro, spagnoli perché quella remota porzione del mondo fu scoperta, nel
1568, dall’esploratore castigliano Álvaro de Mendaña de Neira. Rientrato, l’anno successivo, in Perù, Don Álvaro chiese subito a Madrid i fondi per
un nuovo viaggio destinato a trapiantare laggiù
una colonia iberica.
L’intraprendete navigatore domandò altresì, in
quella stessa occasione, il titolo di governatore
della colonia stessa. Insomma, un Cristoforo Colombo in sedicesimo. Dati gli impegni correnti
della Corona spagnola contro i barbareschi, i turchi, i ribelli olandesi, i pirati inglesi e i francesi, la
richiesta in parola rimase tra le pratiche rimandate
a tempi migliori, e non se ne parlò più.
La burocrazia spagnola, tuttavia, macinava lento
ma fino, e nel 1594 arrivò in Perù, come un fulmine a ciel sereno, una notizia bomba: Sua
Maestà Filippo II concedeva i
quattrini e il sigillo. Don Álvaro
era pregato, di conseguenza, di
partire senza ulteriori perdite di
tempo, tanto più che erano arrivate notizie di possibili, analoghe iniziative olandesi in quelle
stesse acque.
Don Álvaro aveva 25 anni all’epoca della scoperta dell’arcipelago, nonché fama di uomo ambizioso, autoritario e attaccabrighe,
tanto da ordinare perfino l’arresto (del tutto arbitrario, come riconobbe infine la Legge) del cartografo della spedizione, Sarmiento de Gamboa, in quanto ritenuto reo di aver discusso col coL’esploratore castigliano Don Álvaro de Mendaña de Neira effigiato in un francobollo
delle Isole Salomone del 2012; in apertura, una caravella con altro naviglio minore spamandante in merito alla longitugnolo in navigazione oceanica
dine delle isole appena scoperte.
Di tempo, però, ne era passato
parecchio, e a oltre un quarto di
pretese però che il “maestre de campo”, ossia il cosecolo di distanza quell’irruente conquistador era
mandante militare della spedizione posta ai suoi
diventato un posato e ricco gentiluomo di campaordini, fosse di ben altra pasta. Il ruolo toccò così a
gna, dal carattere assai più tranquillo. Come se
Pedro
Merino, un soldato serio e duro, reduce delnon bastasse, era appena arrivata, dopo un viaggio
l’Invincibile Armada e capace di farsi obbedire.
durato quasi tre anni, la sua giovane sposa ventiPiloto mayor, (comandante navale) della spedizioseienne, Doña Isabela Barreto, figlia del governane, fu un portoghese: Pedro Fernández de Quirós.
tore dell’India portoghese.
La partenza dal porto di Callao, della piccola speDati i termini perentori delle disposizioni madridizione, il 9 aprile 1595, fu salutata con grandi
lene, ed essendo il gioco il prestigio di Don Álvaro,
manifestazioni e nel corso dei successivi tre mesi
fu allestita (troppo in fretta) una spedizione. Sela piccola flotta procedette felicemente, arrivando,
condo la tradizione anche Doña Isabela si sarebbe
infine, a destinazione o quasi.
trasferita, col marito, in quelle lontane isole, assieDon Álvaro aveva fatto malissimo, in verità, a imme alla di lei sorella.
prigionare il cartografo della precedente spedizione: il suo, oltre che un arbitrio, era stato infatti
L’isola maledetta
una fesseria, perché la posizione da lui stimata era
Quattro bastimenti (le navi San Jerónimo e Santa
sbagliata di oltre mille miglia e il solo punto di riIsabel, di medio tonnellaggio, la piccola fregata
ferimento (nell’immensità del Pacifico) che il vecSanta Catalina e l’ancor minore galeotta San Felipe)
chio navigatore aveva fornito al piloto mayor era
furono così allestite, mentre venivano reclutati
rappresentato da un vulcano in attività situato a
280 tra marinai e soldati, in compagnia di 98 colopoche leghe a levante della destinazione finale.
ni, tra uomini e donne.
Il 21 luglio, credendo di essere arrivate, le navi dieTutte le cronache concordano circa la natura
dero fondo nelle fino ad allora ignote isole Mar“ociosa y perjudicial” di quella gente. In pratica, il
chesi. Centinaia di canoe vennero loro incontro e
Vicerè del Perù approfittò di quella magnifica oci rapporti, all’inizio, furono amichevoli, anche se
casione per liberarsi di quanti più perdigiorno,
la delusione di Don Álvaro e la figuraccia da lui
scampaforche e altri soggetti sgraditi potesse.
fatta davanti a tutti furono immediate e micidiali.
Don Álvaro (ormai infrollito, ma non stupido)
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Filippo II d’Asburgo, detto “il Prudente”, Re di Spagna, in un
famoso ritratto di Tiziano Vecellio, un olio su tela conservato al
museo El Prado di Madrid
Gli indigeni erano, infatti, di carnagione quasi
bianca e coi capelli lisci, mentre quelli che l’esploratore aveva incontrato e descritto minutamente
un quarto di secolo prima erano bruni e dai capelli crespi. Deciso a ritrovare le proprie isole, il comandante della spedizione salpò nuovamente due
settimane dopo; le navi, nel frattempo, si erano rifornite, non senza incidenti e con qualche morto,
data la scarsa disciplina dimostrata dagli iberici,
specialmente in materia di donne.
Finalmente, la notte sul 7 settembre, la piccola
flotta avvistò, nell’oscurità, le fiamme di un altro
vulcano. Accostatasi subito (e imprudentemente)
a quella specie di faro naturale senza attendere l’e-
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sito di una preventiva ricognizione da parte della
fregata e della galeotta (destinate proprio a quello
scopo per via del loro ridotto pescaggio), la Santa
Isabel urtò, a mezzanotte, contro una barriera corallina e, con lo scafo squarciato, andò subito a
fondo. Le ricerche condotte a giorno fatto non
troveranno in vita nessuno dei 182 naufraghi, tra
uomini, donne e bambini.
Lo sbarco sull’isola, tosto battezzata Santa Cruz, rispettò il copione. Salve di cannone, spade sguainate, tromba, breve cerimonia religiosa e incontro
con il capo del posto, chiamato Malope. Questa
volta il pigmento della pelle e i capelli erano quelli giusti e tutto sembrò andare per il meglio, soprattutto perché i nativi si dimostrarono, più che
altro, divertiti davanti a quello strano spettacolo.
Fu ben presto eretto un fortino. Chi comandava, a
terra, coi propri consueti metodi bruschi, era il
maestro di campo, mentre Don Álvaro aveva preferito restare a bordo con i famigliari “sin mostrar
grande interés”, come accertò poi la Commissione
d’Inchiesta.
La causa dei guai maggiori furono, ancora una volta, le donne. Si verificarono, infatti, ripetuti casi di
aggressioni e di violenze ai danni delle abitanti
dell’isola, con le inevitabili rappresaglie messe in
atto dai mariti, padri e fratelli delle interessate.
Anche il capo Malope fu assassinato. Un tentativo,
annunciato dal maestro di campo, volto a ristabilire la disciplina mediante una condanna capitale
d’esempio per tutti, soldati, marinai o civili che
fossero, fu bloccato da alcuni coloni ubriachi i
quali pugnalarono, davanti alla comunità inorridita e allo stesso Don Álvaro, il coriaceo Pedro Merino. Fuggiti nella giungla, i congiurati furono ritrovati, uno per volta, nei giorni successivi.
Il nemico più insidioso si rivelò, ad ogni modo, la
“febbre della palude”. Dopo aver scoperto, già nel
corso della navigazione, che il medico della spedizione era, in realtà, un imbroglione privo di qualsiasi competenza, la situazione sanitaria della comunità precipitò rapidamente, e il morbo non risparmiò i quartieri di bordo, dove uno dei malati
più gravi fu Don Álvaro, che morì il 18 ottobre.
Ormai agonizzate, il vecchio esploratore vergò un
testamento mediante il quale nominava (e fu un
vero colpo di scena) la moglie Gobernadora dell’isola e capo della spedizione. Doña Isabela rimase
così padrona assoluta della situazione.
La guerriglia con gli indigeni e la malattia erano
già costati la vita a 39 appartenenti alla spedizione,
ma la Gobernadora dimostrò, a questo punto, di es-
Pedro Fernandez de Quiròs, piloto major (comandante navale)
della spedizione compiuta dalla piccola Armada di Don Álvaro
dizione in cambio di tutti i materiali, a partire da
quelli di ferro, che sarebbero rimasti abbandonati
nel campo. Fu senz’altro un buon affare per tutti.
Al momento della partenza, i morti, cui fu data
cristiana sepoltura, erano saliti a 47. Le navi erano
in cattivo stato ma il 18 novembre salparono tutte
e tre. Doña Isabela poté così vantarsi di essere la
prima donna ammiraglio della storia.
Il San Jerónimo, essendo l’unica unità dotata di
ponti, trasportava 104 persone, inclusa una famiglia dell’isola, ormai impossibilitata a restare laggiù essendosi convertita al cristianesimo, mentre
la fregata e la corvetta, prive com’erano di locali,
imbarcavano soltanto i propri marinai.
La grande avventura di Doña Isabela incominciò
allora. La storia spagnola parla di lei come di un’eroina che riuscì a percorrere, in tre mesi, novecento leghe (ossia 5.000 chilometri) in “condiciones
poco comunes en su sexo” e con un “desprecio de los
peligros” abbondantemente dimostrato, visto che
si trattò di attraversare (senza carte) il Pacifico nella stagione dei tifoni, con navi che facevano acqua
sere una donna pratica, tanto da ordinare, immediatamente dopo aver pronunciato il giuramento
di rito, di preparare i bagagli: destinazione le Filippine, consolidata colonia spagnola sin dal 1565.
La notizia fu accolta con gioia dalla gente, in buona
parte malata e molto debole. Doña Isabela soggiunse, peraltro, che i diritti del Re di Spagna su quelle
terre non dovevano essere messi in discussione e
che si sarebbe recata dal nuovo capo dei nativi, nel
villaggio sito dall’altra parte della radura, per spiegare i termini della questione. L’avrebbero scortata
la sorella, un famiglio (destinato a reggere il parasole) e l’ultimo ufficiale superstite della truppa.
Il viaggio terribile
Lo spettacolo di quelle due giovani donne che si
inoltravano nella foresta vestite, stivaletti a parte,
all’ultima moda di Spagna, ovvero con tanto di
gonne, bustino rigido e largo colletto inamidato di
merletto, possiamo soltanto immaginarlo.
Forse fu per il loro aspetto rigido e aggraziato, oppure per il fatto che anche a quelle latitudini il
detto “al nemico che fugge ponti d’oro” funzionava
benissimo, fatto sta che le trattative andarono rapidamente a buon fine. Anziché subire, praticamente indifesa, la triste sorte patita da alcune
donne di quello stesso villaggio, la Gobernadora
concordò a gesti la partenza indisturbata della spe-
Proprio nel 2014 una nota scrittrice, Alexandra Lapierre, figlia
del famoso Dominique, autore di testi quali “Parigi Brucia?” e
“Gerusalemme, Gerusalemme” ha dedicato un romanzo alla figura di Isabella Barreto de Mendaña
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do a pronunciare
con forza le parole,
in latino, dell’ufficio divino, scandendole con forza una
alla volta.
La promiscuità era
assoluta, gli abiti di
tutti, col maltempo,
erano zuppi e spesso non era possibile
neppure mantenere
accesi i fuochi della
cucina. L’alloggio di
Doña Isabela era
chiuso da una semplice cortina, manUn piccolo centro sull’isola di Guam, teatro di aspri combattimenti durante la Seconda Guerra Mondiatenuta aperta dule, che all’epoca della nostra vicenda si chiamava San Juan e dove il San Jeronimo toccò fortunosamente
terra per un primo, sommario rifornimento di viveri
rante il giorno,
mentre le chiavi
della riserva persoda tutte le parti e ricorrendo a vele stracciate, manale di condimenti della Gobernadora erano state
novrate per di più da equipaggi composti da malaaffidate a un bambino di sua fiducia.
ti e moribondi.
Dopo oltre due mesi di quella vita da impazzire
Le cronache parlano però anche dell’indifferenza
tutti cominciarono a non poterne più e, come se
che la Gobernadora ostentò sempre nei confronti
non bastasse, una notte, con tempo buono e luna
delle orribili condizioni di tutti e, soprattutto, di un
nuova, la fregata e la galeotta si allontanarono nel
atteggiamento altero e di un’autorità indiscussa. Per
buio, disertando, lasciando il San Jerónimo, solo
tutto il tempo di quell’orribile traversata, Doña Isanell’oceano. Fu un colpo durissimo per tutti.
bela rispettò (e fece rispettare) ogni giorno, con la
A un certo punto le proteste diventarono minacsemplice forza della propria personalità e con la
ciose. Molti non tolleravano l’uso che Isabela facelealtà che, a differenza del marito, aveva saputo suva della quota riservatale di acqua dolce, con cui
scitare tra la gente, il rigido cerimoniale spagnolo.
lavava innanzitutto le proprie gorgere di merletto,
Sempre inappuntabile nei propri abiti sgargianti,
sempre bianche e inappuntabili. Alla fine lo stesso
percorreva quotidianamente ogni ponte e locale
piloto mayor fu costretto a chiedere, a nome di tutdel San Jerónimo. Osservava i malati senza poter far
ti, che la Gobernadora spartisse con l’equipaggio e
nulla per loro, salvo dirigere l’ufficio divino quani passeggeri la residua riserva d’aceto e d’olio che
do qualcuno di questi moriva. In certe giornate, si
era in bella vista, dentro due bottiglie colorate,
contarono fino a quattro funerali per volta e, in
sulla piccola tavola di Doña Isabela.
totale, furono 50 le nuove vittime decedute a borSi trattava di una goccia nel deserto, ma quelle
do. Ben presto la fame e la sete, nonostante il radue fiasche erano diventate ormai un’ossessione
zionamento subito introdotto, diventarono la
per troppi. La Gobernadora rifiutò seccamente e la
compagnia insopportabile di tutti.
tensione salì al massimo. La disciplina che aveva
Ogni sera, al tramonto, la Gobernadora recitava, a
impedito, fino a quel momento, alla nave di perpoppa, con tutta la gente riunita e scoperta, il Saldersi per sempre col proprio carico di disperati, era
ve Regina “que fué todo el consuelo en esta peregrinalì lì per crollare. L’amore e, soprattutto, l’odio per
ción”. Una volta, nel corso di una di quelle preDoña Isabela avevano tenuto insieme quella piccoghiere, il vento, fortissimo e gelato, le strappò la
la e spaiata comunità di uomini e di donne, ma a
cuffia rigida che portava sul capo. I capelli neri le
tutto c’è un limite e fu così che, nel frapponte dasi scompigliarono sul viso, ma anche in quell’ocvanti al minuscolo locale della dama, la governacasione, come recitano le cronache, non perse una
trice rimase, alla fine, pressoché sola dopo la morbattuta, né cambiò il tono della voce, continuante, una settimana prima, della sorella, filata a mare
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L’abitato di Cavite, nella baia di Manila, dove, al termine della lunga e tribolata navigazione, l’equipaggio superstite della Gobernadora
poté finalmente essere accolto e rifocillato dalla locale guarnigione spagnola
anche lei, come tutti gli altri, senza che quella
donna di ferro versasse una sola lacrima.
Era, secondo le clessidre di bordo, quasi il mezzogiorno del 1 gennaio 1596. E fu in quel momento
che si alzò, dalla coffa, la voce di una vedetta che
gridava. “Terra, terra!”, la prima ad apparire all’orizzonte dopo 43 giorni d’oceano. Ci fu molta confusione e tutti, o quasi, salirono sul ponte.
Rimasero sotto soltanto i malati e i moribondi, sui
loro fetidi giacigli, oltre a Doña Isabela e a un uomo il quale, nonostante tutto, oltrepassò la cortina e prese in mano la bottiglietta dell’aceto. L’aprì
e l’aspirò. Nessun odore. Il fondo del recipiente
era secco ormai da molte settimane.
Doña Isabela aveva dimostrato di essere pronta a
farsi ammazzare per una fiasca assolutamente vuota, ma non di mettere in giocò la propria autorità
perché proprio il rispetto di quella rappresentava
l’unica speranza per sé e per la gente che le era stata affidata dal marito, dal Re e, in ultima istanza,
dall’Onnipotente.
La fine dell’avventura
La vedetta aveva scorto, in effetti, l’isola di San
Juan, oggi nota come Guam, nell’arcipelago delle
Marianne, sede da ormai trent’anni di una piccola
colonia spagnola che permise alla gente del San Jerónimo di rifornirsi di cibo e di acqua, ma non di
riparare la nave, al di là del poco che fu possibile
fare coi mezzi di bordo.
La navigazione, di conseguenza, proseguì, sia pure
in condizioni ormai pressoché umane. La rigidità di
Doña Isabela diventò, a questo punto, ancora maggiore. Il momento più difficile, dopo una lunga settimana di bonaccia, si verificò così proprio alla fine,
l’11 febbraio 1597, quando l’ormai logora nave entrò nella baia di Cavite. L’odio, lungamente represso, di alcuni marinai si manifestò, infatti, in un tentativo volto a portare il San Jerónimo sugli scogli.
Erano pronti a tutto pur di non darla vinta alla
Gobernadora, che era riuscita nel proprio intento
di arrivare alle Filippine contro tutto e contro tutti, senza mai cedere di un millimetro e ricordando
ogni volta, a chi l’interpellava, che se costui poteva parlare era soltanto “con su favor”. Anche in
quell’occasione, ad ogni modo, tutto finì per andare per il verso giusto. I facinorosi furono bloccati (e puniti) mentre i soccorritori si affrettarono a
portare assistenza a quell’equipaggio di fantasmi.
Gli stenti e le malattie causarono, dopo l’arrivo,
altri 10 morti e alla fine furono soltanto 44, quattro dei quali si faranno frati, i superstiti di quella
spaventosa traversata.
Una settimana dopo l’entrata a Cavite, Doña Isabela, accolta con tutti gli onori data la propria
qualità di Gobernadora, oltre che come protagonista di un’impresa eccezionale, si sposò. Il nuovo
marito fu Don Fernando de Castro, caballero de
Santiago e ammiraglio dei galeoni della Rotta delle
isole del Pacifico. Tra professionisti dovettero intendersi benissimo.
Sempre nel corso di quell’incredibile settimana di
festa arrivò inoltre, a Mindanao, la galeotta San Felipe, popolata ormai da un equipaggio di scheletri
viventi. Accusati di diserzione, il padrone e il pilota furono rifocillati e impiccati su ordine della Gobernadora; il resto dell’equipaggio, giudicato irresponsabile, fu lasciato, viceversa, libero. La San Felipe, invece, scomparve per sempre.
Le leggi del mare, allora come oggi, furono così
confermate una volta di più. Il comando comporta
oneri e onori, e si esercita con l’esempio e, anche,
attraverso simboli. Questo potere terribile, purché
venga esercitato (da uomini o da donne non fa differenza), assicura, anche nelle condizioni più difficili e disperate, una possibilità di successo e di sopravvivenza. In sua assenza il disastro è solo una
■
questione di tempo, spesso molto poco.
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