leggi un assaggio - Ad est dell`equatore

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leggi un assaggio - Ad est dell`equatore
[mi chiamo roy]
Prima di svegliare mio fratello grande, Milton, ho mangiato
tutto quello che c’era, un panino al latte e un cucchiaino di
burro di arachidi rimasto sul fondo del barattolo. Ho messo
il barattolo vuoto nella spazzatura, piano, così Milton non si
sveglia. Lui borbotta nel sonno, e allora io mastico più piano.
Quando scopre che ho finito tutto quello che c’era da mangiare
di sicuro mi prende a botte.
Appena il panino mi finisce nello stomaco comincio ad avere
proprio fame. E male ai denti. Ho voglia di mettermi in bocca il
manico dello sportello del mobiletto, così mastico qualcosa che
manda via il mal di stomaco.
Milton ha quattro anni più di me. Va alle scuole medie e non
ci vediamo tanto a casa, tranne quando è malato. Di mattina,
qualche volta, quando si sveglia per fare colazione, Milton mi
parla della moto che sta aggiustando nella baracca dietro casa,
che prima era una stalla per i cavalli. La nostra casa era una fattoria. Per un po’ di tempo, dietro la grossa porta del deposito
seminterrato, Papà curava le piantine e vendeva le foglie alle
persone che passavano a casa. Papà e i suoi amici si sedevano
a tavola, in cucina, e parlavano di musica e Papà chiudeva le
bustine da sandwich con una leccata. A Papà la musica piace
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veramente. E anche a Milton. I miei genitori hanno una montagna di dischi che sentono sempre, i Rolling Stones, Paul Butterfield, Jefferson Airplane, gruppi del genere. Quando ci sono
i miei genitori tutta la casa è piena di musica e di nuvole schiacciate di fumo azzurro, e di persone che parlano di cose che
fanno ridere tutti. Ogni tanto capita che Mamma e Papà non
tornano a casa per qualche giorno, dopo che vanno a qualche
festa a casa dei loro amici. Dormono fuori un sacco di volte.
Stamattina entro nel soggiorno, ancora mi sto stropicciando
gli occhi dal sonno e vedo che la macchina non c’è più. Vedo
solo che i sassolini dove c’era la macchina, sul vialetto d’ingresso,
sono sporchi d’olio e tutti appiccicati tra loro. L’unica macchina
che c’è sul vialetto è il mio camion giocattolo, con il suo secchio
giallo pieno di pioggia.
Nella camera da letto grande le lenzuola dei miei genitori
sono sul pavimento. Le camicie vecchie di Mamma, tutte disegnate coi ghirigori, le camicie a strisce rosse, arancioni e marroni, sono sul letto, piegate. Ha lasciato tutti i vestiti vecchi e
si è presa i nuovi, quelli che ha sistemato lei stessa con la macchina per cucire nuova. Anche la Singer non c’è più. Ha cucito
i vestiti suoi con quei modelli di carta sottile, tutti ritagliati e
scrocchianti, che conservava nelle buste di plastica dei grandi
magazzini di Issaquah. Mi ci ha anche portato una volta. Mentre lei cercava tra i rotoli di stoffa io mi sono messo una pistola
ad acqua in tasca. Prima di andare via, il proprietario ha chiesto
a Mamma di pagare la pistola e lei ha dovuto pagare con i soldi
che ci servivano per il biglietto dell’autobus. Abbiamo aspettato
insieme Papà in un ristorante e Papà ha pagato il conto e ci ha
accompagnati a casa. Mentre eravamo seduti là, io e Mamma
abbiamo fatto le parole crociate e io bevevo una Coca Cola
dopo l’altra. Il cameriere continuava a darci fette di pane caldo
con dei pezzettini di burro.
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Mentre mastico il panino, cerco in fondo al mobiletto per
vedere se c’è qualcosa da mangiare. Sul fondo di una scatola di
maccheroni al formaggio ci sono degli spaghetti e faccio finta
che sono popcorn. Mamma e Papà hanno preso tutte le cose
ancora buone dalla mia camera e da quella di Milton: gli animali
di pezza, la scatola coi soldatini di plastica, il carrarmato a pile.
Devo aspettare che Milton si sveglia o che torna Mamma.
Non c’è la televisione, perciò mi siedo sul divano e sfoglio le
vecchie riviste di Mamma, quelle dove ci sono le fotografie di
giardini e i mobili per i giardini e i soggiorni tutti in ordine,
con gli scaffali con i libri sopra. Mamma ha tutte queste riviste
perché a volte ci sono consigli su come cucire i vestiti, oppure,
come ha detto una volta: «Su come far sembrare questo porcile
meno un porcile». Ha un sacco di riviste, lei, e l’unica cosa che
posso fare è leggere, mentre aspetto di dire a mio fratello che
cosa è successo.
Vedo se ci sono delle foto di persone che somigliano a Mamma e Papà, ma non ne trovo nemmeno una. Nelle riviste di
Mamma, le famiglie mangiano all’aperto sui tavolini per picnic
con le tovaglie a quadretti bianchi e rossi e i piatti di plastica,
non quelli di ceramica, tutti smaltati e ondulati, che ha fatto
Mamma lì all’associazione, a Seattle. Gli uomini non hanno i
capelli con la coda, lunghi e neri, tranne quelli vestiti da motociclisti. Però Papà non è un motociclista, guida la macchina. Però
invece che una macchina nuova, guida una Impala Supersport
tutta arrugginita che ha più anni di Milton.
Mamma una volta si è messa nei guai perché ha cercato di
comprare una rivista. Aveva preso la rivista dalla sua griglia di
ferro mentre Papà, lei e io facevamo la fila dietro un tizio che
aveva comprato una cassa di birre e un’anguria. Papà ha detto:
«Dio santo», e ha fermato il braccio di Mamma. E ha aggiunto,
con la sua voce che sembra un ringhio: «Non ci serve ’sta merda
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in casa. La gente reale non legge per davvero questa roba, questi vendono roba di plastica a gente di plastica». Poi ha dato uno
strattone al braccio di Mamma e ha messo giù la rivista nella
griglia. Però la volta dopo eravamo solo io e lei e lei ha infilato
la rivista nella borsa.
Magari nelle riviste di Mamma trovo qualche indizio per
capire che cosa ha fatto, dove è andata. È capitato che sono
andati via altre volte, ma hanno sempre lasciato roba da mangiare a sufficienza. Mamma, e soprattutto Papà, non sono mai
stati bravi a spiegarci che progetti avevano. La nostra famiglia le
cose le fa e basta. Un giorno siamo in una casa, e il giorno dopo
siamo di nuovo in viaggio per andare in un’altra città.
«Dio santo», dice Milton quando si sveglia e io gli dico che
Mamma e Papà se ne sono andati e hanno portato via tutte le
cose importanti, e cioè la televisione, lo stereo e i barattoli di
carne che Papà aveva portato a casa per mangiarceli questa settimana. Nell’alito di mio fratello sento qualcosa, come l’odore
di fumo delle sigarette. Lui si fa subito un giro per casa, mentre
si strofina le ascelle e poi si annusa le dita, e intanto guarda nei
posti dove non ci sono più le cose dei nostri genitori. «Dio
santo», dice un’altra volta.
«Tu sai che cosa dobbiamo fare», gli dico. Per forza deve sapere che dobbiamo fare, io ho letto tutte le riviste che potevo.
Quando mio fratello apre il frigorifero, lo lascia aperto. Ma
non fa niente, tanto non c’è niente dentro.
«Dove sono andati?», gli chiedo. Intanto si sente l’aria fredda
del frigo che riempie la cucina. Se Papà vedesse Milton qualcuno si troverebbe con qualche livido addosso, mi sa.
Milton apre il mobiletto cercando le scatole di carne che
dovrebbero stare lì dentro. Guarda tutta la roba che non c’è e
dice: «Non lo so, cazzo».
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«Come non lo sai? Sei mio fratello grande, tu lo devi sapere,
non è così?».
«Così-ì?», dice, facendomi il verso. «Senti, ok, dormiamo nella stessa stanza. Ok, io dormo nel letto sotto al tuo. Però questo
non vuol dire che io sono veramente tuo fratello. Io non ho
niente a che fare con un personaggio come te».
Io mi siedo sul bordo del tavolo. «Abbiamo la stessa madre e
lo stesso padre. Io non sono il tuo fratellastro. Sono tuo fratello, quello vero».
«Allora, se sono tuo fratello, dove sono Mamma e Papà?», e
intanto esce dalla cucina e io chiudo il frigorifero.
Si infila la maglietta da lavoro e se ne va sotto la pioggia nella
baracca e comincia a lavorare alla moto che non si sono portati
via, e io vorrei tanto che l’avessero fatto. Certe volte, quando
mio fratello fa finta di volermi bene, mi chiama Culosecco, perché una volta che siamo andati a fare il bagno nudi nello Snoqualmie le mie gambe erano così magre che quasi non riusciva
a guardarmi. «Rimettiti i pantaloni, non far vedere quel culo
scheletrico», così ha detto.
Io mi siedo vicino alla finestra con una pila di riviste e guardo
la pioggia che cade e rotola via lungo il vialetto in un fiumiciattolo di fango.
Mentre sto seduto a guardare, nel vialetto arriva una macchina della polizia e un poliziotto con l’impermeabile nero e un
cappello con sopra l’orso Smokey si avvicina alla porta di casa.
Si ferma e guarda il mio camion. Non voglio che lui pensa che
ci ho mai giocato, io, con quel coso. Quando vede che lo sto
guardando gli faccio segno con la mano e apro la porta. Io so
badare a me stesso. Non voglio che un poliziotto mi prende
e mi porta da una famiglia adottiva, da una coppia di estranei
invidiosi dei miei veri mamma e papà.
«Ciao», dice con una voce profonda che è proprio identica a
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come me l’immaginavo.
«Ciao», dico io e mi appoggio alla porta, come fa Milton.
«Ci sono i tuoi?».
«Sono appena usciti a comprare il latte», dico io, «e i Cheerios.
C’è mio fratello, però lui dice che non è veramente mio fratello
e non mi dà retta se gli dico che invece lo è».
«Bene», dice il poliziotto. Si sposta il cappello indietro e guarda dalla parte dove mio fratello sta lavorando e facendo casino,
nella baracca. «Beh, non va mica bene che dica queste cose a
suo fratello».
«No, appunto», dico io, «però lui è fatto così».
«Posso dare un’occhiata?», mi chiede.
«Faccia pure», dico io.
Cammina per casa. Va nel deposito dove mio papà proprio
ieri stava coltivando le sue piantine verdi. «Quindi questo è il
posto dove il tuo papà tiene il suo giardinetto», dice il poliziotto. Sbatte contro una tanica da quaranta litri, quasi vuota, e fa
cadere un po’ di terriccio. Io intanto aspetto mentre va a dire
a Milton che non dove parlare così a suo fratello. Milton neppure smette di lavorare. Rimane disteso sotto la moto perché è
veramente maleducato.
Il poliziotto ritorna in macchina e dice: «Quando tornano
magari fammi un colpo di telefono, così non stiamo in pensiero
per te». Il tappetino blu scuro e l’odore caldo del caffè mi fanno
venire voglia di infilarmi in macchina e starmene lì sul sedile e
guardare la pioggia che scorre sui finestrini. Lui strappa un foglietto di carta a righe gialle da un blocco di plastica. Io tengo il
foglietto in mano. La sua scrittura è grossa e quadrata.
«Grazie», gli dico.
Quando la macchina si mette in moto crollo sulle scalette
bagnate della porta d’ingresso, sento l’odore freddo del legno
ammuffito e ascolto i rumori di ferro di Milton che lavora.
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Nessuno mi può portare via da qui. Aspetto fino a quando non
tornano i miei genitori. E quando tornano a casa con la spesa
mangeremo pizza e panini fino a gonfiarmi come una busta di
popcorn. La casa sarà piena di musica e di fumo e gli amici dei
miei genitori rideranno forte, tanto forte che devono mettere
tutte e due le mani davanti alla bocca.
Milton accende la moto. Il motore ronza e sputacchia come
il tosaerba quando si accende. Milton tende i muscoli quando
gira sull’acceleratore. Mi guarda e poi si butta via i capelli dagli
occhi. Fa un sorriso e poi ride, però io non sento la sua voce
da sotto il rumore. La ruota di dietro tocca per terra, lui salta
sul sedile e corre lungo il vialetto, mi passa davanti e poi via. Mi
infilo le mani sotto il sedere e sto seduto con le gambe incrociate, mentre sento il ronzio della moto sempre più lontano giù
per la strada. Aspetto il suo ritorno.
Torna solo molto tempo dopo e, nel frattempo, io ho riempito la vasca per il bagno e me ne sto nell’acqua fino a quando
è fredda. Ho trovato delle forbici vecchie e ho tagliato tutte le
foto di donne nelle riviste e ho fatto tanti mucchietti, in base
al colore dei capelli. Le bionde hanno il mucchio più grande,
ma Mamma ha i capelli castani e ho trovato poche donne con i
capelli castani e ho fatto un mucchietto, e le ho messe due a due
con gli uomini con i capelli castani. Non sono riuscito a trovare
nessun uomo che somiglia a mio padre, con gli stessi capelli
con la coda, lunghi e neri, in mezzo a tutti quegli uomini con i
vestiti blu e la polo gialla.
Una ragazza con i capelli quasi castani ritorna insieme a Milton. Sta seduta sulla moto dietro a Milton, con le mani piccole
e bianche strette sul suo petto. Ha uno zaino, lo stesso zaino
che usano Milton e Papà quando vanno a fare quelle loro escursioni infinite. Gli piace il sostegno di ferro e tutte quelle tasche
perché possono portarsi dietro le mele o le cassette o gli snack
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di cioccolata. Milton arriva fin sul vialetto con la moto e poi
saltano giù da dietro. Lei mi fa un sorriso e lui mi fa un sorriso.
«Oi, Culosecco, lei è Annie», dice, «La mia ragazza».
«Ciao», dice Annie. Tiene le cinghie dello zaino con le mani.
Fa con il mento in su mentre dice quella parola, come se ci stessimo incontrando per strada o una cosa simile. Muove la testa
come se volesse farmi capire che lei è una a posto.
Milton dice: «Mi dai quello zaino, ciccia». Quando la fa scendere dalla moto la bacia sulle labbra. Mentre lui la bacia lei chiude gli occhi e si curva all’indietro. Lui la bacia e poi fa una cosa
un po’ schifosa, le mette la lingua in bocca.
«Che stai facendo, Milton?», chiedo io.
E lui dice: «Smettila di guardarci, zozzone, e porta dentro
questo». Mi lancia lo zaino. È leggero. Quando lo porto dentro, ci trovo infilati dentro camicie spiegazzate, jeans, un impermeabile militare. Lei ha un libro di Jackie Collins, Le signore di
Hollywood. Mi siedo sul divano con il libro. Dietro la copertina
qualcuno ha scritto con una scrittura tutta curva: «Alla dolcissima Ann per i suoi quattordici anni».
«Ti piace quel libro?».
«È caduto dallo zaino», dico, mentre infilo di nuovo i vestiti
dentro.
«Allora, com’è che ti chiami, a parte Culosecco?», mi chiede
Annie. Non è che si è seduta vicino a me sul divano, si è proprio stravaccata, e i suoi capelli morbidi mi sono finiti tutti sulla
faccia. Sento il profumo – sempre se è un profumo – una specie di sapone aromatizzato o di shampoo puzzolente. Provo
a guardare dentro alla sua camicia ma nel frattempo è entrato
Milton e si è seduto sul bracciolo del divano ed è lui che guarda
dentro alla sua camicia.
«Mi chiamo Roy», dico.
«Roy?», fa Milton.
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«È il mio nome».
«Non ti chiami così», dice Milton. «Ti chiami Dillon».
«Non si chiama così», dice Annie. «Questo bambino si chiama Roy».
«Dillon è il mio primo nome. Il mio secondo nome è Roy,
perciò chiamatemi Roy. Roy è un nome da bravo ragazzo».
«Tu non sei un bravo ragazzo».
«E tu che ne sai che cosa significa essere un bravo ragazzo?»,
chiedo io a Milton. L’unica cosa che Milton sa è come distruggere una moto e poi aggiustarla.
«Insomma, che siete venuti a fare qui?», chiedo io. «Io mi
stavo preparando perché pensavo di mettermi a tavola per la
cena».
«Abbiamo preso qualche panino e cose così da casa di Annie», dice Milton, «Può andare?». Si alza di scatto dal bracciolo
del divano e apre la tasca di fianco dello zaino e tira fuori gli
hot dog e i panini e la senape e una bottiglia di ketchup, piena
più o meno a metà di ketchup tutto spremuto per il collo della
bottiglia. La mia pancia vuota quasi si contorce dal piacere.
Dopo aver mangiato gli hot dog, Milton mi dice che me ne
devo stare in camera mia per un po’ e lui e Annie scompaiono
nella camera dei miei genitori.
Li vedo, Milton e Annie, che vanno via quando fa buio. Camminano lungo il vialetto con il motore spento, con gli impermeabili militari addosso. I cappucci verdi quasi scompaiono in
fondo alla strada, per la pioggia e il buio.
Quando la mattina mi sveglio fa così freddo che tiro giù le
coperte di Milton dal suo letto. Mi addormento di nuovo tutto raggomitolato sotto la montagna di coperte. Dopo arriva
Mamma. Sta venendo dai boschi che ci sono dietro casa, e mi
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dà un pizzicotto per svegliarmi. Mi dice che stava per venire a
prendermi ieri ma aveva visto una macchina della polizia nel
vialetto. «Dai, Dillon, dobbiamo andare da Papà».
«Mi chiamo Roy», dico io.
«Dai, Roy», dice lei.
«Che fine ha fatto Milton?».
«Milton ha la moto, più tardi arriva per conto suo».
«E quand’è che posso avere anche io la moto?».
«Appena sei più grande», dice lei.
Allora faccio la spia e dico che Milton ha una fidanzata che
si chiama Annie.
«Milton è grande e può pensare a se stesso», dice lei mentre scavalchiamo la finestra sul retro e cominciamo a salire per
la collina. Do un’occhiata alla casa dove abbiamo vissuto. Da
qualche altra casa sulla collina sale il fumo, su nella pioggia. Sul
vialetto vedo il mio camion giallo e vorrei tanto poterci giocare
anche solo per un minuto, proprio come un bambino. «E le
tue riviste?», dico a Mamma. Ma lei non c’è. Lei sta già camminando là tra gli alberi e io corro per raggiungerla.