Van Gogh e l`arte di conservare le aringhe

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Van Gogh e l`arte di conservare le aringhe
L’ARTE DI CONSERVARE LE ARINGHE
La mezza vita di Vincent Van Gogh
Il 27 luglio 1890, domenica,
Vincent Van Gogh esce da un albergo di Auvers e si
avvia verso i campi. Entra in una fattoria, si stende nella buca del letame e fuma
con calma la sua pipa. Sono passati solo dieci anni da quando ha stabilito di
essere pittore, e negli ultimi cinque ha rivoluzionato la storia dell’arte moderna.
Ma oggi non ha con sé i colori, la tela, il cavalletto. Una pistola gli basta, perché
in mano a un uomo che nella pittura ha messo a rischio tutto, la pistola è un
pennello. Con quel colpo Vincent non si uccide: si termina.
..e poi è vero, noi possiamo far parlare solo i nostri quadri.
Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita e la mia ragione vi si è quasi consumata per metà –e va bene-
ma tu non sei tra i mercanti di uomini, per quanto ne sappia, e puoi prendere le tue decisioni comportandoti
con umanità. Ma che cosa vuoi mai?
Auvers-sur-Oise, 27 luglio 1890
Van Gogh è morto a trentasette anni, sconosciuto e poverissimo, eppure è uno degli uomini cui la sensibilità moderna,
cioè noi, deve di più. E la società moderna lo ripaga facendone una specie di santo laico, buono, generoso, eroico. Invece
Vincent Van Gogh era il più egoista degli uomini, privo di ogni garbo, simpatia, umiltà e genuino amore, capace di creare negli
altri odio, impotenza e imbarazzo. Una disgrazia per chiunque avesse a che fare con lui, uomini, donne, bambini, pittori, amici,
vicini, fornitori, padroni di casa, fratelli, sorelle, genitori. Nessuno, avvicinandolo, ne trasse qualche vantaggio spirituale o
materiale, tutti rimasero offesi o impoveriti. Un essere antisociale e pericoloso, un bambino bizzoso e mai cresciuto, un inguaribile
cafone dall’aspetto repellente, dall’approccio violento e scorbutico, suscettibile, aggressivo, permaloso, vigliacco. Ma la sua
vicenda è straordinaria, la sua vita meravigliosa. È la storia di un piccolo uomo che sfidò la società, la cultura del tempo e
l’universo intero, sicuro di vincere, e vinse, anche se vincere gli costava la vita, dissipata minuto dopo minuto in privazioni d’ogni
genere, fino al sacrificio finale: “la vita è breve per tutti e il problema sta nel farne qualcosa di valore” scrive nel 1885,
e della sua vita fa un’opera d’arte, ma a metà.
Nell’inverno del 1888 arriva nella Francia meridionale un pittore proveniente da Parigi, alla ricerca della luce e dei colori
intensi del Sud. È un giovane molto serio, ha appena 35 anni, di nome Vincent
Van Gogh, nato in Olanda nel 1853, figlio
di un pastore protestante. Profondamente religioso, Vincent aveva fatto il predicatore laico in Inghilterra e tra i minatori del
Belgio.
Appena smise di credere alla bontà dell’universo, anche gli uomini gli apparvero come cose, alberi e animali, e fu
allora che cominciò a dipingere, per dimostrare la brutalità dell’esistenza. Era il
1880
e Vincent non sapeva tenere in
mano una matita. Nel 1886 è riconosciuto come un pari da grandi pittori. Nel
1890 la critica comincia a lodarlo, e i più acuti hanno già capito il suo genio.
Tutto questo senza essersi mai guadagnato da vivere, sempre mantenuto
come un bambino da suo fratello, che si leva il pane di bocca per darlo a lui.
Nel
1990
ad Amsterdam viene inaugurato il Rijksmuseum Van Gogh, un
intero museo dedicato a Vincent, che in tutta la sua vita non guadagnò
neppure un centesimo per i suoi quadri.
L’arte di Millet e il messaggio sociale contenuto in essa l’avevano tanto impressionato da indurlo a diventare anche lui pittore.
Suo fratello minore,
Théo,
impiegato nella bottega di un mercante d’arte, lo presenta agli impressionisti. Théo era uomo di
eccezionali virtù: benché povero, fece tutto il possibile per il più anziano Vincent, pagandogli perfino il soggiorno ad Arles, nella
Francia meridionale.
Vincent sperava che, lavorando indisturbato per qualche anno, sarebbe stato in grado, un giorno, di vendere i suoi quadri e di
ripagare la generosità del fratello. Nella sua volontaria solitudine di Arles, Vincent confidava nelle lettere a Théo (quasi un diario
ininterrotto) tutte le sue idee e le sue speranze, e la corrispondenza di questo pittore umile e autodidatta, ignaro della celebrità
che lo attendeva, è fra le più commoventi e interessanti di ogni letteratura. In essa sentiamo il senso della missione dell’artista, le
sue lotte e i sui trionfi, la sua disperata solitudine e la sua sete di amicizia, e comprendiamo la tensione immensa e la febbrile
energia con cui lavorava. Dopo meno di un anno, nel dicembre 1888, Van Gogh ebbe un collasso e fu colto da una crisi di
pazzia. Nel maggio 1889 fu ricoverato in una casa di cura, ma aveva ancora intervalli di lucidità
durante i quali continuava a dipingere. L’agonia durò altri
quattordici mesi. Nel luglio del 1890 –aveva trentasette anni come
Raffaello- Van Gogh metteva fine ai suoi giorni. La sua carriera di
pittore era durata appena un decennio, i quadri su cui si fonda la
sua fama vennero tutti dipinti in tre anni di crisi e di disperazione.
Quasi
tutti
oggi
conoscono
qualche
girasoli, la sedia vuota,
suo
lavoro:
i
i cipressi, e alcuni
ritratti sono diventati popolari nelle riproduzioni e si possono vedere
Vincent's Chair with His Pipe
December 1888, Arles
Oil on canvas, 92 x 73 cm
National Gallery, London
anche in molte stanze. È proprio quello che Van Gogh voleva, che i
suoi quadri avessero l’effetto immediato e violento delle stampe
colorate giapponesi da lui così tanto ammirate. Bramava un’arte
libera da qualunque aspetto mentale, che non richiamasse soltanto l’attenzione di ricchi
Sunflowers
January 1889, Arles
Oil on canvas, 92 x 71 cm
Museum of Art,
Philadelphia
imprenditori o collezionisti, ma desse gioia e consolazione a ogni creatura umana. Ma nessuna riproduzione potrà svelare la
reale crudezza dei quadri di Van Gogh: solo negli originali si scopre
la potenza primigenia
olandese, e quanto acuta e ponderata fosse la sua ricerca anche negli effetti più forti.
dell’arte dell’infelice pittore
Van Gogh aveva assimilato la lezione dell’impressionismo e del
pointillisme di Seurat. Egli amava la tecnica pittorica a tratti e puntini di
colori puri, ma nelle sue mani divenne qualcosa di assai diverso da ciò
che ne avevano voluto fare gli artisti di Parigi. Vincent usava infatti le
singole pennellate non solo per frantumare il colore ma anche per
esprimere il suo stato d’animo concitato. In una delle lettere da Arles
descrive i momenti di ispirazione quando “le
emozioni sono così
forti che si lavora senza sapere di lavorare….e le
pennellate si susseguono con una progressione e una
The Night Café in the Place
Lamartine in Arles
September 1888, Arles
coerenza simili a quella delle parole in un discorso o in una lettera.”
Watercolour, 444 x 632 mm
Private collectionMuseum of
Il paragone non potrebbe essere più calzante: in tali momenti egli dipingeva come altri scrivono. LeArt,
pennellate
Philadelphiadi Van Gogh ci
dicono sempre qualcosa del suo stato d’animo. Anche in pittori precedenti vi sono pennellate coraggiose e sciolte, come in
Manet, che però esprimono il talento dell’artista, la percezione rapida e la magica
abilità di evocare una visione, ma in Van Gogh esprimono
mentale
l’esaltazione
del pittore. Vincent amava dipingere oggetti, scene e motivi nei quali
potesse disegnare oltre che colorare con il pennello, e stendere il colore a strati spessi
così come uno scrittore sottolinea le parole. Ecco perché fu il primo a scoprire la
bellezza delle siepi, dei campi di grano, dei rami nodosi degli ulivi e delle sagome
scure e guizzanti dei cipressi. I germogli dei mandorli come l’esplosione di una
malattia cutanea, la pelle lebbrosa degli ulivi piagati, girasoli che non riescono a
Rami di mandorlo in fiore, 1890 nascondere lo squallore del loro meccanismo ripetitivo, stelle malintenzionate e misteriose, cipressi gobbi e infelici. Anche per
questo non è stato capito né amato, perché aveva visto qualcosa che nessuno era stato capace di mostrare fino ad allora: LA
NATURA VIVA. Che questa natura sia anche raccapricciante e cattiva è ancora troppo presto e spiacevole per essere
accettato.
Vedere troppi quadri di Van Gogh insieme fa male, ci si sente minacciati e in pericolo, si ha paura che quel mondo
catturato ti salti addosso e ti divori, ma Vincent c’è abituato, li tratta con la confidenza di un domatore che pettina il suo leone.
Van Gogh era posseduto da una tale frenesia creatrice da sentire il bisogno non
solo di dipingere lo stesso sole raggiante ma anche oggetti umili, riposanti e
domestici, che nessuno aveva giudicato degni di attirare interesse. Dipinse la sua
angusta stanza di Arles e ciò che scrive al fratello spiega perfettamente le sue
idee:
Mi è venuta una nuova idea ed ecco l’abbozzo che ne ho fatto… Questa volta si tratta
semplicemente della mia camera da letto, solo che qui il colore deve fare tutto e accentuando –e
così semplificando- lo stile degli oggetti, dovrà suggerire il riposo, o il sonno in generale. In una
parola, guardare il quadro dovrebbe riposare la mente, o meglio la fantasia.
Le pareti sono viola pallido. Il pavimento è di mattonelle rosse. Il legno del letto e delle
sedie ha il tono giallo del burro fresco, le lenzuola e i guanciali sono di un verde limone molto
chiaro. La coperta è scarlatta. La finestra verde. La toeletta arancione, la bacinella azzurra. Le
porte lilla. Ecco tutto. Non c’è niente nella camera dalle imposte chiuse. Le ampie linee dei mobili devono anch’esse
esprimere un riposo inviolabile. Ritratti alle pareti, uno specchio, un asciugamani e qualche vestito.
La cornice, non essendoci bianco nel quadro, sarà bianca. Questo per compensarmi del forzato riposo.
Vincent's Bedroom in Arles
October 1888, Arles
Oil on canvas, 72 x 90 cm
Rijksmuseum Vincent van Gogh,
Amsterdam
Ci lavorerò ancora tutto il giorno, ma come vedi la concezione è semplice. Le ombre e i riflessi eliminati, tutto è dipinto a tratti liberi e
piatti, come le stampe giapponesi….
È chiaro che la principale preoccupazione di Van Gogh non era la rappresentazione esatta. Usava forme e colori per
esprimere ciò che sentiva nelle cose che andava a mano a mano dipingendo e ciò che voleva comunicare agli altri.
Non gli importava granché di quella che chiamava “la realtà stereoscopica”, cioè la riproduzione fotograficamente
esatta della natura. Sarebbe arrivato perfino a forzare e a mutare l’aspetto delle cose, se questo avesse potuto aiutarlo nel suo
scopo.
È l’ultimo e il più grande degli impressionisti, il primo e il più grande dei fauves, ha inventato l’espressionismo ed è sul punto di
rivelare al mondo l’astrattismo e l’informalismo. Lo scrisse, addirittura: “Se osassi lasciarmi andare rischierei ancora di più
a uscire dalla realtà, a fare con il colore come una musica di toni, ma la verità mi è così cara, e il cercare di
fare il vero anche, insomma credo di preferire ancora di essere calzolaio, che non musicista di colori” (12 febbraio
1890).
Van Gogh voleva che la pittura esprimesse ciò che egli sentiva, e se la deformazione poteva aiutarlo a raggiungere lo
scopo, avrebbe usato la deformazione. Insieme a
Cézanne, era arrivato ad “abbandonare” il proposito di imitare la natura,
senza però respingere i tradizionali canoni dell’arte.
Non si atteggiarono a “rivoluzionari”, non avevano l’obiettivo di scandalizzare i critici. Avevano entrambi pressoché
rinunciato a sperare che qualcuno si interessasse ai loro quadri: lavoravano perché dovevano lavorare.
Aringhe affumicate
1889, Arles
Oil on canvas, 33 x 41 cm
Collezione privata
C
osa c’è di più umile di un’aringa?
Nuota in tutti gli oceani. Brutta e bistrattata, da
viva non vale niente. Ma da morta è utile, quasi
necessaria. La sua carne stopposa sa di sale o di
fumo. La mangiano i poveri d’Europa, i quadri dei
pittori del ‘600 sono pieni di aringhe. Ignara,
l’aringa
ha
fatto
ricchi gli olandesi. Dicono che Amsterdam sia costruita sulle lische d’aringa, pescatori e
commercianti le devono le loro fortune.
Il genere della natura morta fatica a staccarsi dal pregiudizio
classico che la relega al gradino inferiore dell’arte. Tra i
maestri che riproducono con angosciante verosimiglianza
tranci di carne, verdure appassite, selvaggina in carniere,
molti sono olandesi. Come Van Gogh che, pur essendo venerato per i ritratti, i paesaggi, gli
abbacinanti campi di grano, i cipressi e i girasoli, si è spesso dedicato alla natura morta. Ha
raffigurato cipolle, patate, scope, ombrelli, pere, caraffe, pentole, boccali di birra, pipe, caffettiere. Oppure scarpe
sformate, con le suole chiodate e i lacci esausti, sedie di legno grezzo, con l’impagliatura in briciole.
Stadio estremo della materia. Oggetti d’uso quotidiano, consunti, che urlano sulla tela la loro fatica di esistere. Ma forse
niente è più commovente di queste due legnose aringhe affumicate, comprate in una bottega di Arles da un uomo che
disperatamente si aggrappava alla pittura per dimostrare al mondo e a se stesso di essere ancora un artista.
Vincent le dipinse nel gennaio 1889, appena dimesso dall’ospedale Hotel-Dieu, dove era stato ricoverato in seguito
al famigerato litigio con Paul Gauguin e la mutilazione dell’orecchio.
Non guarito, e ancora incalzato da terrori di morte e voci
persecutorie, ma lucido e desideroso di normalità. Voleva erigere un
argine contro la malattia che lo incalzava. Al fratello Théo scrive di
aver iniziato qualche natura morta “per ritrovare l’abitudine a
dipingere”, qualcosa di semplice, piccolo formato, pochi colori.
Guarda le aringhe da vicino, pittoricamente stimolato dalle squame
argentate sul dorso, e le strappa ad ogni spazio naturalistico. Sono
poggiate su un cartoccio, a sua volta posato su un piatto di ceramica,
e questo su una sedia. Ma la parete, di un viola pallido –come nella
Stanza dell’artista- è ridotta a un rettangolo rigato di pennellate
verticali. L’impagliatura della sedia, giallognola e verdastra, è una fitta trama di fili orizzontali e verticali. Le pennellate
si susseguono come “le parole in un discorso o in una lettera”: Van Gogh scrive dipingendo. Le aringhe sono forme
aguzze, le bocche deformate dal dolore dell’agonia, la pelle crostosa, le code secche, le scaglie rosse come braci. Il quadro
è una sinfonia in giallo e viola, colori complementari. Benché Vincent preferisse considerarsi un “calzolaio”, sbalordisce
la gamma di sfumature del giallo –oro vecchio, oliva matura, limone acido, burro fresco- che riesce ad esibire in uno
spazio così esiguo.
Ma i vicini di casa lo temevano e in 30 firmarono una petizione al sindaco. Il “pazzo” alcolista rappresentava una minaccia per
donne e bambini: chiedevano il suo internamento. La polizia lo riportò
all’ospedale, in isolamento, e mise i sigilli alla sua casa, la maison jaune. Le
Aringhe affumicate, Notte stellata, i Caffè di notte rimasero sotto sequestro. E
questi inoffensivi pesci morti avevano contribuito ad esasperare i gendarmi,
perché ad Arles essi venivano proprio soprannominati “aringhe”. Come se le
avesse dipinte per prenderli in giro.
Il 7 gennaio 1889 può tornare a casa, ma è proprio ora che inizia il
tormento: l’intero paese lo tiene sott’occhio e qualsiasi suo gesto, anche il più
banale, sembra confermare la sua pericolosità. I ragazzini per strada gli
lanciano torsoli di cavolo e si arrampicano sulle sue finestre per chiedergli di
tagliarsi anche l’altro orecchio. Il 24 marzo 1889, ecco cosa dice con una
semplicità commovente al dottor Rey dall’aria sana e le labbra rosa che lo rimprovera di avere bevuto troppo alcol: Lo
ammetto, ma per raggiungere l’alta nota di giallo che ho toccato questa estate, ho dovuto montarmi un
poco.
Vincent diventa “pazzo” quando si accorge che esistere è un “troppo”, e lo scrive anche, con rassegnazione, poco dopo
il ricovero: “Avevo il disgusto perfino di muovermi e niente sarebbe stato più piacevole per me che il non
svegliarmi più. Ora questo orrore della vita è diminuito e la malinconia è meno acuta, ma di volontà non ne
ho ancora alcuna, neppure desiderio di tutto ciò che fa parte della vita ordinaria.”
Se si arriva a quell’emozione non si torna indietro, e infatti a Vincent restano solo quattordici mesi di vita, ed ha aspettato
anche troppo. C’è qualcosa che può rendere più scomoda l’esistenza? Avere orrore della vita significa avere schifo degli altri e
di sé, delle gioie e dei dolori, delle speranze, vuol dire sentirsi di troppo, tutto è troppo, ogni gesto, perfino creare diventa di
troppo. È quanto basta per “impazzire”. Nel maggio del 1890 scrive: “Mi sento rovinato dalla noia e dal dolore”. Tutti noi
siamo migliori grazie a lui, nei secoli, ma lui si è bruciato, consumato come una candela, e allora non resta che morire.
A maggio del 1890 torna a Parigi, trova una famiglia felice, per la quale rappresenta un pericolo. Theo lo porta a casa per
mostrargli la giovane moglie e il bambino che ha voluto chiamare Vincent. A Parigi sta tre giorni, e per tre giorni zampetta tra i
suoi quadri, le notti stellate accanto ai girasoli, gli iris accanto ai campi di grano. Sotto i letti sono ammucchiate centinaia di altre
tele non ancora tese né incorniciate, Vincent le stende a terra, mette in fila gli autoritratti, si lascia guardare da tutti quei suoi
occhi. A Parigi in quattro o cinque mesi –estate autunno 1887- si era dipinto almeno venti volte, e sono venti persone che in
comune hanno solo il pelo rosso e un’esplosione di pennellate che partono dal centro degli occhi e schizzano a raggiera.
Eccolo buon pittore borghese che cerca clienti, con la pipa in bocca e lo sguardo attento.
Eccolo invidioso e crudele, con gli occhi di un altro mondo.
Con
la tavolozza in mano e l’aria da
Michelangelo
nordico,
la
bocca
vezzosa
ripugnante di debolezza e disgusto.
Autoritratto davanti al cavalletto, 1888 Self-­‐portrait, 1886 Self-­‐portrait, 1887 Ora si prende in giro, con la pipetta in bocca, il cappello di paglia e la mantellina da
pittore della domenica, con l’espressione di chi non potrà mai capire niente. Eccolo
nell’autoritratto cinese, un pazzo fanatico, bocca
pronta a sgozzare con un morso alla gola; gli occhi sono duri
sotto un osso sopracciliare sporgente, il naso piccolo, i capelli
corti.
Self-­‐portrait, 1887 Ora si è tagliato l’orecchio e ha il viso fasciato sotto il
berretto di pelo nero, e non capisce niente ma chiede
pietà.
Passano
otto mesi, gli ultimi ritratti se li fa in
manicomio. Uno è famosissimo, azzurri lo sfondo, gli occhi, il
vestito, dove lo sfondo è l’infinito, i capelli sono vivi e lui è un
cipresso che non sente il vento.
Le spalle scendono di quadro in quadro, si fanno sempre
più deboli, inclinate, vanno in rovina e il corpo cede, ma a
lui nessuno può più impedire di salire in alto.
Non sembra solo una tecnica pittorica, ma la raffigurazione del Big Bang di una testa che
si espade nell’universo a cercare i molti se stesso e a svergognarli tutti.
Il 27 luglio è domenica. Si sveglia alle cinque come al solito, ma non va nei campi a
dipingere. Sta su una sedia, fuma la pipa, mangia olive verdi, come al solito, e nessuno saprà
mai cosa pensa. A un certo punto va al tavolino, inizia una lettera a Theo, che comincia come
decine di altre: “Mio caro fratello, grazie della tua cara lettera e del biglietto da
Autoritratto con cappello di feltro grigio, 1887 cinquanta franchi che conteneva…Vorrei scriverti a proposito di tante cose, ma
ne sento l’inutilità.” Certo, era difficile spiegare a Theo cosa l’aveva condotto fino a quel
punto. Però ci prova: “Nel mio lavoro ci rischio la vita, e la mia ragione si è consumata per metà…” Non termina, si infila la lettera
in una tasca, la pistola nell’altra e scende per la colazione. Forse è il suo ultimo tentativo di salvarsi, mangia un pezzo di pane
secco e beve un bicchiere di birra. Riprende quanto Dickens aveva consigliato a coloro che vogliono suicidarsi per distoglierli
dal proposito: “E’ meglio farsi buon sangue che suicidarsi..” Ma questi trucchetti non bastano più.
“Nel mio lavoro ci rischio la vita…” Nonostante questa frase sono stati scritti e si scriveranno centinaia di libri per capire
come mai Van Gogh si è ucciso.
Dopo aver mangiato si alza da tavola ed esce, per la prima volta senza cavalletto, tela e colori. Fa un caldo terribile,
mentre si avvia verso la campagna incontra paesani e contadini vestiti di tutto punto che scendono in piazza. Con passo veloce
e ingobbito arriva fuori dal paese. Puzza di sudore, i capelli, corti e rudi, sono sporchi. Indossa pantaloni scuri, una camicia
bianca senza colletto, grosse scarpe da contadino, e proprio oggi non ha il cappello. Mostra una fetida dentatura gialla di
nicotina, nera di carie, metallica d’acciaio.
Il sole è alto. Vincent fa ancora qualche centinaio di metri, entra nella buca del letame, accende la pipa, fuma con
calma l’intera carica, la vuota, la rimette in tasca, prende la pistola e si spara. Un piccolo sparo indeciso e debole. Si era tagliato
solo un po’ d’orecchio, e si spara solo un po’, non alla testa, non al cuore; proprio sotto le costole, a sinistra, all’altezza
dell’ombelico, puntando la canna verso l’alto. La pallottola buca la carne, attraversa lo stomaco fino ai grandi vasi della
colonna vertebrale e del diaframma. Rimane nel letame per chissà quanto tempo, aspettando di vedere se muore o se
qualcuno viene a prendersi cura di lui. Ma non si spara un secondo colpo, anzi butta la pistola. Quando fa buio torna
disciplinatamente in albergo, barcollando. Si tiene il ventre, zoppica, la testa gli pende dalla parte dell’orecchio mozzato. Ai
padroni dell’albergo dice che non ha niente. Sale le scale e si sdraia sul letto, la faccia rivolta al muro. È così che lo trova l’oste
quando va a chiedergli se vuole mangiare.
“Che avete?”
“Ecco” dice mostrando un piccolo foro sanguinante sulla camicia.
“Ma che avete fatto?”
“Mi sono sparato, speriamo di non essermi mancato.”
Viene chiamato il dottor Gachet, che lo esamina alla luce di una candela, non si può estrarre il proiettile, non resta che
aspettare se si riprende. Van Gogh chiede di fumare, da questo momento non abbandonerà più la pipa. “E’ un ottimo rimedio
contro la malinconia.”
Arriva la polizia, stavolta ha pronta la frase che non gli venne quando si tagliò l’orecchio: ”Quel che ho fatto non riguarda che
me. Sono libero di fare del mio corpo quel che voglio.” E rifiuta di dir loro qualunque altra parola. Passa la notte, fa un caldo
torrido, i dolori dell’infezione sono forti. A chi gli chiede, gentilmente spiega: “Je m’emmerdai”. Per questo si sparò nella buca del
letame. Nessuno gli apre la pancia, nessuno chiama altri medici, nessuno pensa a trasportarlo a Parigi. È solo un povero pazzo
che si è sparato, era inevitabile prima o poi.
Arriva Theo.”Ancora mancato..” è la prima cosa che Vincent gli dice, come per scusarsi. Theo lo abbraccia, piange,
chiede perché. “Non piangere, l’ho fatto per il bene di tutti”.
Fa caldo, Vincent Van Gogh puzza di sangue, di sudore, di escrementi secchi, le mosche ronzano ovunque e cercano di
avvicinarsi alla ferita. Theo lo rassicura, guarirà, ma Vincent vede più lontano: “E’ inutile, la tristezza durerà tutta la vita”.
La tristezza dura tutte le ore che gli restano, in quella compagnia noiosa. All’una di notte, il 29 luglio, sviene e finalmente
muore.
Tutte le considerazioni sono rielaborate e sintetizzate da Dario D’Antoni.
Le citazioni sono liberamente tratte dai testi
Ernst H. Gombrich
Giordano Bruno Guerri
Il mondo dell’arte (Verona 1952)
La mezza vita di Vincent Van Gogh (Milano 1990)
Vincent Van Gogh
Antonin Artaud
Lettere a Théo (Guanda 1996)
Van Gogh . Il suicidato della società
Le considerazioni su “ARINGHE AFFUMICATE” sono tratte dall’articolo apparso sulla rubrica IL MUSEO DEL MONDO
pubblicato l’11 agosto 2013 su Repubblica, a firma di Melania Mazzucco.