68 e dintorni - liceo scientifico Antonelli

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68 e dintorni - liceo scientifico Antonelli
"Liceo scientifico A. Antonelli"
Novara
"Fondazione F. Antonicelli"
Torino
"Concorso Lucio Libertini"
a.s. 2001-2002
’68 e dintorni
Perché proprio il '68?
Se questa storia è niente
appartiene a chi l'ha raccontata
se è qualcosa appartiene a tutti noi
Ernst Bloch
Riteniamo che gli attuali fittissimi programmi scolastici lascino ben poco spazio alla storia
contemporanea; di qui l'esigenza di recuperare alcuni momenti chiavi che non possono certo passare
sotto silenzio.
Ed ecco il '68, che fra tutti i movimenti sviluppatisi nel XX secolo ha coinvolto particolarmente la
componente studentesca.
Come allora anche oggi i giovani sono chiamati a dire la loro sulle trasformazioni in atto nella
società. Per farlo occorre conoscere le esperienze del passato così da intervenire in modo più
consapevole nel presente. Attraverso un repertorio di testi, di immagini, con video e testimonianze
ci proponiamo quindi di fornire una visione più precisa, nel tentativo di eliminare gli stereotipi che
nel corso degli anni si sono sovrapposti, influenzando una corretta percezione di quanto è accaduto.
ciclo di conferenze e opuscolo
realizzati
col contributo della Regione Piemonte
e
con la collaborazione di studentesse e studenti delle classi: 5 B, 5 D, 5 E, 5 G, 5 I,
delle professoresse Albanese, Brustia, Ferolo, Ferretti e Pelligra e dei professori
Allegra e Galli del Liceo Scientifico Antonelli di Novara.
1
Indice
PREFAZIONE....................................................................................................................................3
IL CONTESTO STORICO............................................................................................................... 4
1.I caratteri di fondo del '68.............................................................................................................................4
2.Cambia la vita …. anche in famiglia.............................................................................................................4
3.Antiautoritarismo: illegittimità delle istituzioni e volontà d'aggregazione....................................................4
4.La protesta studentesca e il proletariato operaio..........................................................................................5
5.L’università tradizionale è rifiutata...............................................................................................................5
STUDENTI..........................................................................................................................................6
1. Chi sono i protagonisti?...............................................................................................................................6
2. Perché nasce nella scuola l’istanza rivoluzionaria?....................................................................................8
3. L’esperimento di Barbiana tra critica alla scuola classista e innovazione didattica...................................9
4. Il ’68 nelle università..................................................................................................................................11
5. Le proposte degli studenti..........................................................................................................................16
6. Una riflessione sulle conseguenze..............................................................................................................19
7. I ricordi di un protagonista........................................................................................................................19
LOTTE OPERAIE...........................................................................................................................20
Glossario........................................................................................................................................................23
EMANCIPAZIONE FEMMINILE................................................................................................ 23
LA FILOSOFIA................................................................................................................................24
1.La Scuola di Francoforte............................................................................................................................24
2. Marcuse......................................................................................................................................................26
LA LETTERATURA........................................................................................................................29
1.La letteratura americana: Kerouac e la Beat Generation...........................................................................29
2.C. Stajano - Il sovversivo............................................................................................................................30
3.A. De Carlo - Due di Due,...........................................................................................................................31
4. A. Zanzotto - La beltà.................................................................................................................................32
5. G. Giudici - Autobiologia...........................................................................................................................32
LE MUSICHE...................................................................................................................................34
1.Canzoni dagli USA e dalla Gran Bretagna.................................................................................................34
2.Canzoni dall'Italia.......................................................................................................................................36
3. Il canto sociale...........................................................................................................................................38
4.Il '68 nello Zecchino d'oro...........................................................................................................................38
BIBLIOGRAFIA..............................................................................................................................39
2
PREFAZIONE
A Lucio Libertini è dedicato il concorso che ha permesso la realizzazione di questo lavoro. Ci è
sembrato opportuno aprire la sezione di documenti e riflessioni storiografiche sul Sessantotto proprio con
alcune sue considerazioni, scritte a dieci anni dagli avvenimenti in questione. Si tratta di una scelta sulla
scuola e sul mondo operaio che proponiamo come stimolo critico di discussione.
La scuola — sino all'università — era nello sviluppo italiano un residuo archeologico di età trascorse. Essa
era rimasta infatti organizzata secondo un modulo generale che corrispondeva alla vecchia stratificazione
sociale dell'Italia: con l'esclusione dagli studi della massa destinata a formare la base della piramide sociale,
con le «uscite» corrispondenti ai vari livelli della gerarchia economica e sociale, con caratteristiche
accentuate e non casuali di autoritarismo e di nozionismo. Era la scuola che selezionava in rapporto a una
piramide sociale con una base assai vasta e un profilo stretto e allungato, e preparava la continuità delle
classi dirigenti e dell'egemonia della borghesia.
Ma questa struttura ha intanto cominciato a essere percossa con crescente vigore dall'impetuoso aumento
della scolarizzazione. Coloro i quali dipingono la scuola come una arcadia felice, o comunque come un
assetto razionale, repentinamente sconvolto dalle follie di minoranze studentesche, ignorano del tutto il fatto
fondamentale che la crisi di quell'assetto è cominciata per tendenze oggettive, e prima di tutto perché nella
società italiana, così come essa, sotto l'impulso dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione, si andava
trasformando, il numero dei giovani iscritti ai vari livelli scolastici si è moltiplicato molte volte. Vi è una
contraddizione in termini tra la scuola selettiva e di classe e la scuola di massa. […] La scuola, mano a mano
che perdeva i suoi tradizionali modelli di funzionamento quale riproduttrice delle élites dirigenti, è divenuta
sempre più una fabbrica di diplomi, e l'istruzione è divenuta un consumo. Ma quei diplomi andavano
perdendo valore sul mercato, e sulla scuola si ritorcevano la frustrazione, il senso dell'inutilità. Proprio
quando le strutture scolastiche producono un numero immenso di diplomi da consumare, si registra la crisi
degli sbocchi di impiego, la contraddizione massima tra le ambizioni istillate nei giovani che frequentano i
corsi e la cruda realtà del mercato del lavoro, e viene in primo piano la inutilità, a volte grottesca, di questo
sistema, che viene perdendo d'altro canto tutti i suoi rapporti con una concezione che fa dell'istruzione una
formazione.
[…] Se appena spingiamo lo sguardo verso un orizzonte più largo e più lontano ci rendiamo conto che nelle
società moderne, e a maggior ragione in quelle che si evolveranno verso il socialismo, sarà oltreché ingiusto
impossibile usare i titoli di studio come metro di distinzione tra ceti e le classi sociali, come una base
gerarchica dell'organizzazione sociale; di più, sarà non solo sbagliato, ma impossibile collegare tutta
l'istruzione che ciascun individuo riceve nella scuola soltanto alla costruzione delle sue capacità
professionali.
Un minimo di istruzione — ma un minimo che andrà sempre crescendo dalla scuola dell'obbligo verso studi
almeno parauniversitari — sarà sempre più comune alla grande maggioranza, e, un giorno più lontano, a
tutti. I cancelli che recingevano una scuola per alcune minoranze sono stati infranti per sempre: e avere
intuito, avere colto e affermato questa tendenza è un germe vitale e insopprimibile del sessantotto.
[…] “Scuola seria” vuol dire “scuola nuova”. Non basta che sia nuova per essere seria, ma non è seria se non
è nuova. Lo studio è un lavoro, una fatica, una conquista, è un processo di arricchimento e di trasformazione
che costa, e vale perché costa. Non può essere sostituito da una fabbrica facile di diplomi, e neppure, per
quanto esso sia serio e sempre necessario, dal dibattito politico. Ma neppure può essere ridotto a un
inscatolamento di nozioni, e ancora meno a una corsa a ostacoli o a uno strumento per selezionare l'umanità
e imprimere su ciascuno di noi, una volta per tutte nella vita, un marchio economico e sociale.
[…] Ciò che sovente si dimentica, e che io invece vorrei qui ricordare con tutto il vigore possibile, è che in
Italia il movimento del sessantotto non fu prevalentemente studentesco; fu invece, in un suo momento
decisivo, operaio. E, se così lo si considera, esso dovrebbe essere perfino più correttamente datato nel 1969;
e in ogni caso assume caratteri e natura peculiari.
[…] Ma era una classe operaia «nuova» quella che emergeva dalla lotta; composta in misura notevole di
immigrati; spinta ad azioni di grande significato anche da stimoli elementari. E se i primi movimenti sorsero
a Torino, e proprio alla Fiat, essi si allargarono poi rapidamente a tutto il triangolo industriale e al resto
d'Italia, sino al sud, mantenendo un rapporto instabile, e poi rapidamente troncato, con le lotte degli studenti.
Lucio Libertini, La generazione del Sessantotto, Editori riuniti 1979
3
IL CONTESTO STORICO
1.I caratteri di fondo del '68
Il miracolo economico", "la rivoluzione dei consumi", la costituzione dello "stato nascente" e il movimento
politico del "centro-sinistra" Non un fatto, né un avvenimento, ma un complicato intreccio di uomini, donne ed idee,
di episodi e comportamenti, di aspirazioni e desideri, di aspettative e delusioni. Un vento di cambiamento
pieno di contraddizioni che ha soffiato su più di una generazione, sedimentando un sentire comune, quello
della rottura con l'assetto sociale e politico fondato sull'autoritarismo. Difficile ancora oggi dire che cosa è
stato il ’68. Certamente una stagione diversa con tutti i pregi e i limiti che i grandi sommovimenti portano
con sé. Il ’68 nasce come un movimento spontaneo e di ribellione, di carattere internazionale, in una
prospettiva di rottura, che investe tutti gli ambiti della vita quotidiana, non solo quelli politici, ma soprattutto
quelli più marcatamente esistenziali, e che coinvolge soprattutto operai e giovani studenti, nutriti di ideali
che si battono contro il sistema per realizzare un cambiamento profondo rispetto agli anni cinquanta.
L'industrializzazione genera infatti vorticose trasformazioni degli assetti demografici di un paese (…) un gigantesco
fenomeno di mobilità della popolazione, che muta i contadini in operai e artigiani,che riempie le città e svuota le
campagne (...) che frantuma lo stereotipo dell’italiano frugale risparmiatore e ce lo restituisce onnivoro consumatore di
cibi, di automobili e frigoriferi,di televisioni e di film, di vacanze e rotocalchi; genera infine potenti spinte alla
secolarizzazione della società e alla liberalizzazione dei consumi che ebbero effetti molteplici sia sul piano dei
comportamenti politici, sia su quello delle culture di massa. (...). L'agire concentrico di industrializzazione e di
modernizzazione mette in moto molteplici processi di mobilitazione dei gruppi sociali, come quello dei giovani operai
prevalentemente meridionali impiegati nella grande fabbrica taylorista, o degli studenti universitari, assumono la
modalità specifica dello "stato nascente",(...) nel quale,"vengono messi in discussione e ristrutturati gli aspetti
fondamentali dell'agire sociale". Tutti e quattro i processi, decollano nel 1958, facendo di quell'anno uno spartiacque
significativo nella storia dell' Italia repubblicana. In quell'anno, nel quale entra in vigore la Comunità economica
europea, prende le mosse il boom economico italiano, una accelerazione inusitata e inaspettata dell'industrializzazione
e dello sviluppo (...) che colloca l'Italia ai vertici delle graduatorie internazionali relative all'incremento annuale del
prodotto interno lordo. 1
2.Cambia la vita …. anche in famiglia
La casa perde il ruolo di rito famigliare e di spazio per la continuazione delle tradizioni locali. Le classi
subalterne, inoltre, hanno bisogno di sentirsi parte integrante della comunità, di sentirsi italiani e proprio per
questo cercano di conquistare i “mezzi” per l’effettiva integrazione. L’auto, la televisione, i prodotti di
mercato incominciano così la loro enorme diffusione.
Si aprivano parallelamente le condizioni per una riduzione del tempo dedicato alla preparazione del cibo, per la
costante crescita degli elettrodomestici, per la diffusione delle mense, dell'orario continuato, della refezione scolastica.
Dietro un mutamento di consumi e di diete, si annidava un cambiamento di costumi, nel senso che la casa non era più il
luogo esclusivo deputato alla fruizione del cibo e il pasto perdeva, se non nei giorni di festa, il ruolo di rito familiare e
di spazio per la perpetuazione delle tradizioni locali. Il cibo inoltre, trasformato in un prodotto della società di massa,
si affermava come uno status symbol e come oggetto privilegiato sul quale si orientavano i comportamenti acquisitivi
di una popolazione da poco uscita dalla fame. La sua conquista rappresentava per le classi subalterne in ascesa il più
potente veicolo all'effettiva integrazione nella compagine nazionale: mangiare a sazietà prodotti di mercato, insieme al
guardare la televisione e andare in automobile, apparivano come una condizione indispensabile per sentirsi parte
integrante della comunità, per sentirsi italiani2
3.Antiautoritarismo: illegittimità delle istituzioni e volontà d'aggregazione
L'antiautoritarismo è uno dei valori che caratterizzarono il movimento studentesco esprimendo non solo il
tradizionale distacco generazionale padri-figli, ma anche l'opposizione al potere istituzionale. Tale coscienza
di "separatezza" venne concretamente espressa nelle forme di aggregazione e socializzazione sottratte al
controllo di qualsivoglia autorità.
La certezza del futuro, in un quadro di mobilità sociale assai accentuata, si intreccia con lo stacco, la rottura, la
contrapposizione che avviene e può avvenire con la generazione dei propri genitori. Non è più, o meglio non è solo, il
tradizionale e ricorrente conflitto tra padri e figli (o tra madri e figlie): è una frattura che è il portato dei tempi - un po’
come s'intuisce in "Padri e figli"di Turgenev, non a caso scritto nel pieno di una forte censura generazionale che
avveniva esattamente un secolo prima ma che è insieme il risultato di un’espressione soggettiva, di una scelta
volontaristica. I valori e i comportamenti, anche se spesso affondano in radici o realtà simili, sembrano essere agli
antipodi. Anche perché i giovani non dimenticano la responsabilità dei padri nell'aver partecipato, più o meno
1
2
FLORES – DE BERNARDI, Il Sessantotto., cap. V, pagg. 120-121
FLORES – DE BERNARDI, op. cit., cap. V , pag.146
4
consenzienti ed entusiasti, alla costruzione dei regimi totalitari di questo secolo (i fascismi prima, i regimi comunisti
dell'Europa centro-orientale subito dopo). La dimensione democratica entro cui i giovani del '68 sono cresciuti, almeno
in occidente, non può che collidere con una cultura e una mentalità che si sono formate nell’epoca tra le due guerre,
anche se c’è il filtro della Resistenza e della lotta antifascista, spesso, a costituire un ponte possibile tra le due
generazioni (ma della Resistenza i giovani conoscono soprattutto la retorica istituzionale o il reducismo nostalgico
delle associazioni partigiane). Mentre all’est il conflitto tra le promesse e i risultati dei regimi comunisti è ancora più
stridente.Gli orizzonti psicologici e i modelli culturali sono nella maggior parte dei casi agli antipodi: e ancora di più
lo sono i valori condivisi in tema di disciplina, gerarchia, obbedienza, libertà e soprattutto sessualità.(…) I valori
espressi dal movimento e quelli attorno a cui esso si è mobilitato acquistano una valenza particolare e uno spessore
visibilissimo. Di questi valori quello centrale è senza dubbio l'antiautoritarismo.
E' la mancanza di un'evidente e riconosciuta legittimità a rendere continua e articolata la protesta giovanile contro il
potere accademico, l'autorità familiare, la gerarchia ecclesiastica, la burocrazia partitica, e ad ipotizzare, almeno nelle
formulazioni più innovative, non già una rivoluzione come conquista del potere ma come "lungo viaggio attraverso le
istituzioni3
4.La protesta studentesca e il proletariato operaio
Dopo i movimenti studenteschi anche la classe operaia si unì alla lotta. I gruppi di avanguardia intellettuale
tennero le loro manifestazioni davanti alle fabbriche, dal momento che le università erano ormai solo un
“centro di reclutamento”. Tuttavia questo assalto al potere fallì. Tutte le forme di lotta si esaurirono, fornendo
però “personale” per la scena politica degli anni successivi.
Dal movimento studentesco, la mobilitazione operaia, al nord come al sud, assunse alcune forme di lotta,
l'assemblearismo, la spinta anti-istituzionale, la mitizzazione della «democrazia diretta» e una ostilità crescente nei
confronti del movimento operaio organizzato, vissuto come luogo del compromesso trasformistico, del riformismo di
basso profilo, del «tradimento» delle aspettative rivoluzionarie delle avanguardie. Nelle principali realtà industriali i
gruppi di avanguardie intellettuali trasformatisi in piccoli partiti abbandonarono il proprio radicamento sociale
originario, le scuole e le università - diventate ormai terreno di un rivendicazionismo spicciolo e semplice luogo di
reclutamento delle basi di massa del movimento, tra l'altro in continua crescita dopo la liberalizzazione degli accessi
all'università votata dal parlamento - per trasferirsi davanti alle fabbriche e contendersi l'egemonia di gruppi di
avanguardie di proletariato industriale organizzate all'interno di organismi autonomi di carattere politico- sindacale 4.
5.L’università tradizionale è rifiutata.
La figura dello studente è vista, durante l’occupazione di Trento, come una merce ovvero una forza-lavoro da
collocare sul mercato sia durante che dopo la “produzione”: studente lavoratore prima e laureato poi. Tali
“merci” devono però essere “prodotte” secondo uno schema che ne aumenti la funzionalità come forze
produttive.
L'università - scrissero in un documento gli studenti di Trento durante le occupazioni del gennaio 1968 - è uno degli
istituti produttivi dell'attuale sistema sociale inteso come sistema mercantile (sistema di merci). Esso produce un tipo
particolare di merce: l'uomo appunto come merce, come forza - lavoro qualificata o in via di qualificazione, come
laureato o come laureando. Scopo di tale istituto produttivo (l’università) è collocare tale merce sul mercato del lavoro
affinché sia venduta, e inserirla nel ciclo complessivo di riproduzione sociale affinché sia consumata. Particolarità di
tale prodotto (studente merce) è di poter essere messo in vendita sul mercato del lavoro sia durante lo svolgimento del
processo produttivo (studio) come semi-lavorato (studente lavoratore) sia alla fine come prodotto finito (laureato): (…)
le merci da essa [l'università] vendute (…) devono comunque essere vendibili entro lo schema attuale o pianificato del
mercato del lavoro, devono essere fungibili al livello attuale o pianificato delle forze produttive e dei rapporti di
produzione.5
3
FLORES – DE BERNARDI, op. cit., cap. IV , pagg. 97-100
FLORES – DE BERNARDI, op. cit., cap. VII, pag.232
5
FLORES – DE BERNARDI, op. cit., cap. VII, pag.208
4
5
STUDENTI
1. Chi sono i protagonisti?
 Un’analisi socio-economica e culturale della generazione che ha dato l’avvio al ’68.
La storia del ventesimo secolo in particolare ha visto i giovani sempre più protagonisti nei movimenti di protesta e di
riforma. È quello che è successo nel 1968, quando lottano per (o contro) la riforma degli studi, ma anche usando il
sapere accumulato per una critica globale e una messa in discussione totale della società.
I passi seguenti tratteggiano in modo significativo l’identikit dei principali attori di quegli anni di protesta: i giovani
della baby boom generation.
La prima parte comprende solo le caratteristiche che gli autori attribuiscono a questa generazione; la seconda, invece,
riguarda in modo più particolareggiato le esigenze che hanno spinto gli studenti di quel periodo a dimostrare e ad
avanzare nuove richieste.
LA BABY BOOM GENERATION
Perché la baby boom generation si presenta alla storia con caratteri di originalità e importanza? Perché il suo affacciarsi
coincide con uno stadio particolare dello sviluppo socio–economico, quello in cui i giovani come tali diventano
“classe”, indipendentemente, almeno in parte, dalla loro collocazione sociale? (pag. 93-94)
I giovani si sentono profondamente differenti dai loro genitori, con valori diversi, ormai lontani dalle paure e dalle
contrapposizioni ideologiche della guerra fredda. La distanza generazionale coi propri genitori sembra incolmabile: per
qualità della vita, condizioni materiali, contesto politico e culturale, valori di riferimento e modelli di comportamento.
Una caratteristica di questa generazione è di mancare, nella maggioranza dei casi, di fratelli maggiori: perché morti
durante la guerra o non nati perché i genitori attendono la pace per procreare di nuovo. Questa mancanza produce
l’assenza di una sorta di cuscinetto generazionale che avrebbe potuto attutire lo scontro ravvicinato con la generazione
dei padri. Con questi ultimi i giovani non hanno solo diversità di vedute, valori, esperienze, desideri: ma di rapporto con
lo sviluppo e la crescita economica e sociale. (pag. 40)
La generazione del ’68, che la si consideri una “classe” o meno, ha un’identità certamente più forte e marcata di quelle
precedenti, se non altro per la consapevolezza del proprio destino. I giovani intuiscono (e scelgono) di dover costruire
una nuova contrapposizione, globale e permanente, ai sistemi politici e istituzionali dominanti. Perché la prima
autonomia, per loro, è nei confronti del mondo degli adulti: i quali sono complessivamente integrati anche quando
manifestano distanza e disprezzo per il potere, da cui vogliono rendersi più autonomi pur restandone dipendenti. La
generazione del ’68 ha la possibilità, materiale e culturale, di rigettare le forme assunte dalla modernizzazione senza
disfarsi della modernità, ma anzi valorizzandola come richiamo critico e utopico. La condanna del mondo esistente non
si fonda solo, come in passato, sulle scelte errate, gli obiettivi raggiunti, gli errori compiuti; ma soprattutto sulla
distanza tra le possibilità insite nel grado di sviluppo e la realizzazione di forme umane di convivenza. Anche quando
appartengono a ceti e gruppi privilegiati, gli studenti avvertono lo iato tra la propria condizione e l’uso parziale e
distorto che si fa delle risorse che sono alla base della loro esistenza. Non ci sarà mai rifiuto del progresso ma solo
dell’uso che se ne fa e delle storture e contraddizioni, non inevitabili, che esso porta con sé.È una critica, questa, che
accomuna gli studenti di estrazione borghese e i giovani che provengono dalle file dei ceti piccolo–borghesi o degli
strati popolari. (pag. 103-104)
La nuova “economia giovanile” si basa sulle stazioni radio e sulle case discografiche, sulle riviste alternative
underground e sui negozi di dischi e vestiti: è un mercato che si intreccia con quello della controcultura e che
accompagna le trasformazioni sociali e politiche del decennio. Il riciclaggio, il bricolage, il rifiuto della società dello
spreco sono insieme una scelta di vita e un atteggiamento ideologico, mentre dal punto di vista estetico la moda dei
giovani privilegia il liberty e il floreale, l’esotismo e il terzomondismo, i colori pastello e le fogge stravaganti. La
ricerca di simboli efficaci e semplici di dissidenza, differenza, disaffezione produce insieme rifiuto del mercato e suo
rivoluzionamento. Sorgono negozi solo per giovani e si diffonde un gusto e un design che oppongono esibizione
all’ostentazione, eleganza a volgarità, minimalismo a ricercatezza. (…)
Anche la droga è parte integrante della controcultura giovanile, anzi ne è un aspetto dominante. una “rivoluzione” che
sembra coinvolgere l’intera generazione è quella sessuale: alla sua origine c’è un elemento concreto: la scoperta della
pillola anticoncezionale che rende meno timorose le coppie e più indipendenti le donne, libere dal terrore di rimanere
incinte. (…)
Un elemento centrale della controcultura è la fusione tra il “personale” e il “politico”, che inizialmente vuol dire rendere
trasparenti i propri comportamenti e proporli come modelli alternatici all’ipocrisia borghese. (…)
La violenza è sempre più diffusa e toni apocalittici e fatalistici si sovrappongono a quelli ironici e scanzonati di qualche
anno prima. La controcultura è ancora proposta alternativa, ma è anche specchio del sistema che vuole distruggere.
(pag. 47/51, passim)
GLI STUDENTI
In un numero sempre più grande di università gli studenti chiedono, come prima cosa, di essere ascoltati. E che le loro
proteste vengano discusse e non respinte a priori in nome del “rispetto” dovuto alle autorità accademiche. Sono sempre
più frequenti, naturalmente, gli scontri con le amministrazioni e con i presidi per avere spazi e tempi dove discutere di
diritti civili e di politica. Gli studenti si interrogano sul loro statuto di studenti e investono di richieste le autorità. Si
impegnano nella vita universitaria, accrescendo contemporaneamente la propria coscienza personale e quella politica.
(pag.39)
6
All’inizio dell’anno accademico 1967-68 scaturiscono le ragioni e i criteri della svolta dalla presa di coscienza collettiva
dello scarto gigantesco tra formazione e sbocchi professionali che rendeva immediatamente percepibile la
contraddizione tra massificazione dell’università e divisione del lavoro. (…) Poco per volta, la cultura e le scienze
insegnate si stavano progressivamente rivelando agli occhi di questa massa crescente di studenti come una somma di
saperi inutili e di conoscenze in sostanza astratte e lontane dalle necessità della formazione professionale.
L’università sembrava alla massa studentesca una “fabbrica di illusioni”, appunto perché occultava i reali destini
professionali, ma nel contempo, rivelava spesso di essere solo in grado di fornire una preparazione scientifica arretrata e
obsoleta rispetto alla velocità dell’innovazione tecnologica che percorreva la produzione industriale e il complesso
universo del terziario (pag. 208/211, passim).
(da M. Flores – A. De Bernardi, Il Sessantotto, Il Mulino, Bologna 1998)
 Pasolini contro gli studenti.
Lo scritto che segue è una lettera di rottura, aspra, violenta, scritta con enfasi e classe da Pier Paolo Pasolini. Quello
che il celebre regista fa notare con veemenza è la profonda e insita contraddizione del movimento studentesco italiano:
la provenienza di quest’ultimo infatti era per la maggior parte borghese. Si trattò quindi, secondo Pasolini, di una
lotta di classe fatta dalla classe sbagliata. E mentre i figli dei borghesi si facevano portatori di una ribellione che non
gli apparteneva, i figli di operai o lo diventavano a loro volta o, poliziotti, si riducevano ad essere servi del sistema.
Sono interessanti le osservazioni sulla parola d’ordine del movimento italiano, in qualche modo sempre legata al
concetto di potere e non a quello di libertà, fatto proprio, invece, dagli studenti americani.
Vi odio, siete i figli del potere
di Pier Paolo Pasolini
Mi dispiace. La polemica contro / il PCI andava fatta nella prima metà / del decennio passato. Siete in ritardo, cari. /
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati: / peggio per voi. / Adesso i giornalisti di tutto il mondo
( compresi / quelli delle televisioni ) / vi leccano ( come ancora si dice nel linguaggio / goliardico) il culo. Io no, cari. /
Avete facce di figli di papà. / Vi odio come odio i vostri papà. / Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio
cattivo. / Siete pavidi, incerti, disperati/ (benissimo!) ma sapete anche come essere / prepotenti, ricattatori, sicuri e
sfacciati: / prerogative piccolo-borghesi, cari./ Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / con i poliziotti, / io
simpatizzavo con i poliziotti. / Perché i poliziotti sono figli di poveri. (…) hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. /
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia. / Ma prendetevela con la Magistratura, e vedrete! / I
ragazzi poliziotti / che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione / risorgimentale) / di figli di papà, avete bastonato, /
appartengono all’alta classe sociale. / A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento / di lotta di classe: e voi, cari
(benché dalla parte / della ragione) eravate i ricchi, /mentre i poliziotti (che erano dalla parte / del torto) erano i poveri.
Bella vittoria, dunque / la vostra! In questi casi, / ai poliziotti si danno i fiori, cari./“Stampa” e “Corriere della Sera”,
“Newsweek” e “Monde” / vi leccano il culo. Siete i loro figli, / la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano / non
si preparano certo a una lotta di classe / contro di voi! Se mai, / si tratta di una lotta intestina (…). Una sola cosa gli
studenti realmente conoscono: / il moralismo del padre magistrato professionista, / il teppismo conformista del fratello
maggiore / (naturalmente avviato per la strada del padre), / l’odio per la cultura che ha la loro madre, le origini /
contadine anche se già lontane. / Questo, cari figli, sapete. / E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti: / la
coscienza dei vostri diritti (si sa la democrazia / prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione / al potere. / Si, i
vostri orribili slogans vertono sempre / sulla presa di potere. / Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti, / nei vostri
pallori snobbismi disperati, / nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali, / nella troppa salute prepotenza, nella
poca salute disprezzo / (solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia / infima o da qualche famiglia operaia /
questi difetti hanno qualche nobiltà: / conosci te stesso e la scuola di Barbiana!). / Riformisti! / Reificatori! / Occupate
le università / ma dite che la stessa idea venga / a dei giovani operai. / E allora: “Corriere della Sera” e “
Stampa” ,“Newsweek” e “Monde” / avranno tanta sollecitudine / nel cercare di comprendere i loro problemi? La polizia
si limiterà a prendere un po’ di botte / dentro una fabbrica occupata? / Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi / un
giovane operaio di occupare una fabbrica / senza morire di fame dopo tre giorni? (…) / Gli operai, loro, / sono rimasti al
1950 e più indietro. / Un’idea archeologica come quella della Resistenza (che andava contestata venti anni fa, /e peggio
per voi se non eravate ancora nati) / alligna ancora nei petti popolari, in periferia. Sarà che gli operai non parlano né il
francese né l’inglese, / e solo qualcuno, si è dato da fare per imparare un po’ di russo./ Smettetela di pensare ai vostri
diritti, smettetela di chiedere il potere. / Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, / a bandire dalla sua
anima una volta per sempre, / l’idea del potere. / (…)I vostri adulatori (anche comunisti) / non vi dicono la banale
verità: che siete una nuova / specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri, / come i vostri padri, ancora, cari. /
Ecco, / gli Americani, vostri adorabili coetanei, si stanno inventando, / loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario! / Se lo
inventano giorno per giorno! / Ma voi non potete farlo perché in Europa ce ne già uno: / potreste ignorarlo? / Si, voi
volete ignorarlo (con grande soddisfazione / del “Times” e del “Tempo”). / Lo ignorate andando, con moralismo
provinciale, , / “più a sinistra”. Strano, / abbandonando il linguaggio rivoluzionario / del povero, vecchio togliattiano,
ufficiale / Partito Comunista, /ne avete adottato una variante ereticale / ma sulla base del più basso idioma referenziale /
dei sociologi senza ideologia. / Così parlando, / chiedete “tutto” parole , / mentre, coi fatti, chiedete “solo ciò / a cui
avete diritto” (da bravi figli borghesi): / una serie di improrogabili riforme / l’applicazione di nuovi metodi pedagogici
/e il rinnovamento di un organismo statale. / Bravi! Santi sentimenti! / Che la buona stella della borghesia vi assista! /
Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti /della polizia costretti dalla povertà ad essere servi, / e ubriacati dell’interesse
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dell’opinione pubblica / borghese (con cui voi vi comportate come donne / non innamorate, che ignorano e maltrattano
lo spasimante ricco) / mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i vostri padri: /
ossia il comunismo. / Spero che l’abbiate capito / che fare del puritanesimo / è un modo per impedirsi / la moda di
un’azione rivoluzionaria vera. / Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni! / Andate ad invadere Cellule! /
Andate ad occupare gli usci / del Comitato Centrale: Andate, andate / ad accamparvi in via delle Botteghe Oscure! / Se
volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere / di un Partito che è tuttavia all’opposizione / (anche se malconcio,
per la presenza di signori / in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote, / borghesi coetanei dei vostri schifosi
papà) / ed ha come obbiettivo teorico la distruzione del Potere ./ Che esso si decida a distruggere, intanto, / ciò che di
borghese ha in sé / dubito molto anche col vostro apporto, / se, come dicevo, buona razza non mente…/ Ad ogni modo:
il PCI ai giovani, ostia! / Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto / Consigliando? A cosa vi sto sospingendo? /
Mi pento, mi pento / Ho preso la strada che porta al minor male, / che Dio mi maledica. Non ascoltatemi. / Ahi, ahi, ahi,
/ ricattato ricattatore, davo fiato alle trombe del buon senso. / Ma, mi sono fermato in tempo, / salvando insieme, / il
dualismo fanatico e l’ambiguità…/ Ma sono giunto sull’orlo della vergogna. / Oh Dio!che debba prendere in
considerazione / l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile: accantonando la mia vecchia idea di rivoluzione?
2. Perché nasce nella scuola l’istanza rivoluzionaria?
Nei testi seguenti si propone un’analisi del movimento studentesco del ’68, portata avanti da Alessandro Cavalli a
vent’anni dalla nascita del movimento, volta soprattutto a rispondere ad alcune domande importanti sulle sue origini e
quindi sulle caratteristiche che lo renderanno esemplare e punto di riferimento dei successivi movimenti, nel bene e nel
male.
Innanzi tutto Cavalli si chiede perché questo movimento nasca proprio dalle scuole, ricostruendo le caratteristiche
dell’ambiente scolastico del periodo e giungendo a considerazioni simili a quelle che aveva proposto don Lorenzo
Milani con i suoi alunni della scuola di Barbiana in “Lettera ad una professoressa”. Poi passa a studiare brevemente
lo sviluppo e la crisi degli ideali rivoluzionari giungendo a due conclusioni apparentemente inconciliabili: sostiene che
il movimento si è disgregato e quindi è “morto” nel periodo degli anni Settanta-Ottanta senza avere eredi ma anche
che potrebbe essere il primo di una nuova stagione di movimenti politico-sociali. Cavalli sembra propendere più per la
prima conclusione, ma i fatti degli ultimi tempi possono dar ragione di pensare al Sessantotto come ad un movimento
“padre”, se non altro per le modalità e i mezzi (nella sua opzione non violenta), dell’attuale movimento “no-global”,
che sta assumendo sempre più importanza. Secondo Cavalli, inoltre, per compiere una riflessione seria su questo
movimento è necessario liberarsi dall’operazione collettiva di rimozione che è stata fatta nei suoi confronti, soprattutto
a causa dell’ultima delle fasi nelle quali è passato il movimento: quella della violenza, della lotta armata e del
terrorismo.
 Le implicazioni della scolarizzazione di massa
E’ a tutti noto ciò che è avvenuto nei sistemi educativi dei paesi avanzati nelle fasi di sviluppo succedute al periodo di
ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale: si è passati dalla scuola di èlites alla scuola di massa.[…] L’esito di
questo processo è stato l’accesso ai livelli medi e superiori dell’istruzione dei figli e delle figlie di ceti sociali che nelle
fasi precedenti uscivano precocemente dai circuiti educativi dopo il completamento della scuola elementare o poco
più.” L’attenzione va ora spostata sulle implicazioni che questo processo ha avuto nell’esperienza sociale immediata dei
ragazzi.” Un tempo, prima dello sviluppo della scolarità di massa, alla fine della scuola elementare i tragitti educativi e
sociali si dipartivano, alcuni proseguivano gli studi, mentre altri venivano 'avviati al lavoro’. È presumibile che la
maggior parte dei bambini neppure si accorgesse della presenza di un filtro che precocemente indirizzava i singoli verso
destini sociali diversi. La scuola funzionava nel suo complesso come setaccio sociale in modo del tutto ovvio e naturale.
È importante rendersi conto che questo modo di operare è profondamente cambiato con l’avvento della scuola media
unica e della grande espansione delle iscrizioni e delle immatricolazioni nelle scuole medie-superiori e nelle università.
La composizione sociale delle scuole e delle singole classi diventa assai più eterogenea sia per l’accesso più ampio
all’istruzione, sia per il fatto che i bacini di utenza degli istituti si allargano. In genere diventa assai probabile che nelle
singole classi si raccolgano ragazzi e ragazze sensibilmente diversificati quanto ad origine sociale. L’esperienza diretta
della diversità e della disuguaglianza sociale diventa accessibile ad un gran numero di scolari. Si stabiliscono rapporti di
cooperazione e l’età gioca un ruolo importante: sono gli anni dell’adolescenza e della post-adolescenza, dove la realtà
tende ad essere percepita e valutata sulla base di principi etici rigidi e assoluti. I ragazzi fanno diretta esperienza nella
classe degli effetti e delle cause della disuguaglianza: il rendimento scolastico dei compagni risulta evidentemente
connesso al livello sociale e culturale della famiglia.[…] I discorsi che alla fine degli anni Sessanta si incominciano a
fare sulla selezione scolastica (primo tra tutti don Lorenzo Milani) vengono percepiti come vicini e concreti.[…].
E’ importante notare che l’aspetto capace di mettere in crisi la credibilità del funzionamento dell’istituzione non è il
fatto che il rendimento sia variabile, ma il fatto che perde credibilità lo strumento pricipale di legittimazione di tale
disuguaglianza, vale a dire l’ideologia meritocratica.
Il meccanismo che fa scattare un processo di prese di coscienza ha sempre a che fare con la percezione di un divario tra
valori e realtà; nel campo della selezione scolastica, incomincia a diffondersi la consapevolezza di un divario profondo
tra la realtà (il modo di mettere in atto la funzione di selezione) e i valori che legittimano tale funzione (il merito).[…]
All’origine del movimento degli studenti vi è un processo di presa di coscienza della crisi del concetto di merito come
strumento di legittimazione delle disuguaglianze in termini di rendimento. La tesi che voglio sostenere è che le
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condizioni della scuola di massa a livello medio e medio-superiore rendono per la prima volta possibile l’esperienza
della disuguaglianza sociale come esperienza intensa e diffusa nella sfera dei rapporti interpersonali quotidiani che si
stabiliscono nel gruppo dei pari.[…]
La messa in discussione dell’autorità dell’insegnante, come autorità impersonale ed oggettiva, avviene partendo dal
riconoscimento che i criteri di valutazione e i meccanismi attraverso i quali si esplicano servono in realtà per sanzionare
condizioni di disuguaglianza che precedono la condizione di studente e producono effetti sul rendimento scolastico.
Non a caso il processo di politicizzazione degli studenti vede spesso in prima fila ragazzi che provengono da un lato dai
ceti sociali più elevate dall’altro dai ceti sociali più bassi tra coloro che accedono all’istruzione. I primi scoprono la loro
condizione di privilegio, radicalizzando i valori liberal-democratici spesso presenti nella tradizione famigliare, i
secondi, scoprono i meccanismi sociali di selezione e il valore delle classi sottoprivilegiate dalle quali provengono e
della loro cultura.
 Sviluppo e crisi dell’idea rivoluzionaria
È da questo punto che parte un processo di allargamento di presa di coscienza. Nella dinamica ideologica dei movimenti
collettivi e nella soggettività degli attori che vengono coinvolti vi è sempre la percezione di un ‘disvelamento’, nel
senso letterale di scoperta da ciò che l’adozione del punto di vista dominante impediva di vedere. Si scopre allora che
anche la cultura, i contenuti stessi dell’insegnamento, forniscono una sola delle possibili versioni del mondo, la versione
delle classi dominanti. Se si considerano i temi che il movimento propone nelle attività didattiche alternative e
autogestite che vengono improvvisate durante le occupazioni delle sedi scolastiche e universitarie ci si rende conto
come il movimento degli studenti tenda a contrapporre alla cultura scolastica una cultura ‘altra’ che scopre altre realtà o
altri modi di leggere la realtà.
Il movimento esce precocemente dalla scuola e dalle problematiche scolastiche e in quanto tale cessa di
esistere come movimento studentesco. Nella fase calda, tuttavia , il grado di mobilitazione raggiunge livelli
assai elevato con un livello di politicizzazione che non verrà mai più raggiunto in seguito.
Anche a vent’anni di distanza è difficile dire se il movimento della fine degli anni sessanta sia stato l’ultimo dei
movimenti sociali di ‘emancipazione’ con forte carica utopica, oppure il primo di una nuova stagione di movimenti che
sembrano affiorare verso la fine del secolo e che si connotano per l’assenza di visioni totalizzanti del mondo, e della
società ideale (ad esempio, i movimenti ecologisti, pacifisti, etnici, ecc…).Probabilmente è stato sia l’una che l’altra
cosa.[…].
( da A.Cavalli, Perché nasce nella scuola l’istanza rivoluzionaria, in <<Annali della Pubblica Istruzione>>, Anno
XXXIV, 4/5, luglio/ottobre1988, Le Monnier, Firenze 1988)
3. L’esperimento di Barbiana tra critica alla scuola classista e innovazione didattica.
Don Milani, nella sua “Lettera ad una professoressa”,pubblicata nel maggio 1967, ha descritto in maniera molto
immediata la scuola degli anni sessanta: un ambiente classista, in cui la promozione dipendeva quasi esclusivamente
dalla professione dei genitori e dal gradino occupato nella scala sociale. Un luogo in cui gli studenti erano considerati
automi che non potevano avere opinioni proprie, che dovevano studiare solo in funzione dei voti e del registro e che
erano intimiditi dai professori–gendarmi.
Cara signora,
lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti.
Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”.
Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate.
La timidezza
Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva.
Del resto, la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strusciavo alle
pareti per non esser visto.
Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della famiglia. (…) La timidezza dei poveri è un mistero
antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà né eroismo. È solo mancanza di prepotenza.
Frazioni di eguaglianza
Alla fine delle elementari 11 ragazzi hanno già lasciato la scuola per colpa delle maestre.
“La scuola è aperta a tutti. Tutti i cittadini hanno diritto a otto anni di scuola. Tutti i cittadini sono eguali”. Ma quegli 11
no.
Due hanno eguaglianza zero. Per firmare fanno una croce. Uno ha un ottavo di eguaglianza. Sa firmare. Gli altri hanno
2, 3, 4, 5 ottavi di eguaglianza. Leggono un po’ alla meglio, ma non leggono il giornale.
La professione di papà
A questo punto occorrerebbe una rilevazione del mestiere del babbo dei licenziati dalle medie. Ma l’ISTAT non l’ha
fatta. Come poteva pensare che la Scuola dell’Obbligo facesse distinzioni di classe?
In compenso ha studiato la professione dei papà dei diplomati alle medie superiori. I risultati sono i seguenti:
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 Figlioli di imprenditori e liberi professionisti
30/30
 Figlioli di dirigenti e impiegati
7,6/30
 Figlioli di lavoratori in proprio
3,7/30
 Figlioli di lavoratori dipendenti
0,8/30
Sono ragazzi che hanno avuto 12 o 13 anni della vostra scuola. Otto di quegli anni sono scuola dell’obbligo.
Cretini e svogliati
Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati.
Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri.
È più facile che i dispettosi siate voi.
Le riforme che proponiamo
Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme.
I. Non bocciare.
II. A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a pieno tempo.
III. Agli svogliati basta dargli uno scopo.
Il tornitore
Al tornitore non si permette di consegnare solo i pezzi che son riusciti. Altrimenti non farebbe nulla per farli riuscire
tutti.
Voi invece sapete di poter scartare i pezzi a vostro piacimento. Perciò vi contentate di controllare quello che riesce da sé
per cause estranee alla scuola.
La Costituzione
Quella professoressa s’era fermata alla prima guerra mondiale. Esattamente al punto dove la scuola poteva riallacciarsi
con la vita. E in tutto l’anno non aveva mai letto un giornale in classe.
Dovevano esserle rimasti negli occhi i cartelli fascisti “ Qui non si parla di politica “.
Una volta la mamma di Giampiero le disse: “ Eppure mi pare che il bambino da che va al doposcuola comunale sia
migliorato tanto. La sera a casa lo vedo leggere “. “Leggere? Sa cosa legge? La COSTITUZIONE! L’anno scorso aveva
per il capo le ragazzine, quest’anno la Costituzione “.
Quella povera donna pensò che fosse un libro sporco. La sera voleva far cazzottare Giampiero dal suo babbo.
Filosofia
I filosofi studiati sul manuale diventan tutti odiosi. Sono troppi e hanno detto troppe cose.
Il nostro professore non s’è mai schierato. Non s’è capito se gli vanno bene tutti o se non glie ne importa di nessuno.
Io tra un professore indifferente e un maniaco preferisco il maniaco. Uno che abbia o un pensiero suo o un filosofo che
gli va bene. Parli solo di quello, dica male degli altri, ce lo legga sull’originale per tre anni di seguito. Sortiremo di
scuola convinti che la filosofia può riempire una vita.
Il giornale
La storia di questo mezzo secolo era quella che sapevo meglio. Rivoluzione russa, fascismo, guerra, resistenza,
liberazione dell’Africa e dell’Asia. E’ la storia in cui sono vissuti il nonno e il babbo.
Poi sapevo bene la storia in cui vivo io. Cioè il giornale che a Barbiana leggevamo ogni giorno, a alta voce, di cima a
fondo.
Sotto gli esami due ore di scuola spese sul giornale ognuno se le strappa dalla sua avarizia. Perché non c’è nulla sul
giornale che serva ai vostri esami. E’ la riprova che c’è poco nella vostra scuola che serva nella vita.
Proprio per questo bisogna leggerlo. E’ come gridarvi in faccia che un lurido certificato non è riuscito a trasformarci in
bestie. Lo vogliamo solo per i nostri genitori. Ma politica e cronaca cioè le sofferenze degli altri valgono più di voi e di
noi stessi.
Un ambiente
Finora avete fatto scuola con l’ossessione della campanella, con l’incubo del programma da finire prima di giugno. Non
avete potuto allargare la visuale, rispondere alle curiosità dei ragazzi, portare i discorsi fino in fondo.
Così è finito che avete fatto tutto male e siete rimasti scontenti voi e i ragazzi. È la scontentezza che v’ha stancato, non
le ore.
Arrivisti a 12 anni
Anche il fine dei vostri ragazzi è un mistero. Forse non esiste, forse è volgare.
Giorno per giorno studiano per il registro, per la pagella, per il diploma. E intanto si distraggono dalle cose belle che
studiano. Lingue, storia, scienze, tutto diventa voto e null’altro.
Dietro a quei fogli di carta c’è solo l’interesse individuale. Il diploma è quattrini. Nessuno di voi lo dice. Ma stringi
stringi il succo è quello.
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Per studiare volentieri nelle vostre scuole bisognerebbe essere già arrivisti a 12 anni.
L’individuo
Se vi foste interessati di me quanto bastava per domandarvi di dove venivo, chi ero, dove andavo, il latino vi si sarebbe
un po’ sfocato dinanzi agli occhi.
Ma forse avreste avuto da ridire. A voi vi fa paura un ragazzo che a 15 anni sa cosa vuole. Ci sentite l’influenza del
maestro.
Guai a chi vi tocca l’Individuo. Il Libero Sviluppo della Personalità è il vostro credo supremo. Della società e dei suoi
bisogni non ve ne importa nulla.
Io sono un ragazzo influenzato dal maestro e me ne vanto. Se ne vanta anche lui. Sennò la scuola in che consiste?
La scuola è l’unica differenza che c’è tra l’uomo e gli animali. Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama,
spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va avanti.
Gli animali non vanno a scuola. Nel Libero Sviluppo delle loro Personalità, le rondini fanno il nido uguale da millenni.
Aspettiamo una lettera
Ora siamo qui ad aspettare una risposta. Ci sarà ben in qualche istituto magistrale qualcuno che ci scriverà: “Cari
ragazzi, non tutti i professori sono come quella signora. Non siate razzisti anche voi.
Anche se non sono d’accordo su tutto quello che dite, so che la nostra scuola non va. Solo una scuola perfetta può
permettersi di rifiutare la gente nuova e le culture diverse. E la scuola perfetta non esiste.”
(da Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina 1996)
 E oggi?
Ma la scuola di oggi è tanto diversa? Sono servite le critiche degli studenti di Barbiana? A questo proposito, abbiamo
scelto alcuni passi di “Registro di classe” di Sandro Onori, il diario di un professore che nei volti dei suoi alunni di
una scuola superiore della periferia romana coglie i cambiamenti di un’epoca.
12 ottobre. Ho chiesto a Cristian cosa ne pensa della pillola contro la timidezza, e s’è fatto tutto rosso. L’ho chiesto a
Debora, e lei ha abbassato gli occhi e ha sussurrato ’a professo’, che ne so? Di fronte ai rossori e ai silenzi
dell’adolescenza, l’educatore prova sempre un certo ritegno, e anche una forma di rispetto.
Nella scuola non ci si ferma mai a considerare come il ragazzo entra in contatto con la realtà, come rielabora le
esperienze dentro di sé e le porta a modificare il proprio modo di pensare, di respirare, di muoversi, di parlare. E
piuttosto si preferisce valutare quanto il ragazzo ha appreso, quanto si avvicina col suo sapere attuale al sapere medio di
un cittadino medio, quanto aderisce ai modelli di comportamento considerati accettabili dalla comunità. E quanto più si
avvicina, tanto più lo si valuta intelligente.
In genere gli adulti cercano di correggerla (l’adolescenza). Nel migliore dei casi aspettano che passi. Perché
l’adolescenza è l’età degli istinti, degli impulsi, delle passioni, delle ossessioni: tutti termini che normalmente vengono
contrapposti all’intelligenza, la quale invece non li esclude affatto, e anzi spesso nasce da quelli, se ne alimenta, si lascia
modellare. (…)
Quell’intelligenza che appare non sfruttata è un’entità predefinita, preconfezionata dagli adulti a propri uso e consumo,
e che invece il ragazzo, per indole, per sue esigenze intellettuali o affettive, sta maturando tutt’altro tipo di intelligenza,
più adatta alla sua vita. (…)
Se lo sviluppo dell’intelligenza in tenera età ha assoluto bisogno dell’affetto, in età adolescenziale ha fame morbosa di
complicità. Poter contare su una figura che incoraggi l’espressione di sé senza remore e senza moralismi regala
un’energia e un’armonia con l’esistenza che agevola qualsiasi processo di comprensione dell’ambiente circostante. Non
è un caso che, nella storia di ognuno, c’è sempre uno zio eccentrico, o un professore atipico, che ha segnato il nostro
modo di pensare, ha saputo riconoscere il nostro bisogno di esprimerci, e ha incoraggiato le nostre passioni, le uniche
vere spinte a conoscere.
Quelli che fate come volete basta che non mi fate tornare di pomeriggio un’altra volta. Quelli che per quelli che ci
danno. Quelli che io, con questi studenti qua, posso concedere al massimo un cinque. Quelli che io do tutti sei, mica
voglio tornare a fare il recupero. Quelli che ma questi sono bestie, cosa gli vuoi dare? (…) Quelli che, ehi, sbrighiamoci,
a me alle cinque se ne va via la baby–sitter. (…) Quelli che, con questi giovani, che si presentano col cappellino in testa,
e il chewing gum in bocca. Quelli che a me mi mancano solo due anni per la pensione. (…) Quelli che io sono un
professore serio, i miei voti vanno dal due al cinque. (…) Quelli che queste giovani generazioni, senza valori, senza più
padri. Quelli che a noi ci dovrebbero dare l’indennità per i rischi che ci accolliamo. Quelli che la loro materia la sanno
così, non c’è mica bisogno di studiare. Quelli che per questi qui, quello che so basta e avanza. (…)
Quelli che guardano quelli che, e pensano: questi, beati loro, questi non hanno ancora capito.
( da S. Onofri, Registro di classe, Einaudi Stile libero, Torino 2000)
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4. Il ’68 nelle università.
Se si dovesse scegliere oggi un aggettivo per determinare le principali caratteristiche del movimento studentescooperaio del Sessantotto molto probabilmente tutti utilizzerebbero il termine “globalizzato”.
Globalizzato perché esso non si mosse all’interno di una sola e precisa realtà, ma si manifestò in molti contesti
differenti e spesso contrastanti tra loro. Il Sessantotto fu una “rivoluzione” mondiale poiché cambiò, in molti casi
radicalmente, il vecchio modo di concepire i rapporti tra cittadini e coercizione.
E’ interessante notare che i principali cambiamenti hanno preso l’avvio quasi sempre per intervento diretto di studenti
universitari. Sul piano mondiale le richieste e i mezzi per ottenerli erano simili anche in realtà distanti da quella
italiana: nella Cina maoista gli universitari si battevano contro una omogeneizzazione della cultura e contro il
dogmatismo dell’insegnamento; in Giappone si richiedeva un diverso approccio alle leggi imposte dagli Stati Uniti
contro la loro sovranità nazionale; tutta l’Europa fu caratterizzata dalla richiesta studentesca di aver maggior peso
politico e maggiore giustizia sociale.
Anche in Italia questo movimento interessò principalmente le università, ossia i centri culturali della nazione. Esiste
una corrispondenza biunivoca tra cultura e consapevolezza dei propri diritti. Più si è istruiti e coscienti della propria
posizione culturale e sociale, maggiormente si possono vedere situazioni che contrastano con la nostra sensibilità
morale. La nostra realtà non mette in dubbio l’universalità dei temi esposti dagli studenti del Sessantotto: esiste infatti
una omogeneità di linguaggio e di tematiche che si sviluppano autonomamente in tutte le università italiane. Da Trento,
passando per Torino, Milano, Pisa, Roma e Napoli si verificano principalmente le seguenti richieste:
Società più attenta alla vita dei cittadini che non devono essere visti come merce lavoro ma come individui
aventi eguali diritti e possibilità.
Insegnamento universitario indispensabile alla formazione morale e culturale di una persona, non
soggetto al dogmatismo e con un rapporto più stretto tra docenti e studenti
Dichiarazione del ruolo paritario della donna nella società dell’epoca.
Modificazione del vecchio modo di intendere la famiglia e i valori fondamentali della società.
Tutto questo venne a contatto con una società profondamente conservatrice che voleva mantenere intatte le vecchie
vedute per non mettere in discussione i rapporti tra capitale-merce-società.
Lo scontro ideale (al quale corrispose uno scontro generazionale) fu inevitabile.
Nelle principali università italiane nacquero così movimenti spontanei che, come tanti affluenti, sfociarono in un unico
fiume di protesta. Tutti queste consociazioni di studenti dovettero scontrarsi sia con la società che con i loro stessi
coetanei: significativo è un esempio tratto dalla realtà milanese. Su un giornale studentesco apparve un articolo sui
nuovi costumi sessuali prematrimoniali: Gioventù Studentesca (organizzazione che successivamente sfocerà in CL)
denunciò il fatto facendo intervenire direttamente la magistratura tramite il pubblico ministero Oscar Lanzi. Il processo
si svolse per direttissima e si concluse con il proscioglimento dei tre studenti incriminati.
Per vedere più nel dettaglio gli avvenimenti del Sessantotto italiano occorre analizzare ciò che accadde all’interno
delle maggiori università italiane.
Trento
Trento era una città di poco più di sessantamila abitanti; era quindi relativamente piccola di dimensioni ma aveva una
popolazione enormemente attiva. Trento, intorno agli anni sessanta, era completamente in mano alla Chiesa e alla
Democrazia Cristiana (la DC aveva la maggioranza assoluta sia in città che in provincia). Questo è importante perché il
movimento trentino caratterizzerà i suoi “attacchi” soprattutto verso i simboli della cultura locale.
Come in ogni altra università italiana la scintilla che fece esplodere il tutto derivò da questioni legate all’aumento del
numero di iscritti (si passò dai 471 iscritti per l’anno accademico 1965/66 ai 2813 per quello 1968/69) che causava un
abbassamento della qualità di insegnamento che era già abbastanza scadente.
Arrivarono quindi le prime occupazioni e con esse le prime forme di organizzazione e di protesta.
Paolo Sorbi definisce così la cultura del movimento trentino:
Una cultura che aveva due caratteristiche: la rottura dell’immaginario tradizionale della popolazione trentina
attraverso degli choc, dei veri e propri choc psicologici e l’assoluto uso della non violenza nelle azioni.
Inizia quindi a crearsi una evoluzione all’interno delle tematiche trattate dagli studenti: dalla semplice richiesta
studentesca di una migliore qualità di insegnamento si passò a interrogarsi sul mondo circostante e sui legami socioproduttivi.
Nel 1967 prendeva corpo l’internazionalismo e l’antimperialismo militante a favore del Vietnam e delle lotte di
liberazione nel Terzo Mondo: iniziò il rifiuto della vecchia identità individuale a favore di una nuova identità collettiva.
Ma la ricerca di questa nuova identità passava anche attraverso la critica dura e aspra del vecchio modo di pensare;
avvenne quindi “l’attacco” a tutto ciò che caratterizzava la cultura trentina: la Chiesa, i canti di montagna e la Prima
Guerra Mondiale.
Il clou della protesta avvenne sotto il rettorato di Francesco Alberoni; egli stesso parla del suo arrivo in facoltà a
“rivoluzione avvenuta, quando ormai si era formata un’ideologia ed una sintesi cattolico-marxista in cui il primato,
l’egemonia culturale era stata assunta dal marxismo rivoluzionario leninista”. I movimenti universitari furono quasi
sempre caratterizzati da movimenti culturali rivoluzionari della sinistra extraparlamentare. Secondo lo stesso Alberoni
c’era il pericolo che i movimenti collettivi creatori di istituzioni libertarie degenerassero nel totalitarismo e nel terrore.
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Per evitare questo nacque l’esperimento della cosiddetta Università critica che modificava radicalmente il rapporto tra
docenti e studenti.
In seguito a questa riforma Trento divenne “una specie di isola felice dove era possibile tutto mentre all’esterno non era
ancora possibile niente”; gli studenti erano completamente “liberi perché completamente estraniati da tutti, era
veramente un ghetto d’oro in una società di merda”.
Tutta questa politicizzazione della vita non era vista da tutti nello stesso modo e causava anche problemi psicologici
derivanti dall’incolmabile distanza tra il mondo reale e quello rivoluzionario universitario.
La politica era spesso un paravento dietro il quale nascondere inconsapevolmente problemi personali irrisolti, situazioni
familiari disastrate e conflitti sociali dilaganti.
(sintesi del saggio di D. Leoni, Testimonianza semiseria sul ’68 a Trento, in A. Agosti - L. Passerini -N. Tranfaglia (a
cura di), La cultura e i luoghi del ’68, Franco Angeli, Milano 1991)
Torino
La critica più profonda si riferiva ai contenuti e ai metodi d’insegnamento accademico.
Il movimento puntava alla piena liberalizzazione dei piani di studio, all’obbligo per i docenti di fornire le dispense dei
corsi monografici sui quali intendono interrogare, al diritto di intervento degli studenti nel corso delle lezioni,
all’abolizione delle sottotesi, all’obbligo per i docenti di discutere collettivamente il voto con tutti gli studenti presenti
all’esame, all’abolizione dei controlli burocratici delle frequenze.
Ma il centro della questione non risiedeva tanto nel portare una modificazione alla struttura organizzativa
dell’università, ma nella sicurezza di una propria autonomia, di un luogo dove poter discutere dei diversi problemi, della
capacità di sapersi confrontare e saper combattere, la possibilità di esprimersi, in pieno contrasto alla collaborazione con
i docenti. Nel primo documento per le agitazioni si tenderà a sottolineare che l’unico vero strumento di controllo degli
studenti da parte dei docenti è la collaborazione degli studenti stessi: senza di questa un professore che non sia allo
stesso punto anche ministro o dirigente d’azienda, non è nulla. Il suo ruolo doveva essere quello di partecipante ai
seminari e alle ricerche su un piano di parità.
Attraverso l’auto-organizzazione gli studenti si opponevano al tradizionale disegno che prevedeva l’università come
strumento di manipolazione ideologica e politica, incitando all’approfondimento di ogni singolo evento individuando
l’incidenza politica e sociale di quanto studiato. La didattica, da strumento di oppressione degli studenti da parte dei
docenti, diventava in questo modo il mezzo della loro liberazione: si impara a discutere, a studiare collettivamente e non
in modo individuale, a parlare e pensare autonomamente e non su comando, a stabilire dei rapporti egualitari e di parità
tra chi è preparato e chi non lo è.
Era condiviso il principio secondo cui le esigenze fondamentali erano quelle di coloro che i problemi se li
ponevano e non quelle di chi i problemi li sapeva risolvere cosicchè il criterio direttivo della organizzazione
del gruppo di studio doveva essere quello che valevano le persone più ignoranti nel gruppo stesso.
(da M. Revelli, Il ’68 a Torino. Gli esordi: la comunità studentesca di Palazzo Campana, in A. Agosti - L. Passerini -N.
Tranfaglia (a cura di), La cultura e i luoghi del ’68, Franco Angeli, Milano 1991)
Milano
Milano partecipò con uomini e menti molto attivi alla rivoluzione culturale del Sessantotto. Essa era la capitale
economica dell’Italia. Milano non era solo la capitale dell’industria meccanica di medie-piccole dimensioni, ma aveva
enorme importanza nel terziario, soprattutto quello avanzato (Banche e multinazionali). E’ molto importante ricordare
anche la presenza di una folta “borghesia culturale” soprattutto legata alle grosse case editrici. Milano era quindi il
fulcro delle attenzioni del Nord Italia, anche perché il movimento approfittò dei tanti mezzi di comunicazione di massa
presenti all’interno della città.
In questa città la grande forza apportata al movimento di lotta scaturì dall’Università Statale e dal Politecnico. Erano
infatti principalmente i quadri di queste università a guidare le azioni di protesta ed a organizzare il pensiero politico del
movimento. Cosa che è più interessante notare è che la grande marea di protesta non si sviluppò a partire da quelle
università, ma nacque nell’Università Cattolica.
Qui la nascita derivò dall’avversione degli studenti ad un aumento del cinquanta per cento delle tasse universitarie. Tale
protesta prese però toni universali e di indignazione morale: era una protesta per le conseguenze che tale aumento
avrebbe prodotto sulla parte meno abbiente della comunità. Si voleva esprimere il diritto universale di tutti allo studio.
La situazione peggiorò quando, a seguito dell’occupazione, la direzione retta da Franceschini fece intervenire le forze
dell’ordine affinché sgomberassero l’istituto. Il coro di indignazione fu unanime perché a una protesta pacifica e
democratica si era opposta una reazione violenta e autoritaria.
Il clima civile del Sessantotto era tale da far dominare l’idealismo piuttosto che il realismo; ai molti ragazzi che
andavano a trascorrere le vacanze lavorando per aiutare i poveri del Mezzogiorno questa reazione suscitò una rottura tra
dell’idea stessa di istituzione “università”, che veniva vista come egualitaria, e la sua applicazione pratica che era
profondamente discriminatoria.
Si venne a creare così un pensiero Etico proprio della Cattolica. Questo perché l’università aveva ristretti contatti con
l’ambiente esterno: si voleva tenere le distanza nei confronti degli altri movimenti studenteschi cittadini.
La notizia delle proteste della Cattolica riecheggiò immediatamente a livello nazionale perché significava che le radici
della protesta erano penetrate persino all’interno di settori comunemente considerati tradizionali e a struttura gerarchica.
Ma dopo questo apice si giunse ad un declino.
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Infatti gli studenti vollero contrastare le forze dell’ordine in largo Gemelli:
Come risultato furono picchiati a sangue dai carabinieri che erano decisi a vendicare i fatti di Roma [scontri di Valle
Giulia]. Invece di far crescere il livello di partecipazione degli studenti, con la politicizzazione forzata del movimento,
che ora dichiarava guerra allo Stato, si era entrati in un vicolo cieco e la maggioranza degli studenti, sia alla Cattolica
che altrove, non seguì i capi su questa via.
La repressione statale produsse i suoi effetti: gli studenti mutarono politica facendola passare da attiva e propositiva a
difensiva e negativa.
Secondo Lumley il fallimento del movimento studentesco del Sessantotto è da imputarsi all’intransigenza del governo,
alla repressione attuata dalle forze dell’ordine, all’ ambivalenza del partito comunista, unito al piccolo numero di
insegnanti progressisti. Ma anche, da parte degli studenti, deve essere attribuito a comportamenti che resero decisivi
questi fattori ossia respingendo le riforme che sapevano di riformismo e osteggiando il partito comunista si impedì ogni
possibilità di interazione tra il movimento stesso e i suoi interlocutori parlamentari; sottoponendo il processo educativo
a richieste strettamente politiche, il movimento si alienò dei settori di consenso tra gli insegnanti; e infine, sfidando i
carabinieri sul loro campo, cioè con lo scontro fisico, il movimento abbandonò la sua posizione di forza morale, perse
il sostegno dell’opinione pubblica e imboccò una spirale che non poteva sperare di controllare.
(sintesi del saggio di R. Lumley, Il movimento studentesco di Milano, in A. Agosti - L. Passerini -N. Tranfaglia (a cura
di), La cultura e i luoghi del ’68, Franco Angeli, Milano 1991)
Pisa
La scintilla che fece scoppiare la protesta fu il malcontento contro il piano di riforma Gui (che prevedeva limitati e
insoddisfacenti miglioramenti della didattica universitaria) unito ai grossi problemi organizzativi interni all’università
che facevano sì che non venisse garantito il diritto universale all’istruzione. Questi ultimi sono principalmente
riassumibili con: la pendolarità degli studenti che, unita alle carenze strutturali dei trasporti pubblici ed alla mancanza di
posti letto, causava enormi disguidi nella frequenza delle lezioni; struttura scolastica e numero di docenti insufficienti al
numero degli iscritti nonché le difficoltà a trovare un’occupazione post laurea.
Da queste premesse si sviluppò un discorso ampio e idealista. Non si protestava per la propria persona, ma per la
collettività. Si ricercavano principi che venivano taciuti e negati.
Iniziarono le occupazioni di facoltà. I docenti furono parte abbastanza determinante: le facoltà più “politicizzate” e
attive erano quelle dove c’era il maggior numero di personale universitario sindacalizzato.
I movimenti pisani si svilupparono nelle facoltà che caratterizzavano meno l’ateneo rispetto ai suoi nessi con
l’industria.
Inoltre questa estensione del movimento anche ai docenti e agli assistenti diede maggiore intensità e forza politica al
movimento.
Gli studenti iniziavano a esprimere una direttiva politica e rivendicavano un ruolo specifico nella situazione
universitaria, soprattutto per le scelte indirizzate verso il rapporto tra università, mercato del lavoro e società.
Le forti proteste degli studenti portarono spesso ad una risposta violenta dello stato. Il procuratore generale della corte
di appello di Firenze denunciò gli occupanti della Sapienza. Questo atteggiamento stimolò però parte del Congresso
nazionale dei Docenti a formulare un primo riconoscimento verso la fondatezza dei motivi di agitazione degli studenti.
Oltre a riforme scolastiche si iniziava a chiedere la gratuità dell’istruzione sino al diciottesimo anno dei età e la
generalizzazione del salario studentesco. Si cercavano anche soluzioni al malessere sociale delle classi meno abbienti;
iniziarono le prime lotte per la rivendicazione del diritto alla casa. Iniziarono le lotte studentesche al fianco degli operai
licenziati.
Il movimento studentesco cercò di rafforzare le lotte industriali a difesa degli insediamenti tradizionali innescando
sull’azione dei sindacati, per l’intervento dei pubblici poteri, il modello radicale dell’autogestione della lotta
sperimentato nelle facoltà e nelle scuole.
Queste lotte facevano affidamento sui licenziamenti effettuati dalle grandi aziende pisane. Esse non produssero grandi
risultati principalmente perché esisteva una grande disparità tra l’economia pisana, che era abbastanza in crisi, e quella
delle piccole medie industrie regionali che invece era fiorente. Per questi motivi non avvenne una radicalizzazione della
lotta operaia, cosa che avvenne per quella studentesca. Gli studenti avevano pressappoco la stessa origine sociale, le
stesse condizioni economiche e le stesse problematiche negli sbocchi lavorativi.
La sintesi del pensiero politico studentesco può essere ben rappresentata dalla Carta delle rivendicazioni presentata il 10
ottobre 1968, che prevedeva obiettivi di riforma didattica tra l’eliminazione della votazione di respinto; l’eliminazione
delle firme di frequenza come forma di selezione della maggioranza degli studenti pendolari; programmi di esame
precisi e integrati con dispense ed esami mensili; orari delle lezioni concordati con commissioni paritetiche ed apertura
continuata degli istituti, con arricchimento delle rispettive biblioteche; libertà di riunione, associazione e discussione.
La carta presentava anche la proposta dell’esame di gruppo come forma di critica pratica della cosiddetta meritocrazia e
della formazione individualistica e soprattutto come forma di organizzazione permanente degli studenti. Era una critica
radicale dell’asse cultura.
A questo seguirono vari bollettini che richiedevano democrazia diretta (come politica sovvertitrice della gerarchia e
dell’ordinamento sociale), salario sociale (per garantire ad ogni studente il diritto allo studio).
Peculiarità di questo movimento fu la massiccia presenza di estremismo:
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L’estremismo funzionò soprattutto nella fase nascente del movimento come svuotamento e critica degli schieramenti
politici ereditati dalle generazioni precedenti: in tale senso l’estremismo fu uno degli elementi dell’identità
generazionale del movimento studentesco.
Fu esso la chiave di svolta; fu l’estremismo a determinare la rottura con le generazioni politiche precedenti. Si ebbe un
mutamento di paradigma.
L’avvento di queste ideologie estreme portava però una soluzione utopica dei vari problemi come ad esempio quello
sociale, politico e sessuale.
(sintesi del saggio di M. Battini, Note storiche sugli studenti estremisti e sulle agitazioni nell’università pisana
(1966/1975), in A. Agosti - L. Passerini -N. Tranfaglia (a cura di), La cultura e i luoghi del ’68, Franco Angeli, Milano
1991)
Roma
Il movimento Romano è caratterizzato dalla presenza delle componenti politica e generazionale della rivolta oltre ad un
forte carattere violento-rivoluzionario. Esso ha un carattere di opposizione radicale al vecchio schema sociale che aveva
obbiettivi “mitici” ma non direttamente legati alla rivoluzione: scopo di questa rivolta non sarebbe stata la rivoluzione
bensì la modernizzazione e l’apertura di nuovi canali per una rapida ascesa sociale.
I giovani iniziano a ribellarsi perché erano consapevoli del fatto che la società non appare in grado di garantire un
lavoro all’altezza della loro formazione culturale; contemporaneamente vogliono esprimere mediante la loro carica
egualitaria il rifiuto della società dell’opulenza, poiché questa aggrava le differenze sociali ed economiche. La ricerca di
costituire una nuova socialità, la volontà di costituire una comunità e il senso di liberazione derivante crearono l’aspetto
festoso del movimento.
Inizialmente il movimento romano cercherà di trovare le soluzioni ai problemi sociali attraverso il dialogo, la non
violenza e l’antiautoritarismo. Successivamente, a seguito agli interventi repressivi e violenti dello stato prenderà piede
la parte di stampo neomarxista e rivoluzionaria.
A Roma si arriva ad una politica di stampo marxista e rivoluzionaria in cui è centrale il rapporto con la violenza. Valle
Giulia è l’evento significativo: per la prima volta si risponde agli attacchi della polizia. Esso diventa un episodio
simbolo che carica di ebbrezza tutto il movimento.
Se agli inizi gli studenti oppongono la non-violenza ai poliziotti che li sgombravano dalle università occupate, presto
l’offensiva repressiva dello Stato porta il movimento a rispondere sullo stesso terreno. La battaglia di Valle Giulia, il 1°
marzo 1968, in cui gli studenti riescono ad opporre la propria forza a quella della polizia, segna una svolta destinata a
riprodursi in molte altre occasioni.
Questo nuovo terreno è praticato con impeto; nel movimento «si fa strada la coscienza che alla violenza dei capitalisti
sia da opporre, se si vuole liquidarla, una violenza superiore, una violenza di massa».
Tutto questo però porta l’inevitabile adeguamento dell’apparato repressivo alla nuova realtà.
Questa violenza può anche però essere letta ed interpretata sotto un altro aspetto; gli eventi del Sessantotto sono i primi
che si verificano sotto un sistema di informazione di massa caratterizzato dalla presenza della televisione. La violenza
voleva anche essere una forma di autorappresentazione del movimento, voleva significare essere protagonisti.
La violenza di strada del movimento studentesco ebbe caratteri fortemente simbolici.
Il problema del rapporto coi media e quello della manipolazione delle immagini. Il Sessantotto non ha una cultura
mediatica ma bensì “antimediale”. Questo non porta all’accanimento fisico nei confronti dei giornalisti; serviva la
controinformazione. L’accanimento contro la stampa avviene invece da parte delle forze dell’ordine poiché non si vuole
mostrare l’accanimento repressivo dello stato.
Poche ore dopo, alla Camera, il governo tenterà di minimizzare; ma le fotografie degli scontri in Valle Giulia
invaderanno la stampa di destra e di sinistra. Non testimoniano più soltanto la violenza poliziesche: sono immagini di
una guerriglia di città.
Questo porterà anche alla creazioni di azioni televisivamente pregnanti.
(sintesi del saggio di M. Grispigni, Generazione, politica e violenza. Il ’68 a Roma, in A. Agosti - L. Passerini -N.
Tranfaglia (a cura di), La cultura e i luoghi del ’68, Franco Angeli, Milano 1991)
Napoli
Il movimento napoletano durò per circa un decennio: dal 1965 fino al 1975-76. Durante tutto il periodo ci fu una
continuità della contestazione dell’attiva organicità del potere accademico rispetto al potere politico locale, fondato
sulla speculazione edilizia sulle grandi opere pubbliche.
Qui si ebbe la maggior collaborazione tra docenti, ricercatori e studenti. I docenti ebbero quasi il ruolo di direzione
politica del movimento.
Le principali richieste del movimento studentesco erano legate alla creazione di dipartimenti, “organi interdisciplinari
che dovranno essere i centri i centri propulsori della ricerca e delle forme più elevate di istruzione. Esse saranno le sole
che conferiranno il dottorato di ricerca”.
Questo connubio tra studenti e docenti è ben visibile nelle denunce effettuate verso i dividendi percepiti dai direttori
delle cliniche sulle prestazioni fornite dalle strutture universitarie. Anche a Napoli è di principale importanza la lotta
contro la riforma Gui.
Ruolo centrale all’interno del movimento napoletano sarà l’azione di Sinistra Universitaria (studenti di sinistra
extraparlamentare e volontariato cattolico rinnovato) che “anteponeva il rovesciamento del sistema ad una riforma
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universitaria funzionale alle tendenze razionalizzatici dello sviluppo capitalistico”. Essa prevedeva la formazione di un
partito rivoluzionario di stampo leninista.
In contrasto con Sinistra Universitaria è il movimento studentesco di Architettura avente forti ideologie marxiste.
Gli obiettivi delle proteste studentesche sono riassumibili in un documento edito nel Novembre ’68:
a)
Realizzazione del diritto allo studio;
b)
rifiuto delle scelte di programmazione economica;
c)
una politica della ricerca non subordinata ma alternativa al potere economico e politico, nazionale e
internazionale;
d)
docente unico con permutabilità di funzioni e a tempo pieno.
Le finalità della lotta antiautoritaria erano la presa di coscienza e l’organizzazione politica delle classi oppresse dal
dominio capitalista. Occorreva quindi prendere subito contatto con la classe operaia.
Motivi di preoccupazione erano causati dal problema dell’organizzazione da cui derivava che facilmente gruppi
fascisti e forze dell’ordine riuscivano ad assaltare gli istituti occupati. Anche a queste occupazioni partecipavano
assistenti e docenti interni (ad es. occupazione di Medicina). La direzione puniva duramente i più attivi promotori
delle proteste allontanandoli dalle rispettive facoltà.
Studenti e docenti simpatizzanti protestavano inoltre contro le speculazioni edilizie perpetuate da C. Ferlaino ed E.
Verga coperte nel progetto di costruzione del nuovo Policlinico.
Lo smembramento dell’Università non significa solo speculare sui suoli, ma tale azione riveste un più vasto
significato politico e culturale; essa infatti è anche funzionale a quello stretto controllo politico sugli studenti, che le
forze più avanzate del capitalismo devono necessariamente garantirsi.
Nonostante le mobilitazioni non si riuscì a far nulla per modificare questi comportamenti.
Oltre a occuparsi dei problemi che li colpivano direttamente, gli studenti criticavano situazioni che non erano
moralmente accettabili come la situazione operaia, quella dei disoccupati e le ingiustizie derivanti da una politica
imperialista statunitense.
Intorno agli anni settanta alcune ali del movimento tentarono di radicalizzarsi ed estremizzarsi tentando una confusa
esperienza terroristica che venne immediatamente dissolta dalla polizia.
Come si è ben capito dalla narrazione dei fatti, anche il Sessantotto napoletano partì da lotte per problemi e ingiustizie
locali per poi giungere a discutere di principi generali, comuni in tutti i luoghi raggiunti dalla protesta studentescooperaia del Sessantotto.
(sintesi del saggio di F. Barbagallo, Lotte universitarie e potere accademico a Napoli nella seconda metà degli anni
sessanta, in A. Agosti - L. Passerini -N. Tranfaglia (a cura di), La cultura e i luoghi del ’68, Franco Angeli, Milano
1991)
5. Le proposte degli studenti
 Le Tesi della Sapienza di Pisa.
I seguenti brani sono tratti da un documento noto come le “Tesi della Sapienza”, diffuso dagli studenti universitari di
Pisa durante i giorni dell’occupazione del Palazzo della Sapienza, ovvero tra il 7 e l’11 febbraio 1967. In queste pagine
è descritta la funzione del movimento studentesco ed è delineato il ruolo dello studente (definito come forza-lavoro)
nella società.
Questo documento sarà un riferimento costante negli anni successivi per quanto riguarda le lotte studentesche, tanto
che verrà ampiamente citato nel XVI congresso dell’Unione giovanile italiana (Ugi; Rimini, dal 28 al 30 maggio 1967).
ORMAI SIAMO TUTTI OPERAI
Punto di partenza necessario deve essere un esame delle lotte sostenute dal M.S. negli ultimi mesi. Due sono stati i temi
fondamentali di mobilitazione: 1) lotte antimperialiste, nelle quali l’avanguardia del M.S. è riuscita a creare una
mobilitazione partendo dal livello di coscienza raggiunto dagli studenti, che non è stata di lotte per la pace o per la
richiesta al governo di condannare gli aspetti più sanguinosi dell’aggressione imperialistica o di dissociare le proprie
responsabilità da essa, ma è stata ispirata dalla chiara coscienza che l’unico modo per porre fine alla guerra imperialista
è quello di sconfiggere sul piano mondiale il dominio capitalistico, attraverso l’alleanza tra la classe operaia dei paesi
capitalisti e le masse sfruttate dell’Asia dell’Africa e dell’America Latina; 2) lotte sindacali: già in passato si erano
verificate mobilitazioni della base su una serie di obbiettivi particolari. La caratteristica delle lotte degli ultimi mesi è
stata, da una parte, l’unificazione, anche se parziale, di una serie di esperienze, assieme al cosciente rifiuto della
strategia parlamentaristica.
NATURA E FUNZIONE DEL MOVIMENTO STUDENTESCO. Il movimento studentesco rivendica il controllo degli
studenti sulla propria formazione; analizza e contratta la condizione studentesca in rapporto alla situazione storica
determinata in cui essa si situa e all’uso che ne viene fatto nell’attuale fase dello sviluppo capitalistico.
Lo studente è forza-lavoro in fase di qualificazione; l’organizzazione dello studente nell’attuale fase dello sviluppo
capitalistico, con la trasformazione della tradizionale divisione tra lavoro manuale e intellettuale in divisione fra
funzioni sociali tecno-esecutive, e funzioni sociali politico-direzionali in cui si intrecciano coordinamento tecnico e
sorveglianza dello sfruttamento, tende ad unificare i vari livelli di subordinazione sociale e permette quindi una corretta
analisi del processo di oggettiva proletarizzazione dello studente. (…)
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Le avanguardie assumono la direzione politica tendendo a collegare tra loro e generalizzare i diversi momenti di lotta;
nella misura in cui questo processo di generalizzazione viene portato avanti cresce il livello di coscienza politica del
movimento. E’ altresì compito delle avanguardie conservare la direzione del movimento nei momenti di stasi delle lotte,
programmandone la ripresa a un livello superiore. (…)
 Il Manifesto per un’università negativa di Trento.
Il brano seguente riassume le motivazioni della contestazione degli studenti della Facoltà di Sociologia di Trento
(novembre 1967) nei confronti del modello universitario italiano. L’Università era infatti uno strumento che sviluppava
un pensiero scientifico finalizzato alla produttività lavorativa, perpetuando le condizioni di l’alienazione entro una
società divisa in classi. Attraverso la proposta di una metodologia scientifico-tecnico-manageriale, poneva infatti le basi
per un dominio mascherato dietro la neutralità della scienza ( la scienza-ideologia dogmatica che veniva imposta
ricalcava i rapporti lavorativi nei quali successivamente gli studenti si sarebbero trovati inseriti).
Contro questo modello statico, nonché autoritario, essi proposero quello dell’università negativa che, basata su una
riscoperta mentalità critica e autonoma, avrebbe portato alla trasformazione dell’università in centro di lotta
rivoluzionaria e in sorgente di un atteggiamento e di un impegno politico creativo ed innovativo.
La scienza non è neutrale!
IDEE PER UNA UNIVERSITA’ NEGATIVA. Gli obiettivi che si propongono gli amministratori dell’attuale formazione
econmico-sociale possono essere sintetizzati così.
1) Mantenimento dello status quo (assorbimento di ogni potenzialità in grado di portare ad un mutamento qualitativo
del sistema)
2) Riduzione unidimensionale del pensiero e del comportamento politico.
Gli strumenti usati per realizzare questi obiettivi sono, in ultima analisi, strumenti tecnici. L’apparato tecnologico si
sostituisce al “terrore” nel domare le forze sociali centrifughe. Esso fornisce, infatti, ai gruppi che ne dispongono
(proprietà e/o controllo), una superiorità immensa sul “resto della società”. Prerequisito indispensabile alla realizzazione
di quanto sopra è lo sviluppo (programmato o meno) della scienza. Ma la scienza –come ha detto Wright Mills- non è
che un secondo Avvento Tecnologico!
Il massimo sviluppo del pensiero scientifico e della sua traduzione in tecnica (condizione indispensabile per l’aumento
della produttività del lavoro) coincide quindi con le forme politiche che sviluppano al massimo le condizioni
dell’alienazione. Una di queste forme è l’università. Essa si rifà, infatti, ad un modello di razionalità che si adegua
sempre più a quello propostogli dal pensiero “scientifico-tecnico” (manageriale) e questa razionalità, entro una società
divisa in classi, assume sempre più i connotati del dominio (che contemporaneamente maschera).
UNIVERSITA’ NEGATIVA. Se l’insoddisfazione, la protesta, la contestazione si svolgono nell’ambito di canali
istituzionalizzati con strumenti politicamente castrati le forze con le quali ci si scontra, sono decisamente imbattibili. Il
movimento per l’Università negativa deve quindi porsi come immediato obiettivo l’elaborazione di una teoria del
mutamento che permetta, nella prassi, una reale contestazione antagonistica all’università italiana. Tale contestazione
non è quindi solo il rifiuto della scienza-ideologia borghese, ma piuttosto il rifiuto dei rapporti di produzione all’interno
dei quali, accettando tale “scienza” ci si troverebbe inseriti.
Università Negativa è incarnazione del pensiero negativo nell’avanguardia organizzata del movimento studentesco; è
contestazione della pretesa neutralità della “scienza borghese”
CONTESTAZIONE POLITICA. Non si dimentichi, che lo studente è un quadro politico solo in potenza. Fino a che egli
rimane nell’università egli deve quindi sfruttare la sua particolare posizione per acquisire gli strumenti scientificotecnici che l’università, pur nei limiti già discussi, gli propone, per utilizzarli poi in senso socialista.
In questa prospettiva noi cerchiamo di operare per la preparazione di un nuovo tipo di professionista: “il professionista
out”. Per questo avanziamo il progetto di una Università Negativa, che esprima in forma nuova nelle Università Italiane
quella tendenza rivoluzionaria che sola potrà condurre la nostra società dalla “preistoria” alla “STORIA”.
 Carta rivendicativa per la ristrutturazione delle facoltà umanistiche
Negli stessi giorni del mese di novembre 1967 l’assemblea degli studenti di Palazzo Campana di Torino
formula critiche analoghe e avvia un processo di cambiamento dal basso delle modalità di insegnamentoapprendimento universitario. “L’università ristrutturata” si basava su corsi tenuti da gruppi autogestiti,
all’interno dei quali si svolgevano lezioni ed esami: gli studenti diventavano quindi protagonisti del processo
conoscitivo, della propria formazione e della votazione degli altri membri del gruppo, raggiunta attraverso
una valutazione complessiva dell’attività svolta.
Gli studenti iscritti alle facoltà di Lettere , Filosofia, Magistero, Legge e Scienze Politiche si riuniscono in assemblea
generale; l’assemblea generale si articola a sua volta in assemblee in base a comuni interessi culturali e professionali,
indipendentemente dalla facoltà a cui gli studenti sono iscritti.
Nell’ambito di queste assemblee si formano i gruppi di studio. Ogni studente può partecipare a più assemblee a
seconda dei suoi interessi. L’ambito delle sue scelte sarà più ampio nei primi due anni di corso; nei successivi si
adeguerà alla specializzazione prescelta. I gruppi di studio interessati ad essa verificano che tali scelte si adeguino
effettivamente a tale specializzazione.
Il collegamento tra queste assemblee è realizzato, oltre che dagli studenti stessi che lavorano nei gruppi di studio,
dall’assemblea generale (…) L’effettiva partecipazione al lavoro del gruppo è condizione necessaria e sufficiente per
ottenere il voto di libretto senza sostenere esame. Il gruppo –integrato dai docenti e dagli esperti che hanno
collaborato- decide quando la partecipazione di un solo membro non è sufficiente ai fini di quanto sopra detto. Per una
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valutazione comprensiva di ogni membro il gruppo terrà conto della frequenza alle sedute di discussione comune, dei
motivi dell’assenza, dell’impegno nell’attività svolta e di ogni altro elemento che riterrà utile.
Il voto viene assegnato dopo una discussione cui partecipano tutti i suoi membri (compresi gli esaminati) e tutti gli
esperti, nella misura del possibile. Il voto è assegnato in base ad un consultivo globale dell’attività svolta. Si tiene
conto dei pareri motivati degli esperti sulla competenza degli studenti in relazione a tecniche specifiche. Si tiene conto
delle esigenze di media ai fini del presalario e delle borse di studi che riguardano l’assistenza economica agli studenti.
Non sopportiamoci più a vicenda. Riflessione sul rapporto docenti – discenti degli studenti del Liceo Classico di
Novara.
28 Novembre 1970. Gli studenti della classe III A del Liceo Classico di Novara presentano un breve testo diviso in 50
punti principali, in cui propongono una precisa analisi della loro situazione all’interno della scuola. Il documento si
articola in tre parti: una introduzione, in cui vengono esposti i problemi che si intendono affrontare; una parte centrale
che delinea gli effettivi confini delle figure di insegnante e studente; una conclusione in cui gli alunni della classe III A
illustrano chiaramente le loro richieste. Si deve precisare che lo scritto non è da considerarsi né una banale lamentela,
né una pesante forma di protesta scritta destinata a lasciar passare un po’ di tempo prima di finire nel cestino: è invece
uno strumento di lavoro, di generalizzazione, di socializzazione e di circolazione di esperienze. Uno degli obiettivi di
priorità assoluta è quello di eliminare la paura, presente soprattutto fra gli studenti del ginnasio, creata in primis dai
metodi di insegnamento dei professori e dalle divisioni che nascono tra i ragazzi all’interno della scuola. Gli studenti
invitano gli eventuali lettori a considerare il contenuto del testo nella sua globalità, senza sindacare su singole parole o
frasi.
La figura dell’insegnante. In poche parole, dicono gli studenti, gli insegnanti non hanno oggettivamente nessun potere.
Ma soggettivamente?
La sua veste è quella dell’impiegato inserito in una routine della quale non sa e non deve (e tanto meno vuole, spesso)
rendersi conto: un uomo che compie il proprio lavoro in modo distaccato e paradossalmente disinteressato (chi non
lavora non mangia), scadendo come spesso accade in comportamenti dannosi e diseducativi per lo studente e il suo
futuro.
Lo studente, è colui che ne viene descritto come l’oggetto che insegnanti e Preside devono limare, sgrossare e
riempire come un imbuto. L’insegnante non accoglie i nuovi studenti del ginnasio con parole di incoraggiamento, bensì
li spaventa, li tortura: da qui si erge, da un punto di vista psicologico, la figura imperiosa dell’insegnante, semidio
iroso e onnipotente, dotato di incredibili poteri. Vengono citati i nomi di alcuni professori che secondo la III A si fanno
strada attraverso la paura e il ricatto. Le critiche più accese sono rivolte ad un professore che afferma che la lezione di
classe deve essere vissuta nel rispetto del “sopportiamoci a vicenda”, perché al fastidio e alla noia aggiunge la
consapevolezza, data dall’esperienza, che la scuola non è che una gigantesca fabbrica dell’ignoranza.
Un altro rilievo significativo riguarda la mancanza di dialogo: gli insegnanti, infatti, rifiutano qualsiasi tipo di
discussione poco ortodossa, assoggettando in questo modo ogni studente alla loro concezione di disciplina. Inoltre non
viene facilitata la minima forma di socializzazione tra compagni di classe che si trovano immancabilmente divisi in
gruppi: da una parte i buoni dall’altra i cattivi, da una parte i bravi dall’altra i fannulloni. Ogni studente si sente così
isolato dal resto della classe e in difficoltà nelle conoscenze al di fuori della scuola, perché questo metodo influenza la
personalità e con essa persino le amicizie: il ragazzo reagisce nei modi più svariati e spesso più illogici, calando la
maschera che più gli torna comoda e dimenticando il suo modo di essere e di agire nella società. Si allontanano così
dall’educazione comune valori come quello della solidarietà, all’insegna del più completo individualismo.
Insegnante come impiegato e studente come autonoma: questo il risultato più triste.
(liberamente tratto da AA.VV., Non sopportiamoci più a vicenda.. Un’analisi della nostra situazione, Novara
28/11/1970, Classe III A del Liceo Classico, in Volantini operai e studenti area novarese, busta Mov. Stud. 60/71,
Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Novara)
 Scientifico: scuola di ieri o di domani?
Nel dialogo che segue (intervista apparsa sulla rivista locale <<Tempi nostri>> del marzo 1967) alcuni studenti del
Liceo Scientifico “Antonelli” di Novara si scambiano opinioni sulla validità del corso di studi intrapreso e sulla
rispondenza del liceo scientifico alle esigenze della società moderna. Si soffermano poi sul rapporto educativo
instaurato dalla maggioranza dei docenti che non prevede alcuna partecipazione attiva e critica da parte degli
studenti, equiparati a pappagalli che devono limitarsi a ripetere ciò che viene loro insegnato. Il testo si conclude con
un’autocritica degli studenti spesso incapaci di accettare strategie didattiche meno autoritarie.
Antonio – Il motivo essenziale che mi ha spinto a scegliere il liceo scientifico è stata una predisposizione verso la
matematica, e considerata anche la giovane età, non credo ci siano stati motivi più profondi.
Alberto – Anch’io capisco che molti studenti vengono al Liceo Scientifico perché sentono una particolare attrazione per
la matematica; tuttavia ho potuto notare, durante questi anni, che nel nostro liceo le materie scientifiche non hanno
affatto quella predominanza che ci si potrebbe aspettare.
Beppe – Io invece, mi sono pentito di essere venuto allo Scientifico. Ho visto infatti che in realtà esso rappresenta una
via di mezzo tra il Classico ed un istituto tecnico e non dà una preparazione approfondita in alcuna materia in quanto
manca la caratterizzazione di un indirizzo definito. Ad esempio, preferirei studiare una lingua straniera invece del latino,
come viene ora svolto nel nostro liceo.
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Antonio – Per me una delle funzioni essenziali del nostro liceo è quella di aiutare lo studente attraverso un istruzione
generale a valutare le varie situazioni della vita e a giudicare le cose stesse che la scuola propone.
Margherita – Troppo spesso secondo me siamo costretti a studiare senza prendere una posizione di fronte alla materia
studiata, ma semplicemente per il 6 sulla pagella, come dei pappagalli o dei registratori.
Beppe – Per me è necessario allora cambiare il clima nel quale si svolgono i rapporti tra alunno e professore:
occorrerebbe che molti professori la smettessero di considerare gli studenti come dei pappagalli e molti studenti
vedessero nell’insegnante l’educatore e non il sadico che prende gusto a rimandare studenti su studenti.
(da AA.VV., Scientifico: scuola di ieri o di domani?, in <<Tempi nostri>>, 04/031967, Novara)
 Le rivendicazioni degli studenti novaresi in sciopero
Nell’ articolo che segue, pubblicato su una rivista novarese ( «Tempi Nostri» del 19/12/1967), l’autore pone
l’accento sulla realtà scolastica di quegli anni sottolineando che la divisione “classista” della società si
proiettava anche nella scuola. Divisione che tutt’oggi ci sembra quasi da medioevo, e che è stata invece una
delle principali cause dei movimenti studenteschi di quegli anni.
“Nei giorni scorsi a Novara sono scesi in sciopero gli studenti degli Istituti Tecnici «Omar», «Mossotti», e «Bellini» e
dell’Istituto Magistrale «Contessa Tornelli Bellini».
I moti rivendicativi che muovevano gli studenti, almeno quelli delle Magistrali, erano di ordine minimo: regolazione del
meccanismo delle assenze, mancanza di aula, e professori etc. etc.
[…] E’ mancato nel modo più assoluto un gruppo che dirigesse l’agitazione vuoi per timore di provvedimenti repressivi
vuoi per insufficiente coscienza degli studenti. […] A questo credo sia necessario fare alcune considerazioni di ordine
generale. Le lotte studentesche, come tutte le lotte rivendicative in genere, nascono da motivi minimi. In effetti la loro
vera causa sta in un disagio più generale che gli studenti provano nei confronti della scuola italiana che si manifesta in
tutta la serie di quei fatti minimi che vengono immediatamente percepiti dagli studenti.
La nostra società capitalistica, divisa in classi, tende necessariamente a creare una scuola in cui rimangono inalterate le
differenze di classe ed in cui venga riprodotto il dominio di una minoranza detentrice del potere economico sulla
maggioranza degli uomini. Se questa ferrea legge poteva un tempo essere applicata integralmente precludendo alle
classi popolari l’accesso alle istruzioni questo oggi non è possibile. La società capitalistica stessa con la sempre più
diffusa applicazione della tecnica ai processi produttivi è costretta, per far fronte alla concorrenza internazionale e per
aumentare i proprio margini di profitto, ad incrementare la formazione di qualificati quadri tecnici ed operai. Essa
dunque è costretta ad aprire sempre più la scuola alle classi popolari. In questo senso deve essere interpretata a mio
giudizio la riforma della scuola media inferiore attuata in questi ultimi anni.[…]
Ecco dunque che la discriminazione di classe si riproduce al 15° anno di età ed investe soprattutto i contenuti educativi.
Da una parte per le classi subalterne scuole nelle quali predominano i «contenuti professionali». […] Dall’altra parte per
le classi privilegiate scuole in cui dominano «contenuti culturali» nei quali persiste una cultura accademica staccata
dalla prassi sociale e quindi di nessuna efficacia contestativa. Da qui nasce il carattere conservatore della scuola basata
sulla discriminazione fra il «momento del sapere» riservato ad una minoranza detentrice del potere economico ed il
«momento del fare» destinato, in quanto ritenuto inferiore, alla maggioranza degli sfruttati.
[…] Solo una società dove non esista la discriminazione di classe potrà produrre una scuola non «classista». La lotta per
una scuola nuova deve pertanto, secondo noi, essere un episodio della lotta più generale per la trasformazione in senso
socialista della società.”
6. Una riflessione sulle conseguenze
In questo brano tratto da un saggio di Giorgio Galli vengono studiate la genesi e la “vita” dei movimenti violenti e
della lotta armata che seguì il periodo della contestazione studentesca. Qui l’autore dimostra con dovizia di dati e
prove oggettive, che i movimenti armati si sono spesso originati non come “deviazione” di gruppi violenti di studenti,
ma sono scaturiti soprattutto dai gruppi di contestazione nelle fabbriche, assumendo come propri i temi delle lotte
studentesche, ma rivedendoli in chiave più estrema, anche sulla scia degli eventi nazionali e internazionali.
LA POLITICA E LA LOTTA ARMATA
Certamente i quadri della lotta armata si formarono nei “servizi d’ordine” del movimento studentesco, poi frantumato
nei vari gruppi e si può dunque dire che è in molte università e scuole medie superiori che si forma una cultura politica
che ritiene inscindibile la lotta politica dall’uso della violenza; ma la traduzione di questa cultura nella decisione
soggettiva e cosciente di organizzare in Italia la lotta armata viene adottata fuori dal contesto dell’esperienza scolastica.
Ma “la scuola ha contribuito al prodursi di un fenomeno quale la lotta armata a lungo protrattasi in Italia, sia perché non
era in grado di fornire strumenti di formazione culturale adeguati all'evoluzione della società, sia perché il corpo
docente era stesso caratterizzato dai limiti culturali del sistema di insegnamento che non si proponeva di superare con
una propria riflessione e auto-formazione”, determinando una situazione di incertezza che ha creato negli studenti la
convinzione che tutto fosse possibile, anche la lotta armata, alimentata dal comportamento paternalistico dei docenti,
divisi nelle decisioni e mai coerenti, combinazione che, come è ben noto, agevola i comportamenti ribelli.
Tuttavia questo contributo risulta meno importante di altri. In primo luogo quello della classe politica nel suo insieme,
che diversamente da quanto è accaduto in altre democrazie europee non ha affrontato nei termini necessari la “questione
scolastica”, non avendo saputo sfruttare adeguatamente la situazione di “ritorno al privato” (“riflusso”) che “avrebbe
dovuto favorire la riorganizzazione del sistema scolastico senza particolari tensioni sociali (come non ha affrontato
quello della crescente invivibilità delle aree metropolitane declassate, che è alle origini delle teorizzazioni
19
“guerrigliere”delle Br e in parte della loro capacità di attrazione di reclutamento).” Questo fu causa a monte
dell’orientamento di alcune decine di migliaia di giovani nel fiancheggiare la lotta armata.
In secondo luogo vi è la responsabilità specifica dei servizi di sicurezza, che adottarono metodi talora di
favoreggiamento della lotta armata di destra ma anche in un rapporto di tolleranza e di "lasciar fare” alla lotta armata di
sinistra.”
( da G.Galli, La politica e la lotta armata, in <<Annali della Pubblica Istruzione>>, Anno XXXIV, 4/5, luglio/ottobre
1988, Le Monnier, Firenze 1988)
7. I ricordi di un protagonista.
L’articolo che segue è particolarmente significativo, soprattutto considerato il ruolo dell’autore, Mauro Begozzi,
storico, attualmente ricercatore presso l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Novara. E’
una testimonianza di chi il ’68 lo ha vissuto in prima persona, non come passivo osservatore bensì in maniera attiva. I
ricordi, quindi, di uno dei tanti ragazzi che hanno fatto il ’68, elaborati a distanza di trent’anni. Passando per i tre
eventi che egli stesso individua come i più importanti, arriva a illustrare gli ideali e i pensieri che hanno caratterizzato
e tenuto unito il movimento giovanile in quegli anni. E, come ricorda l’autore, verso la fine, “quando si finì di sognare
e sperare”, si decretò la fine del Sessantotto.
Trent’anni fa avevo diciassette anni, «amavo i Beatles e i Rolling Stones», andavo a scuola e mai avrei immaginato che
di lì a poco sarebbe successo qualcosa che avrebbe cambiato, forse sarebbe meglio dire influito così tanto, nella mia vita
e, come nella mia anche in quella di milioni di ragazzi di tutto il mondo. Trent’anni fa è scoppiato il 68! […]
Se dovessi dire cosa ricordo di quella occupazione di Torino, direi «niente» o «poco»: credo che forse soltanto i
protagonisti dell’Ateneo torinese di allora ebbero la sensazione che qualcosa di straordinario stesse per succedere. […]
Tre fatti furono importanti per me.
Il primo risale esattamente all’anno precedente: l’alluvione di Firenze e quella spontanea, incredibile corsa di migliaia
di giovani a sporcarsi le mani nel fango per salvare libri, cose e per portare solidarietà a chi tutto aveva perduto. Se fossi
sicuro che mia madre non leggerà questo pezzo, potrei finalmente confessare che in quei giorni dell’inizio di novembre
1966, un gruppo di ragazzi in una piazza di periferia aveva deciso di «scappare» e raggiungere Firenze. Gli è che non
c’erano nemmeno i soldi per il treno…
Si stavano rompendo argini più grandi di quelli dell’Arno: una nuova generazione si stava fisicamente movendo. […]
Quei giovani avevano alle spalle una società che era profondamente mutata e andava ancor più trasformandosi (milioni
di persone si spostavano da Sud a Nord, le campagne si svuotavano e il decollo industriale sembrava inarrestabile, le
scuole si riempivano dei figli di ceti sociali sino ad allora esclusi dall’educazione). A fronte di questi epocali mutamenti,
le istituzioni (in primis la scuola) sembravano gusci arcaici e conservatori di mentalità e culture astratte, comunque
lontane dalle inquietudini giovanili. […]
L’altro fatto importante fu il colpo di stato dei «colonnelli» in Grecia, che apparve a quella generazione come il simbolo
concreto di cos’era il fascismo, si cos’erano i suoi epigoni, del pericolo costante e incombente di svolte repressive e
oppressive capaci di minacciare le già fragili strutture democratiche. L’antifascismo divenne bandiera e chiave di lettura
che si arricchì di contenuti positivi e propositivi, elemento di mobilitazione e aggregazione, anche di scontro, spesso
violento.
[…] Il terzo e ultimo fatto fu la «guerra del Vietnam», l’escalation militare americana nel sud-est asiatico, i
bombardamenti su Hanoi, il napalm.
Scorrono immagini indimenticabili: la prima guerra in diretta televisiva e di contro la rivolta dei giovani americani nei
campus delle università che gridano basta al massacro di un popolo che non conoscono, in nome di un anticomunismo
ai loro occhi insignificante, e il contemporaneo massacro di migliaia di loro coetanei. […]
Ricordo le Olimpiadi di Città del Messico, il massacro degli studenti sulla piazza dell’Università e poi i pugni chiusi dei
vincitori neri sul podio dei «cento metri». Non posso fare a meno di pensare, trent’anni dopo, a quel che è rimasto di
quella stagione che si trasformò in poco tempo in tante storie diverse, in tanti percorsi diversi, quando si finì di sognare
e sperare.
(da M. Begozzi, Trent’anni fa è scoppiato il “’68”!, in <<Resistenza Unita>>, novembre/dicembre 1997)
LOTTE OPERAIE
“Non si può continuare a tappare i buchi di una tubatura marcia,
quando invece è la tubatura che va completamente cambiata e ne va messa un’altra nuova”
da una pubblicazione del CUB di Trento del 15/7/68
Nelle lotte operaie vi era un doppio movente: ottenere la piena inclusione sociale attraverso l’accesso al
benessere e una completa realizzazione delle proprie prerogative democratiche.
L’inizio del riscatto dei lavoratori italiani viene fatta solitamente coincidere con gli scontri di P.za Statuto, a
Torino. In questa tre giorni di fuoco (7-9/7/1962) viene assaltata la sede UIL, per protestare contro il
comportamento filopadronale di questo sindacato. Più specificamente i partecipanti alla manifestazione
protestano contro il “contratto bidone”, stipulato autonomamente dal sindacato con la FIAT, che prevede un
20
blocco degli scioperi fino all’autunno. Il nocciolo della contestazione risiede nella mancata interpellanza dei
lavoratori da parte del sindacato, pur su una questione di così immediata rilevanza.
In realtà questo non è un episodio isolato, ma un chiaro indice del ruolo totalmente passivo assegnato
all’operaio in merito alla possibilità di prendere decisioni sulla propria vita lavorativa. Un esempio è offerto
da un documento di poco posteriore al 1962, in cui gli stessi operai criticano le modalità con cui è stato
stipulato l’accordo Marzotto e i dubbi vantaggi che questo sia effettivamente in grado di offrire.
“Noi di queste trattative non sappiamo i particolari, però è certo che, a giudicare dai risultati, non sono servite a
molto, perché peggio di così non poteva andare […]Su un documento come questo i sindacati non solo non chiamano
in lotta gli operai, ma neppure gliene parlano[…]Marzotto[…]quando ci dice che gli operai devono essere a
conoscenza di questo nuovo sistema, non intende certo dire che gli operai lo possano discutere, respingere o
modificare, ma solo che lo devono accettare, e che le loro eventuali contestazioni non devono intaccare la sostanza del
sistema, che è l’unica cosa che gli interessa. E’ chiaro che gli occorre anche la collaborazione dei sindacati; e gli
propone, infatti, di impegnarsi a porre ogni attenzione affinché la collaborazione si svolga in una completa pace e
stabilità dei rapporti reciproci"6
Il malessere della classe operaia è aggravato ulteriormente da altri fattori; in primo luogo dalle infami
condizioni lavorative in cui si trova costretta. Citiamo a questo proposito un brano da un romanzo, che parla
di questo periodo, e che, pur essendo un'opera narrativa, tuttavia documenta molto bene lo stato d'animo di
questi lavoratori:
"Dentro il padrone continua a tagliare i tempi, a rendere il lavoro sempre più insopportabile. Con ritmi che fanno
sputare il sangue senza neanche avere il tempo di mangiare e di andare al cesso[…]Quello si era fatto male veramente
e gli dicono: No, tu devi lavorare. Ma che siamo impazziti, siamo in guerra, siamo nel Vietnam qua? Con tutta questa
gente sanguinante, ferita, che deve lavorare per forza? In infermeria era sempre pieno, sembrava proprio un ospedale
di guerra. Con tutti questi operai che arrivavano in continuazione, con una mano schiacciata, con un taglio da qualche
parte, con qualcosa di rotto. Arrivava uno che gli era scesa l’ernia e gridava[…]Non c’avevo neanche il tempo per
soffiarmi il naso. Ero sempre tutto nero e sporco"7
“La FIAT[…]aveva ostacolato e colpito in tutti i modi possibili il sindacalismo comunista in fabbrica, istituendo i
famosi reparti confino, nei quali aveva relegato quei militanti sindacali e politici che non era riuscita a licenziare" 8
A questo spontaneo desiderio di riscatto operaio si aggiunge la rabbia dirompente di una nuova figura di
proletario, destinato ad assumere in breve tempo un ruolo di primo piano nell’ondata di lotte di questi anni:
l’operaio-massa.
“L’operaio-massa è il protagonista della nuova ondata di lotte operaie, iniziata negli anni ’60, nelle quali è venuto alla
ribalta come una nuova figura politica di proletario, con caratteristiche nuove, con obiettivi nuovi, che impone forme
di lotta nuove. Questa figura è stata definita come ‘il meridionale tipico, cioè il meridionale povero, compreso nella
fascia di età che va dai 18 ai 50 anni, disponibile a tutti i mestieri senza alcun dato professionale, anche quando
possiede fisicamente un diploma, candidato perenne all’immigrazione, privo di occupazione stabile e frequentemente
disoccupato o costretto a prestazioni assai variegate e saltuarie’[…]In cambio di reddito, di soldi, trova il lavoro più
duro, più faticoso, più inumano, quello che nessun altro è disposto a fare"9
“Sono di una ‘razza’ nuova, giovani, i più immigrati meridionali, senza alcuna esperienza sindacale e politica ""10
“[…]I salari di fame non bastano più a pagare fitti sempre più cari e non permettono agli operai l’indispensabile per
vivere. Così gli operai sono costretti a vivere in otto persone in una camera o sulle panchine della stazione.[…]C’erano
dei disgraziati che hanno dormito per tre o quattro giorni, e molti anche per un mese, nella stazione, nella sala
d’aspetto, di seconda classe, a Porta Nuova.""11
Chiara e riassuntiva è a proposito l’analisi tracciata da Alberto De Bernardi, che individua nel carattere
composito del movimento una delle sue caratteristiche principali:
“Nelle lotte dei lavoratori confluivano dunque fenomeni morfologicamente distinti: il protagonismo della classe
operaia urbana, base di massa del movimento di base organizzato[…]proiettato al conseguimento di una cospicua
redistribuzione dei redditi[…]; l’aspirazione ai consumi e all’inclusione sociale da parte del proletariato rurale,
integrato, per la prima volta nella storia d’Italia, nei meccanismi dell’industrializzazione ""12
6
Che cosa dice agli operai il documento Marzotto, <volantino>, s.n, Valdagno, 1967
Vogliamo tutto / N. Balestrini. Milano, Feltrinelli,1971, pagg.42, 85,162-163.
8
Cento… e uno anni di Fiat / a cura di A. Moscato, Bolsena, Massari, 2000, pag.47.
9
L'orda d'oro / N. Balestrini, P. Moroni. Milano, Feltrinelli, 1988, pagg.281-282.
10
Il giorno più lungo: la rivolta di C.so Traiano/ D. Giachetti, Pisa, BFS, 1997, p.73.
11
Vogliamo tutto / N. Balestrini. Milano, Feltrinelli,1971, pagg.71, 163.
12
Il Sessantotto / M. Flores, A. De Bernardi. Bologna, Il Mulino, 2000, p.150.
7
21
La situazione del sindacato nei primi anni di lotta è delicata; esso si dimostra sostanzialmente incapace di
recepire le reali necessità della classe sociale che rappresenta. Ciò significa che la componente operaia
avverte in modo sempre più marcato la contraddizione profonda tra le proprie esigenze e le politiche di chi le
rappresenta. Si spiega così la tendenza sempre più diffusa a gestire la lotta autonomamente, arrivando
persino, in alcuni casi, a scavalcare le stesse direttive sindacali.
“Gli operai non hanno capito i motivi dello sciopero sindacale. Non sentono la lotta[…]Decidono i loro scioperi nelle
loro assemblee interne sugli obiettivi che gli interessano[…][d’altra parte]i sindacati cercano di far partire le lotte una
alla volta, finita una se ne apre un’altra, per evitare la generalizzazione e impedire che gli operai organizzandosi nella
lotta in fabbrica esprimano una loro volontà autonoma""13
“[dobbiamo]non solo criticare la politica dei sindacati, ma porre le basi di un’organizzazione autonoma, capace di
condurre le lotte secondo la volontà operaia e ad indirizzarle in modo cosciente contro il nemico comune:
l’organizzazione capitalistica della società. Un’organizzazione capace di combattere giorno per giorno, in una lotta
continua, l’intensificazione dello sfruttamento[…]Dobbiamo prendere nelle nostre mani le redini delle lotte future ed
essere in grado di tenerle fino alla fine. Scegliere coscientemente i momenti di lotta, quando il padrone è più debole e
noi siamo più forti. Scegliere le forme più adatte alla situazione di ogni momento. ""14
“All’unità dei vertici sindacali che vogliono collaborare con i padroni dobbiamo opporre l’unità delle masse
lavoratrici in lotta per i propri interessi di classe""15
Il motivo della lotta continua e in comune diventa quindi decisivo nello sviluppo della contestazione operaia
del “Sistema”; proprio dalla necessità di promuovere movimenti di massa omogenei ed efficaci, impossibili
tramite le organizzazioni sindacali, prenderanno forma i cosiddetti CUB, i Comitati Unitari di Base.
“La cosa più grave è che tutti noi operai siamo stati abituati fin da piccoli a NON pensare come risolvere i nostri
problemi, per piccoli che essi siano. E se qualcuno di noi cerca di risolvere questi problemi lo fa in maniera individuale
ed egoista. Che non basta. Noi deleghiamo sempre a qualcuno!!! E questo è sbagliato!!![…]Non dobbiamo aspettare
che siano gli altri a risolvere i nostri comuni problemi, ma dobbiamo essere noi stessi a farlo, tutti uniti[…] E ALLORA
CHE COS’E’ IL CUB? Il CUB sono tutti coloro che si impegnano in prima persona e tentano di risolvere i propri
comuni problemi. Perciò non si tratta di delegare o iscriversi o votare per il CUB: esso è nato proprio perché tutti
possiamo capire che non si deve aspettare che altri risolvano i nostri problemi, ma dobbiamo farlo tutti insieme e tutti
uniti"16
Una delle esperienze più rilevanti della storia dei CUB è indubbiamente quella vissuta alla Pirelli di Milano.
Presso la grande azienda lombarda il processo di ricambio generazionale a livello operaio è stato
particolarmente accentuato. La “nuova” generazione operaia di ventenni ha una maggior esperienza
metropolitana e politica degli immigrati meridionali dei primi anni ’60; queste condizioni favoriscono
l’allacciamento di contatti con la componente studentesca, già impegnata nella contestazione sistematica
della società . Ed è forse proprio quest’amalgama di studenti e operai il tratto saliente dei nascenti Comitati.
“Gli studenti hanno molto da imparare dalle lotte operaie e dalla condizione di sfruttamento da chi lavora in fabbrica.
Ma anche noi operai abbiamo molto da imparare dalle lotte degli studenti. Infatti in questa società quello che è saputo
dall’operaio non è saputo dallo studente, e quello che è saputo dallo studente non è saputo dall’operaio" 17
Di contro all’azione politica sindacale, esterna e teorica, i CUB ritengono che il punto di partenza reale delle
rivendicazioni operaie debbano essere le concrete condizioni in cui gli operai conoscono lo sfruttamento
capitalistico. In questo tentativo di organizzare le lotte dall’interno, nasce l’esigenza di trovare nuove forme
di contestazione. Su questo aspetto strategico dell’azione operaia insiste particolarmente Paolo Virno, nella
sua analisi del movimento operaio a cavallo degli anni ’60 e ’70:
“La discussione sulle forme di lotta[…]è, se possibile, persino più importante di quella sugli obiettivi. Perché, nei modi
con cui il conflitto si dipana, vien definito un rapporto di forza duraturo, che vigerà anche “dopo”, a riflettori spenti" 18
“E in effetti le nuove forme di lotta (“gatto selvaggio”, sciopero “ a scacchiera”, sciopero “ a singhiozzo”) sono tutte
al di fuori della tradizione sindacale e corrispondono al lento formarsi dei “comportamenti autonomi di classe" 19
Parallelamente a questa riflessione sui metodi della lotta, si assiste all’incapacità delle istituzioni pubbliche
di gestirne la forza dirompente.
13
Vogliamo tutto / N. Balestrini. Milano, Feltrinelli,1971, pagg.141, 150.
Comitato di lotta della Lancia di Torino, Insegnamenti di una lotta, <volantino del 5/11/68>, s.n., Torino, 1968.
15
Agli operai metalmeccanici in << Quaderni rossi della Toscana,>>, 3/3/1966.
16
Che cos’è il Comitato Unitario di Base operai-studenti, ,<volantino del 15/7/68>, s.n., Trento, 1968
17
ibidem
18
L'orda d'oro / N. Balestrini, P. Moroni. Milano, Feltrinelli, 1988, pag. 319.
19
Ibidem, pag.279.
14
22
“La simultaneità delle vertenze, e l’adesione massiccia agli scioperi cambiano il volto delle città" 20
“Ma la cosa che non avevano proprio pensato[…]era che quel giorno non si trattava del solito corteo[…], del
cosiddetto corteo di estremisti""21
Tuttavia i CUB, pur rivelandosi arma efficace nella lotta di reparto o, al più, d’azienda, difficilmente
“avrebbero potuto reggere uno scontro di vaste dimensioni, che richiede coordinamento e
centralizzazione"22
Il rinnovo contrattuale generale del 1969, proprio per la sua dimensione nazionale e istituzionale, è quindi la
grande occasione per il sindacato di riprendere in mano le fila del movimento; esso può sì riconquistare il
suo ruolo, ma occorre molta duttilità
“Il sindacato riacquista forza e rappresentatività,[…] nella misura in cui accetta di ospitare al suo interno uomini e
lotte di insistente e poco controllabile radicalità"23
Per questo motivo il 1969 è stato spesso definito come la grande annata della sinistra sindacale.
In particolare il cosiddetto “Autunno caldo” viene concordemente considerato l’acme dell’intero movimento
operaio di questi anni, segnando il momento di massimo scontro sociale nell’Italia del dopoguerra.
Questo il nodo della contestazione: gli operai rinnegano “la suddivisione della forza lavoro in fasce
diversamente qualificate e chiedono che il salario sia svincolato dalla produttività [ossia criticano le
cosiddette “gabbie salariali” e il principio retributivo del “cottimo”, n. d. A]"24
I contratti vengono firmati prima della fine dell’anno. Il conflitto sociale però non si interrompe neppure
così: negli anni ’70 si allargherà ulteriormente sino a coinvolgere, oltre agli operai e agli studenti, molti altri
settori della società civile. Da ricordare, tra le indubbie conquiste di questo ciclo di lotte, la promulgazione
dello Statuto dei lavoratori, del 1970, che sancisce una maggior tutela dei diritti dei lavoratori, in netto
contrasto con la tradizione passata.
Glossario
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Cottimo – Tipo di contratto di lavoro per il quale il salario è commisurato alla quantità di lavoro eseguito,
secondo tariffe prestabilite.
Crumiro – Lavoratore che in caso di sciopero rifiuta di far causa comune con gli scioperanti o li sostituisce
sul lavoro.
Consigli dei delegati – Commissioni sorte per stessa volontà sindacale nell’autunno ’69, composte da membri
eleggibili e privi di tessera sindacale; rientrano nella nuova duttilità che caratterizza l’azione del sindacato di
questi mesi.
Gabbia Salariale – Strumento di divisione della classe; prevedevano salari diversi a seconda delle zone
geografiche del paese e per lavoratori, anche se ricoprenti uguali mansioni nel processo produttivo.
Picchetto – Gruppo di scioperanti che, sostando all’ingresso di un luogo di lavoro, impediscono l’entrata ai
crumiri.
Piattaforma – Programma che fa da base ad un’azione politica o ad una trattativa sindacale; costituisce
l’insieme di tutte le richieste avanzate ufficialmente da un dato gruppo.
Sciopero a scacchiera – Solo alcuni settori dell’azienda scioperano, bloccando di fatto l’intero ciclo
produttivo.
Sciopero a singhiozzo – Scioperi indetti a intervalli intermittenti, irregolari.
Sindacato – Associazione professionale di lavoratori, riconosciuta dallo stato, avente lo scopo di
rappresentare una determinata categoria o più categorie e di tutelarne gli interessi.
EMANCIPAZIONE FEMMINILE
Negli anni tra il 1967-’68 gli studenti universitari erano passati da 268000 a 500000. Solo un terzo degli
studenti erano donne. La contestazione studentesca iniziò proprio in quegli anni, quando i giovani e le
giovani che frequentavano l’università si fecero promotori di una rivoluzione culturale e politica. Nella
società in cui vivevano denunciavano: l’individualismo, la competitività, la repressione sessuale, il sistema
economico basato sul capitalismo, l’autoritarismo, anche all’interno dell’università. “L’organizzazione baronale
dell’università fa sì che al suo interno il docente sia il signore e lo studente il suddito. Il rapporto che si crea fra le
componenti dell’università è un rapporto autoritario a senso unico. Ciò che il docente dice, lo studente deve ascoltare” 25
20
Ibidem, pag.319
Vogliamo tutto / N. Balestrini. Milano, Feltrinelli,1971, pag. 195.
22
L'orda d'oro / N. Balestrini, P. Moroni. Milano, Feltrinelli, 1988, pag. 314.
23
Ibidem, pag.324.
24
Il sessantotto secondo il CD del Manifesto, http. //www.media68.com
25
Storia di una utopia. Ascesa e declino dei movimenti studenteschi europei/ G. Statera, Milano Rizzoli, 1973.
21
23
La famiglia venne criticata come sede primaria dell’oppressione ed incominciarono a circolare degli slogan,
come “Voglio essere orfano”. Per le ragazze apparve una occasione per ampliare le proprie libertà, sottrarsi
dall’egemonia della famiglia e sperimentare l’impegno politico. Grazie all’auto riconoscimento di sé come
persone le donne arrivarono ad individuare diversi rapporti autoritari: fu scoperta la figura del “patriarca”,
padre dominatore che simboleggiava il professore, il padre, il marito.
Si incominciava a porsi come soggetti autonomi e a scoprire di avere una autonomia personale e politica. Le
donne incominciavano a scoprire di poter realizzarsi attraverso il lavoro, la ricerca universitaria.
Gli studenti e le studentesse vivevano il ’68 come un momento liberatorio che consentiva l’adozione di
modelli di comportamento anticonformista. “ Gli esclusi devono divenire autoesclusi, devono prendere coscienza
della loro situazione, possono così creare quell’intreccio di mani che si stringono e che possono costituire una barriera,
un fronte: il fronte degli out” 26
Questa fu la premessa per una affermazione del separatismo femminista, dell’auto-esclusione delle donne,
fondata sul riconoscimento di sé come soggetti emarginati. Grazie all’Udi ( Unione donne italiane ) ci fu un
senso di accentuazione della necessità del movimento femminista : si iniziò a parlare delle lotte delle donne
( “lotte per contare” ), della necessità di costituire contropoteri femminili. Fu molto importante l’incontro con
le lotte civili americane, con il radicalismo femminista e con gli importanti scritti delle studiose femministe
americane ed anglosassoni che portarono le donne italiane a rendersi conto di una gerarchia tra i sessi
presente anche nelle assemblee studentesche. Si formarono diversi gruppi femministi: Demau, Rivolta
femminile, Anabasi. L’elemento di partenza della politica femminista fu il riconoscimento del disagio, della
sofferenza, della contraddizione e l’agire che da questo ne scaturisce. Questo modo di far politica indusse
aggregazioni di tipo comunitario, per “affinità di condizione”, più che di gruppi strutturati. Le prime denunce
delle donne furono a riguardo dei limiti della rivoluzione culturale studentesca. Ciò che rientrava nella sfera
sessuale continuava ad essere “un problema di donne”.
“Il giovane studente è oppresso dal sistema patriarcale, ma pone nel contempo la sua candidatura a oppressore; lo
scoppio di intolleranza dei giovani ha questo carattere di interna ambiguità. Ha soprattutto il carattere di una lotta del
figlio contro il padre, del maschio giovane contro l’anziano, di una disputa che ha per oggetto non la libertà ma il
potere. Per le donne, ritirarsi a voluto dire non riconoscersi come parte in causa in questa diatriba […] che polarizzava
oppressione e sfruttamento in un regolamento di conti esclusivamente tra padre e figlio (professore e studente, padrone
e operaio), scavalcando il soggetto che li sosteneva entrambi, la moglie, la madre, la casalinga” 27.
LA FILOSOFIA
1.La Scuola di Francoforte
La Scuola di Francoforte nacque nel 1922 come Centro di Studi sul Marxismo. L’anno successivo esso venne
denominato “Istituto per la Ricerca Sociale” (Institut für Sozialforschung). Nel 1929 la Direzione fu assunta
da Friedrich Pollock e in seguito da Max Horkheimer, docente di filosofia sociale. Nel frattempo molti
studiosi entrarono nella Scuola: Adorno, Marcuse, Fromm, Benjamin, … Il 13 Marzo 1933 l’Istituto fu
chiuso dai nazisti per “attività antistatali”. Esso venne quindi trasferito prima a Ginevra e poi, nel 1939, a
New York. Qui furono prodotte le opere più rilevanti della Scuola. Dopo la fine della guerra molti studiosi
(tra cui Marcuse) rimasero negli Usa, altri (tra cui Horkheimer e Adorno) tornarono in Germania dove
rifondarono l’Istituto. Negli anni ‘60-‘70 la Scuola fu un punto di riferimento molto importante per la rivolta
studentesca.
Le caratteristiche principali della filosofia della Scuola sono:
-
Una ripresa di Hegel e della sua dialettica, vista come critica, ma con un distacco dall’assolutizzazione e
dall’identità realtà-pensiero. È criticato il dominio della totalità sul singolo, tuttavia non vi è
un’esaltazione di quest’ultimo.
Una ripresa di Marx nella ricerca della concretezza dei fatti e nell’inserimento degli eventi considerati in
un contesto molto complesso (con l’applicazione di vari punti di vista); una forte critica nei confronti del
determinismo storico.
La critica alla società borghese capitalistica, che riduce l’uomo a oggetto (reificazione); lo studio del
passaggio da una ragione al servizio dell’uomo a una ragione totalitaria e repressiva.
Università: l’ipotesi rivoluzionaria, Manifesto degli studenti, da G. Statera, in Storia di una utopia. Ascesa
e declino dei movimenti studenteschi europe, cit..
27
L’offensiva in <<Quaderni di lotta femminista>>, Torino, Musolini, 1974
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“Una volta si credeva che ogni frase, parola, grido o gesto avesse un intrinseco significato; oggi sono solo un
incidente.” (Adorno – Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo)
-
L’interesse storico e sociologico, legato a quello psicologico - psicoanalitico.
Theodor Wiesengrund-Adorno
Adorno nasce nel 1903 a Francoforte. È figlio di un commerciante ebreo e di un’italiana, di cui assume il
cognome. Studia nell’Università locale dove si laurea nel 1924, divenendo in seguito libero docente. Entra a
far parte dell’Istituto per la Ricerca Sociale. Nel 1941 scrive con Horkheimer Dialettica dell’Illuminismo,
nel 1942 Minima Moralia (pubblicato nel 1951). Tornato in Germania nel 1949, è dal 1951 vicedirettore e
dal 1958 fino alla morte direttore dell’Istituto per la Ricerca Sociale. A questo periodo risalgono Prismi.
Saggi sulla critica della cultura (1955), Dialettica negativa (1966) e Teoria estetica (pubblicata postuma nel
1970). Nel 1969, Adorno si oppone alla rivolta studentesca scoppiata nell’Università (non esita a rivolgersi
alla polizia); il 6 agosto muore in Svizzera per un attacco di cuore.
Aspetti della filosofia
La dialettica
Adorno distingue, nella conoscenza della realtà, un approccio di tipo positivo e uno di tipo negativo. Le
filosofie del passato sono positive, cioè tendono a creare un “sistema filosofico” che non rispecchia la realtà.
Adorno, invece, introduce il concetto di dialettica negativa. La dialettica è fondamentalmente quella di
Hegel, tuttavia Adorno critica il sistema hegeliano nel suo congiungimento di soggetto e oggetto, di pensiero
e realtà, e nella sua convinzione della possibilità di comprendere per intero la realtà (afferma infatti nei
Minima Moralia che “il tutto è il falso”, ribaltando il motto hegeliano “il vero è il tutto”). Adorno rifiuta un
“sistema” filosofico, ricercando invece il secondario, il negativo, il diverso, recuperando tutto ciò che la
società umana cancella. Hegel riteneva che il diverso dovesse ricongiungersi al tutto, invece Adorno sostiene
la non-esistenza di una totalità, ma solo di molti “particolari”. Hegel vedeva l’utilità della dialettica come
strumento di instaurazione del positivo, Adorno la utilizza per la critica, senza cancellarne la negatività nella
creazione di un tutto.
La critica alla società
Adorno si pone in una posizione radicalmente critica nei confronti della società capitalistica, in quanto essa
riduce le possibilità dell’uomo inserendolo nel ciclo del consumo e attuando un’alterazione dei rapporti
umani. Adorno esamina il rapporto tra pubblico e privato, e ci presenta una società totalitaria, che rinchiude
il singolo e lo ammalia con falsi bisogni. Fondamentalmente, le posizioni politiche di Adorno si rifanno a
quelle di Marx. L’ideale politico di Adorno è quindi una società basata sulla libertà dell’individuo. La società
borghese è vista invece come una fonte di asservimento che reprime l’individuo. Adorno parla di “industria
culturale” per indicare tutti i mass-media, cioè gli strumenti di indottrinamento utilizzati dal sistema. Valori,
bisogni, modelli sono imposti ed uguali per tutti, e ognuno li riceve passivamente. L’individuo si annulla,
diviene qualcosa di standardizzato. Questo conduce l’uomo all’infelicità.
Minima Moralia
Meditazioni della vita offesa
I Minima Moralia sono 153 aforismi scritti da Adorno tra il 1944 ed il 1947. Qui Adorno presenta le proprie
riflessioni su moltissimi aspetti della realtà, dalla filosofia ad un’indagine specifica dei rapporti sociali. La
forma degli aforismi è scelta conformemente alla filosofia di Adorno, per esprimere cioè il particolare, non
inserito in un quadro complessivo. In realtà tutti gli aforismi presentano lo stesso obiettivo, quindi l’opera
può essere considerata organica. Il sottotitolo dell’opera ne esprime bene il tema: la vita è offesa dalla
condizione dell’uomo nella società, che lo porta ad essere schiavo di convenzioni che non sono dettate da un
principio di libertà e di convivenza civile ma da una vera e propria struttura repressiva (il sistema) che
impone determinati valori e bisogni agli uomini, che vengono così privati della propria individualità e al
tempo stesso rinchiusi in un “ privato” che non è più reale ma illusorio. La cancellazione delle differenze è
avversata da Adorno quando porta alla perdita del particolare, ad un’unitarietà imposta che non ha ragione di
essere.
Famiglia e rapporti generazionali
Nella società antagonistica anche il rapporto delle generazioni è un rapporto di concorrenza, dietro cui si
nasconde la violenza pura e semplice. (…) Con la famiglia – perdurando il sistema – è scomparso non solo
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l’organo più efficiente della borghesia, ma la resistenza che, se opprimeva l’individuo, d’altro canto lo
rafforzava, o addirittura lo produceva.
Rapporto uomo-donna
Il matrimonio come comunità d’interessi significa inevitabilmente la degradazione dei partecipanti, e la perfidia
dell’ordinamento del mondo è che nessuno, anche se ne fosse consapevole, potrebbe sfuggire a questa degradazione.
L’universale si rivela, in occasione del divorzio, come il marchio d’infamia del particolare, poiché il particolare, il
matrimonio, non è in grado di realizzare, in questa società, il vero universale.
Borghesia
Il privato è trapassato definitivamente nel privativo, e cioè nella privazione che era stato in fondo da sempre, e al cieco
attaccamento al proprio interesse particolare si è aggiunta e mescolata la rabbia di non essere più nemmeno in grado di
vedere e di capire che le cose potrebbero andare anche diversamente e in modo migliore. I borghesi hanno perduto la
loro ingenuità e ciò li ha resi del tutto incaponiti, impenitenti e malvagi. (…) Così la classe perviene a se stessa e fa
propria la volontà distruttiva del corso del mondo.
Uomo – oggetto
In linea di principio tutti, anche i più potenti, sono ridotti alla stregua di oggetti. (…) La conseguenza che ne deriva
immediatamente è che chiunque cerca di salvarsi dovrebbe vivere, nello stesso tempo, in modo da poter porre termine
alla propria vita in qualsiasi momento. (…) Il singolo in quanto tale, nella misura in cui funge da rappresentante del
genere uomo, ha perduto l’autonomia con cui potrebbe realizzare il genere.
Condizione dell’intellettuale
Così si provvede alla conservazione dell’ordine: gli uni debbono collaborare perché altrimenti non potrebbero vivere, e
quelli che potrebbero vivere altrimenti, vengono tenuti al bando perché non vogliono collaborare. È la vendetta della
classe disertata dagli intellettuali indipendenti: le sue esigenze s’impongono fatalmente proprio là dove il disertore cerca
rifugio.
Individuo e società
In generale, l’individuo non è solo il sostrato biologico, ma – nello stesso tempo – la forma riflessa del processo sociale,
e la sua coscienza di se stesso come di un essente-in-sé è l’apparenza di cui ha bisogno per intensificare la propria
attività produttività, mentre di fatto l’individuo, nell’economia moderna, funge da semplice agente della legge del
valore.
La società è integrale prima ancora di essere governata in modo totalitario. La sua organizzazione abbraccia e
ricomprende in sé anche quelli che la combattono, e uniforma e modella la loro coscienza. Anche gli intellettuali (…)
soccombono, per così dire, a un processo di standardizzazione.
È solo in virtù di una regressione permanente che le classi inferiori vengono poste in grado di adempiere alle prestazioni
ottuse e brutali che la civiltà padronale esige da esse. (…) L’assurdità si perpetua e si riproduce mediante se stessa; il
dominio si tramanda attraverso i dominati.
La cultura prospetta l’immagine di una società umana che non esiste; copre e dissimula le condizioni materiali su cui si
eleva tutto ciò che è umano, e, con la sua azione calmante e consolatrice, contribuisce a mantenere in vita la cattiva
struttura economica dell’esistenza.
Industria culturale
L’industria culturale pretende ipocritamente di regolarsi sui consumatori e di fornire loro ciò che desiderano.Ma mentre
si studia di respingere ogni idea di autonomia ed erige a giudici le sue vittime, la sua autarchia e sovranità effettiva –
che essa cerca invano di nascondere - supera tutti gli eccessi dell’arte più “autonoma”. L’industria culturale, anziché
adattarsi alle reazioni dei clienti, le crea o le inventa. Essa gliele inculca, conducendosi come se fosse anch’essa un
cliente.
“Il tutto è il falso”
2. Marcuse
“L’uomo a una dimensione”
Herbert Marcuse nasce a Berlino nel 1898 da una famiglia ebraica dell’alta borghesia. Iscrittosi all’SPD nel
1917, nutre simpatia, per la lega di Spartaco, pur non facendovi parte. Infatti dopo l’assassinio di Rosa
Luxemburg e di Karl Liebnecht esce per protesta dall’SPD. Agli inizi degli anni trenta entra in contatto con
la Scuola di Francoforte, collaborando con Horkheimer. Trasferitosi negli USA all’avvento del nazismo
ottiene la cattedra di filosofia e politologia presso l’università di Boston; tuttavia questa gli verrà tolta pochi
anni dopo per le sue idee marxiste.
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Nel 1964 scrive “L’uomo a una dimensione” che viene pubblicato in Europa e in Italia nel 1967 e che
diventa immediatamente un testo di riferimento per il movimento sessantottino soprattutto per quanto
riguarda la sua parte studentesca; è utile dunque precisare la posizione di Marcuse su tale movimento: egli è
infatti critico nei confronti di quanto accade poiché non include gli studenti in quella che egli considera la
forza rivoluzionaria che permetterà un drastico cambiamento sul piano sociale e dunque un miglioramento
della condizione dell’uomo.
Nel 1966 è nominato docente onorario dell’Università libera di Berlino Ovest in cui nel 1967 partecipò ad un
dibattito sul movimento studentesco che ebbe in effetti in lui uno dei propri ispiratori durante il Sessantotto.
Già nell’introduzione del libro incontriamo alcuni concetti molto interessanti, soprattutto per la popolarità
che raggiunsero all’interno del movimento studentesco; tra questi probabilmente il più famoso è il concetto
di Sistema che viene definito all’interno della dichiarazione dello scopo che l’autore si prefigge nella
scrittura del libro: “L’analisi è centrata sulla società industriale avanzata, il cui apparato tecnico di
produzione e di distribuzione funziona non come la somma dei semplici strumenti, che possono essere isolati
dai loro effetti sociali e politici, ma piuttosto come un Sistema che determina a priori il prodotto
dell’apparato non meno che le operazioni necessarie per alimentarlo ed espanderlo. In questa società
l’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le operazioni,
le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali”
Nel primo capitolo Marcuse introduce le forme di controllo usate nella società: “una confortevole, levigata,
ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico.
In verità che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità nel corso della
meccanizzazione di attività socialmente necessarie ma faticose. [..] Le libertà di pensiero, di parola e di
coscienza erano idee essenzialmente critiche, al pari della libertà di iniziativa, che servivano a promuovere
e a proteggere, intese com’erano a sostituire una cultura materiale e intellettuale obsolescente con una più
produttiva e razionale. Una volta istituzionalizzati questi diritti e libertà condivisero il fato della società di
cui erano diventate parte integrante. La realizzazione elimina le premesse. [..] In presenza di un livello di
vita via via più elevato, il non conformarsi al sistema sembra essere socialmente inutile, tanto più quando la
cosa comporta tangibili svantaggi economici e politici e pone in pericolo il fluido operare del sistema”
Secondo Marcuse la società industriale avanzata controlla gli individui introducendo, in misura crescente con
la ricchezza che riesce a produrre, nuovi bisogni che egli definisce “falsi”; questi vengono percepiti come
necessari dall’individuo che, non potendo rinunciare ad essi, finisce con il conformarsi agli schemi imposti
dal Sistema. “I bisogni falsi sono quelli che vengono sovraimposti all’individuo da parte di interessi sociali
particolari per cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l’aggressività e la
miseria dell’uomo”. Poste queste premesse che mostrano in modo deciso come la società industriale non
garantisca le principali libertà dell’individuo, nel secondo capitolo Marcuse analizza come questo fatto
incida sull’azione politica. L’universo politico viene definito, nello steso titolo, come chiuso; infatti ogni
mutamento sociale viene contenuto cercando di impedire che le forze rivoluzionarie possano prendere
coscienza della propria forza e delle alternative politiche che si nascondono oltre i limiti imposti dal sistema.
Dopo aver discusso l’integrazione politica della società industriale avanzata, Marcuse prende in
considerazione l’integrazione che corrisponde nel regno della cultura “Quello che si verifica non è tanto il
degenerare dell’alta cultura in cultura di massa, quanto la confutazione della prima da parte della realtà. Ai
giorni nostri l’aspetto nuovo è l’appiattirsi dell’antagonismo tra cultura e realtà sociale tramite la
distruzione dei nuclei di opposizione, di trascendenza, di estraneità contenuti nell’alta cultura in virtù dei
quali essa costituiva un’altra dimensione della realtà”.
Proprio grazie a queste parole si delinea in modo sempre più dettagliato cosa Marcuse intendesse parlando di
uomo a una dimensione: nella politica come nella cultura l’uomo che vive nella società industriale è privato
nella possibilità di concepire qualche cosa che sia esterno al sistema. In questo modo l’opposizione politica
come le verità che trapelano dalla letteratura e dall’arte vengono inglobate nel sistema stesso e non
rappresentano una minaccia per esso.
L’analisi di Marcuse si è spinta in ogni ambito dell’esistenza e fornisce anche un elenco di tutte le dimensioni
dell’uomo che il Sistema è riuscito a inglobare in sé e sfruttare. Continuando in questo senso Marcuse amplia
ulteriormente nel capitolo successivo il proprio ambito di indagine, analizzando come anche il linguaggio sia
cambiato per divenire più funzionale alle forme di controllo esercitate dal sistema per impedire che gli
individui possano trovare qualche via di uscita trascendente rispetto allo status quo imposto.
Nella seconda parte della sua opera Marcuse analizza quello che egli definisce come ‘pensiero a una
dimensione’, partendo dalla critica al pensiero positivo, che accetta cioè la realtà unidimensionale così come
è, ed anzi ne fornisce una sorta di apologia, a cui l’autore oppone il ‘pensiero negativo’ cioè quello che dice
come la realtà non è, ma dovrebbe essere, fornendone dunque una critica.
L’importanza che Marcuse attribuisce allo sviluppo del pensiero e della filosofia per delineare il quadro della
società totalitaria ad una dimensione va ricercato nell’affermazione, di stampo marxiano, secondo cui “la
logica del pensiero rimane la logica del dominio”, riflesso della teoria per cui il pensiero dominante è quello
della classe dominante.
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L’autore parte da una distinzione tra la dialettica di Platone e la logica formale di Aristotele, cui è
accomunata quella moderna. Per la prima verità e falsità sono condizioni dell’essere e dunque il vero si
accompagna sempre ad un giudizio di valore: il concetto ontologico di verità eleva quest’ultima al di sopra
della realtà storica, ponendosi alla base di un universo di discorso a due dimensioni, ciò che “è” e ciò che
“dovrebbe essere”. “La realtà data ha la sua propria logica e la sua propria verità; lo sforzo di
comprenderle come tali e di trascenderle presuppone una logica differente, una verità contraddittoria”.
Marcuse vede dunque la necessità di liberarsi dalla logica formale e dalla sua oggettività illusoria. L’autore
critica infatti aspramente “l’ordine oggettivo delle cose” che viene utilizzato per continuare il dominio
dell’uomo sull’uomo: per difendere i tangibili benefici del sistema, vi è una sorta di asservimento ad esso,
espresso nella formula teorizzata da Marcuse della mimesi: “l’identificazione immediata dell’individuo con
la società come un tutto” che lo porta a non vederne le grandi contraddizioni. L’unica razionalità accettata è
quella dominante ed i valori e le idee che non rientrano in essa sono bollati come puramente soggettivi e
privi di qualunque validità universale. Concetti come Buono, Bello, Pace e Giustizia sono relegati ad essere
puri ideali per il loro carattere ascientifico e dunque soltanto delle utopie irrealizzabili. Al contrario Marcuse,
pur riconoscendo il loro carattere utopico nell’accezione di ciò che ancora non esiste, sostiene che
dovrebbero invece essere considerati all’interno della logica del pensiero, nella forma di ciò che ‘dovrebbe
essere’. Marcuse passa dunque alla critica del pensiero scientifico moderno che “si bassa sull’a priori
tecnologico che scorge nella natura null’altro che materia da controllare”. In uno dei passaggi più
importanti del testo l’autore sostiene come tale dominio della natura sia strettamente legato a quello
sull’uomo,a causa dell’apparato tecnologico, poiché nella società occidentale moderna “l’asservimento
dell’uomo è garantito non con il Terrore, ma con la Tecnologia". Rompere tale sottomissione potrebbe
quindi portare la scienza ad una nuova funzione e cioè porsi alla base di quella che Marcuse considera la
società effettivamente razionale che si configura, di fatto, come la società comunista.
Marcuse dedica poi un intero capitolo alla critica e confutazione del positivismo, definito come la corrente
filosofica per cui la validazione del pensiero può avvenire solo tramite l’esperienza e per cui le scienze
fisiche costituiscono un modello di certezza da cui deriverebbe il progresso. Esso tende a “ridurre la portata
e la verità della filosofia”, lasciando intatta la realtà stabilita. Alcuni positivisti, come Wittgenstein, ridussero
di fatto la filosofia all’analisi linguistica supponendo una corrispondenza di verità tra le parole ed i concetti
da esse espressi e sostenendo la necessità di far corrispondere questi ultimi in modo chiaro ed univoco alla
parole del lignaggio comune. Partendo proprio da questo punto Marcuse muove la sua critica al positivismo:
è impossibile infatti per lui ridurre il pensiero filosofico al linguaggio di uso comune, principalmente per due
fattori. Prima di tutto l’incompiutezza inevitabile di alcuni concetti come ‘uomo’,’idea’,’giustizia’,ecc; poi
per la dimensione storica delle parole che va oltre sia il senso stabilito sia la logica formale. I concetti
universali sono dunque intrinsecamente antagonisti al regno del discorso comune ed al pensiero ad una
dimensione, proprio perché portano a pensare come la realtà dovrebbe essere.
Per vincere la portata ‘rivoluzionaria’ dei concetti universali la filosofia moderna li traduce in una serie di
particolari operazioni (operazionismo), contraddicendo la loro stessa essenza. L’universale infatti allude a
qualcosa che supera ogni esperienza: “essi sintetizzano contenuti fondati sull’esperienza in idee che
trascendono le loro realizzazioni particolari come qualcosa che va superato”, per esempio “il concetto di
libertà comprende tutta la libertà non ancora ottenuta”. Il valore di tali concetti è dato unicamente dal loro
carattere storico, così che per quanto riguarda la società essa ha tanto più valore di ‘verità storica’, cioè di
validità, quanto più realizza “le possibilità reali che si aprono al livello raggiunto della cultura materiale ed
intellettuale”, “offrendo maggiori occasioni per la pacificazione dell’esistenza”. Riprendendo ciò che già
aveva sostenuto in precedenza Marcuse afferma come dunque la società capitalistica occidentale non sia la
più valida, in quanto non è la più razionale possibile, impedendo il sostentamento di tutti gli uomini
attraverso le grandi risorse a disposizione. Ritorna dunque la proposta di una società comunista, anche se, va
specificato, ben lontana da ciò che in quegli anni era l’URSS: Marcuse, come tutta la scuola di Francoforte,
condanna il socialismo sovietico, definito da Pollock capitalismo di stato.
Nelle “Conclusioni” l’autore ritorna su alcuni temi già trattati quale l’importanza della filosofia, e dell’arte,
nel mostrare consapevolmente la divergenza tra reale e possibile e la necessità di una nuova scienza. Il fine
dovrà dunque essere la pacificazione e “la soddisfazione dei bisogni materiali dell’uomo, l’organizzazione
razionale del regno della necessità”. Marcuse si pone però a questo punto il problema di come arrivare a tale
nuova società, quali siano cioè le possibili forze rivoluzionarie, constatata la proposta ormai inefficace di
Marx del proletariato urbano che è diventato parte integrante della società e si riconosce in essa. “Tuttavia la
di sotto della base popolare conservatrice vi è il sostrato di reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei
perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del
processo democratico […] perciò la loro opposizione è rivoluzionaria, anche se non lo è la loro coscienza”
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Per ovviare a tale lacuna vi è tuttavia la possibilità che tale forza, la componente più sfruttata dell’umanità,
venga a contatto con la coscienza più avanzata. Rimane tuttavia il dubbio e la possibilità che la società
avanzata sia in grado di reprimere qualunque mutamento qualitativo; esso rimane, prima di tutto, una
speranza.
LA LETTERATURA
Le opere che qui presentiamo hanno caratteristiche differenti e testimoniano solo in piccola parte il
complesso rapporto tra la letteratura e la realtà sociale, politica, esistenziale, tra la letteratura. e la storia
Il romanzo di Jack Kerouac, pubblicato nel 1957, dà espressione, nella letteratura americana, alla volontà di
rivolta delle giovani generazioni. Episodico, non strutturato, scritto in “tre settimane”, ebbe immediato
successo e diventò presto il simbolo di un modo nuovo sia di vivere che di scrivere: appunto “on the road”.
Il sovversivo di Corrado Stajano, pubblicato nel 1975, racconta la morte di un ragazzo di vent’anni ferito e
arrestato a Pisa nel maggio del 1972, durante una manifestazione. La narrazione della vicenda è affidata a
scarni documenti: (resoconti di verbali, testimonianze raccolte direttamente dall’autore). E’ un’aspra
denuncia che esprime il clima cupo e violento degli anni settanta.
Andrea De Carlo, nel romanzo Due di Due , pubblicato nel 1978, racconta la storia di un’amicizia tra due
ragazzi che frequentavano il liceo alla fine degli anni Sessanta e rievoca gli anni della contestazione a
Milano, con una scrittura lontana da modelli letterari, veloce, cinematografica.
I testi poetici, pubblicati proprio negli anni della contestazione, esprimono punti di vista distaccati e ironici
sul presente, mettono in guardia contro semplificazioni celebrative e sono un invito a riflettere sul valore
della storia.
1.La letteratura americana: Kerouac e la Beat Generation.
“Dobbiamo andare e non fermarci mai finché non siamo arrivati/Dove andiamo?/Non lo so, ma
dobbiamo andare.”
A cavallo degli anni ’50 e ’60, accanto all’insorgere dei primi movimenti giovanili/studenteschi in America
ed Europa, si sviluppa, in sintonia col carattere di innovazione e di protesta della nuova generazione, un
nuovo modo di percepire e fare letteratura, mirato ad un rinnovamento della stessa, a livello sia estetico che
morale.
Un ruolo importante di questo movimento (se tale si può definire), va sicuramente attribuito alla scena
letteraria Americana, che vede in quel momento, tra i suoi più grandi rappresentanti, lo scrittore Jack
Kerouac, che ha dipinto un perfetto ritratto della Beat Generation nei suoi due più importanti lavori: “On the
road” e “The subterraneans”.
Ma cos’è in realtà la Beat Generation? Fernanda Pivano, profonda conoscitrice e vera autorità nel campo
della letteratura made in U.S.A., ce lo spiega in un suo saggio del ’59, pubblicato dalla Mondadori come
premessa alla prima edizione italiana di “On the road”.
Bisogna però prima di tutto fare un quadro generale della situazione culturale e giovanile americana.
San Francisco diventa la nuova capitale letteraria d’America, ospita infatti le nuove correnti d’avanguardia e
diventa meta di gran parte degli intellettuali e degli artisti statunitensi; come ci riferisce la Pivano: “Vi
affluirono artisti famosi e giovani speranzosi, vecchi dadaisti e ragazzi ribelli; finché anche l’estrema
avanguardia si spostò da New York in California e San Francisco divenne la nuova culla delle arti
americane”.
E’ in una efficacissima frase di Kenneth Rexroth, citata dalla Pivano, in cui si può capire come le cose si
stessero muovendo: “La tutela delle intelligenze ha formato una spessa crosta di abitudini sulla vita
culturale americana: peggio di uno strato di ghiaccio. Di recente l’acqua che vive sotto di esso è diventata
così ribollente che lo strato di ghiaccio ha cominciato a fondersi, e spezzarsi, e a dirigersi verso l’oblio
artico”.
I “sotterranei” stavano cominciando ad emergere, e non si sarebbe mai più tornati indietro.
Inoltre, al contrario di quanto si potrebbe pensare, questi nuovi artisti e letterati sono per lo più giovani
inesperti, senza impieghi letterari: “Non sono professori o scrittori professionisti aggrappati a un impiego in case
editrici o giornali, ma giovani per lo più disperati ed inquieti, che credono nella vita ma respingono i sistemi morali e
sociali precostituiti e vogliono scoprirne da sé dei nuovi sperando- o illudendosi- di trovarli più efficienti. Il loro
problema è il problema di tutti i giovani, e specialmente dei giovani che affrontano l’esistenza di un dopoguerra, ma la
loro caratteristica è stata di svelare, senza paure o falsi pudori, gli aspetti di certa adolescenza americana
contemporanea”.
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Spesso scambiati per volgari edonisti o per semplici esemplari di una generazione allo sfascio (la famosa
“Gioventù bruciata”), in realtà questi giovani si rendono protagonisti di una vera e propria riforma “morale”
della letteratura: partiti infatti da una necessità di risposte, di chiarire i dubbi che l’età moderna ha alimentato
in loro, privandoli così di ogni minima fiducia in loro stessi, cominciano una ricerca morale di nuove
certezze e nuovi valori.
“..I giovani d’oggi hanno subìto una serie di violenze psicologiche che tendono tutte ad annullare l’importanza
dell’individuo come essere umano nella realizzazione di programmi ultraterreni ed ultraumani/…e il conformismo
livellatore e soffocante di una società di massa sempre più anonima e impersonale li attanaglia e li soffoca inducendoli
a un silenzio inquieto e risentito, carico di rancori e di complessi: un silenzio soprattutto da incompresi./ Il
livellamento del collettivismo, basato su un benessere uniforme e generale, pianifica la società in programmi
impersonali nei quali l’individuo ha solo compiti associati”.
Il punto di partenza per esercitare dei miglioramenti nella società resta comunque sempre lo stesso per tutti,
siano essi giovani artisti, teppisti o comuni figli di famiglie borghesi: “Il rifiuto di tutte le norme e di tutti i
valori morali ortodossi o convenzionali”. E inoltre “la violenza che esercitano su se stessi per svincolarsi da un
impianto morale estraneo e rinnegato, non ha niente a che fare con una rivolta contro la società: non cercano adepti,
cercano solo di distruggere in se stessi quanto vi rimane immesso dagli altri”.
Questo è forse l’aspetto prevalente di “On the road”, i cui personaggi non esitano a ricorrere a folli corse in
macchina, all’abuso di alcol e di droghe al fine di svincolare la personalità dall’esterno, sganciandola dalle
leggi morali o intellettuali. C’è una ricerca disperata di un valore nuovo, a costo di dover prima partire dalla
distruzione di altri valori per trovarlo; è quindi sostanzialmente la ricerca di una fede, qualcosa in cui credere
fermamente e sui cui poter basare le proprie certezze.
E’ questo il vero dramma della Beat Generation: non è rimasto più nulla da denunciare o condannare, è
necessario solo continuare a cercare, senza sosta, i pezzi con cui ricostruire una realtà ormai frantumata.
2.C. Stajano - Il sovversivo
Vita e morte dell’anarchico Serantini
“Il Sovversivo” di Stajano è scritto in uno dei periodi più tesi della storia recente; esso si colloca in una
posizione particolare rispetto alle opere contemporanee: tralascia ogni tentazione romanzesca, sposta
l’attenzione sui documenti e le testimonianze, rappresenta un caso emblematico degli aspri conflitti sociali e
politici di quegli anni. Ne nasce una analisi cruda e minuziosa di una società attraverso testimonianze dirette
e opinioni popolari, a volte piene di rabbia. L’attenzione è focalizzata su una società che non corrisponde ai
suoi dichiarati ideali democratici, che per sopravvivere cerca di trovare il coraggio della libertà e della
giustizia attraverso la manifestazione di dissenso e la protesta. La protesta e il dissenso scoppiano nei vari
strati della società, dalla classe operaia alle scuole. Infatti la funzione della scuola come: ” ….. il luogo di
produzione della forza-lavoro in formazione” e dello studente come “figura sociale subordinata non solo nel
rapporto con la sua futura collocazione salariale nel processo produttivo, ma già nella sua attività universitaria ” non
viene più accettata dagli studenti. Così “ Il 1968 è l’anno delle università, con Trento e Torino anche Pisa diventa
subito una delle capitali della rivolta studentesca.”
La storia sullo sfondo è quella di Franco Serantini orfano adottato da istituti e riformatori :”Franco non è un
personaggio, non lo sarà mai, non ha nulla che lo distingua, solo il desiderio. Non ha il carattere facile, come
tutti i ragazzi del riformatorio, è angosciato, ribelle per bisogno di affetto ”. Questo ne fa un “figlio di nessuno
nella vita come nella morte”, anarchico per rifiuto dell’autorità violenta impostagli dall’organizzazione
sociale. La prima parte è una descrizione della crescita del protagonista, i guai, i trasferimenti e i disguidi
burocratici culminati nella sentenza del tribunale a cui si erano rivolte le suore dell’istituto nel quale il
Serantini si trovava. Messe in difficoltà dal comportamento irrequieto del ragazzo ne avevano richiesto il
trasferimento per incompatibilità con l’ambiente. ”…Il tribunale decide. Un capolavoro dell’assurdo: Siccome la
personalità del giovane appare gravemente disturbata per assoluta carenza affettiva e lunga istituzionalizzazione…la
personalità del soggetto deve essere bene aiutata con un intervento comprensivo e sostenitore….per rimediare alla
lunga istituzionalizzazione subita deve essere rinchiuso al riformatorio ”. La crescita del ragazzo viene analizzata
parallelamente all’evoluzione storica della società, due percorsi che finiranno per incrociarsi il giorno in cui
Franco sarà ucciso brutalmente in seguito alle ferite riportate durante una manifestazione politica degenerata
in guerriglia urbana. La morte dell’anarchico Serantini viene raccontata e descritta attraverso la
testimonianza diretta delle persone che seguirono da vicino il suo arresto sostenendo unanimemente come
Serantini , in prigione, avesse “la faccia di un morto” e si vedesse che “non si reggeva in piedi, era palese
che stava molto male”. Questo ci lascia un’ulteriore idea dell’orrore al quale il ragazzo era stato sottoposto e
del pressappochismo con il quale il suo caso era stato liquidato oltre che sottolineare le gravi responsabilità e
lacune del sistema giudiziario. Il testo si articola in una descrizione critica del periodo delle rivolte sociali e
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del periodo successivo “trascorso nel tentativo di restaurare “l’ordine” in un paese stanco, ripiegato rispetto alle
accessioni politiche e sindacali del 1968 e del 1969…..ma la volontà riformatrice è formale, predicatoria, lo stato
vacilla, la scuola, la giustizia, gli ospedali, i carceri, i codici, la burocrazia sono inefficienti strutture dall’anima
borbonica, giolittiana, fascista, non più in grado di soddisfare i bisogni di una società profondamente mutata .”
Prendendo come spunto l’eccesso, la morte di un giovane abbandonato da tutto e da tutti durante la vita e
ignorato mentre stava morendo, il libro mette a nudo i mali di un sistema ingiusto e contraddittorio e di una
società che aveva bisogno di cambiare. Lo stile non letterario del testo, basato sui documenti e non sulla
storia nel senso di romanzo, rappresenta un rifiuto della tradizione determinato dal contesto storico.
3.A. De Carlo - Due di Due,
Andrea De Carlo, scrittore milanese nato nel ’52, scrive questo romanzo nel ’78, dieci anni dopo i movimenti
di contestazione del ’68 che egli ha vissuto da sedicenne, proprio come i due protagonisti del suo romanzo,
Mario e Guido.
Mario, studente tradizionale, pauroso di fronteggiare una realtà che non gli piace, forse banale ma comoda, si
fa trascinare dal carattere ribelle e fuori dalle norme di Guido. Questo lo porterà dopo saltuari rapporti con le
donne, la politica, l’università, i viaggi, sempre all’ombra della figura carismatica di Guido, a raggiungere
finalmente un equilibrio stabile col mondo, lontano dalle città inquinate, da quella realtà che per troppo
tempo lo ha reso vittima ed estraneo, un ritorno alla natura, vista come unica salvezza, contro il consumismo
e il conformismo.
Guido, personaggio strano da capire, fuori da qualsiasi schema politico, scolastico, familiare. Assume il ruolo
di guida e di esempio per Mario, che cercherà sempre, o quasi, di assomigliargli e di seguirlo in ogni sua
scelta.
All’inizio del romanzo è Guido il protagonista, infatti è lui che decide le assemblee e le manifestazioni a cui
partecipare, e i pensieri politici e le ideologie da seguire.
Insieme i due ragazzi seguono un percorso di formazione che li porterà a crescere.
Attraverso i pestaggi subiti, le assemblee nella palestra della scuola, le manifestazioni, Guido e Mario
diventano consci di ciò che fanno e di ciò che pensano.
Mario descrive la prima assemblea a scuola: “…Il cancello sul cortile era spalancato, c’erano ragazzi che
flottavano dentro, andavano di corsa dentro la palestra[…] C’erano centinaia di studenti di sezioni e classi diverse, e
nella faccia di ognuno si poteva leggere la sorpresa di aver travalicato le cornici implacabili degli orari e dei luoghi
deputati per mescolarsi in questo modo libero e confuso[…] Poi ho visto Guido… mi ha battuto una mano su un
braccio, detto –Ehi!-…-Non è incredibile?- Ma il giorno dopo eravamo di nuovo in classe, la palestra sotto di noi era
tornata un contenitore di attività prescritte in orari prescritti…”
Guido prende parola ad una seconda assemblea scolastica: ”E’ colpa di questa scuola se questo paese è così
vecchio e deteriorato e fuori dal mondo. Tutti i bastardi che ci governano e dirigono e insegnano sono venuti fuori da
qui, sono cresciuti con questo schifo…E’ incredibile quante cose potremmo imparare, se dedicassimo a interessi vivi il
tempo che adesso buttiamo via per memorizzare relitti di dati in questo museo di cadaveri…potremmo conoscere il
mondo…”
Guido leggeva Marx, Lenin, Kropotkin, Bakunin e tutti gli autori che venivano citati spesso dagli studenti
nelle assemblee e nelle manifestazioni; così anche Mario legge e si documenta.
Man mano che le manifestazioni e il movimento prendono piede i due si formano idee personali sui vari
punti di vista e ideali che si vanno affermando, ma sono gli anarchici che li ispirano maggiormente.
Partecipano alle loro assemblee e durante le manifestazioni si schierano con loro.
Guido aveva un odio per i materiali e le forme innaturali, le gabbie architettoniche e le alterazioni chimiche
degli elementi: “Quasi tutto quello che viene prodotto dalle industrie serve solo per dare alla gente ragioni di
spendere i soldi che guadagna con lavori che non farebbe mai se non dovesse guadagnare. I negozi sono pieni di
accessori inutili e giocattoli che si rompono e vestiti che passano di moda…Tutti sono in prestito tutto il tempo, devono
comprare quello che gli serve e non gli basta mai…Ma una volta che le industrie sono distrutte, e i luoghi dove la gente
vive tornano ad essere piacevoli, e il denaro non esiste più, nessuno ha più bisogno di oggetti per sentirsi felice”
Guido immaginava un mondo ideale come “un sistema di villaggi autosufficienti che vivono di agricoltura e
artigianato, legati tra loro tra reti di scambio e comunicazioni…”
Sarà il progetto che Mario riuscirà a mettere in atto dopo il distacco da Guido. Infatti dopo questa prima fase
di formazione, i due perdono interesse per la scena politica che viene proposta loro e si allontanano da essa
interessandosi d’altro. Questo però determina un distacco anche tra i due, che seguono strade diverse, come
se il filo che li legava si fosse assottigliato. Avvengono nel corso degli anni in cui le vicende si snodano vari
allontanamenti e avvicinamenti, e viaggi e storie d’amore.
31
Dopo di che sembra che Mario trovi se stesso andando a vivere in un cascinale ristrutturato coi soldi
lasciatigli del patrigno. Lì può vivere con la sua compagna e i suoi figli nel modo più antico e naturale:
coltivando i campi con l’ uso di macchinari rudimentali ma efficaci, vivendo un po’ fuori dal mondo ma felici
di esserlo.
In questa seconda parte del romanzo è infatti Mario il protagonista; Guido appare e scompare come al suo
solito per poi scomparire definitivamente morendo in un incidente stradale causato dalla sua dipendenza
dall’alcool. Forte dipendenza dovuta forse ad un disagio interiore per non essere riuscito a raggiungere ciò
che desiderava e che cercava da tutta una vita. Due di Due è un romanzo che oltre a presentare la storia di
un’amicizia, presenta uno spaccato sentito di quello che era stato il movimento del sessantotto agli occhi di
due sedicenni.
partono in ordine, sfidano: ecco tutto.
E la tua consolazione insolazione e la mia, frutto
di quest’inverno, allenate, alleate
sui vertici vitrei del sempre, sui margini nevati
del mai-mai-non-lasciai-andare,
e la stella che brucia nel suo riccio
e la castagna tratta dal ghiaccio
e – tutto – e tutto-eros, tutto-lib, libertà nel laccio
nell’abbraccio mi sta: ci sta,
ci sta all’invito, sta nel programma, nella faccenda.
Un sorriso, vero? E la vi(ta) (id-vid)
Quella di cui non si può nulla, non ipotizzare,
sulla soglia si fa (accarezzare?).
Ovoè lungo i ghiacci e le colture dei colori
E i rassicurati lavoridegli ori.
Pronto. A chi parlo? Riallacciare.
E sono pronto, in fase d’immortale,
per uno sketch-idea della neve, per un suo guizzo.
Pronto.
Alla, della perfetta.
4. A. Zanzotto - La beltà
Da La beltà
La perfezione della neve
Quante perfezioni, quante
quante totalità. Pungendo aggiunge.
E poi astrazioni astrificazioni formulazione d’astri
assideramento, attraverso sidera e coelos
assideramenti assimilazioninel perfezionato procederei
più in là del grande abbaglio, del pieno e del vuoto,
ricercherei procedimenti
risaltando, evitando
dubbiose tenebrose; saprei direi.
Ma come ci soffolce, quanta è l’ubertà nivale
Come vale: a valle del mattino a valle
a monte della luce plurifonte.
Mi sono di mezzo a questo movimento[ mancamento radiale
ahi il primo brivido del salire, del capire,
“ E’ tutto, potete andare.”
Nel 1968 esce La Beltà, di Andrea Zanzotto, “uno dei libri più sorprendenti ed innovativi della letteratura
italiana del dopoguerra, la cui sconcertante originalità, …, ha diviso in campi avversi il giudizio dei lettori.
La raccolta matura in anni in cui il mondo occidentale è agitato da inquietudine, insofferenza, acuto
malessere, quando si fa evidente la tensione consumistica e industriale che attenta da ogni parte agli antichi
equilibri esistenziali, individuali e collettivi. La pubblicazione dell’opera, nella aprile del 1968, è
singolarmente contemporanea all’esplosione della protesta del movimento studentesco. Occorre perciò che si
attraversi La Beltà muovendo assiduamente dal suo aspetto linguistico-formale, per certi aspetti totalizzante
e paralizzante, verso i legami espliciti e sottesi con la storia che tramano i testi, per capire di che cosa si nutra
questa poesia, sottile e attenta premonitrice per gli anni a venire”. 28
5. G. Giudici - Autobiologia
Giovanni Giudici, poeta, traduttore e saggista, giornalista e impiegato all'Olivetti, pubblicò nel '69
"Autobiologia”, da cui è tratto il testo proposto. Egli rappresenta una voce della controparte del movimento
del sessantotto, del quale fa appunto un’ironica presentazione in “Biologia”. La sua interpretazione ci mostra
un ’68 come evento strettamente generazionale, una rivolta dei figli contro i padri, che può sembrare
eccezionale a chi lo sta vivendo, ma di cui in realtà, come per un fatto già accaduto, sono prevedibili i futuri
sviluppi. Il testo, racchiude in sé un paradosso, sottolineato, quasi come in una sentenza, nei due versi
conclusivi, ribadendo la vanità del volontarismo e della ribellione giovanile.
Il tentativo di sminuire l’importanza degli avvenimenti di quegli anni è ripreso anche ne “La Storia”, che
mostra chiaramente come il poeta preferisca il vissuto soggettivo e frammentario delle esperienze
individuali alle prospettive ampie della lunga durata.
28
Umberto Motta, La neolingua di Zanzotto, in “Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento”, Novara, 1995
Interlinea
32
“Biologia”
Lascialo fare – è l’età.
Lascialo – non andrà
Lontano.
Lascialo che si sfoghi e si svaghi.
Lascialo all’eternità.
Lascialo tradire.
Riferiscimi esattamente le sue parole.
Uno su mille posso sbagliarmi ma non è lui.
Oh logica infallibile se tocca la pelle altrui.
Ogni pelle sotto il cielo ama il sole.
Descrivimi esattamente la situazione.
Non celarmi alcun minimo particolare.
Forniscimi gli elementi per giudicare.
Il segreto del profitto è la previsione.
Lascialo ridere – piangerà.
Lascialo bere – riavrà
Sete.
Lascialo che si alzi .
Lascialo vedere.
Lascialo gridare – tacerà.
Lascialo gemere – gli fa
Bene.
Lascialo finché ha fiato.
Lascialo credere.
Lascialo alle cellule del suo corpo.
Lascialo che si ostini nel suo gioco di pazienza.
E lascialo che ripeta – vade retro, non siamo
Insetti prevedibili api…
Raccontami esattamente com’è incominciata.
Saprò dirti la fine prima che sia finita.
Elencami atti e pensieri della giornata.
Per fabbricare la morte serve solo la vita.
Ciò esattamente, scienza della sua scienza,
è stato di lui preveduto.
Lascialo giurare – abiurerà.
Lascialo partire – tornerà
al punto.
Lascialo che sia eccezione.
Solo chi non tenta
Di salvarsi non è perduto.
“La Storia”
Lo spazio di ogni vita di uomo dura la storia – non
È vero che dura millenni.
(G. Giudici, Biologia, La Storia, in Autobiologia, Milano, Mondadori, 1969)
“La storia”
di Eugenio Montale
Pubblicato nel 1971, “Satura”, di Eugenio Montale, suscitò molte critiche per le opinioni espresse contrarie
a quelle allora prevalenti . “Satura I propone in più modi una anche aspra (fortemente ‘satirica’) polemica
contro gli eccessi dell’ideologia, le schematizzazioni, la presunzione di prevedere e redeterminare lo svolgersi della
storia. La satira montaliana irride agli schematismi dei linguaggi recenti, alle formule fatte, a una lingua ormai
pressoché priva di reali contenuti, che del resto è verbalizzazione di un vuoto culturale e politico della vicenda
29
presente.”
Abbiamo deciso di riportare qui di seguito la poesia “ La storia”, tratta appunto da Satura, perché in essa è
possibile individuare un contrasto con gli scritti che davano espressione alle posizioni dei contestatori e
quindi validi spunti di dialogo, riflessione e critica nei confronti dei temi trattati in quegli anni ; infatti,
come afferma E. Gioanola, “Lo storicismo, nelle sue varie accezioni idealistiche o marxiste, è un sistema di
spiegazioni attraverso il quale l’uomo si illude di conoscere il proprio passato in vista di un futuro da costruire
‘razionalmente’, eliminando le zone buie che hanno afflitto l’umanità passata; ed è proprio questa presunzione
razionalistica a sgomentare Montale, che sa come, in questo modo, in nome della ragione, si possano giustificare tutti
gli orrori, dalle guerre ai lager nazisti o staliniani.”
Proprio per quanto sopra espresso, abbiamo scelto questa poesia non soltanto a chiusura del discorso, ma
anche come un modo per stimolare la riflessione e il dialogo al fine di non dimenticare i vari passaggi storici
che hanno portato al definirsi dei caratteri della società odierna.
I
5
29
II
1
La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
30 Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
P. Cudini, Letteratura italiana del Novecento, Bompiani, 1999
33
15
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
10 La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi la ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.
La storia non giustifica
35
di notizie, non compie tutte le sue vendette
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più d’un pesce sfugge.
Qualche volta si incontra l’ectoplasma
40 d’uno scampato e non sembra particolarmente
[felice.]
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.
e non deplora,
20 la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra
carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
25 di niente che ci riguardi.
Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
LE MUSICHE
1.Canzoni dagli USA e dalla Gran Bretagna
Breve motivazione sulla scelta dei testi: Vogliamo qui di seguito fare un piccolo riferimento alla ragione che ci ha spinti
a scegliere certi brani musicali piuttosto che altri. Uno dei motivi fondamentali è certo l’esiguo spazio a nostra
disposizione che ci ha obbligato ad una cernita forzata delle numerose canzoni in voga in quel periodo e ancora oggi. La
difficoltà è stata quindi il riuscire a proporre quei testi che hanno segnato le tappe e la storia della contestazione. Si è
cercato di adempiere a questo fine nel miglior modo possibile:
Proponiamo quindi quelle che ci sono parse le “canzoni chiave”.
Come si può nascondere al pubblico “imagine”, da molti considerata la canzone per eccellenza di tutto il
novecento? Certo è che non si farebbe solamente un grave torto a John Lennon e Yoko Ono (autori del testo
e della musica della canzone) non mostrando le parole di questa melodia, ma si andrebbe contro a tutti quelli
che, in passato o recentemente, hanno lottato per il conseguimento di quei sogni così docilmente sottolineati
tra le righe di questa poesia.
Sì, proprio quei sogni, ma più di ogni altro il sogno che accompagnò il discorso di quel grande King, durante
quell’afoso pomeriggio a Washington nel lontano ’63, davanti ad un pubblico di oltre duecentocinquantamila
persone: un progetto fatto di pace, amore e libertà. Tutte cose che noi abbiamo ma che allora parevano così
lontane. Perché mai bianchi e neri, gialli e rossi, proprio come dice la canzone, non potrebbero vivere
insieme? E perché mai la pace, così minacciata sensibilmente in questi ultimissimi giorni come non avveniva
dai tempi del dopoguerra, non potrebbe durare per molto tempo ancora?
Blowing in the wind di Bob Dylan: una canzone che torna ad appassionarci col suo incredibile mix di
dolcezza e dubbio, scuotimento e problematicità, semplicità e pienezza di contenuti. La canzone offre seri
spunti di riflessione: denuncia, speranza, bisogno di libertà, indifferenza, rispetto per gli uomini che soffrono,
violenza della guerra. How many ears must one man have before he can hear people cry? (Quanti orecchi
deve avere un uomo prima di sentire gli altri piangere?). How many years can some people exist before
they’re allowed to be free? (Quanti anni può esistere un popolo prima di essere lasciato libero?). Queste
domande sospese nel vento, i toni leggeri ma profondi, scavano dentro le nostre coscienze ancora oggi,
colpite e violate dalla guerra e dall’odio.
Revolution 1 di John Lennon e Paul McCartney. In questa canzone si parla di una volontà di cambiare il
mondo tramite una rivoluzione-evoluzione, senza violenza, senza distruzione e odio. …. we all want to
change the world but when you talk about destruction don’t you know you can count me out ….. (Tutti noi
vogliamo cambiare il mondo ma quando tu parli di distruzione non lo sai che non puoi contare su di me). …
You ask me for a contribution well you know we’re doing what we can but when you want money for people
with minds that hate all I can tell you is brother you have to wait… (Tu mi chiedi un contributo allora tu sai
noi stiamo facendo quello che possiamo
ma quando tu vuoi soldi per persone con menti che odiano tutto ciò che ti posso dire fratello è che devi
aspettare). Questo atteggiamento di non violenza è lo stesso che anima le prime contestazioni studentesche
34
del ’68: basti ricordare la totale passività degli studenti mentre vengono allontanati dalle università con getti
d’acqua.
Imagine
John Lennon 1971
Imagine there’s no heaven
It’s easy if you try
No hell below us
Above us only sky.
Imagine all the people
Living for today…aha.
Imagine there’s no countries
It isn’t hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people
Living life in peace ..yuhuh.
You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world
Will be as one.
Imagine no possession
I wonder if you can
No need for greed not hunger
A brotherhood of man.
Imagine all the people
sharing all the world.
You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world
Will be as one.
Immagina che non esista il paradiso
E’ facile se provi
Nessun inferno sotto di noi
Sopra di noi solo il cielo.
Immagina tutta la gente
Vivere per il presente.
Immagina che non esistano frontiere,
non è difficile da fare,
nessuno per cui uccidere o morire
e nessuna religione.
Immagina tutta la gente
Vivere una vita in pace.
Puoi darmi del sognatore,
ma non sono il solo.
Spero che un giorno tu ti unirai a noi
E il mondo
sarà unito.
Immagina che non ci siano ricchezze,
mi meraviglierei se tu ci riuscissi,
né avidità né cupidigia,
una fratellanza di uomini.
Immagina che tutta la gente
Si divida tutto il mondo.
Puoi darmi del sognatore,
ma non sono il solo.
Spero che un giorno tu ti unirai a noi
E il mondo
sarà unito.
Blowing in the wind
Bob Dylan 1962
1. How many roads must a man walk down
Before you can call him a man?
Yes, ‘n’ how many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes ‘n’ how many times must the cannon balls fly
Before they’re forever banned?
The answer, my friend, is blowing in the wind.
The answer is blowing in the wind.
1. Quante strade deve percorrere un uomo
Prima che possiate chiamarlo uomo?
E quanti mari deve sorvolare una bianca colomba
Prima di dormire sulla sabbia?
E quante volte debbono volare le palle di cannone
Prima di venir proibite per sempre?
La risposta, amico mio, soffia nel vento
La risposta soffia nel vento.
2. Yes, ‘n’ how many years can a mountain exist
Before it is washed to the sea?
Yes, ‘n’ how many years can some people exist
Before they’re allowed to be free?
Yes, ‘n’ how many times can a man turn his head
And pretend that he just doesn’t see?
The answer, my friend, is blowing in the wind
The answer is blowing in the wind.
2. E quanti anni può esistere una montagna
Prima di esser dilavata, fino al mare?
E quanti anni può esistere un popolo
Prima di essere lasciato libero?
E quante volte può un uomo volgere il capo
E fingere di non vedere?
La risposta, amico mio, soffia nel vento,
la risposta soffia nel vento.
3. Yes, ‘n’ how many times must a man look up
Before he can see the sky?
Yes ‘n’ how many ears must one man have
Before he can hear people cry?
Yes, ‘n’ how many deaths will it take till he knows
That too many people have died?
The answer, my friend, is blowing in the wind
3. E quante volte un uomo deve guardare in alto
Prima di vedere il cielo?
E quanti orecchi deve avere un uomo
Prima di sentir piangere gli altri?
E quanti morti ci vorranno prima che capisca
Che troppa gente è morta?
La risposta, amico mio, soffia nel vento, la risposta soffia
35
The answer is blowing in the wind.
nel vento.
Revolution
Lennon/McCartney
You say you want a revolution
Well you know
We all want to change the world
You tell me that it’s evolution
Well you know
We all want to change the world
But when you talk about destruction
Don’t you know you can count me out
Don’t you know it’s gonna be alright
Alright Alright.
Tu dici di volere una rivoluzione
Allora tu sai
Tutti noi vogliamo cambiare il mondo
Tu mi dici che ciò è un’evoluzione
Allora tu sai
Tutti noi vogliamo cambiare il mondo
Ma quando tu parli di distruzione
Non lo sai che non puoi contare su di me
Non lo sai che andrà bene
Bene bene.
You say you got a real solution
Well you know
We’d all love to see the plan
You ask me for a contribution
Well you know
We’re doing what we can
But when you want money for people with minds that hate
All I can tell you is brother you have to wait
Don’t you know it’s gonna be alright
Alright Alright.
Tu dici di avere una soluzione vera
Allora tu sai
Noi tutti ameremmo vedere il progetto
Tu mi chiedi un contributo
Allora tu sai
Noi stiamo facendo quello che possiamo
Ma quando tu vuoi soldi per persone con menti che odiano
Tutto ciò che ti posso dire fratello è che devi aspettare
Non lo sai che andrà bene
Bene bene.
You say you’ll change the constitution
Well you know
We all want to change your head
You tell me it’s the institution
Well you know
You better free your mind instead
But if you go carrying pictures of Chairman Mao
You ain’t going to make it with anyone anyhow
Don’t you know it’s gonna be alright
Alright Alright.
Tu dici che cambierai la costituzione
Allora tu sai
Noi tutti vogliamo cambiare la tua testa
Tu mi dici che è l’istituzione
Allora tu sai
Tu faresti meglio invece a liberare la tua mente
Ma se tu vai portando immagini del presidente Mao
Tu non dovrai farlo con chiunque e in qualunque modo
Non lo sai che andrà bene
Bene bene.
2.Canzoni dall'Italia
Leggendo le canzoni scritte nel ’68 e nel periodo successivo dai cantautori italiani si trovano testi che
trattano direttamente del ’68 (per esempio di Fabrizio De Andrè, Canzone del maggio francese, 1973) e delle
lotte politiche del tempo (Paolo Pietrangeli, Valle Giulia, 1969) e testi che affrontano invece i grandi temi
che in quegli anni scatenano le discussioni e impegnano le coscienze (per esempio Francesco Guccini
Piccola storia ignobile, 1976, sul problema dell’aborto clandestino). Si tratta quindi di canzoni
immediatamente ispirate all’attualità politica e sociale del periodo.
Canzone del maggio
(come avverte l'autore, F. De
Andrè, nell'introduzione all'LP
Storia di un impiegato, 1973,
questo testo è liberamente tratto
da un canto del maggio francese)
Lottavano così come si gioca
i cuccioli del maggio era normale
loro avevano il tempo anche per
la galera
ad aspettarli fuori rimaneva
la stessa rabbia la stessa
primavera
Anche se il nostro maggio
ha fatto a meno del vostro
coraggio
se la paura di guardare
vi ha fatto chinare il mento
se il fuoco ha risparmiato
le vostre millecento
anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.
E se vi siete detti
non sta succedendo niente,
36
le fabbriche riapriranno,
arresteranno qualche studente
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco
provate pure a credervi assolti
siete lo stesso coinvolti.
Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso
la notte che le « pantere »
ci mordevano il sedere
lasciandoci in buonafede
massacrare sui marciapiedi
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte voi c'eravate
anche se allora vi siete assolti
siete lo stesso coinvolti.
E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le « verità » della televisione
Valle Giulia
(di P. Pietrangeli, in Balestrini,
Moroni, 1988, p.239)
Piazza di Spagna splendida
giornata
Traffico fermo la città ingorgata
E quanta gente quanta che ce
n'era
Cartelli in alto tutti si gridava
"No alla scuola dei padroni
via il governo dimissioni eeh
E mi guardavi tu con occhi
stanchi
Mentr'eravamo ancora lì davanti
Ma se i sorrisi tuoi sembravan
spenti
C'erano cose certo più importanti
"No alla scuola dei padroni
via il governo dimissioni eeh
E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
E i poliziotti in faccia agli
studenti
"No alla scuola dei padroni
via il governo dimissioni eeh
Hanno impugnato i manganelli
Ad han picchiato come fanno
sempre loro
E all'improvviso è poi successo
un fatto nuovo un fatto nuovo un
fatto nuovo
non siam scappati più
non siam scappati più
Il primo marzo si me lo
rammento
Saremo stati mille e cinquecento
E caricava giù la polizia
Ma gli studenti la cacciavan via
"No alla scuola dei padroni
via il governo dimissioni" eeh
Undici e un quarto avanti a
Architettura
Non c'era ancora ragion di aver
paura
Ed eravamo veramente in tanti
E mi guardavi tu con occhi
stanchi
Ma c'erano cose certo più
importanti
Piccola storia ignobile
(di F. Guccini, dall'LP Via Paolo
Fabbri 43, 1976)
Ma che piccola storia ignobile mi
tocca raccontare così solita e
banale come tante
che non merita nemmeno due
colonne su un giornale o una
musica o parole un po' rimate
che non merita nemmeno
l'attenzione della gente quante
cose più importanti hanno da fare
se tu te la sei voluta, a loro non
importa niente te l'avevan detto
che finivi male.
Ma se tuo padre sapesse quale è
stata la tua colpa rimarrebbe
sopraffatto dal dolore
uno che poteva dire ' Guardo tutti
a testa alta immaginasse appena
il disonore
lui che quando tu sei nata mise
via quella bottiglia per aprirla il
giorno dei tuo matrimonio ti
sognava laureata, era fiero di sua
figlia se solo immaginasse la
vergogna.
E pensare a quel che ha fatto per
la tua educazione buone scuole, e
poca e giusta compagnia allevata
nei valori di famiglia e religione
di ubbidienza, castità e di
cortesia;
dimmi allora quel che hai fatto,
chi te l'ha mai messo in testa e
dimmi dove e quando l'hai
imparato
che non hai mai visto in casa una
cosa men che onesta e di certe
cose non si è mai parlato.
E tua madre, che da madre,
qualche cosa l'ha intuita e sa
leggere, da madre, ogni tuo
sguardo
devi chiederle perdono, dire che
ti sei pentita
che hai capito, e che disprezzi
quel tuo sbaglio
37
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.
- ma qui che fai ma vattene un po'
via
non vedi arriva giù la polizia"No alla scuola dei padroni
via il governo dimissioni" eeh
Le camionette i celerini
Ci hanno dispersi presi in molti e
poi picchiati
Ma sia ben chiaro e si sapeva
Che non è vero, che non è finita
là
non siam scappati più
non siam scappati più
Il primo marzo si me lo
rammento
Saremo stati mille e cinquecento
E caricava giù la polizia
Ma gli studenti la cacciavan via
"No alla scuola dei padroni
via il governo dimissioni" eeh
"No alla classe dei padroni
non mettiamo condizioni" no
però come farai a dirle che
nessuno ti ha costretta o dirle che
provavi anche piacere
questo non potrà capirlo, perché
lei da donna onesta l'ha fatto
quasi sempre per dovere.
e di lui non dire male, sei anche
stata fortunata in questi casi, sai,
lo fanno in molti
si, lo so, quando lo hai detto,
come si usa ti ha lasciata ma ti
ha trovato l'indirizzo e i soldi
poi ha ragione, non potevi
dimostrare che era suo e poi non
sei neanche minorenne
ed allora questo sbaglio è stato
proprio tutto tuo noi non siamo
perseguibili per legge.
E così ti sei trovata come a un
tavolo di marmo desiderando
quasi di morire
presa
come
un
animale
macellato, stavi urlando ma
quasi l'urlo non sapeva uscire
e così ti sei trovata fra paure e
fra rimorsi davvero sola, fra le
mani altrui
che pensavi nel sentire nella
carne tua quei morsi di tuo
padre, di tua madre e anche di
lui.
Ma che piccola storia ignobile
sei venuta a raccontarmi non
vedo proprio cosa posso fare
dirti qualche frase usata per
provare a consolarti o dirti è
fatta, ormai non ci pensare
è una cosa che non serve una
canzone di successo non vele due
colonne su un giornale
se tu te la sei voluta cosa vuoi
mai farei adesso e i politici han
ben altro a cui pensare.
3. Il canto sociale
“Dal luglio 1960 in poi si assiste a una ripresa della tradizione di canto sociale” (Bermani, in Balestrini,
Moroni, 1988, p.82). Questa ripresa avviene attraverso un lavoro di indagine e ricostruzione condotto da
musicologi e musicisti (tra i primi, ad esempio, il gruppo che dà vita al Nuovo Canzoniere popolare). I testi
che vengono in questo modo recuperati sono riproposti all’attenzione del pubblico attraverso spettacoli e
incisioni. Essi sono quindi relativi ad un periodo molto più ampio che non il ’68 e dintorni. Possono per
esempio riguardare l’opposizione alla Prima guerra mondiale (Gorizia) oppure il lavoro delle mondine
(Bella ciao delle mondine), gli anarchici degli inizi del ‘900 (Addio Lugano bella), ecc.
"Gianni Bosio e Roberto Leydi [avvieranno] […] dall’interno delle Edizioni Avanti! delle proprie ricerche
sul canto sociale". Questi studiosi decideranno tra l'altro di pubblicare una rivista. "La chiameranno il nuovo
Canzoniere italiano volendo sottolineare un legame coi canzonieri sociali dalla tradizione anarco-socialista
precedente il fascismo.” Attorno alla rivista si forma in poco tempo un gruppo di cantanti e ricercatori “e
decolla quindi un vero e proprio movimento culturale che assume il proprio nome dalla rivista e a essa
affiancherà I Dischi del Sole, spettacoli con vecchi e nuovi canti sociali e un’attività di ricerca, polmone
portante dell’attività complessiva. E la ricerca si amplierà sino a richiedere la creazione dell’Istituto Ernesto
de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario, entrato in
attività nel luglio del 1966” (Bermani, in Balestrini, Moroni, 1988, p.84).
La scelta di riprendere quei testi e cantarli nuovamente ha, tra l’altro, il significato di cercare delle radici, un
lignaggio, per le proteste e per le lotte attuali, ricollegandole ad altre lotte, più antiche.
Come esempio del repertorio del Nuovo canzoniere italiano citiamo Gorizia. In questo testo emblematico si
evoca la protesta dei soldati semplici strappati alle loro famiglie per partecipare alla Prima guerra mondiale.
L'ignoto autore critica duramente i signori e gli ufficiali, responsabili di aver voluto la guerra.. Durante la
partecipazione del gruppo al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel giugno 1964, dopo aver ascoltato
Gorizia, parte del pubblico presente allo spettacolo reagì con indignazione e denunce penali a tale mancanza
di patriottismo.
"La bagarre giornalistica sullo spettacolo durò poi vari giorni e servì a far conoscere il Nuovo canzoniere
italiano più di qualunque campagna pubblicitaria" (Bermani, in Balestrini, Moroni, 1988, p.86).
(Le citazioni sono tratte da L'orda d'oro: 1968-1977 di N. Balestrini, P. Moroni, Milano, Feltrinelli, 1988)
Gorizia
(di ignoto, dall'LP Bella ciao, del
Nuovo Canzoniere Italiano,1964)
La mattina del cinque d'agosto
si muovevano le truppe italiane
per Gorizia le terre lontane
e dolente ognun si partì
Sotto l'acqua che cadeva al
rovescio
Grandinavano le palle nemiche
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così
0 Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente
coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu
O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sul letto di lana
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir
Voi chiamate il campo d'onore
questa terra di là dei confini.
Qui si muore gridando assassini
maledetti sarete un dì
Cara moglie che tu non mi senti
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col suo nome nel
cuor
0 Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente
coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu
4.Il '68 nello Zecchino d'oro
Può essere interessante ricordare le tracce che gli eventi del '68 lasciano dove non ci si aspetterebbe di
trovarle: i testi di alcune canzoni presentate nel biennio 68-69 ad una manifestazione canora per bambini, lo
Zecchino d'oro, che veniva trasmessa per televisione. Le canzoni erano poi largamente diffuse anche
attraverso il mercato discografico. Le canzoni più significative di questa presenza del '68 nella società
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italiana, in questo caso non digerita ne' elaborata ma soltanto riflessa, sono Tippy il coniglietto hippy e
Quarantaquattro gatti.
Tippy, il coniglietto hippy
(A. Martelli, S. Stelletti, Zecchino
d'oro, 1969)
Là nella quiete della conigliera
Sta accadendo un fatto molto
strano
C'è qualcheduno che alla sua
maniera
vuole seguire la moda di oggidì
I quarantaquattro gatti
(G. Cesarini, Zecchino d'oro,
1968)
Nella cantina di un palazzone
Tutti i gattini senza padrone
Organizzarono una riunione
Per precisare la situazione
Quarantaquattro gatti in fila per
sei col resto di due
Si unirono compatti in fila per sei
col resto di due
Il coniglietto Tippy è diventato
hippy
vorrebbe solo fiori a pranzo e a
colazion
non sogna che giardini
di viole e ciclamini
e l'erba tenerella rifiuta di
mangiar
Ai
fratelli
coniglietti
che
divorano l'erbetta dice
"Siete dei matusa non vi so
proprio scusar"
(…)
Ma qualche giorno dopo
Con il pancino vuoto
(…)
Anche un buon trifoglio
Tippy vorrà mangiar
Coi baffi allineati in fila per sei
col resto di due
Le code attorcigliate in fila per
sei col resto di due
Sei per sette quarantadue più due
quarantaquattro
andò in giardino tutto il plotone
di quei gattini senza padrone
Loro chiedevano a tutti i bambini
che sono amici di tutti i gattini
un pasto al giorno e all'occasione
poter dormire sulle poltrone
(…)
Quando alla fine della riunione
fu definita la situazione
Quarantaquattro gatti in fila per
sei col resto di due
Marciarono compatti in fila per
sei col resto di due
Coi baffi allineati in fila per sei
col resto di due
Le code attorcigliate in fila per
sei col resto di due
Sei per sette quarantadue più due
quarantaquattro
Come si vede Tippy è un po' come i giovani del '68 apparivano al resto della società italiana: voglioso di
imitare mode stravaganti e incomprensibili, isolato e sostanzialmente perdente.
I Quarantaquattro gatti, malgrado la parodia del linguaggio sindacale, è un testo forse meno sprezzante, i
gattini appaiono, quantomeno, ben determinati nelle loro rivendicazioni. Forse un presagio dell'imminente
stagione di lotte operaie?
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