1 Tommaso di Carpegna Falconieri Le liturgie del rovesciamento

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1 Tommaso di Carpegna Falconieri Le liturgie del rovesciamento
Tommaso di Carpegna Falconieri
Le liturgie del rovesciamento dei poteri
Il mondo a rovescio costituisce uno tra i temi più affascinanti che un ricercatore si possa
trovare ad affrontare, ed è molto ben rappresentato nel corso di tutto il medioevo e dell’età
moderna. In questo contenitore si riversa un universo di simboli e di relazioni sociali, le
quali spesso si contraddistinguono per il fatto di essere vissute in un clima di festa.
Appartengono a questo tema i miti del paese di Cuccagna, delle fontaines de jouvence e
dell’Isola dell’Eterna Giovinezza, che sono tutti «mondi alla rovescia»; le feste dei folli e il
carnevale, che sono invece tempi alla rovescia, e ancora gli ioca monachorum, le beffe, i
travestimenti, l’elevazione simbolica degli umili ai gradi più alti della gerarchia, le feste
goliardiche degli studenti universitari.
Ma la festa, nel medioevo e in generale durante tutto l’antico regime, non è soltanto un
gioco, nel modo in cui possiamo pensarlo oggi. La festa può essere, e spesso lo è davvero,
anche un tempo crudele. E dunque appartengono al mondo all’incontrario anche gli
charivari, cioè i chiassosi cortei di giovani, pieni di gesti osceni, che si svolgevano per
colpire chi veniva giudicato al di fuori della comunità in quanto conduceva stili di vita non
conformi; o il saccheggio delle residenze dei grandi, del papa, dei cardinali, che avveniva
subito dopo la loro morte, o ancora, la riduzione in stato di miseria di coloro che fino a un
momento prima erano stati potenti, l’esposizione al pubblico ludibrio dei devianti e dei
perdenti, la loro raffigurazione pittorica in pose infamanti, fino all’esecuzione delle
condanne a morte di fronte al popolo. La morte, infatti, suscita risate, è parte della festa. Si
pensi alle tricoteuses, alle popolane parigine che assistevano, lavorando all’uncinetto, alle
esecuzioni durante la Rivoluzione francese, e che alzavano la testa ridendo di gioia e di
rivincita a ogni testa che cadeva.
Soprattutto, la festa non è un divertimento disordinato. Essa, infatti, è un tempo liturgico,
che si serve di rituali formalizzati: tutte le conferenze di questo convegno lo mettono bene
in evidenza.
Nel corso dei miei studi, mi sono avvicinato a questo tema percorrendo tre sentieri molto
differenti, che si distendono lungo tutto il medioevo, il che mi ha portato a formulare
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alcune considerazioni in forma non sistematica: considerazioni che mi permetterò di
proporvi fra poco.
Nel mio primo sentiero di ricerca, mi sono imbattuto in una singolare festa romana, le
cosiddette laudes cornomannie. In questa festa, attestata tra IX e XI secolo in una fonte di uso
prevalentemente liturgico, si rinvengono molti elementi che appartengono al «mondo alla
rovescio» e al tema dell’inversione dei ruoli. Vi si trovano descritti gli arcipreti delle
diaconie romane, potenti chierici cittadini, i quali si cimentano in un gioco di abilità di
fronte al papa, sedendo all’incontrario sopra un asino e tentando di afferrare dei denari
posti dentro un bacile che viene tenuta davanti all’asino. Accanto agli arcipreti c’è il loro
mansionario, cioè il sacrestano, che danza agitando un lungo sonaglio di bronzo, che canta
dei versi privi di significato e che ha la testa incoronata da una corona di fiori a forma di
corna. I chierici, dunque, celebrano una liturgia divertente, nella quale irridono se stessi.
Nel mio secondo percorso di ricerca, invece, mi sono interessato agli antipapi e alla sorte
che hanno subito. Gli antipapi sono dei perfetti rappresentanti del «mondo alla rovescio»,
e lo dimostra lo stesso prefisso «anti» che è stato apposto al loro titolo dalla parte avversa e
vincitrice. Vi sono diverse testimonianze del fatto che gli antipapi, una volta ridotti in stato
di cattività, siano stati i protagonisti, in un clima di spietata festa popolare, del rituale del
rovesciamento del loro potere. Si tratta della «umiliazione rituale» del papa scismatico e
perdente, che una volta catturato, viene posto su di un somaro, oppure dietro un cavallo (a
Burdino toccò montare su un cammello), con le mani legate sotto la coda dell’animale.
Questa processione è una parodia e un’inversione della cerimonia del ‘possesso’ pontificio,
cioè della cavalcata trionfale del nuovo papa. Così come il papa prende possesso della città
cavalcando tra il Vaticano e il Laterano, così l’antipapa perde ogni traccia della sua
autorità e sacralità cavalcando un animale al contrario. E così come il papa, nel momento
dell’elezione, assume un nuovo nome, così agli antipapi erano assegnati, soprattutto tra XI
e XII secolo, nomi e soprannomi ingiuriosi, cosicché anche il rito della mutatio nominis
trovava il suo equivalente contrario: ricordiamo Benedetto IX, detto Minchio, Gregorio
VIII, detto Burdinus, cioè somarello, Vittore IV Carnicorvus, cioè Carogna, e Vittore V
Dismantacompagnus, cioè, letteralmente, colui che ha levato il manto pontificio dal suo
collega cardinale, quello che era stato eletto papa legittimo.
Infine, il terzo percorso di ricerca mi ha portato nel Trecento, a ragionare sulle figure
emblematiche di Cola di Rienzo e del cosiddetto «re Giannino». Cola di Rienzo,
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innamorato di Roma antica e intenzionato a riportarla alla sua antica grandezza, cadde
dalle altezze vertiginose del suo miraggio e fu linciato dal popolo. In un primo momento,
al tempo della sua prima caduta nel dicembre 1347, fu linciato solo simbolicamente,
perché nel frattempo era riuscito a fuggire. Cola di Rienzo fu raffigurato sul muro di
Campidoglio, «collo capo de sotto e colli piedi de sopra a muodo de cavalieri». La seconda
volta, invece, l’antico tribuno fu linciato davvero. Il suo corpo straziato fu trascinato dal
Campidoglio a San Marcello, lungo la via Lata. L’Anonimo romano afferma che il popolo
inferocito, giocava con il cadavere: «onneuno ne sse iocava» (p. 264): un elemento che vale
la pena di ricordare in questo contesto. Il corpo, ormai senza testa, fu appeso per i piedi a
un balcone. E anche allora i bambini ci si misero a giocare, tirandogli le pietre: «li zitielli li
iettavano le prete» (p. 265). Cola di Rienzo, dunque, divenne l’uomo a testa in giù,
l’arcano maggiore dei tarocchi che rappresenta il mondo all’incontrario, l’ultimo atto di un
macabro carnevale. Settecento anni dopo, Mussolini conobbe la stessa sorte.
Collegato al caso di Cola di Rienzo, vittima della liturgia del rovesciamento dei poteri, è il
caso, se si vuole ancora più straordinario, di Giannino di Guccio, mercante senese del
Trecento che si convinse di essere il re di Francia, e che per riconquistare il trono girovagò
per tutta Europa, per poi terminare i suoi giorni in prigione a Napoli.
Nella vicenda di re Giannino, gli elementi che stiamo analizzando si presentano numerosi,
a cominciare dal fatto che egli stesso costituisce, per coloro che non credono in lui, un
«potere rovesciato», in quanto è ritenuto un impostore, un uomo che ha sfidato l’ordine
naturale. Nella Istoria del re Giannino di Francia troviamo il nostro protagonista convinto di
essere il re in quanto vittima di uno scambio in culla. E questo è già un primo elemento
significativo: la sua vita, secondo lui, è stata condizionata da un ingiusto scambio, ovvero
dai una inversione dei ruoli, avvenuti proprio all’inizio della sua esistenza. Tornato a
Siena, sua patria, dopo una prima serie di viaggi, Giannino è vittima di una beffa collettiva
da parte dei suoi concittadini: di fronte al Consiglio generale del comune, fu ufficialmente,
direi liturgicamente, dichiarato che, poiché egli si dichiarava re di Francia, da allora in poi
sarebbe stato chiamato «il signor Giovanni», ma che, per la stessa ragione, non sarebbe più
stato cittadino di Siena e non avrebbe più potuto rivestire cariche pubbliche. E dunque il
rovesciamento è evidente: re per burla, non può contare nulla in città.
Storie di questo genere costituiscono un tema tipico della novella italiana medievale e
rinascimentale, tanto che Boccaccio dedica a esso due intere giornate, la settima e l’ottava
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del Decamerone. Di solito, la «beffa collettiva» consiste nel creare intorno alla vittima un
mondo fittizio e parallelo, servendosi di molti complici e facendole spesso credere di
essere una persona diversa da quella che è in realtà: famose, in questo senso, sono le storie
di Calandrino e la Novella del Grasso legnaiuolo. La novella quattrocentesca Mattano da Siena
del senese Gentile Sermini mostra alcune somiglianze stringenti con l’avventura di
Giannino: Mattano, cittadino figlio di villani, viene convinto da dieci giovani senesi di
buona condizione di essere stato eletto alla più alta magistratura, quella dei magnifici
signori. La beffa coinvolge tutta la città: le guardie alle porte si scappucciano, i suoi vicini
lo onorano. Entrano nella beffa persino il capitano del popolo, i signori uscenti, il notaio
alle Riformagioni e il priore, che lo accolgono nel palazzo del governo. Lì il priore gli
rivela che la sua elezione è stata cassata, poiché si credeva che egli non fosse in Toscana,
bensì «in Tribusonda». Viene riferito a Mattano che il suo nome è stato inserito nel bussolo
degli «sciolti», e a quel punto il notaio lancia una battuta colma di sarcasmo, affermando
che sarebbe stato più opportuno infilarlo nel bussolo dei «legati», intendendo
naturalmente i «matti da legare». La beffa continua e la lieta brigata che si prende gioco di
Mattano riesce a farsi pagare da lui cene su cene. Alla fine, lo sprovveduto – e soprattutto
presuntuoso – Mattano viene eletto «priore dei Mugghioni ». Dunque Mattano da Siena è
vittima di una burla e diventa una sorta di «re dei folli».
Ma torniamo a Giannino, il quale, una volta catturato in Provenza, continua a essere
considerato un re per burla: dopo un suo tentativo di fuga, il vicario di Marsiglia riesce a
convincere il popolo del fatto che Giannino è un falsario e un sodomita: due accuse che lo
pongono anch’esse, e pienamente, al tema dell’inversione. Allora il popolo lo vuole morto,
arso, bollito, messo sopra una macchina di tortura. E, ennesima inversione dei ruoli,
vengono inventate sul suo contro delle laide canzoncine, nelle quali lo si chiama «la regina
Giovanna di Francia».
Giannino, in quell’occasione, la scampò per un pelo. Che cosa gli sarebbe successo
altrimenti? Senza dubbio sarebbe stato vittima di una liturgia del rovesciamento dei
poteri, simile a quella che toccò a un calzolaio boemo che dichiarava di essere il re Andrea
di Napoli, e la cui sorte è raccontata nella stessa Istoria del re Giannino di Francia: il calzolaio
fu preso, gli furono tagliate orecchie, naso, capelli e barba, fu appeso a una colonna in
pubblico per tre giorni e infine fu cacciato.
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Dopo l’esposizione di questi casi di studio, sui quali naturalmente ci sarebbe da dire
ancora moltissimo, mi permetterò di proporre alcune considerazioni non sistematiche. La
prima considerazione riguarda le tipologie che si possono incontrare nelle liturgie del
rovesciamento. Mi sembra che se ne trovino essenzialmente di due tipi, e che questi siano
ben diversi l’uno dall’altro. Il primo tipo potremmo chiamarlo «liturgie dei poteri
rovesciati». Lo incontriamo ogni qualvolta ci si trova, in una festa, di fronte a un rituale in
cui i protagonisti vengono a ricoprire un ruolo diverso da quella che è la loro posizione
sociale usuale. Pensiamo allora, per fare alcuni esempi, al nostro Carnevale, e poi ai
Saturnalia romani, durante i quali veniva eletto il Saturnalicius princeps e si invertivano i
ruoli, tra schiavi e liberti, tra i legionari e i loro comandanti. Esempi tipicamente medievali
sono, naturalmente, le laudes cornomannie, di cui si è detto qualcosa, in cui l’inversione
riguarda il clero, ma anche la cosiddetta «festa dei folli», la «festa degli asini», la tradizione
inglese della reginetta di maggio, le feste degli studenti universitari, e ancora e soprattutto
la liturgia dell’episcopellus, cioè del vescovo bambino, eletto tra i chierici di grado più basso
verso il principio di dicembre, ammantato delle vesti episcopali, in carica fino alla festa dei
Santi Innocenti, 28 dicembre.
A questo stesso mondo dei poteri rovesciati, e a questo rovesciamento liturgico,
appartiene anche il il nano di corte travestito da re, oppure il giullare, cioè il buffone
rituale, cui è permesso di dire al re cose vietate ai sudditi, di prenderlo in giro: allo stesso
modo, in età romana è lo schiavo che sta sulla biga insieme all’imperatore in trionfo e che
gli sussurra all’orecchio che la vita è breve; nel medioevo è quella parte della liturgia
dell’intronizzazione pontificia, nella quale viene ricordato al papa che egli è fatto di carne
e che la sua gloria è breve: «sic transit gloria mundi». Insomma è il modello del contadino
Bertoldo, che non ha paura di dire al re la verità delle cose.
Perché naturalmente questi poveri, questi folli, dicono e sono il vero. Nell’inversione dei
ruoli si afferma, in realtà, il paradosso secondo cui ciò che all’apparenza è distorto, in
verità è diritto: ma su questo punto ritorneremo alla fine della relazione.
E arriviamo al secondo tipo di liturgia del rovesciamento dei poteri, che ho una certa
difficoltà a conciliare con il primo.
Si tratta di tutti quei casi nei quali una situazione che è stata reale e giudicata negativa
viene ribaltata, e in cui questo ribaltamento della situazione viene mostrato attraverso una
rappresentazione, una liturgia: dunque i casi degli antipapi, di Cola di Rienzo, di re
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Giannino, ma anche la liturgia della scomunica (in cui vengono spente le candele), della
degradazione, o della deposizione, della condanna, della beffa feroce, dello charivari e
dell’abiura in pubblico, cui seguiva l’obbligo di mostrarsi per le strade con il cosiddetto
habitellus. La differenza tra il primo di liturgia del rovesciamento e il secondo tipo è forte.
Nel primo tipo, infatti, ci troviamo di fronte a un rituale nel quale non vi è una vittima, ma
un gruppo che, attraverso un rito di inversione che comprende perfettamente, ottiene una
aggregazione sociale: non vi è derisione, ma casomai allegria e complicità nella risata. E
infatti questo rituale del rovesciamento dei poteri è tipico dei gruppi culturalmente
omogenei: i cittadini, la corte, i soldati, i monaci, i chierici delle scholae e delle università.
Nel secondo caso, invece, abbiamo a che fare con una vittima: qui il rituale di
rovesciamento sancisce l’esclusione del deviante o del perdente, che viene fatto uscire di
scena, potremmo dire, obbligandolo a camminare a ritroso: l’ordine originario viene, in
questo modo, ricostituito. Il mondo di coloro che vivono nell’ordine sociale, irride colui
che è posto al di fuori di esso: qui c’è davvero irrisione da parte di tutti, poiché il
rovesciamento significa infamia. Il messaggio politico-sociale, nient’affatto assente nel
primo tipo, in questo secondo è la chiave principale di lettura: e cià per il fatto che la
legittimazione e il suo contrario passano entrambi e sono entrambi compresi, soprattutto
nel medioevo, quasi soltanto attraverso gesti rituali, simboli espliciti, rappresentazioni
solenni. Lo stesso concetto di «liturgie del rovesciamento dei poteri», allora, potrà
significare tanto integrazione nel, quanto esclusione dal corpo sociale. Nel primo tipo,
siamo di fronte a una «finzione», a una «imitazione», a una parodia, nel secondo caso
siamo di fronte alla denuncia di una falsificazione.
Si tratta dunque della stessa cosa? È legittimo analizzare insieme queste due tipologie?
Questa riflessione mi porta all’interno della seconda riflessione generale che mi permetto
di proporre, che è relativa al nostro modo di rapportarci con queste testimonianze. Infatti,
gli studi sull’argomento dei rituali, in particolare sui riti dell’inversione dei ruoli, sono
compiute tanto dagli storici sociali – soprattutto francesi – quanto dagli antropologi
culturali. Nell’una e nell’altra disciplina accade spesso di notare che la chiave iniziale di
interpretazione sia formata da una mera curiosità per ciò che è strano, diverso, esotico
rispetto a noi. Si scrive allora di sincretismi tra culture, si impiegano categorie di giudizio
quali «derisione», «divertimento», «parodia», che non sempre appaiono sufficienti. A volte
si propongono delle astrazioni su principi generali, chiamando in causa concetti quali
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ordine e caos, principio maschile e femminile, fecondità e sterilità, bene e male, eccetera
eccetera. Non escludo che queste affermazioni siano inutili alla conoscenza; certamente,
però, esse non trovano quasi mai una possibilità di verifica diretta nelle fonti, mentre
invece mi paiono esprimere soprattutto le convinzioni dell’autore, storico o antropologo
che sia, e della sua epoca, e della sua scuola di pensiero. Soprattutto, manca spessissimo,
in questo tipo di studi, una serrata analisi delle coordinate spazio temporali, cosa che porta
spesso, a mio avviso, a delle sovrainterpretazioni, se non a delle vere fantasticherie: il
giullare medievale accanto all’uomo medicina dei pellerossa, eccetera. Solo per questa
ragione, riflettendo sul tema dell’inversione dei ruoli, ho ritenuto opportuno proporre
alcuni casi concreti che conosco un po’ meglio, considerando che sia metodologicamente
non scorretto porsi le domande a partire dalle fonti, e cercare le risposte all’interno di esse,
più che di noi stessi.
Questo pensiero mi riporta a un’ultima considerazione, in parte provocatoria: se il mondo
alla rovescia è ritualizzato, se è compreso in una liturgia, si può davvero dire che sia un
mondo all’incontrario? Seneca scrisse: «Semel in anno licet insanire». Scrive dunque «licet»
Una volta l’anno è permesso impazzire. Ma se è permesso, allora dove sta il disordine?
La ritualizzazione, infatti, non può fare altro che regolare e normalizzare. E senza dubbio,
nel corso del medioevo è diffusa l’idea che il mondo possa essere rimesso in ordine
agendo su di esso attraverso un principio equivalente e contrario. Se i fisici moderni
dicono
che
a
un’azione
corrisponde
una
reazione
contraria,
Dante
applica
sistematicamente ai suoi dannati la pena del contrappasso.
Ora, il problema di fondo, l’interrogativo profondo con il quale mi congedo, sta nel
considerare che il concetto di mondo alla rovescia è, nel medioevo, un concetto normativo,
e che questa norma è presa direttamente dalla fonte più elevata che vi sia, da un’auctoritas
che non si può discutere. Questa auctoritas, dalla quale si ritiene scaturire ogni
ordinamento e ogni diritto, è la vita di Gesù Cristo. Il cristianesimo è, in pienissima
coscienza e volontarietà, ribaltamento assoluto dei valori, e nel medioevo, dove pure
costituisce la norma e la dottrina, continua a essere compreso anche in questi termini. Si
pensi allora al rapporto tra Adamo, colui che ha peccato per la prima volta, e a Cristo,
colui che ha ricostruito l’alleanza con Dio, e che è il nuovo Adamo. Così l’albero della
conoscenza del bene e del male è quello che ha dato, secondo la leggenda, il legno della
vera croce.
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Il modello cristologico è onnipresente, anche in questo tema del mondo all’incontrario,
all’apparenza così esotico, così altro, così pagano: i cristiani adorano Dio che si fa uomo.
Adorano il figlio di una Vergine. Adorano un re bambino, riconosciuto solo dai pastori e
dai magi. Adorano un re povero, che non ha né panni né fuoco. Adorano il figlio di Dio
che lava i piedi ai suoi discepoli: notevolissima inversione dei ruoli, che entra pienamente
nella liturgia. Adorano un profeta che dichiara le beatitudini degli umili e dei poveri di
spirito, e che afferma che non entrerà nel regno dei cieli chi non ritornerà come un
bambino. Il Cristo debole, il Cristo povero, diviene Francesco, alter Christus e giullare di
Dio. I cristiani adorano un re sofferente e deriso, ammantato di un mantello scarlatto, con
una corona di spine e una scritta infamante che lo deride come re dei giudei. Adorano la
croce, che è simbolo di infamia, che equivale alla forca, e che proprio nel rovesciamento
liturgico diventa il più alto simbolo di gloria eterna: strumento di morte che sconfigge la
morte. E così Paolo fornisce per primo, a quanti lo leggeranno da allora in poi, il senso di
questo rovesciamento, per esempio quando scrive, nella prima lettera ai Corinzi (1,18 e ss.,
qui 1,25): « Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di
Dio è più forte degli uomini».
E allora torniamo a due casi di inversione dei poteri attestati nel medioevo: la prima è la
storia del «re Giannino», che viene deriso e che rischia di essere giustiziato, perché
dichiara di essere il cristiianissimo re di Francia. Ma, mentre viene sbeffeggiato, mentre sta
in prigione ed è pieno di pidocchi, Giannino è convinto di svolgere un ruolo messianico, si
ispira al modello di Cristo, re povero e perseguitato, si ingarbuglia in una strana imitatio
Christi, poiché sa che anche l’apparente fallimento sulla terra può rappresentare una
vittoria. Il secondo degli esempi è quello dell’episcopellus, cioè del vescovo bambino. Nel
corso dei riti che si celebrano intorno all’episcopellus, si cantava: «Deposuit potentes de sede et
exaltavit humiles (depose i potenti dal trono ed esaltò gli umili). Ovviamente ci si riferisce
alla sorte fortunata di quel piccolo chierico ammantato delle vesti pontificali. Ma allo
stesso tempo, che cosa vi può essere di più evangelico, di più canonico di questa frase?
Quelle parole, infatti, sono contenute nel Magnificat!
In definitiva, il medioevo cristiano ha trovato il rovesciamento dei poteri nel testo più
canonico che ci sia. E questo è davvero un grande, un grandissimo paradosso, sul quale
certamente si potrà dire ancora qualcosa.
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