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RASSEGNA STAMPA
Martedì 21 ottobre 2014
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IL RIFORMISTA
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L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 21/10/2014
Lavoro, Cgil: "Un milione di persone pronte a
scendere in piazza contro Jobs Act"
Il dato emerge da un sondaggio effettuato da Tecné per il sindacato di
Corso d'Italia. Camusso: "Mi aspetto tante persone in piazza". Stoccata
a Padoan: "800 mila posti di lavoro? l'aveva già detto Berlusconi"
ROMA - La Cgil si prepara alla grande manifestazione del 25 ottobre contro le politiche del
governo ( e in particolare contro la riforma del lavoro). Una manifestazione che potrebbe
avere numeri importanti: secondo un sondaggio realizzato da Tecnè per il sindacato
guidato da Susanna Camusso potrebbero arrivare a Piazza San Giovanni a Roma un
milione di persone. Resta sullo sfondo l'ipotesi dello sciopero generale, che nei giorni
scorsi la Camusso non ha escluso, nella speranza che anche Cisl e Uil si uniscano alla
protesta contro il governo. Alla giornata di lotta ha aderito anche l'Arci.
Secondo il sondaggio il 70% della popolazione italiana giudica positivo lo slogan scelto
dalla manifestazione indetta dalla Cgil peri il 25 ottobre: "Lavoro, dignità, uguaglianza, per
cambiare l'Italia". Una percentuale che sale al 79% tra gli iscritti al sindacato.
"Mi aspetto tante persone in piazza - ha detto la leader Cgil Susanna Camusso - ma non
siamo appassionati ai numeri e continueremo a non dare numeri. Mi aspetto una bella,
grande, colorata manifestazione, con tante donne, tanti uomini e soprattutto con tanti
giovani", ha aggiunto. E oggi alla direzione del Pd sono arrivate parole distensive dal
premier Renzi verso la Cgil: "Abbiamo un profondo rispetto di quella piazza, a prescindere
dal dibattito che c'è tra di noi".
Al momento però i numeri sono diversi: le prenotazioni reali sono per ora 120mila escluso
il Lazio, ma la Cgil sottolinea che si stanno chiedendo pullman anche in altre nazioni. Sono
stati organizzati 2.300 pullman, sette treni straordinari e una nave che partirà dalla
Sardegna. Sono previsti due cortei, da Piazza della Repubblica e da Stazione Ostiense,
che confluiranno in Piazza S.Giovanni, dove è previsto il comizio che si concluderà con
l'intervento del segretario generale della Cgil. Prevista anche la presenza sul palco dei
Modena City Ramblers per un accompagnamento musicale.
"Sarà una grande manifestazione - ha aggiunto Camusso - aperta a tutti coloro che
condividono la nostra piattaforma", lasciando così la porta aperta ai dissidenti dem, come
Stefano Fassina, che hanno annunciato la loro presenza in piazza. Camusso però ha
messo le mani avanti e ha invitato a non fare paragoni con il marzo 2002 quando il
sindacato portò al Circo Massimo 3 milioni di persone: "Sono passati sette anni di crisi e ci
sono tre milioni di disoccupati", ha sottolineato la leader Cgil, che non ha rinunciato ad una
nuova stoccata all'Esecutivo: "800mila posti di lavoro creati dalla legge di stabilità?
L'aveva gia detto Berlusconi: 1 milione di posti di lavoro" è stato il commento di Camusso
all'annuncio fatto ieri dal ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan.
"La legge di stabilità - secondo Camusso - non cambia il quadro rispetto alla
disoccupazione e non è una nostra malignità perchè se guardiamo la nota di
aggiornamento prevede il tasso di disoccupazione ancora all'11,2% nel 2018". Il governo,
per la leader Cgil, deve spiegare da dove arriveranno gli 800mila posti di lavoro. "Senza
investimenti, pubblici e privati, vedo difficile ridurre di un terzo la disoccupazione" ha
spiegato. Bocciato anche il bonus bebè promesso ieri dal premier in tv: "Non so se
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l'intervento potrà essere coperto dal fondo previsto nella legge di stabilità e mi colpisce
che non si decida mai una politica organica sulla povertà".
http://www.repubblica.it/economia/2014/10/20/news/lavoro_cgil_1_milione_di_persone_pr
onte_ad_andare_in_piazza_contro_jobs_act_tl_fv_20-ott-14_13_49_nnnn_eco_legge_s98572265/?ref=search
Da Repubblica.it del 21/10/2014
Lo "ius soli temperato" di Renzi: tanto fumo e
poco ius
Il vice presidente dell'Arci analizza e commenta gli annunci sul diritto di cittadinanza
per i figli di stranieri nati e cresciuti in Italia. Viene subordinato per i ragazzi stranieri
il completamento della scuola dell'obbligo, cioè a 16 anni. In pratica, dopo tante
chiacchiere, dalla nascita ai 16 anni i figli di immigrati continuerebbero a essere
considerati stranieri
di FILIPPO MIRAGLIA *
Caro direttore,
Il metodo è sempre lo stesso: l'annuncio calcolato nei tempi e nei modi per avere il
massimo impatto sui media (e magari spostare l'attenzione dai problemi del giorno), i
tempi di realizzazione rimandati a un futuro non meglio definito, l'uso improprio dei termini
per descrivere un provvedimento che con la definizione che gli viene attribuita ha poco a
che fare. Stiamo parlando della dichiarazione del presidente del Consiglio, Matteo Renzi,
sulla volontà di introdurre lo ius soli "temperato", ma temperato al punto che di "ius", cioè
di diritto soggettivo, conserva ben poco.
Tanto fumo per abbassare la soglia di 2 anni. Viene infatti subordinato, per i ragazzi
stranieri nati e/o cresciuti in Italia al completamento di un ciclo di studi: scuola dell'obbligo
- da noi contemplata fino ai 16 anni - per chi è nato in Italia, oppure la scuola secondaria
superiore per chi è arrivato adolescente (dando per scontato che chi arriva abbia
completato il precedente ciclo di studi nel suo paese d'origine o che debba frequentare qui
l'intero ciclo scolastico preuniversitario). Una autentico bluff che, rispetto alla situazione
attuale (a 18 anni chiunque sia nato in Italia può presentare richiesta di cittadinanza),
abbasserebbe nel migliore dei casi solo di due anni l'età di accesso alla cittadinanza: in
pratica, dopo tante chiacchiere, dalla nascita ai 16 anni i figli di immigrati continuerebbero
a essere considerati stranieri nel Paese dove sono nati e cresciuti.
Eppure, ci sono 200 mila firme per lo "ius soli". Si continua poi a fare scientemente
confusione sulle condizioni che dovrebbero, per temperare lo ius soli, riguardare i genitori,
e quelle che invece riguardano i bambini e le bambine che continuerebbero ad essere
considerati cittadini di serie B. Il tutto, mentre in Parlamento giace da anni una proposta di
legge di iniziativa popolare di riforma della cittadinanza per la quale la campagna L'Italia
sono anch'io ha raccolto ben 200mila firme, che prevede sì uno ius soli temperato, ma
condizionato soltanto alla residenza di uno dei genitori da almeno un anno. E mentre la
competente Commissione della Camera, dopo varie audizioni di organizzazioni sociali che
sul tema lavorano (compresa la Campagna citata) sta lavorando a un testo unificato da
portare in Aula.
Il gioco del consenso. Insomma, oltre al solito metodo un po' furbesco di affrontare
argomenti così seri e che riguardano la vita di centinaia di migliaia di giovani stranieri, si
conferma, da parte di Renzi, il solito fastidio non solo per il parere dei cittadini (in questo
caso addirittura firmatari di una proposta di legge), ma anche per il lavoro del Parlamento.
Non è più accettabile che per acquisire consenso si giochi sulla pelle delle persone,
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mentre nel paese rimangono divisioni, ingiustizie, discriminazioni e crescono le pulsioni
razziste. Una legge che riformi l'attuale normativa sulla cittadinanza va fatta presto e bene,
per il futuro non solo di quei giovani, ma di tutti noi.
* Filippo Miraglia è il vicepresidente nazionale Arci
http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2014/10/20/news/ius_temperato98587593/?ref=search
Del 21/10/2014, pag. 3
“Lavoro, dignità, eguaglianza”. Prima tappa in
San Giovanni
Roma Calling. La Cgil presenta (con sondaggio) la manifestazione di sabato.
Camusso: "Sarà l'inizio di una stagione di mobilitazione, perché non ci rassegniamo
al fatto che la strada per l'uscita dalla crisi sia quella della riduzione delle tutele e
dei diritti”. Doppio corteo per centinaia di migliaia.
Riccardo Chiari
“Sabato sarà l’inizio di una stagione di mobilitazione, perché non ci rassegniamo al fatto
che la strada per l’uscita dalla crisi sia quella della riduzione delle tutele e dei diritti”.
Susanna Camusso presenta un 25 ottobre che non vuole essere una tappa isolata. E che
non sarà solo della Cgil: “C’è un’attenzione che va ben oltre i nostri iscritti”. La sottolineatura è l’effetto di un sondaggio commissionato da Corso Italia a Tecnè. Su un campione di
mille maggiorenni, iscritti e non iscritti al sindacato, i risultati indicano che il 54% degli italiani (75% degli iscritti Cgil) ritiene che sia meglio estendere le tutele, perché ridurle non
favorisce l’occupazione. A seguire il 64% (70% iscritti) pensa che la delega al governo per
la riforma del lavoro non farà crescere l’occupazione.
Ancora, il 51% (74% iscritti) è d’accordo con il sindacato nel ritenere che i rapporti di
lavoro devono continuare ad essere a tempo indeterminato, e che la flessibilità deve
essere limitata nel tempo. Il 55% (79% iscritti) si dice d’accordo con la proposta Cgil di
estendere la cassa integrazione a tutti i lavoratori, e di dare l’indennità di disoccupazione
a tutti con una durata rapportata agli anni effettivamente lavorati. Infine l’80% complessivo
è pessimista sul 2015: il 55% pensa che la disoccupazione aumenterà ancora nei prossimi
dodici mesi, e il 25% che resterà sui livelli attuali.
Agli occhi di un un sindacato che ha quasi tre milioni di tesserati attivi e altrettanti pensionati, il sondaggio indica inoltre che le organizzazione sindacali non sono considerate inutili: “Sono invece l’unica barriera alla frantumazione del corpo sociale e all’idea di divisione
– osserva Camusso — del tutti contro tutti”. Per questo la manifestazione “Libertà, dignità,
uguaglianza. Per cambiare l’Italia” viene considerata come una prima risposta a un
governo la cui riforma del lavoro è bocciata senza appello: “Mira a abbassare i salari
senza creare nuovo lavoro ma peggiorando quello attuale, visto che le stesse stime
dell’esecutivo nel Def indicano un tasso di disoccupazione nel 2018 dell’11,2%”. Quanto
alle politiche economiche, la segretaria generale è altrettanto esplicita: “Mancano nuove
politiche industriali, e gli investimenti, pubblici e privati, sono azzerati. Senza quelli non si
esce dalla crisi”. Infine un passaggio in risposta alle ultime promesse di palazzo Chigi, dal
bonus di 80 euro alle neo mamme (Renzi) agli 800mila posti di lavoro (Padoan): “La legge
di stabilità non cambia il quadro rispetto all’occupazione: non sono certo gli incentivi
a pioggia a crearla, altrimenti avremmo dovuto avere incrementi altissimi con le misure
dell’ex ministro Tremonti”. Intanto si va avanti con l’organizzazione del 25 ottobre. Con
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i consueti problemi logistici: “Ci sono difficoltà per i pullman, li stiamo cercando all’estero.
E la riduzione del servizio ferroviario sta penalizzando il sud”. Numeri? Dalla Cgil offrono le
cifre di venerdì scorso e solo del sindacato (120mila prenotati), senza considerare Roma
e il Lazio, gli studenti e gli autorganizzati. Fra le adesioni sono già arrivate quelle dell’Arci
e di Rifondazione, previsti due concentramenti alle 9 in piazza della Repubblica e piazzale
dei Partigiani.
Da Adnkronos del 20/10/2014
Immigrati: Arci, su ius soli da Renzi solito
bluff per avere consensi
L'annuncio fatto dal presidente Renzi sull'apertura allo 'ius soli temperato', è "un autentico
bluff che, rispetto alla situazione attuale, abbasserebbe nel migliore dei casi solo di due
anni l'età di accesso alla cittadinanza", ed è stato fatto con il metodo di sempre: calcolato
nei tempi e nei modi per avere il massimo impatto sui media e magari spostare
l'attenzione dai problemi del giorno, con tempi di realizzazione rimandati a un futuro non
meglio definito e con un uso improprio dei termini". Lo dichiara Filippo Miraglia,
vicepresidente nazionale dell'Arci.Il riconoscimento della cittadinanza viene infatti
subordinato, prosegue Miraglia, "per i ragazzi stranieri nati e/o cresciuti in Italia, al
completamento di un ciclo di studi: scuola dell'obbligo, da noi contemplata fino ai 16 anni,
per chi è nato in Italia, oppure la scuola secondaria superiore per chi è arrivato
adolescente, dando per scontato che chi arriva abbia completato il precedente ciclo di
studi nel suo paese d'origine o che debba frequentare qui l'intero ciclo scolastico
preuniversitario".In pratica, continua il vice presidente dell'Arci, "dopo tante chiacchiere,
dalla nascita ai 16 anni, i figli di immigrati continuerebbero a essere considerati stranieri
nel paese dove sono nati e cresciuti. Si continua poi a fare scientemente confusione sulle
condizioni che dovrebbero, per temperare lo ius soli, riguardare i genitori, e quelle che
invece riguardano i bambini e le bambine che continuerebbero ad essere considerati
cittadini di serie B. Il tutto, mentre in Parlamento giace da anni una proposta di legge di
iniziativa popolare e mentre la competente commissione della Camera sta lavorando a un
testo unificato da portare in Aula. Non è più accettabile che, per acquisire consenso, si
giochi sulla pelle delle persone, mentre nel paese rimangono divisioni, ingiustizie,
discriminazioni e crescono le pulsioni razziste", conclude.
Da Redattore Sociale del 20/10/2014
"Novo modo", 600 persone alla kermesse
sulle responsabilità comuni
Tanti visitatori per i tre giorni di incontri promossi da Acli, Arci, Banca
Popolare Etica, Caritas Italiana, CISL, Fondazione Culturale
Responsabilità Etica e Legambiente
FIRENZE - Si è conclusa ieri a Firenze la prima esperienza di Novo Modo –
Responsabilità di Tutti, tre giorni di incontri intensi e costruttivi per mettere le basi di una
ricerca condivisa di nuove soluzioni. Questo è stato infatti l’obiettivo fin da subito dichiarato
degli organizzatori (ACLI, ARCI, Banca Popolare Etica, Caritas Italiana, CISL, Fondazione
Culturale Responsabilità Etica e Legambiente): riportare la responsabilità al centro del
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nostro agire, cercare un nuovo modo di leggere ed affrontare le conseguenze della crisi
prendendo spunto da chi, quotidianamente, è abituato a riflettere su questi temi ma anche
ad agire.
Nell’auditorium di Sant’Apollonia si sono alternati decine di relatori e di chi ha portato la
propria testimonianza ma soprattutto si sono alternati oltre 600 visitatori che hanno
ascoltato, partecipato ai laboratori, visitato la mostra dei ragazzi di Casal di Principe e
della Terra dei Fuochi. Proprio la presenza di questi ragazzi, insieme a quella del sindaco
di Casal di Principe, ha dimostrato la fondamentale importanza di mettere in rete le
esperienze virtuose: nel corso del confronto su mafie e legalità, il direttore della Galleria
degli Uffizi, Antonio Natali, si è infatti impegnato a portare una mostra, organizzata dal
museo fiorentino, proprio nel comune campano. Una piccola ma grande dimostrazione di
come sia indispensabile declinare assieme un “novo modo” di affrontare le sfide come
cittadini e come organizzazione della società civile.
Uno sguardo alle problematiche italiane ma anche a quelle europee e globali che ci
impongono una scelta di responsabilità. Si è parlato di Europa, un'Europa lontanissima da
quella immaginata dai padri fondatori, percorsa da innumerevoli frontiere, non solo
geografiche ma anche economiche, sociali, democratiche. Un'Europa dei diritti ambientali
e sociali, minacciati dall'accordo TTIP con gli USA nel nome dei “diritti” delle imprese
multinazionali. E' emersa la consapevolezza dei danni e degli impatti di queste e altre
frontiere, e la necessità di abbatterle dando vita ad un approccio, nei diversi ambiti,
fondato sulla solidarietà e la cooperazione.
Infine, nella giornata in cui migliaia di persone si sono messe in marcia per la pace, un
messaggio di responsabilità verso l'atteggiamento che ciascuno di noi deve avere nel
perseguimento di azioni di pace intesa come ricerca di libertà, verità, giustizia e fraternità.
Si tratta di creare una cultura della pace proponendo la nonviolenza come stile di vita e
strumento di contrasto rifiutando la logica della violenza vs. violenza.
Mettere in relazione le comunità, socializzare le problematiche, aprire un confronto vero
per proseguire questo percorso - questo il filo rosso che ha legato le tre giornate fiorentine.
Novo Modo s'è rivelato essere il luogo in cui portare avanti questo percorso anche
attraverso una mappatura legata a ciò che è veramente nuovo e a ciò che si può mettere
davvero in rete e relazione, uscendo dalla logica di leggere la realtà attraverso un unico
punto di vista. Da qui partirà il futuro di Novo Modo che è poi il futuro di tutta la società
civile e di coloro che realmente vogliono impegnarsi per il bene comune
http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/471376/Novo-modo-600-persone-allakermesse-sulle-responsabilita-comuni
Da Vita.it del 20/10/2014
AZZARDO
Quel misterioso protocollo d’intesa
di Lorenzo Maria Alvaro
Il riassunto di tutto quel che c’è da sapere sull’accordo tra la campagna Mettiamoci in
Gioco e Sistema Gioco Italia (Confindustria)in cui tutte le associazioni sono firmatarie ma
nessuna lo ammette. Ma qualcosa si muove, l'Auser per esempio...
Sembra proprio che Confindustria abbia deciso di firmare un protocollo d'intesa con un
buon parroco e poco più. O almeno è questa la conlcusione cui porta la lettura della sfilza
di comunicati con cui le associazioni partecipanti a Mettiamoci in Gioco stanno prendendo
in questi giorni le distanze dai fatti.
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Ma andiamo con ordine.
Il 15 ottobre scorso la campagna contro il gioco d'azzardo “Mettiamoci in Gioco” (in cui si
raccolgono Acli, Ada, Adusbef, Alea, Anci, Anteas, Arci, Associazione Orthos, Auser, Aupi,
Avviso Pubblico, Azione Cattolica Italiana, Cgil, Cisl, Cnca, Conagga, Ctg, Federazione
Scs-Cnos/Salesiani per il sociale, Federconsumatori, FeDerSerD, Fict, Fitel, Fondazione
Pime, Fp Cgil, Gruppo Abele, InterCear, Ital Uil, Lega Consumatori, Libera, Rete della
conoscenza, Scuola delle Buone Pratiche/Legautonomie – Terre di mezzo, Shakerpensieri senza dimora, Uil, Uil Pensionati, Uisp) firma un protocollo d'intesa con Sistema
Gioco Italia, il settore di Confindustria che riunisce i pricipali marchi e protagonisti dell
settore del gioco d'azzardo legalizzato dandone notizia sul proprio sito.
Un protocollo che mira ad «elaborare insieme proposte su illegalità e infiltrazioni mafiose,
pubblicità, minori e sistemi di cura», come spiegano sempre dalla Campagna. Ma tra le
tante cose che il testo dice c'è anche il vincolo per i partecipanti a non utilizzare più il
termine azzardo ma il più consono «gioco con alea con vincite in denaro». A questo si
aggiunge una clausola di riservatezza per cui la comunicazione di quanto i due attori si
diranno da qui in poi sarà concordato. Per capire come sia stato accolto il testo
dell'accordo dal mondo di chi si batte contro l'azzardo legalizzato basta leggere quella che
a riguardo hanno scritto Luigino Bruni e Leonardo Becchetti.
Tornando ai fatti, nelle ore successiva alla firma del protocollo d'intesa, su Vita.it il nostro
giornalista Marco Dotti riprende il Comunicato della Campagna “Mettiamoci in gioco” e del
suo portavoce Don Armando Zappollini, presidente di Cnca, il Coordinamento nazionale
delle comunità di accoglienza. Avendo dato notizia dell'accordo anche criticandolo
abbiamo poi pubblicato una lunga intervista in cui il prete spiega la ratio che ha portato
all'accordo.
Spiega lo stesso Zappollini che ci sono voluti 8 mesi di trattive e incontri, cui hanno
partecipato anche i delegati di tutte le associazioni partecipanti a Mettiamoci in Gioco e
che compaiono come firmatarie.
Ed è a questo punto che la faccenda, al di là dei contenuti del Protocollo, diventa un caso.
Perché Vita, contattando i presidenti delle associazioni firmatarie scopre che, in
sostanza, il protocollo è stato firmato a loro insaputa. O almeno è questo che i presidenti
delle associazioni sostengono.
Riassumendo:
And e Alea smentiscono di essere al corrente dell'accordo sia per voce di Daniela
Capitanucci presidente e socia fondatrice che con comunicati ufficiali. Sulla stessa
posizone anche Azione Cattolica che si dissocia via comunicato. Il presidente di Acli,
Gianni Bottalico non sa nulla della faccenda e ci rimanda al delegato Antonio Russo, che
non smentisce la firma ma non spiega il perché la presidenza non ne sia informata. Il
presidente di Auser, Enzo Costa, sconfessa il contenuto annunciando che l'accordo sarà
al centro di discussione dentro e fuori l'associazione. Anche Don Mimmo Battaglia,
presidente di Fict, non conosce il contenuto dell'accordo e ci rimanda al suo delegato. Poi
c'è chi non risponde al telefono, come la presidente di Arci, Francesca Chiavacci.
Insomma Don Zappollini è sempre più solo. Gli rimane il suo mondo di riferimento, cioè
Libera, che è anche capofila di Mettiamoci in Gioco.
E invece no, perché venerdì scorso a Vita arriva una lunga lettera di Don Luigi Ciotti,
padre dell'associazione, che assesta il colpo finale: «del protocollo d’intesa firmato dalle
realtà di “Mettiamoci in gioco” non sapevo assolutamente nulla e tuttora ne ignoro i
contenuti». Don Ciotti annuncia anche comunicati ufficiali da parte di Libera e Gruppo
Abele che infatti arrivano, anche qui dissociandosi dalla firma del Protocollo (qui)
C'è poi la posizione di Don Colmegna (anche lui tra i firmatari e anche lui a "sua
insaputa”), che sulla faccenda ha voluto parlare solo durante un convegno sull'azzardo a
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Milano sabato scorso. Una breve intervento in cui si è detto estraneo alla firma per poi
sottolineare che si deve favorire l’unità al contrasto dell’azzardo.
Posizione questa ricalcata anche dall’ultimo comunicato di Mettiamoci in Gioco che già dal
titolo fa capire quanta sia la confusione: “Nessuna alleanza con i concessionari di
Confindustria. Un solo obiettivo: la legge quadro sul gioco d’azzardo”.
Proprio in queste ore Renzi propone di innalzare la tassazione Preu (le tasse su slot e Vlt)
ed è in approvazione il ddl Binetti sul contrasto al Gap. Perchè allora parlare con
Confindustria quando la politica dimostra di essere sul pezzo? In conclusione c'è da dire
che tutte queste smentite non cambiano lo stato delle cose: c'è un protocollo d'intesa
firmato. Ad oggi infatti tutti i partecipanti a Mettiamoci in Gioco sono contraenti di un
accordo con Confindustria. Per stralciare la propria posizione un comunicato non basta,
occorrerebbe il coraggio di dire: stracciate quell'accordo. Non in mio nome.
Qualcosa di simile viene finalmente detto da Auser in un Comunicato arrivato poco fa in
redazione. Eccolo: “L’Auser nazionale ritiene che la gestione dei contenuti del protocollo
sia un fatto non condivisibile e contraddittorio rispetto a quanto sostenuto fino ad oggi
tale che, se portato avanti, determinerà l’uscita dell’Auser dalla Campagna stessa”.
Finalmente una posizione coerente e coraggiosa.
http://www.vita.it/noslot/quel-misterioso-protocollo-d-intesa.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 21/10/2014, pag. 9
La Perugia-Assisi conferma la forza del
sentimento pacifista italiano
Marcia della pace. Nonostante gli F35 e le spese militari in aumento
Emanuele Giordana
Se la voglia di pace si misura anche numericamente, la scorsa domenica sembra confermare che questo sentimento rimane importante nel cuore profondo dell’Italia.
Centomila secondo gli organizzatori, ben oltre per Andrea Ferrari, presidente degli Enti
locali per la pace, sarebbero stati i partecipanti della 40ma Marcia della pace Perugia
Assisi, percorso di 16 chilometri che dal 1961, quando Aldo Capitini lanciò la prima camminata simbolica con la bandiera a strisce colorate, ricorda che in questo Paese la Costituzione ripudia la guerra. Agenzie e televisioni confermano.
Così le nubi che si erano addensate su un evento che compie 53 anni – tra distinguo,
polemiche e addirittura dissociazioni – si dissolvono in una giornata solare a conferma che
anche la ritualità ha un suo perché e che dentro quella marcia ci stanno le varie posizioni
che si legano al pacifismo italiano. In effetti il timore che qualcosa andasse storto c’era:
alla vigilia il Movimento Nonviolento si sfila contestando una ritualità senza contenuti e lo
stesso fa l’Agesci, la maggior associazione degli scout italiani che lascia così il campo al
Masci, un movimento scoutistico di sola matrice cattolica.
Infine c’è una crisi che attraversa il movimento per la pace e una crisi economica che forse
rende difficile anche metter la benzina. E, per dirla tutta, c’è anche un governo che
dovrebbe tradursi nella sinistra al potere dove però balenano fulmini bellicisti – come
dimostra la recente polemica tra il ministro della Difesa Pinotti e L’Espresso che paventa
un ritorno dei nostri soldati in Irak — e l’Italia sembra andare nella direzione opposta
a quella indicata dall’articolo 11. Ma forse, proprio per questo malessere diffuso tra «missioni di pace», F-35 e spese militari sempre in aumento, la gente si muove, esce di casa,
cammina. I numeri, ancora un volta, sono confortanti.
Alla marcia hanno aderito 117 scuole, 277 enti locali, tutte le Regioni italiane e un totale di
526 città. E ancora, 479 associazioni di cui 80 nazionali. Al tavolo di una conferenza
stampa che fa il punto dell’evento c’è evidente soddisfazione: una lettera del capo dello
Stato e una del Papa. La presidente della Camera che, dopo un tiraemolla, arriva e si
mette in marcia. Migliaia di persone che fanno la camminata, altre che arrivano fino in pullman sin sotto la città di Assisi per far soltanto la salita alla Rocca.
Alex Zanotelli, l’ispirato ex direttore di Nigrizia che fu cacciato per le sue posizioni radicali,
ci mette giustizia e ambiente e se la prende con un pianeta che divora se stesso con un
10% che mangia per il resto del 90. Luigi Ciotti, un uomo che quando passa in mezzo alla
gente solleva ovazioni e applausi, ci mette legalità e lotta alla mafia.
Flavio Lotti ringrazia le scuole che, in effetti, sono le grandi protagoniste dell’evento: Aluisi
Tosolini, il preside che ha organizzato la loro adesione, rivendica con orgoglio che questi
giovani studenti – ce n’è per tutte le età – a lezione studiano la Costituzione. Padre Fortunato, del sacro convento di Assisi – anfitrione storico della marcia – elargisce sorrisi.
Dunque per ora le polemiche si mettono da parte. Del resto ci sono sempre state. A margine del Salone dell’Editoria sociale – a Roma negli stessi giorni – Goffredo Fofi sorride
sornione di un ricordo: quando alla terza Perugia Assisi, lui che aveva fatto anche la
prima, decise addirittura una contromarcia (che poi non si fece) da Assisi a Perugia «per9
ché – dice – il Pci ci aveva messo il cappello sopra e non era questo lo spirito». Anche le
polemiche, forse, sono un segno di vitalità.
Del 21/10/2014, pag. RM V
Il prefetto ordina: “Cancellate le nozze gay”
L’ultimatum al sindaco perché provveda “in tempi brevi” è destinato a cadere nel
vuoto: Marino pensa al ricorso Ue Ma il Viminale studia la procedura per
l’annullamento. Le coppie trascritte sabato: “Andremo dal giudice”
GIOVANNA VITALE
L’ORDINE è perentorio: «Per evitare irregolarità sul registro di stato civile» il sindaco
Marino cancelli subito «le trascrizioni dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello
stesso sesso» effettuate sabato scorso in Campidoglio, altrimenti sarà la prefettura ad
avviare d’ufficio l’iter di annullamento.
Stavolta Giuseppe Pecoraro fa sul serio. Constatato il fallimento della moral suasion
esercitata per giorni sul primo cittadino, caduto nel vuoto l’invito a desistere messo per
iscritto alla vigilia della cerimonia, il rappresentante territoriale del governo ha dato seguito
alle indicazioni ricevute dal ministro dell’Interno e inviato all’inquilino di palazzo Senatorio
una richiesta formale di dietrofront. Che però Marino, ancora a Cracovia con gli studenti,
sarebbe orientato a lasciar scadere. Anche perché la lettera «non dà una data entro cui
ottemperare, ma usa una formula generica», fanno notare i suoi. Dice cioè di provvedere
«in tempi rapidi». Come a far intendere che forse sulla direttrice Viminale- prefettura non
hanno ancora le idee chiare. E se pure le aves- sero, non sarebbe un problema: l’arma del
ricorso alla Corte di giustizia europea («A causa della potenziale discriminazione
contenuta in un’azione di cancellazione di un atto civile, eseguito legalmente in un paese
Ue, solo sulla base del sesso dei contraenti ») resta sempre carica.
In realtà negli uffici di Alfano, dove in mattinata è stata convocata una riunione ad hoc,
sono decisi ad andare fino in fondo: dalla loro ci sarebbero non solo diverse sentenze
(della Corte Costituzionale e della Cassazione) che depongono per l’illegalità delle
trascrizioni dei matrimoni gay, ma soprattutto un Dpr (il 396 del 2000) che all’articolo 9
recita: «L’ufficiale dello stato civile è tenuto a uniformarsi alle istruzioni che vengono
impartite dal ministero dell’Interno», specificando al comma seguente che «la vigilanza
sugli uffici dello stato civile spetta al prefetto». Una norma che si adatta alla perfezione al
“caso Roma”, secondo i tecnici del Viminale. Per i quali, finché non interverrà una legge
specifica, sarà impossibile registrare all’anagrafe le nozze tra omosessuali contratte
all’estero. L’unica cosa che resta da decidere, visto che è la prima volta che si presenta un
caso del genere, è la procedura: ossia come provvedere materialmente a un’eventuale
cancellazione degli atti di stato civile ordinata dal prefetto. Ma le coppie che sabato scorso
sono state riconosciute marito& marito-moglie&moglie dal sindaco Marino non ci stanno.
«Siamo pronti a far partire una diffida», annunciano i legali di una di esse. «Tecnicamente
— spiega l’avvocato Antonio Rotelli della Rete Lenford — il prefetto non può procedere
con la cancellazione perché è una attività che spetta esclusivamente ad un giudice e non
ad un’autorità amministrativa, neanche al ministro. In caso contrario, siamo pronti a
impugnare tutto e a rivolgerci alla magistratura». Puntano invece sulla mozione degli affetti
Jeff e Domenico, attivisti di Gay Center e “sposi” in Campidoglio: «Caro Prefetto ci incontri,
non siamo un problema di ordine pubblico», l’appello lanciato ieri. «Siamo solo una
coppia. Non possiamo essere coniugi in Belgio e single a Roma».
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Del 21/10/2014, pag. 4
Varese, agenti in tribunale per la morte di
Uva. Ci sono voluti 6 anni
Mario di Vito
Imputati, in aula. Sei anni e mezzo dopo la morte di Giuseppe Uva, per la prima volta i due
carabinieri e i sei poliziotti che lo arrestarono e lo portarono nella caserma di via Saffi, varcano le soglie dell’aula bunker del tribunale di Varese. Contro di loro le accuse sono
pesantissime: omicidio preterintenzionale, abuso di potere, arresto illegale e abbandono
d’incapace. Una vittoria già così, visti i sei anni di fatiche dolorosissime patite dalla sorella
della vittima, Lucia Uva, che in più occasioni si è scontrata con i procuratori Agostino
Abate e Sara Arduini, che hanno messo sotto inchiesta tutti (medici, giornalisti, la stessa
Lucia) ma mai hanno voluto sfiorare gli uomini in divisa: per loro avevano chiesto due volte
l’archiviazione, trovando sempre l’opposizione del gip di turno. Anche il pm che arrivò in
loro sostituzione, Felice Isnardi, concluse che Giuseppe non era stato pestato, ma, anche
in questo caso, alla fine il gup Stefano Sala decise per il dibattimento in aula.
La giornata a Varese è cominciata con l’ammissione delle telecamere di Raitre e dei
microfoni di Radio Radicale, che potranno trasmettere il processo in differita. La Corte
d’Assise di Varese, presieduta dal giudice Vito Piglionica, ha anche ammesso i parenti di
Uva come parti civili, escludendo però l’associazione A Buon Diritto del senatore Luigi
Manconi. L’avvocato degli agenti (nonché consigliere regionale eletto con il Pdl) Luca Marsico ha cercato di opporsi a entrambe le istanze, parlando apertamente di «processo
mediatico» e cercando di mettere subito sotto accusa lo stile di vita di Giuseppe Uva.
Tutto era cominciato con una bravata, la notte del 14 giugno 2008, Giuseppe e il suo
amico Alberto Biggiogero, ubriachi, stavano spostando una transenna in mezzo alla
strada. Arrivò una pattuglia, un agente disse: «Uva, proprio te cercavamo». Poi l’arresto, le
ore in caserma tra urla e — secondo l’accusa — sevizie, il Tso, il ricovero in ospedale e la
morte. Adesso sarà un processo a stabilire cosa successe quella notte. L’aspettativa
è grande: tra il pubblico si sono visti i ragazzi di Acad (Associazione contro gli abusi in
divisa), Domenica Ferrulli (figlia di Michele, morto durante l’arresto, a Milano, nel 2011),
Paolo Scaroni (il tifoso del Brescia picchiato brutalmente dalla celere dopo la partita,
a Verona, nel 2005), oltre a Biggiogero: tutti lì a sostenere Lucia Uva e la sua battaglia.
C’era anche Gianni Tonelli, leader del Sap, a testimoniare la solidarietà sua e del sindacato di polizia ai colleghi finiti alla sbarra. Un copione che si ripete sempre uguale: furono
proprio i militanti del Sap a tributare cinque minuti con standing ovation agli agenti condannati per l’omicidio Aldrovandi, durante l’ultimo congresso, lo scorso aprile.
«La sua presenza non ci disturba – ha detto l’avvocato di Lucia, Fabio Ambrosetti —
l’udienza è pubblica, chiunque può venire a vedere». La giornata, ad ogni modo, è stata
buona: «A noi basterebbe una condanna in primo grado per poter dimostrare che quella
notte ci furono violenze. La Corte ci ha dato l’idea di voler fare in fretta». I primi testimoni
saranno sentiti il prossimo 14 novembre, a parte l’omicidio preterintenzionale, tutti i reati
contestati agli agenti andranno in prescrizione il 15 dicembre del 2015: c’è tempo per fare
un processo, ma non per superare tutti e tre i gradi di giudizio.
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ESTERI
Del 21/10/2014, pag. 1-14
Il reportage
La feroce internazionale dei jihadisti dell’Is accende sogni nei Paesi arabi. Ma anche
la paura in Occidente che la guerra possa provocare un terremoto geopolitico. Il
presidente turco non muove i tank alla la frontiera per non rafforzare i ribelli del Pkk
Avvantaggiando così il nemico storico Assad
Califfi immaginari, tagliagole e curdi
Ecco gli incubi del “sultano” Erdogan
BERNARDO VALLI
ISTANBUL
È UN califfato immaginario quello proclamato il 29 giugno nella valle del Tigri e
dell’Eufrate. Nella sua traduzione pratica è invece una macchina infernale. E’ immaginario
perché risveglia il ricordo della città islamica nell’età classica, spesso associata all’idea di
un’epoca d’oro dell’Islam, al paradiso perduto, alla potenza svanita, alla comunità dei
credenti ancora unita. Insomma un messianismo emblematico della crisi che attraversa il
mondo arabo. E al tempo stesso in concreto, oggi, è un’entità cosmopolita con confini
instabili e ambizioni sterminate, composta da fanatici religiosi, giovani in cerca
d’avventura, tagliagole, stupratori, mercenari e buoni combattenti. Un’internazionale
formatasi in prossimità dei luoghi dove furono ambientate alcune delle bellissime pagine di
Mille e una notte. Dunque accende fantasie e paure. Sogni e incubi. Le grandi istituzioni
sunnite e ancor meno quelle sciite non gli riconoscono la minima autenticità. Secondo i
grandi lettori del Corano, il testo sacro dettato da Dio a Maometto, tramite l’Arcangelo
Gabriele, non parla mai di istituzione politica con quel termine. La parola «khalifa » al
singolare appare soltanto due volte a proposito di Adamo e di Davide. E il suo significato si
avvicina a «luogotenenza». Per questo i primi successori del Profeta adottarono il titolo di
califfo. La storia ha fatto il resto fino all’abolizione del califfato decretata (1924) da Ataturk
allo scioglimento dell’Impero ottomano.
Questo preambolo spiega, almeno in parte, la complessità e le contraddizioni della guerra
del califfato immaginario. I fronti caldi, in cui si combatte, si decapita e si violenta, sono
due: quello siriano e quello iracheno. Ma il conflitto può estendersi in modo più o meno
cruento in altre regioni del mondo musulmano. Dove la jihad, intesa all’origine come
mobilitazione spirituale, rischia di diventare per emulazione violenta. Sul piano geopolitico
è un autentico terremoto, perché è esploso in un’area in cui i confini tracciati dagli
occidentali un secolo fa, sulle spo- glie dell’Impero ottomano, frantumano gruppi etnici e
religiosi e spaccano nazioni ansiose di nascere o rinascere. Senza i richiami messianici
che rimbalzano in comunità frustrate alla ricerca di un rifugio nel remoto passato religioso,
l’impatto militare del califfato immaginario sarebbe più modesto di quel che appare.
Nelle città del Kurdistan turco, a Diyarbakir, sulle rive del Tigri, a Batman, a Bingol, a Van,
all’inizio del mese almeno trenta manifestanti sono stati uccisi, e più di cento feriti, mentre
esprimevano solidarietà ai curdi siriani impegnati a difendere Kobane dai jihadisti del
califfato. Era anche una protesta contro la passività delle truppe turche schierate lungo la
frontiera con il solo non nobile compito di impedire il passaggio degli aiuti alla città
aggredita e a portata di mano. Senza l’autorevole invito alla calma di Abdullah Ocalan, il
leader curdo imprigionato da anni, la situazione si sarebbe aggravata in Turchia. Questo è
l’aspetto etnico del conflitto che trabocca dal campo di battaglia siro — iracheno. In questo
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caso la religione non c’entra: si tratta infatti di uno scontro tra sunniti alimentato dal
patriottismo represso.
La posizione turca appare ambigua. «Zero problemi con i vicini» era la formula riassuntiva
della dottrina del ministro degli affari esteri Ahmet Davutoðlu. Il quale nel frattempo è
diventato capo del governo all’ombra di Recep Tayyip Erdoðan, eletto presidente. In
quanto alla formula del ministro filosofo (Davutoglu si è definito kantiano) adesso appare
non solo superata ma ridicola. I problemi con i vicini infatti non si contano. Da quando lo
Stato islamico, o califfato, si è impegnato in un’offensiva contro Kobane, diventata una
città simbolo, il governo turco si è chiuso in un rifiuto non sempre decifrabile. E
paradossalmente la posizione potrebbe appesantirsi se i jihadisti dovessero perdere
terreno e i curdi finissero col vincere la battaglia. Se Kobane resterà nelle mani dei suoi
naturali abitanti e gli aggressori subiranno una sconfitta e dovranno abbandonare i
sobborghi che occupano, per Erdoðan sarebbe una scommessa perduta.
Pur moltiplicando gli appelli a un intervento terrestre oltre che aereo, Erdoðan è rimasto
immobile per sei settimane. E fermi, silenziosi sono rimasti i suoi carri armati sulle colline
turche dominanti la città siriana assediata. Rivelandosi operativi soltanto per impedire ai
curdi di Turchia di soccorrere i loro amici oltre confine. Nelle ultime ore c’è stata tuttavia
una svolta. In seguito a una lunga e pare tempestosa telefonata di Barack Obama a
Erdoðan avvenuta domenica, il ministro degli Esteri, Mevlut Çavuþoðlu, ha annunciato che
i curdi iracheni, i peshmerga, potranno raggiungere Kobane per battersi a fianco dei curdi
siriani contro i jihadisti del califfato. Erdðan ha dovuto cedere, almeno in parte, alle
richieste del presidente americano, e tener conto dei severi giudizi internazionali per il suo
comportamento davanti a quel che accade appena al di là della sua frontiera. E ha messo
sul tappeto, come un abile giocatore, i curdi iracheni, con i quali ha buoni rapporti, perché
non minacciano l’integrità della Turchia e gli vendono direttamente il petrolio, senza
passare per Bagdad. Per queste loro virtù e perché buoni combattenti i peshmerga sono
autorizzati a raggiungere Kobane. Diversa la posizione dei curdi di Turchia, ai quali non è
concesso di soccorrere i fratelli siriani.
Erdogan si augura il crollo del regime di Bashar al Assad ed anche la sconfitta di Daesh
(acronimo arabo di Stato islamico), ma al tempo stesso non vuole rafforzare troppo i
combattenti curdi di Kobane, molti dei quali sono affiliati al Partito di unione democratica
(PYD), sezione siriana del Partito dei lala voratori curdi (PKK) di Turchia, il quale è fuori
legge e schedato come movimento terrorista dopo decenni di lotta contro il governo di
Ankara. Da qui la preferenza data ai curdi dell’Iraq, estranei alle vicende turche. Anche sui
curdi siriani pesano forti sospetti. Hanno legami con i fratelli turchi e soprattutto
usufruiscono già di una larga autonomia. Un loro successo sul campo di battaglia
equivarrebbe alla prima pietra di un futuro Kurdistan indipendente, capace di esercitare
una forte attrazione su tutte le comunità disperse nei vari Paesi del Medio Oriente. Non
esclusi i circa dodici milioni che vivono in Turchia. Affiancati alla città di Kobane ci sono
altri due centri curdi autoamministrati, Afrin e Diezireh. L’insieme del territorio semi
indipendente è chiamato Rojava. Per Ankara è un grosso fastidio.
Questo spiegherebbe l’atteggiamento di Erdoðan. Nel passato recente il suo governo ha
aiutato i gruppi jihadisti impegnati contro il regime di Damasco e simultaneamente contro i
curdi. Con lo scoppio della guerra civile siriana la sua politica è diventata zigzagante. A
tratti ambigua. Di recente non ha neppure esitato a rifiutare, almeno per ora, l’uso della
base aerea di Incirlik agli Stati Uniti che la chiedevano per poter intervenire più facilmente
a Kobane. E ha suggerito invano agli americani di creare una “no-fly zone” per privare
Bashar al Assad della superiorità aerea che gli consente di bombardare senza rischio i
ribelli risparmiati dalle incursioni americane. Washington ha deciso che la “no-fly zone” è
troppo costosa. È una strana guerra quella del califfato immaginario: Bashar al Assad e
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Barack Obama, avversari dichiarati, si spartiscono il compito di attaccare dal cielo i ribelli
che a terra si combattono tra di loro, trascurando spesso il nemico originario, il regime di
Damasco. Il quale per ora esce abbastanza bene dalla mischia, poiché controlla metà del
Paese e la maggioranza della popolazione.
Il caso della Turchia è bizzarro ma non è l’unico. È senz’altro particolare e decisivo per la
forza militare di cui dispone il paese. Il quale è membro della Nato ma rifiuta agli alleati
americani l’uso di una base aerea che faciliterebbe le loro incursioni in Siria. Autorizzato
dal Parlamento a intervenire in Siria, il presidente Erdoðan rimane immobile lungo il
confine siriano con i suoi carri armati. Con il risultato che a trarre vantaggio della
situazione è proprio Bashar al Assad, che Erdoðan considera il suo principale avversario.
Essendo lui, Erdoðan, un sunnita fervente, e Assad un alawita, quindi dell’area religiosa
sciita. Ma a prevalere in questo caso è soprattutto la realpolitik. La religione c’entra poco. Il
Medio Oriente è come una vasta sabbia mobile, da cui emerge una nazione frantumata e
sommersa: il Kurdistan. Erdoðan se lo sogna di notte, anche se per adesso è uno dei tanti
fantasmi della regione.
Dai Paesi arabi, come del resto dalla Turchia, sono partiti i primi aiuti ai numerosi gruppi
islamisti armati avversari del regime di Damasco. I sunniti dell’Arabia saudita, degli Emirati
del Golfo e del Qatar, spesso in competizione, hanno aiutato i gruppi islamisti armati per
colpire il regime di Assad, alleato degli ayatollah di Teheran, capitale sciita alla quale si è
affiancata Bagdad, dopo l’invasione americana, da cui è spuntato un governo sciita. In tre
anni di guerra civile i movimenti islamisti hanno neutralizzato la vera forza moderata
d’opposizione (il Libero esercito siriano) e si sono immersi in una rissa senza fine tra di
loro, favorendo di fatto il loro nemico dichiarato, il regime di Assad. Non è poi tanto
azzardato sostenere che Daesh, ossia il califfato, sia un alleato obiettivo di Bashar al
Assad. La notte dei lunghi coltelli islamisti oppone i Fratelli musulmani ai salafiti
(musulmani integralisti), e la vecchia Al Qaeda ai discepoli infedeli di Daesch.
Se sul terreno, in Siria e in Iraq, è in corso una mischia non sempre decifrabile, le
coscienze di molti musulmani sono in tumulto. Stando a un sondaggio la stragrande
maggioranza dei sauditi, appartenenti a un Paese che partecipa alla coalizione guidata
dagli americani, giudica il califfato «conforme ai valori dell’Islam e alla legge islamica». Le
famiglie dei giovani sauditi morti combattendo nelle file jihadiste li considerano martiri e
quindi ne sono fiere, e invece di esprimere dolore non esitano a manifestare l’orgoglio per
quei figli destinati al paradiso riservato a chi muore per l’Islam. Nonostante la condanna
delle autorità religiose la vendita di indumenti con scritte inneggianti al califfato e invitanti
alla jihad hanno un notevole successo, anche perché pubblicizzati sugli website.
Enfatizzato da generazioni di teologi e di letterati come un «paradiso perduto », il califfato
sia pur immaginario sollecita le fantasie. Favorisce il fenomeno la difficoltà intellettuale e
politica a pensare o a creare dei modelli alternativi, e quindi la naturale propensione a
ricorrere a movimenti messianici rivolti al passato.
Gli Stati Uniti non hanno mai partecipato a una guerra del genere. Si tratta di bonificare
politicamente e di ridisegnare una regione, che va da Bagdad, dove muoiono per attentati
una trentina di persone al giorno, a Raqqa, dove un califfato immaginario è retto da un
chierico che si ispira al Settimo secolo, ma che è un esperto o quasi in comunicazione di
massa. Spegnere questo conflitto sorvolando e bombardando il campo di battaglia, senza
mettere piede a terra. Questo è il quesito posto agli strateghi del Pentagono. Ma una
politica condotta Paese per Paese, tesa ad isolare quella che gli storici hanno battezzato
la Mezzaluna fertile, la curva striscia di terra adesso insanguinata che taglia il Tigri e
l’Eufrate, è probabilmente la strada più intelligente da seguire per arrivare col tempo a un
risultato. Che non sarà comunque una vittoria.
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Del 21/10/2014, pag. 15
Kobane, la svolta di Ankara Sì al passaggio
dei peshmerga dopo il pressing americano
ALIX VAN BUREN
LA TURCHIA di Erdogan, costretta all’angolo da una bufera di critiche internazionali, apre
a sorpresa il passaggio ai curdi iracheni, autorizzandoli a soccorrere i curdi siriani
assediati a Kobane dallo Stato islamico (Is). Il ripensamento di Ankara, accusata di inerzia
se non di “complicità” con l’Is per il rifiuto di intervenire a sostegno di Kobane malgrado
l’insistenza degli alleati, e di sigillare le frontiere al passaggio dei jihadisti, avviene dopo un
formidabile pressing americano. Nella notte fra domenica e lunedì, tre C-1-30 Usa
paracadutano ai curdi siriani 27 carichi di armi, munizioni e farmaci. È la risposta di
Washington a Erdogan, il quale aveva appena escluso ogni aiuto all’Ypg, l’esercito del
Kurdistan siriano, definito da Ankara «terrorista». L’intervento Usa è preceduto da una
«aspra» conversazione telefonica fra il presidente Obama e il turco. Il segretario di Stato
Kerry lancia un’altra stoccata: «Sarebbe difficile sotto il profilo morale» negare sostegno
«ai valorosi curdi», dice. È allora che Ankara inverte la rotta: come, però, e da dove
passeranno i peshmerga è tutto da stabilire: «I colloqui sono ancora in corso», è vago il
ministro degli Esteri Çavuþoðlu. Washington opera una scelta di campo: i combattenti
dell’Ypg siriano stanno rivelandosi le più efficaci “forze di terra” nella guerra della
Coalizione contro l’Is. In 36 giorni, hanno pressoché respinto l’offensiva dei jihadisti
nonostante i rinforzi che questi hanno ricevuto da Raqqa, la “capitale” siriana
dell’autoproclamatosi “califfato”. Ieri i curdi siriani costringono l’Is ad arretrare nel quartiere
di Kaniye Kurda vicino al valico di confine a Kobane; lo stesso accade sui fronti
meridionale e orientale. Catturano mitra, munizioni e lanciagranate. Per il secondo giorno
di fila, da Kobane non arriva l’eco assordante delle armi. L’Is sarebbe stato allontanato da
gran parte della città: alle spalle ha il deserto, dov’è facile bersaglio dei raid aerei Usa. Di
fronte ha le vie del centro di Kobane, dove sono appostati uomini e donne dell’Ypg.
L’avanzata jihadista ora sembra arenarsi. Da Roma papa Francesco al termine di un
Concistoro dedicato al Medio Oriente descrive «un fenomeno di terrorismo di dimensioni
prima inimmaginabili»; denuncia orrori e persecuzioni «purtroppo nell’indifferenza dei più».
E ammonisce: «Non possiamo rassegnarci a pensare al Medio Oriente senza i cristiani,
che da duemila anni vi confessano il nome di Gesù».
Del 21/10/2014, pag. 8
La Turchia apre la frontiera ai peshmerga
Iraq/Siria. A Kobane i primi aiuti militari: dai jet Usa sganciate armi e
munizioni. In Iraq sotto attacco la città sacra sciita Karbala e Baghdad:
50 morti
Chiara Cruciati
Dopo un mese d’assedio a Kobane arrivano i primi aiuti militari. Dal cielo e da terra: domenica jet statunitensi hanno sganciato sulla città kurda a nord della Siria armi, munizioni
e medicinali inviati dalla regione autonoma del Kurdistan iracheno per «permettere la continuazione della resistenza contro l’Isis», si legge in un comunicato dell’esercito Usa.
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Da Irbil giungono anche combattenti: un gruppo di peshmerga attraverserà la frontiera tra
Turchia e Siria per raggiungere la città nella regione di Rojava, coordinati con le autorità
turche. Lo ha fatto sapere ieri il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu: «Stiamo aiutando i peshmerga ad entrare a Kobane. Non è nostro desiderio che la città cada». Una
decisione che stravolge la politica di immobilismo adottata finora da Ankara e che segue,
secondo l’agenzia stampa kurda Rudaw, alla richiesta del presidente del Kurdistan iracheno Barzani, ma soprattutto alla pressioni Usa nonostante il palese fastidio espresso dal
presidente Erdogan per la consegna di armi ai kurdi delle Ypg, le Unità di protezione popolare del Partito di Unità Democratica (Pyd), estensione siriana del Pkk.
La Casa Bianca aveva riportato di una telefonata, sabato, tra il presidente Obama e Erdogan con la quale si annunciava il lancio di aiuti militari su Kobane: «Comprendiamo la preoccupazione turca per il tipo di gruppi, compresi quelli kurdi, che sono stati impegnati in un
conflitto [con la Turchia] – ha commentato un funzionario Usa – Tuttavia, riteniamo che
Stati uniti e Turchia si trovino di fronte un nemico comune, l’Isis».
La reazione era scontata: «Il Pyd è per noi uguale al Pkk – ha detto Erdogan ad un gruppo
di giornalisti – Un’organizzazione terroristica. Sarebbe un errore per gli Stati uniti con cui
siamo amici e alleati nella Nato aspettarsi da noi un ‘sì’ al sostegno di un’organizzazione
terroristica». L’apatia turca nei confronti della resistenza di Kobane è frutto dell’alleanza tra
i kurdi siriani e il Partito Kurdo dei lavoratori di Abdullah Ocalan: per Ankara ogni fucile
consegnato a Rojava è un fucile nelle mani del Pkk. Per questo, il permesso di ingresso in
Siria è stato accordato ai soli kurdi iracheni e lascia fuori i combattenti del Pkk che da settimane tentano di passare la frontiera. Per ottenere quel sì dalle autorità turche, ha ricordato ieri il premier Davutoglu, è necessario che la coalizione globale guidata dagli Usa
accetti le precondizioni di Ankara: no-fly zone sul cielo della Siria e zona cuscinetto dentro
il territorio siriano. Precondizioni figlie del reale obiettivo turco, far cadere il presidente
Assad. Sul fronte Damasco, ieri, è stata l’Unione Europea a muoversi di nuovo: i ministri
degli Esteri dei paesi membri hanno aggiunto alla lista nera di Bruxelles altre 16 personalità legate al regime di Assad. E se a Kobane si continua a combattere l’assedio che nonostante l’intensificazione dei raid aerei non cessa (135 i bombardamenti sulla città), sul
fronte iracheno si assiste ad una recrudescenza dell’offensiva islamista. Protagonista
torna Sinjar, la comunità yazidi che all’inizio di agosto attirò l’attenzione del mondo: peshmergae coalizione aprirono un corridoio umanitario per salvare migliaia di persone intrappolate sul monte Sinjar, ma 5mila yazidi furono uccisi e altri 7mila – soprattutto donne –
finivano nelle mani dei miliziani di al-Baghdadi, venduti al mercato degli schiavi o costrette
a matrimoni con i combattenti islamisti.
Oggi l’assedio dello Stato Islamico soffoca di nuovo la minoranza irachena: sarebbero 700
le famiglie yazidi ancora in trappola sul monte Sinjar. Nelle stesse ore target dell’Isis era la
città sacra sciita di Karbala, considerata da Teheran la linea rossa che lo Stato Islamico
non dovrebbe superare. Ieri è stata colpita da 5 autobombe che hanno ucciso 15 persone
in zone commerciali e parcheggi vicino a uffici governativi.
Bombe anche a Baghdad: almeno 22 le vittime di un’esplosione in un mercato nel quartiere di al-Taramiya e 10 in un attentato suicida contro una moschea sciita nel distretto di
Sinak, colpita dopo la preghiera di mezzogiorno. La serie di attacchi è giunta dopo
l’attentato di domenica contro un’altra moschea sciita a Baghdad, nel quartiere di Harthiya.
Un attentatore suicida si è fatto saltare in aria durante un funerale, uccidendo 21 persone.
Baghdad è da giorni teatro di sanguinosi attacchi che colpiscono al cuore il potere centrale
e le sue istituzioni: in un mese e mezzo sono stati 31 gli attentati suicidi nella capitale.
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Del 21/10/2014, pag. 8
Libia, Haftar e jihadisti alla resa dei conti
Bengasi in fiamme. I miliziani di Ansar al Sharia al contrattacco, 80 le
vittime
Giuseppe Acconcia
I jihadisti di Ansar al Sharia vanno al contrattacco. Dopo l’offensiva dell’ex agente Cia,
Khalifa Haftar, che la scorsa settimana ha costretto alla ritirata temporanea i miliziani combattenti che nel luglio scorso avevano conquistato Bengasi, una serie di attentati ha dilaniato il capoluogo della Cirenaica. Sarebbero almeno 75 i morti negli attacchi suicidi, avvenuti negli ultimi cinque giorni di combattimenti. Le milizie islamiste avevano lanciato una
serie di appelli ai loro sostenitori nell’est della Libia e a tutti i combattenti armati a mobilitarsi per dare «una risposta alle bande del criminale Khalifa Haftar». Nell’appello, citato dai
media libici, si chiede di contattare al più presto i capi delle brigate armate e di scagliarsi
contro i miliziani che hanno appoggiato l’ex militare, soprattutto i Zintani che hanno sostenuto per primi il tentativo di colpo di stato perpetrato da Haftar nel maggio scorso.
Anche una donna è rimasta uccisa in uno degli attacchi dinamitardi contro una residenza,
nel centro di Bengasi, del generale Khalifa Haftar. Un’altra combattente è rimasta ferita.
Tra i morti c’è anche il coordinatore umanitario per il sostegno ai rifugiati di Bengasi, Omar
Amsib el Mashiti. L’operatore è stato trovato morto dai servizi di sicurezza libici. L’uomo
sarebbe stato freddato con un colpo d’arma da fuoco. Mashiti era stato rapito lo scorso
martedì davanti alla sua casa di al Kwarsha, a ovest di Bengasi; aveva accusato di
recente funzionari del consiglio municipale di Bengasi di aver sottratto i fondi destinati
all’assistenza agli sfollati della città. Secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), sono
oltre 300 mila gli sfollati interni in Libia dopo lo scoppio delle violenze l’estate scorsa.
Centinaia di profughi hanno tentato negli ultimi giorni di lasciare la Libia. In particolare, 196
migranti sono stati arrestati mentre tentavano di superare il confine libico attraverso il
deserto che separa la Libia dall’Egitto. Il ministero degli esteri egiziano ha rinnovato
l’allerta agli egiziani di lasciare il paese e a camionisti e agenti commerciali di non passare
dal porto di Tobruk per questioni di sicurezza. Decine di egiziani, tra cui sia sostenitori dei
Fratelli musulmani sia ufficiali dell’esercito, sono accusati di aver preso parte ai combattimenti nelle fila delle milizie islamiste Scudo di Misurata, 17 febbraio, Ansar al Sharia, o per
le milizie pro-militari tra cui i più agguerriti guerriglieri di Zintan. Molti di questi combattenti
egiziani sono stati arrestati con l’accusa di immigrazione illegale e marciscono nelle carceri libiche. Con l’aggravarsi della crisi, si susseguono gli appelli per un cessate il fuoco tra
militari e islamisti. «La situazione in Libia si è molto deteriorata», ha detto l’Alto rappresentante uscente per gli Affari esteri dell’Unione europea, Catherine Ashton. Anche i governi
di Francia, Italia, Germania, Regno Unito e Usa, i cui rappresentanti diplomatici in molti
casi hanno lasciato il paese, condannano le violenze che si stanno commettendo in Libia
e chiedono un’immediata cessazione delle ostilità. I firmatari del comunicato hanno condannato «i crimini commessi dai gruppi Ansar al-Sharia e gli attacchi di Khalifa Hafter
a Bengasi». Con l’inviato speciale per la Libia dell’Onu, Bernardino Leon, questi paesi
sono pronti ad adottare, «sanzioni individuali contro coloro che minacciano la stabilità
in Libia».
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Del 21/10/2014, pag. 5
Spagna, da movimento a partito, Podemos
verso l’assalto
L'assemblea fondativa . Nel week-end con 7mila militanti. Primi
problemi sulla leadership. Pablo Iglesias pronto per la segreteria, ma c'è
chi punta a una direzione collegiale
Giuseppe Grosso
<<Il cielo non si conquista con il consenso, ma con un assalto». È iniziata parafrasando
Marx l’assemblea fondativa di Podemos, anche se di sinistra e di destra, di mostri sacri del
passato e di etichette, nessuno vuol sentire parlare tra le fila del movimento, diventato
ormai partito. E non potrebbe essere altrimenti per una formazione senza storia (un vantaggio e uno svantaggio al contempo), spuntata quasi all’improvviso nel solco tracciato
dagli indignados del 15M. Tutto è nuovo, tutto è all’insegna di un’iconoclastia a volte un
po’ inquietante nel partito che «cambierà il Paese», come ha promesso Pablo Iglesias,
giovane professore di scienze politiche, principale ideologo e leader di Podemos.
L’assalto è previsto per il 2015, data delle elezioni generali che potrebbero segnare uno
spartiacque nella storia democratica della politica spagnola. Prima ci sarebbero le consultazioni municipali, ma la periferia politica non rientra nei piani di conquista, che puntano
dritto alla giugulare del sistema. «Occupare il centro dello scenario politico»: questo
è l’obiettivo che Pablo Iglesias ha riaffermato davanti a circa 7mila militanti accorsi
all’assemblea costituente di Podemos, che si è svolta tra sabato e domenica a Madrid. Un
obiettivo ambizioso, ma non irraggiungibile. A legittimarlo ci sono l’emorragia di voti dei
partiti maggioritari, spinti nel baratro dai dilaganti scandali di corruzione, il logorio inarrestabile del sistema bipartitico, e soprattutto i numeri: 1,2 milioni di voti alle scorse europee,
che hanno mandato ben cinque deputati a Strasburgo, sconvolgendo la superficie stagnante e paludosa della politica spagnola. Ed è proprio l’effetto «rottamazione» a seminare lo sconcerto nell’ancien régime, impreparato a contrastare (al di là delle facili accusa
di populismo) uno dei pochi progetti capaci, a livello europeo, di (ri)avvicinare le persone
alla politica. Di creare — secondo la definizione di Iglesias — aspettative «tra quella maggioranza sociale che vuole che i ricchi paghino più tasse, che sa che per porre fine alla
corruzione è necessario democratizzare l’economia e che è cosciente che la crisi deriva
dal fatto che siamo stati governati per anni da ladri». Le intenzioni, insomma, sono buone,
ma vari ostacoli si intravedono fin d’ora sul cammino. Il più insidioso viene dall’interno,
e riguarda la leadership del partito. Iglesias ha in mente un’organizzazione gerarchica tradizionale con una segretaria unipersonale (a cui ovviamente aspira), mentre altre correnti
del partito, rappresentate dall’europarlamentare Pablo Echenique, vorrebbero affidare la
direzione a organi collegiali, difficili da conciliare con la carismatica personalità di Iglesias,
spesso incline a vestire i panni del padre padrone. «Per vincere contro Rajoy o Pedro
Sánchez (segretario del Psoe, ndr), non ci vogliono tre segretari, ma uno», ha tagliato
corto. La questione è stata comunque sottoposta all’assemblea e fino a domenica prossima gli iscritti potranno votare via internet il modello di partito da adottare. Sulla base dei
risultati saranno presentate le candidature e il 15 novembre si saprà già il nome del primo
segretario di Podemos. Iglesias ha dichiarato che se la sua proposta non dovesse passare
rinuncerà alla candidatura, ma al momento è difficile immaginare il partito senza il suo
principale ideologo al timone.
Al voto degli iscritti (circa 150.000) anche altre importanti questioni etiche e organizzative:
la partecipazione alle municipali (la corrente dominante si asterrebbe), un tetto salariale
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per i dirigenti, la rinuncia al finanziamento bancario e — uno dei punti più controversi — lo
sbarramento che impedirebbe a militanti di altre formazioni l’accesso agli incarichi direttivi.
Una scelta appoggiata da Iglesias, che sembra fatta apposta per sigillare il partito
e tagliare fuori la corrente di Izquierda plural, formazione cofondatrice di Podemos. Intanto
alcune direttive fondamentali sono già state ratificate durante l’assemblea. Podemos si
impegnerà a universalizzare la sanità pubblica e a sospendere la riforma della scuola del
Pp, proponendo un testo alternativo che valorizzi l’istruzione pubblica; sul piano della lotta
per la trasparenza, si lavorerà per iscrivere tra i reati penali quelli riguardanti la corruzione,
istituendo il reato di associazione a delinquere per le malversazioni commesse da gruppi
politici. Tra le priorità, anche il diritto alla casa, fronte su cui Podemos ha sempre combattuto in prima linea: in agenda il contrasto agli sfratti e allo strapotere bancario
e l’universalizzazione del diritto alla casa. Sul piano economico, l’obiettivo sarà invece la
rinegoziazione del debito pubblico che prevede una revisione delle scadenze e dell’entità
del debito, considerato in parte illegittimo.
Del 21/10/2014, pag. 5
Turingia, la prima volta della Linke
Germania. Via libera dell’Spd al governo di coalizione rosso-rossoverde. Ramelow verso la presidenza del Land
Jacopo Rosatelli
L’annuncio atteso è arrivato: ieri i vertici del partito socialdemocratico (Spd) in Turingia
hanno dato il via libera alla formazione di un governo progressista di coalizione con alla
testa un esponente della Linke. Il piccolo Land della Germania orientale è ormai vicinissimo a diventare la prima regione tedesca guidata da un membro della formazione lontana
discendente dalla Sed, il partito-stato della Ddr. Giusto venticinque anni dopo la caduta del
Muro di Berlino.
Una notizia che era nell’aria: la scorsa settimana si erano positivamente conclusi i colloqui
fra le delegazioni di Linke, Spd e Verdi (rispettivamente 28%, 12% e 6% alle regionali) sui
temi di una possibile intesa, e la maggioranza degli osservatori scommetteva sulla decisione di ieri. Tecnicamente, gli incontri di vertice non erano ancora vere e proprie consultazioni di coalizione, ma soltanto «dialoghi esplorativi»: la politica tedesca vive di molte ritualità, e ogni passo viene compiuto con prudenza. Nella sostanza, però, la scelta di ieri significa un «sì» della Spd all’accordo con la Linke, anche se formalmente è solo una semaforo
verde per «ufficiali» trattative di coalizione. Il benestare dei Verdi, partner minore della
futura maggioranza, appare scontato.
Passeranno dunque ancora settimane di negoziato sul programma, e poi il 58enne Bodo
Ramelow dovrebbe diventare — salvo sempre possibili sorprese — il primo dirigente della
Linke (forza che si batte «per il superamento del capitalismo») a ricoprire il ruolo di ministerpräsident, cioè capo del governo di un Land. Nel sistema federale della Germania è un
ruolo decisamente più importante di quello di un presidente di regione in Italia. La novità
ha un grande valore politico per molte ragioni, in primo luogo di tipo simbolico: se Ramelow verrà eletto, finirà quella sorta di conventio ad excludendum che ha relegato il partito
più a sinistra dello spettro politico tedesco ai margini della scena per molti anni. Pur in presenza ancora di molte tangibili differenze Est-Ovest sul piano sociale, potrà dirsi compiuta
davvero la normalizzazione post-1989 almeno nella dimensione istituzionale.
Oltre ai simboli, c’è il dato puramente politico: la Linke alla guida di una coalizione di sinistra in un Land significa che una maggioranza alternativa alla grosse Koalition a livello
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federale non è più fantascienza. Non accadrà nella legislatura in corso, purtroppo: ma non
è impossibile che, se l’eventuale gabinetto Ramelow darà buona prova di sé, la Spd
prenda finalmente in considerazione alle prossime elezioni politiche (nel 2017) l’ipotesi di
stringere un patto tripartito con Verdi e Linke. Fino ad ora, infatti, tra le regole non scritte
che definivano il rapporto di non-collaborazione fra socialdemocratici ed «estremisti» della
Linke c’era il rifiuto da parte della Spd di entrare in governi regionali guidati dal partito ritenuto «troppo a sinistra». Ora questo tabù è caduto, e il segnale è inequivocabile.
Naturalmente, tutti i protagonisti della vicenda si stanno affrettando a dire che «ciò che
accade in Turingia riguarda solo la Turingia»: la Spd nazionale non vuole prestare il fianco
alle accuse di «deriva massimalista» (e di «oltraggio alla memoria») che possano arrivarle
dagli alleati della Cdu di Angela Merkel, e la Linke sa che i motivi di contrasto con i socialdemocratici a Berlino sono moltissimi. Allo stesso modo, tutti sanno che se un giorno
vedrà mai la luce un governo federale «rosso-rosso-verde» in Germania, la decisione di
ieri sarà ricordata come il primo passo che avrà condotto a quel risultato.
Del 21/10/2014, pag. 6
Contro Ebola scendono in pista i rapper
africani. E la Nigeria è virus-free
Ebola. Dopo il Senegal, un altro paese dichiarato "fuori pericolo"
dall'Oms. L’Europa si dota di un coordinatore unico, Cuba invia altri
medici. E in Liberia è la musica a informare sui rischi dell'epidemia
Marco Boccitto
Prime buone notizie da quando si assiste all’escalation di Ebola in Africa occidentale
e oltre. Innanzitutto dalla Nigeria, la nazione più popolosa del continente: dopo sei settimane in cui neanche un nuovo caso è stato segnalato, il paese è stato dichiarato «virus
free» dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), i cui responsabili ad Abuja parlano
finalmente di «una straordinaria storia di successo». Analoga (buona) sorte è toccata al
Senegal nei giorni scorsi, essendo anche qui passati 42 giorni – che equivalgono a due
periodi di incubazione completi — dall’ultimo caso.
Ma l’emergenza continua a mietere vittime in Liberia, Sierra Leone e Guinea-Conakry,
i paesi di gran lunga più colpiti dall’epidemia, e i meno preparati ad affrontarla, nei quali si
concentrano la maggioranza delle oltre 4.500 vittime registrate, con punte di mortalità che
superano il 70%. E qui l’Oms – con un ritardo proporzionale a quello con cui è stata messa
in campo una qualche risposta all’emergenza – ha ammesso i suoi iniziali errori di valutazione, dovuti a un misto di incompetenza, paludi burocratiche e mancanza di informazioni
attendibili. Ma lo fa indirettamente, in un documento interno che doveva restare segreto.
Tornando alle buone notizie, lo è sicuramente il fatto che anziché aspettare le campagne
di sensibilizzazione dell’Oms e dei loro governi, in Liberia, Sierra Leone e Guinea sono
scesi in campo rapper e radio comunitarie, voci che in una certa misura hanno ereditato il
prestigio e la capacità di penetrazione che nella tradizione erano appannaggio dei griot, la
casta dei cantastorie itineranti. Carlos Chirinos, direttore della Soas Radio alla University
of London e ricercatore nel campo delle connessioni tra radio, musica e sviluppo sociale in
Africa, segnala che almeno una dozzina di canzoni recenti — con relativi videoclip -, tempestive e di successo, sono incentrate su Ebola. E cita in particolare Ebola in town dei
liberiani Shadow, D-12 and Kuzzy of 2kings. Con l’invito, rivolto agli esperti chiamati
a fronteggiare l’emergenza, di collaborare più con gli artisti che con i politici, se l’obiettivo
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è quello di far arrivare un’informazione corretta al maggior numero di persone nel più
breve tempo possibile. Illustre esempio sulla capacità dei musicisti africani di risultare più
efficaci di qualsiasi campagna mediatica, il modo in cui la star congolese Franco parlò
dell’Aids nella sua ultima, sontuosa incisione, poco prima di morirne nel 1989.
Una buona notizia anche dalla Spagna, dove Teresa Romero, l’infermiera 44enne contagiata a Madrid, è risultata «negativa» al test del virus. Oggi arriveranno i risultati di un
secondo test se verrà confermata la guarigione, la donna potrà donare il sangue ad altri
malati. Medici senza frontiere (Msf) annuncia poi la guarigione di una dottoressa norvegese che era stata contagiata in Sierra Leone. Non ce l’ha fatta invece una operatrice di
Un Women in Sierra Leone. È il terzo membro dello staff Onu deceduto per Ebola.
Ieri anche l’Europa ha provato a battere un colpo: non sembra una cattiva notizia, a volersi
basare sull’entusiasmo con cui è stata data, la scelta dell’Ue di dotarsi di un coordinatore
unico per tutte le iniziative volte a contrastare l’epidemia in Africa e i conseguenti rischi di
“infiltrazione” sul territorio europeo. I ministri degli Esteri dell’Unione riuniti ieri a Lussemburgo danno inoltre il loro appoggio all’idea del segretario dell’Onu Ban Ki-moon per istituire, con sede a Accra, la prima missione sanitaria di emergenza delle Nazioni Unite,
l’Ebola Emergency Response (Unmeer). L’emergenza sarà anche al centro del vertice dei
leader europei in programma giovedì e venerdì prossimo. Il premier britannico David
Cameron ha già detto che chiederà il raddoppio dell’impegno finanziario europeo, per portarlo a un miliardo di euro.
Negli Usa le autorità smentiscono nuovi casi a Dallas e 43 persone entrate in contatto con
il «paziente zero» Thomas Eric Duncan sono da ieri ufficialmente fuori dalla quarantena.
Ma per l’Africa suona molto più promettente la notizia che arriva da Cuba, dove ieri si
è aperta una riunione straordinaria dei paesi Alba (l’Alleanza bolivariana dei popoli
d’America) per coordinare, anche qui, gli sforzi anti-Ebola. Il presidente cubano ha invitato
a evitare «qualsiasi politicizzazione che distragga dall’obiettivo fondamentale di affrontare
l’epidemia in Africa», ribadendo la volontà di collaborare con tutti, Stati uniti compresi, per
sconfiggere Ebola. Cuba aveva già inviato un team di 165 operatori specializzati in Sierra
Leone. Ieri Castro ha confermato l’invio di altre due «brigate sanitarie» in Liberia e Guinea
Conakry, con partenza già oggi.
Del 21/10/2014, pag. 6
Plenum del Pcc a Pechino: tutti uguali, sotto
Xi Jinping
Cina. Proseguirà la campagna anti- corruzione. Considerata terminata
quella «maoista» della «linea di massa»
Simone Pieranni
È cominciato ieri a Pechino il quarto Plenum del Partito comunista cinese, l’incontro al vertice che deciderà l’orizzonte politico per l’anno a venire.
Solitamente nella liturgia politica del Partito comunista, il terzo Plenum viene considerato
quello più rilevante, perché arriva dopo un anno circa di insediamento della leadership; ma
il meeting iniziato ieri (il cui termine è previsto per il 23 ottobre) segnerà una tappa straordinaria nello sviluppo politico e giudiziario cinese. L’argomento principale sarà infatti la
questione legata alla «Stato di diritto» (yifa zhiguo) di cui in Cina si parla da tempo. C’è
molta attesa per capire come Xi Jinping, più che mai numero uno della leadership cinese,
trasformerà il concetto dirule of law in pratiche e tecniche che dovranno consolidarsi
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nel tempo. Carl Minzer, uno dei più importanti sinologi contemporanei, ha provato a spiegare la postura di Xi Jinping di fronte agli ultimi avvenimenti storici (l’intervento,Laying
Down the Law at the Communist Party Plenum, è nel numero di settembre di «East Asia
Forum»). Secondo Minzer, Xi Jinping ha potuto vivere tanto il 1989, quanto le primavere
arabe nel seguente modo: ha osservato e concluso che indebolire la centralità del Partito,
rischierebbe di far crollare l’intero edificio.
Questo ha portato a dirette conseguenze politiche: da un lato la battaglia anti corruzione,
feroce, senza guardare in faccia nessuno. In secondo luogo Xi ha lanciato una campagna
maoista, da poco conclusa, basata sul concetto di «linea di massa», per centralizzare il
suo potere e ricreare un’unita ideologica del Partito. Ha infine recuperato – anche attraverso discorsi pubblici, colmi di citazioni classiche su cui per altro si è aperta una sorta di
branca di studio — il confucianesimo come collante sociale della popolazione cinese.
Secondo alcuni osservatori, dunque, Xi Jinping avrebbe provato a unire confucianesimo,
maoismo ed economia di mercato, allo scopo di cementificare una identità nazionale, disorientata dalla velocità dei mutamenti economici e sociali che il Paese ha attraversato negli
ultimi vent’anni. Secondo altri, invece, questo tentativo di Xi porterà ben presto ad una
sorta di scontro tra confucianesimo e maoismo. In questa spettacolare, per certi versi,
riflessione cinese, si inserisce la questione legata allo Stato di diritto.
Secondo il Financial Times, «le aspettative del Plenum sono verso la promozione di un
sistema giuridico più giusto, con meno interferenze da parte di interessi locali, benché ci
sia scetticismo circa le reali possibilità che lo Stato di diritto possa essere una priorità per
un regime che ha usato la mano pesante su rivali politici, critici nazionali, commentatori
internet e la stampa». Il potere extra-giudiziale del partito di detenere e indagare i propri
membri – infatti – con Xi Jinping ha toccato vette che secondo alcuni studiosi, è pari al giro
di vite post Tiananmen. Allo stesso tempo sono stati aboliti i campi di lavoro e alcune corti
giudiziarie hanno cominciato, per la prima volta, a pubblicare sui propri siti i testi delle sentenze. Si tratta di capire dunque, ancora una volta, quale sia l’interpretazione «alla
cinese», del concetto di rule of law. Secondo Minzer, «si potrebbe facilmente immaginare
la fine del Plenum con una dichiarazione esauriente sullo Stato di diritto, che potrebbe
finire per equivalere ad un avvallo autorevole di un apparato autoritario vestito con abiti
confuciani, con qualche piccolo spazio residuo lasciato per riforme giuridiche».
In pratica, anche lo Stato di diritto, al contrario di quanto accade nelle democrazie occidentali, non sarebbe indipendente dal Partito. Come per il concetto di democrazia, quindi, staremmo parlando ancora una volta di un processo completamente guidato dal Partito
comunista e nella fattispecie, viste le caratteristiche della leadership attuale, da Xi Jinping
stesso. Tecnicamente sono previste alcune operazioni, come ad esempio lo sganciamento
dei funzionari locali dalle attività delle corti giudiziarie provinciali, ma il tutto sembra più
un’operazione, ancora una volta, interna. Più difficile che si discuta pubblicamente, invece,
della pratica dello shanggui. «L’epurazione anti-corruzione — e i suicidi riportati da parte di
molte decine di funzionari sotto inchiesta — hanno focalizzato l’attenzione su un’istituzione
così particolare che è conosciuta solo con il suo nome cinese, shuanggui», come scritto
dai media internazionali. Shanggui significa letteralmente «doppia designazione»; in pratica i membri del partito devono presentarsi «in un momento designato, in un luogo designato», per un interrogatorio. È una detenzione a tempo indeterminato effettuato da parte
degli investigatori della Commissione centrale per la disciplina e l’ispezione, l’organismo
che sta portando avanti la campagna anti-corruzione. Può essere che nel Plenum venga
anch’essa sottoposta a una nuova disciplina, affinché sia meno arbitraria.
Nel dibattito sul rule of law è intervenuto anche Jerome A. Cohen, un altro sinologo di
grande rilevanza (insegna all’università di New York) sulle pagine del think tank Chinafile
.com. Secondo Cohen, «Xi sta chiaramente usando la legge come strumento di controllo
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centrale. L’indipendenza dei giudici viene invocata principalmente per tentare di ottenere
un maggiore controllo di Pechino sul potere decisione dei tribunali locali. Il 4 ° Plenum
costituirà in un tentativo di migliorare la reputazione dei tribunali e della legge e migliorare
in tal modo la legittimità del governo centrale. Xi ha anche bisogno di usare la legge per
giustificare la detenzione di Zhou Yongkang». Quest’ultimo, probabilmente espulso dal
Partito al termine del Plenum, potrebbe essere l’esempio principale del processo in atto: in
Cina, sotto l’egida di Xi, tutti sono davvero uguali davanti alla legge. Che piaccia o meno
all’Occidente, potrebbe trattarsi di una nuova tappa storica nel cammino della Cina.
Del 21/10/2014, pag. 19
Il reportage.
Iguala, nello stato di Guerrero, è sconvolta dalla violenza. Da settimane non si sa
nulla di 43 universitari che protestavano contro i tagli del governo. E durante le loro
ricerche i contadini hanno scoperto i resti di decine di corpi. Probabilmente le
vittime della guerra tra i clan
Studenti scomparsi e fosse comuni nella città
delle lacrime controllata dai narcos
RANDAL C. ARCHIBOLD
Armati di pale e picconi, a bordo di pick-up ammaccati, i contadini vanno verso una serie
di radure sospette in campagna, saltano giù e iniziano a scavare. «Ehi, ecco una
costola!», esclama uno degli uomini, parte di una ronda dei cittadini: estrae quel che
sembra un pezzo di colonna vertebrale. Presto emergono altri frammenti: una costola?
Una rotula? Cinque fosse comuni sono state già scoperte nella ricerca dei 43 studenti
scomparsi un mese fa dopo scontri con la polizia locale; e altrettante fosse segrete come
questa sono allo studio per determinare l’origine dei resti che esse contengono. Malgrado
l’impegno di centinaia di soldati, funzionari federali, dipendenti statali e abitanti locali, la
sorte degli studenti resta un mistero. Piuttosto, la caccia ha rivelato qualcosa di altrettanto
agghiacciante: una moltitudine di tombe clandestine con cadaveri ignoti alla periferia della
città nasconde a stento il pesante scotto imposto al Messico dalla criminalità organizzata.
I giovani sono scomparsi dopo che la polizia locale — accusata di collaborare con una
banda di narcotrafficanti — ha aperto il fuoco e ucciso sei persone il 26 settembre. Stando
al procuratore di Stato, gli agenti avrebbero rapito un gran numero di studenti per
consegnarli a una banda. Il presidente Enrique Peña Nieto assicura che la ricerca dei
ragazzi è la priorità assoluta del governo. In realtà, le ricerche confermano che la crisi del
crimine organizzato in Messico — con decine di migliaia di morti negli ultimi anni nelle
guerre dei narcotrafficanti — è ben più grave di quanto finora pubblicamente ammesso.
I familiari dei giovani, che frequentavano la facoltà di Magistero e stavano organizzando
una protesta contro i tagli all’università, si tormentano al ritrovamento di ogni nuova fossa
comune. Alcuni hanno rinunciato alle ricerche, convinti che una mafia di criminali e politici
sappia dove siano i giovani, però non lo riveli. Molti continuano a credere che gli studenti
siano vivi, come i parenti di migliaia di altre persone sparite nella guerra messicana della
droga. Poco prima che spuntassero le nuove tombe, María Oliveras, madre di Antonio
Santana, uno degli studenti scomparsi, aveva acceso una candela e pregato nel campus
dove le famiglie conducono una veglia costante. «Voglio soltanto sapere come sta, dov’è e
che cosa fa», dice. «Quando trovano resti umani, non voglio credere che sia lui. Devo
credere che è vivo, e che per qualche motivo non l’hanno rilasciato ». Nel primo biennio
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del mandato, Peña Nieto s’è impegnato a ridare slancio all’economia e ad attirare
investitori stranieri, guadagnandosi il plauso di alcuni economisti speranzosi in una
crescita futura. Stando ai detrattori, però, Nieto ha trascurato l’espandersi dell’illegalità in
cittadine come questa. «È l’impunità il primo motivo delle scomparse», dice Alejandro
Hope, ex agente dell’Intelligence messicana. «In Messico, soltanto un caso di omicidio su
cinque viene risolto. È colpa dell’impunità, delle istituzioni deboli, e delle ricerche
decentralizzate ». Alcuni contadini delle brigate che cercano gli studenti —
autoproclamatesi “polizia comunitaria” nel vuoto di autorità del Messico meridionale —
contano sulle soffiate degli abitanti, che, a sentir loro, non si fidano delle forze dell’ordine.
Chino sulla vanga, Miguel Ángel Jiménez, un capo della polizia comunitaria, dubita che lì
siano sepolti gli studenti, infatti l’erba è troppo alta per essere cresciuta in poche
settimane. «Anche se non sono loro, non possiamo lasciare irrisolto l’enigma di queste
tombe», dice. «Appena troviamo delle ossa ci fermiamo, e cediamo il campo ai periti
giudiziari». Ci vorrà qualche settimana per analizzare i resti scoperti di recente. Gli
inquirenti confermano: le cinque fosse comuni contengono resti umani, ma per ora non c’è
alcun legame con gli studenti. Le squadre di contadini, ricevute nuove soffiate dagli
abitanti, ora battono un sentiero in collina: cercano alcune grotte dove si dice siano stati
lasciati dei cadaveri. Per ora scovano quel che sembra il rifugio di una banda, disseminato
di bottiglie, vestiti usati, candele e un ritratto di Jesús Malverde, un’icona delle gang. Al
ritorno dalla caverna, una guida locale riceve una telefonata minatoria: «Non andarci più»,
gli ripete una voce prima di attaccare. Gli studenti frequentavano l’Escuela Normal Rural
Raúl Isidro Burgos, un’università imbevuta di fermenti e slogan rivoluzionari. Le famiglie
degli scomparsi aspettano lì, bevendo caffè, chiacchierando in piccoli gruppi e dormendo
su materassi sistemati nelle classi e un po’ ovunque. Secondo alcuni attivisti dei diritti
umani, gli studenti stavano organizzando una protesta il 2 ottobre contro i tagli
all’università statale, ma pare che si siano scontrati con la polizia quando hanno cercato di
rubare degli autobus per recarsi alla manifestazione.
«A volte non riesco a star seduta e pensare», dice una madre. Serra in pugno un pezzo di
carta con la preghiera per “la Protezione del Prezioso Sangue di Nostro Signore Gesù
Cristo”. Il marito se la prende con la farsa delle autorità: «Noi non possiamo cercare, non
conosciamo la zona, e invece loro sanno dove si trovano. Che ci ridiano nostro figlio».
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INTERNI
Del 21/10/2014, pag. 4
Italicum addio, arriva il Renzellum “Premio
alla lista e bipartitismo”
FRANCESCO BEI
«Dobbiamo semplificare tutto, anche il sistema politico», è il dogma di Renzi. Primo turno:
si presentano i singoli partiti, addio alle coalizioni. Secondo turno: l’elettore sceglie fra le
prime due liste chi deve governare. Un premio di maggioranza spinge il vincitore fino al 55
per cento dei seggi. Una leva potente verso un sistema imperniato su due grandi partiti. È
questo il modello su cui stanno lavorando, su indicazione del premier, Lorenzo Guerini e
Maria Elena Boschi. Berlusconi, attraverso Verdini, ne è stato informato e non ha detto di
no. Anzi. Ma il sistema, anticipato nei giorni scorsi da Repubblica e confermato ieri da
Renzi in Direzione, è molto distante dal vecchio Italicum concordato nel patto del
Nazareno. Quello si basava su due coalizioni, centrodestra e centrosinistra, che avrebbero
marginalizzato il M5S. Il nuovo Renzellum invece è figlio dei tempi nuovi, prende atto della
liquefazione del centrodestra e della nuova “vocazione maggioritaria” del Pd. Come rivela
il professor Roberto D’Alimonte, uno degli architetti di quel lontano accordo, «nessuno
allora sollevò mai l’idea di dare un premio alla lista, sempre si parlò di coalizioni. I problemi
con Berlusconi riguardarono semmai le soglie di sbarramento e quella per aggiudicarsi il
premio di maggioranza». Insomma, la novità del premio di lista si è materializzata
successivamente, circa un mese fa, nell’ultima riunione a palazzo Chigi tra Berlusconi e
Renzi (con Guerini e Verdini). E il Cavaliere, parlando davanti all’ufficio di presidenza di
Forza Italia, ha fatto intendere sorprendentemente di considerarla ormai come cosa fatta:
«Renzi chiederà una modifica all’Italicum e noi probabilmente gliela dovremo votare». Una
frase a cui lì per lì pochi diedero importanza, distratti dall’epico scontro tra il leader e
Raffaele Fitto. Ma intanto il progetto continuava a crescere e a fare proseliti. Da ultimo
anche Angelino Alfano. Apparentemente l’Ncd avrebbe tutto da perdere da una modifica
che premia i primi due grandi partiti. E tuttavia gli sherpa renziani hanno spiegato agli
esperti Ncd che anche i piccoli avrebbero una convenienza dal nuovo sistema. È vero che
non sarebbe prevista la possibilità di apparentarsi fra il primo e il secondo turno e quindi di
partecipare alla spartizione del premio di maggioranza. Ma i “piccoli” si gioverebbero di un
drastico abbassamento delle soglie di sbarramento. Il Renzellum non avrebbe più bisogno
di quel complicato groviglio di tagliole - 12%, 8%, 4,5% - previste nell’Italicum e sarebbe
introdotta un’unica soglia di ingresso al 3% per impedire un’eccessiva frammentazione.
Tutti contenti quindi? Non proprio. Dentro Forza Italia, dietro a Raffaele Fitto, cresce
l’opposizione di quanti vedono in questo passaggio l’ennesima conferma di un partito in
liquidazione. Che Berlusconi vuole mantenere solo come lobby per tutelare gli interessi
Mediaset anche in futuro, lasciando che Renzi si prenda i suoi elettori. Ma anche nel Pd
molti temono una legge che potrebbe dare potere assoluto al segretario. «Parlare di
premio di lista - ha twittato ieri la forzista Laura Ravetto - significa parlare di Lista Renzi e
di morte del PD. Che lui davvero riesca dove noi solo parzialmente riuscimmo?».
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Del 21/10/2014, pag. 2
Il premier punta al 51%. Le simulazioni del
voto anticipato
GOFFREDO DE MARCHIS
Puntare al 51 per cento. O avvicinarsi molto, che avrebbe lo stesso effetto. Uno studio che
gira tra i corridoi del Senato ha testato le proiezioni di un voto con la legge elettorale
attualmente in vigore, ovvero il Consultellum: proporzionale puro con le preferenze e
sbarramenti piuttosto alti. I risultati sono sorprendenti. Basterebbe ottenere un risultato
intorno al 44-45 per cento (che gli sbarramenti favorirebbero) per avere la maggioranza sia
a Montecitorio sia a Palazzo Madama. Il Pd, grazie al 40,8 delle Europee, è già
abbastanza vicino. Un allargamento ai pezzi della sinistra di Sel e ai centristi di Scelta
civica lo lancerebbe verso il traguardo. «Quei numeri sono alla nostra portata», ripete
Renzi ai fedelissimi.
Da questo punto di vista e ascoltate le parole del premier-segretario, molti degli esponenti
della direzione Pd si sono convinti che tutto sembra muoversi verso le elezioni anticipate
la prossima primavera. Su questo il premier avrebbe sondato il terreno presso Forza Italia.
Ma è un’aria che viene annusata in tutto il Parlamento. Dal Pd ai berlusconiani. E non
solo. Da giorni Angelino Alfano e Gaetano Quagliariello stanno riflettendo su una exit
strategy per non trovarsi schiacciati tra Largo del Nazareno e Arcore. I sondaggi
descrivono una situazione pericolosa per i transfughi dell’ex Pdl. «Dobbiamo cambiare
nome al partito», dicono. Solo un inizio, anche se il traguardo è chiaro. Un’alleanza con il
Partito democratico nel caso dovesse essere confermato il premio di maggioranza alla
coalizione. Un ingresso sotto le ali renziane se invece prevalesse la linea di un bonus alla
singola lista. Oppure, se alla fine il voto venisse consumato con il sistema uscito dalla
Corte costituzionale, con il 2,5 per cento dei sondaggisti, l’adesione al Pd sarebbe
inevitabile. È un percorso, quello immaginato dai vertici dell’Ncd, che non si può certo fare
all’insegna del “centrodestra”. Da qui il lavorìo sulla modifica della ragione sociale.
Premessa obbligata al dialogo con il premier.
Renzi definisce questo modello aperto a tutti, realizzatore di una vera vocazione
maggioritaria nei numeri, il Partito della Nazione. Una forza politica capace di parlare a
diversi strati della società, di farsi votare trasversalmente: dai giovani e dagli anziani, dai
datori di lavoro e dai lavoratori, dagli uomini e dalle donne. Assomiglia in modo
impressionante a come è stata costruito l’appuntamento della Leopolda, negli ultimi 4 anni.
Una kermesse dove, da Nord a Sud, si possono sentire protagonisti persone molto diverse
fra loro. Negli Stati uniti si chiama catch all party ossia il “partito pigliatutto”.
Uno studio molto simile a quello che passa di mano in mano al Senato è contenuto in una
cartellina che Denis Verdini si porta sempre dietro. In una riunione l’ha anche mostrato al
presidente del consiglio. Ed è l’argomento forte che il plenipotenziario fiorentino usa per
convincere Silvio Berlusconi ad aprire alle modifiche dell’Italicum suggerite da Renzi.
«Senza di te che sei incandidabile e con le preferenze, Forza Italia rischia seriamente di
sparire», sussurra Verdini nell’orecchio dell’ex Cavaliere. «E Matteo può avere la
maggioranza comunque». Dunque, da Arcore la proposta è accelerare sull’Italicum, anche
con le modifiche. Compresa l’idea di cancellare dal testo l’articolo 2. Quell’articolo è la
clausola di salvaguardia pretesa dalla minoranza del Pd e da Forza Italia (quattro mesi fa):
prevede che la nuova legge elettorale sia valida solo per la Camera, in attesa della
definitiva cancellazione del Senato. Un norma anti-elezioni anticipate. Ma se Verdini e
Renzi cominciano a lavorare sull’annullamento della clausola, la prova di una voglia
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elettorale che coinvolge sia Largo del Nazareno sia Arcore diventerebbe certa. Come le
impronte digitali o il Dna. Allora nel Pd la scissione non sarebbe più solo una chiacchiera.
Andrea Romano è solo l’apripista di Scelta civica. Lo hanno preceduto Gregorio Gitti e
Lorenzo Dellai, transitando senza clamori nel gruppo Pd alla Camera. Ma so- no pronti a
seguirlo i senatori Linda Lanzillotta, Pietro Ichino e Alessandro Maran. Tre ex Pd che
finalmente si riconoscerebbero nella linea di Largo del Nazareno dopo aver sbattuto la
porta ai tempi di Bersani. Quindi, un’intera storia verrebbe rinnegata. Una stagione
passerebbe agli archivi e il partito cambierebbe davvero verso o meglio natura. Stefano
Fassina si sfogava ieri alla fine della direzione: «Il punto è: su quale asse di cultura politica
e di programma il Pd si allarga e diventa altro? Dietro l'abbraccio a tutti porta avanti gli
interessi dei più forti?». Gianni Cuperlo ironizza, ma a modo suo, dicendo la sua verità:
«Finchè non arrivano Razzi e Scilipoti, io resisto». Però dall’ex sfidante è arrivato l’attacco
più sottile ieri pomeriggio. Quando parla di “partito parallelo” Cuperlo parla di un partito
diverso, non quello che hanno costruito i Ds, anche i Ds. Ma Renzi vuole smontare il tabù
identitario del Pd, stravolgerlo, consegnarlo alla storia e passare oltre. «Manca Verdini sibila Pippo Civati citando Bennato -. Poi si parte. Prima stella a destra, questo è il
cammino...». Anche se, almeno all’apparenza, sono gli altri a seguire il cammino di Renzi,
a essere ipnotizzati dal leader del Pd, dalla sua forza e dai suoi consensi.
Del 21/10/2014, pag. 2
Giustizia, scuola, lavoro Renzi non chiude
niente
LE PROMESSE DEI CENTO GIORNI SONO ORMAI ALLE SPALLE E LE
RIFORME COSTITUZIONALI IMPANTANATE ALLE CAMERE. PER
QUESTO NE FA DI NUOVE
di Paola Zanca
E al 50esimo giorno, arrivò l’annuncio: ottanta euro al mese per ogni nuovo nato nel 2015.
Diceva Matteo Renzi che “la presenza del count down è la vera rivoluzione della politica
italiana”. É il numerino che si aggiorna ogni 24 ore, sta sul sito passo - dopopasso e oggi
segna 51. “Mi spiego meglio –chiariva il presidente del Consiglio - Nel momento in cui sei
accusato di annuncite, noi rispondiamo con l’elenco che dà una data alla quale siamo
evidentemente autocostretti”. Però, alla squadra di governo, i panni dell’aucostrizione
vanno evidentemente stretti. Così, l’orizzonte delle promesse, dai 100 giorni è passato ai
mille. E al di là della vittoria incassata con gli 80 euro, ormai non si sbilancia su nulla che
non sia il maggio del 2017. Eppure, era febbraio del 2014, sembrava tutto così facile.
Mignolo, anulare, medio. Matteo sciorinava provvedimenti partendo dal dito più piccolo, a
marcare la differenza. Tutto doveva succedere in tre mesi: “100 giorni di lotta durissima
per cambiare”, disse illustrando le slide della “svolta buona”. Ricordate? Ad aprile la
pubblica amministrazione, a maggio il fisco, a giugno la giustizia. E poi il traguardo:
“Prendete questa data: 1 luglio”. “Il primo di luglio noi avremo un’Italia più leggera, quindi
alla guida del semestre europeo ci sarà, non dico un’altra Italia, perché sarebbe
eccessivo, ma sicuramente più leggera. Pronti, si parte”.
27
Pubblica amministrazione. Ad aprile è partito solo il percorso di consultazione. Per il
decreto si è dovuto aspettare ottobre. Ora in Parlamento c'è la legge delega. E lo stesso
Renzi, adesso, non promette novità prima della prossima primavera.
Riforma del Senato. “Questo è testo che noi oggi formalmente consegnamo a tutti i
leader politici che stanno in Parlamento - sventolava il premier - È un passaggio
impressionante, storico e incredibile”. Per ora, fermo a Montecitorio.
Legge elettorale. Anche qui, toni epici: “Mai più larghe intese, chi vince governa 5 anni,
candidati legati al territorio, stop ai ricatti dei piccoli partiti. Vogliamo dirlo che questa è una
rivoluzione impressionante per l’Italia?” Diciamolo, ma dopo il voto alla Camera, anche
questa si è arenata in commissione a palazzo Madama.
Sblocco debiti P.a.. Grande tormentone, promessi 68 liardi entro luglio. Poi ha dovuto
aggiornare la scadenza: 21 settembre. Quel giorno la Cgia ha fatto i conti: “Nel biennio
2013-2014 sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi di euro e entro il 21 luglio 2014
(ultimo aggiornamento disponibile) ne sono stati pagati 26,1: alle imprese mancano 30,7
miliardi. La promessa non è stata mantenuta”.
Piano sicurezza scolastica. La prima slide parlava di 3 miliardi e mezzo, i conti di oggi
parlano di finanziamenti ridotti a un terzo. E il sottosegretario all’Istruzione Roberto Reggi
(oggi dimesso) ad agosto confessava al Fatto : “Abbiamo aggiornato la scadenza entro la
quale comuni e province posso aggiudicarsi gli appalti. Hanno tempo fino alla fine
dell’anno per appaltare i lavori. In questo caso, il denaro arriverà a gennaio 2015 a sindaci
e presidenti di Provincia”.
Nuovo codice del lavoro. Nella conferenza stampa del 22 febbraio prometteva entro 6
mesi un assegno universale di disoccupazione e la revisione degli ammortizzatori sociali.
Ma il Jobs Act ancora non c’è: la legge delega è passata al Senato (con la fiducia e quasi
in bianco): palazzo Chigi promette un testo entro fine anno, Renzi punta tutto sull’articolo
18 e la Cgil tra quattro giorni torna in piazza.
Giustizia . Anche per la giustizia – riforma che prevede, tra le altre cose, la responsabilità
civile dei magistrati, l’autoriciclaggio, il falso in bilancio, il dimezzamento dei tempi dei
processi (e delle ferie dei magistrati) –ha superato indenne la scadenza di giugno (come
da slide). E la settimana scorsa, il presidente del Senato Pietro Grasso ha vuotato il sacco:
“Ormai da mesi – ha detto – sulle riforme penali registro una difficoltà politica di giungere a
soluzioni equilibrate: questi interventi sono indifferibili”.
Mille asili. Il primo settembre annunciava un grande intervento per l’apertura di strutture
per l’infanzia. Da Barbara D’Urso ha calato la maschera ed è ritornato sull’unico numero
che gli ha portato fortuna: mamme, 80 euro anche per voi.
Del 21/10/2014, pag. 2
Rifondazione Pd, da ex Sel a Monti
Democrack. Calano gli iscritti? Il segretario fa il pieno di nuovi parlamentari,
recupera le liberali «opportunità» e adatta la vecchia vocazione maggioritaria. E
dalla direzione del partito lancia la sua Leopolda. Niente sanzioni per la minoranza
che non ha votato l’art. 18 e che andrà al corteo Cgil. Il governo rischierebbe di
perdere il senato
Daniela Preziosi
Dai fuoriusciti di Sel agli ex di Scelta civica, «da Gennaro Migliore fino a Andrea Romano
e quella parte di Scelta civica che vuole stare a sinistra» . Alla direzione Pd Renzi ridisegna il suo partito, allargando al massimo della capienza la vocazione maggioritaria già ten28
tata da Veltroni. E lo fa ormai senza inciampi ideologici o programmatici, perché la sinistra
— dice — «è dare opportunità», «liberare i talenti», «senza lasciare indietro nessuno»,
un’idea liberal che apre praterie almeno sul fronte destro. «È finito l’art.18 del voto, la
gente non continua a votare gli stessi comunque vada ma fa zapping». Persino il lettiano
Francesco Boccia eccepisce che «lo sforzo storico non è dire una cosa che vada bene
anche a destra» ma «come regoliamo il mercato e il modello fa la differenza con la destra.
Abbiamo il dovere di costruire un’idea di paese visto da sinistra».
Renzi apre la fase della rifondazione del Pd che si chiuderà con un’assemblea nazionale
a fine anno. Lì le new entry saranno formalizzate. Romano è entusiasta dell’apertura «ai
temi liberali» e invita i suoi ex amici di Scelta civica (lui è già transitato nel gruppo misto) a
«prendere atto con realismo dell’esaurimento di quel progetto». Gli ex Sel, riuniti
nell’associazione Led, già domenica si erano visti in un albergo romano e avevano applaudito con calore la proposta, anticipata dal presidente Pd Matteo Orfini: cui era stato riservato il primo intervento dopo la relazione di Migliore che annunciava il sì alla manovra. Il
modello che ha in testa Renzi è «bipolare» anzi «bipartitico». La novità è che nell’Italicum
il premio di maggioranza sarà attribuito alla lista. La coalizione è ufficialmente seppellita, al
suo posto c’è il partitone.
Sulla famigerata forma-partito, le caratteristiche che avrà questo partitone, Renzi butta là
qualche titolo. Il dossier è affidato a una commissione, poi l’assemblea nazionale e voterà
la mutazione genetica del Pd. Sul calo degli iscritti il segretario snocciola cifre che dovrebbero dimostrare che il crollo è fisiologico negli anni senza elezioni, ma ammette di aver
sbagliato a trattare la cosa a colpi di battute, «serve una riflessione un pochino più approfondita». La sinistra a più voci, giovani turchi compresi, chiede che sia riaffermato il partito
«degli iscritti e degli elettori», (Fassina: «Gli iscritti non sono una concessione ai nostalgici
del 900, non si costruisce cambiamento progressivo senza iscritti»). Ma a Renzi interessano evidentemente i secondi, come se valesse l’algoritmo «sedi vuote urne piene». In
questa penuria lo stato del partito non è confortante, dice Goffredo Bettini, europarlamentare certo non ostile al segretario: «In alcune realtà viviamo una girandola, un farsi
e disfarsi di alleanze che hanno come unico obiettivo il potere». L’area ’riformista’ chiede
che le primarie siano riservate alla scelta delle cariche monocratiche.
Ma lo scontro a brutto muso è sulla Leopolda, la kermesse dei renziani il prossimo week
end a Firenze. «Cos’è?», chiede Gianni Cuperlo, «leggo che dietro ci sia una fondazione
che raccoglie 2mln di euro, alcune centinaia di comitati che hanno la missione di sostenere le idee di Renzi», «dobbiamo essere chiari, se tu costruisci e rafforzi un partito parallelo scegli un particolare modello, la locomotiva si avvia in quella direzione e si porta
appresso tutti gli altri vagoni. A quel punto andremo verso una confederazione». Nessuna
federazione, dice Renzi, la Leopolda è «migliaia di persone non necessariamente del Pd
che discutono di politica», «drammatizzarla ci fa perdere un’occasione».
Le differenze politiche sono profonde, le minoranze dovranno farsene una ragione. In
cambio hanno il nulla osta per andare al corteo Cgil. Anche le ventilate sanzioni per
i senatori che non hanno votato la fiducia sono svaporate. Walter Tocci viene invitato a ritirare le sue dimissioni. Certo, dice Renzi, «non possiamo diventare né un comitato elettorale né un club di anarchici e filosofi». Ma una stretta disciplinare rischierebbe far saltare la
maggioranza al senato. E allora un governo val bene un po’ di tolleranza.
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Del 21/10/2014, pag. 2
Italicum, premio alla lista
Anche Alfano dice sì
Legge elettorale. No di Forza Italia, ma Berlusconi è tentato di accettare
Andrea Colombo
Con due parolette buttate là quasi a casaccio di fronte alla Direzione Pd, Matteo Renzi
rovescia come un calzino l’Italicum: «Sarebbe meglio il premio alla lista anziché alla coalizione». Che il presidentissimo avesse in mente questa “lieve” correzione alla legge partorita nelle segrete stanze del Nazareno era noto da settimane, ma la tentazione assume
ora i contorni di una proposta precisa. E incamera subito, a sorpresa, il sì dell’Ncd. «Siamo
assolutamente favorevoli», risponde Angelino Alfano e non lesina spiegazioni: M5S e Pd
non hanno bisogno di coalizzarsi, mentre «il centrodestra è frammentato tra europeisti
e antieuropeisti, dunque non è più coalizzabile».
Gli scissionisti di Fi, in concreto, vogliono poter correre da soli, senza essere costretti
a un’alleanza che li riporterebbe sotto il tallone di Arcore o addirittura li costringerebbe ad
abbracciare una Lega che ha ripreso più che mai vigore. Nella versione originaria della
legge nazarena, con due soglie diverse per i coalizzati e i solitari, sarebbero stati costretti
ad allearsi, essendo di fatto proibitiva la soglia per i partiti non coalizzati. Col premio alla
lista, la doppia soglia invece scomparirebbe. Anche così, però, correre da soli vuol dire
giocarsi tutto alla roulette russa. Il premio alla lista avvantaggia giocoforza il voto utile: non
a caso Renzi, nello stesso discorso, si è schierato senza mezzi termini a favore del
bipartitismo. Il segreto, probabilmente, va individuato in un altro passaggio, piuttosto sibillino, del discorso di Alfano: «Va rivista la soglia di sbarramento tecnico che bisogna calcolare per accedere a quel 45% di rappresentanza degli italiani, se il 55% va al primo partito». Potrebbe profilarsi qualcosa in più dell’ovvia richiesta di abbassare la soglia. L’Ncd
potrebbe chiedere di modificare il sistema di calcolo delle percentuali, in modo che siano
valutate non sul totale del corpo elettorale ma sul 45%. In ogni caso, con una soglia sensibilmente abbassata, i centristi avrebbero ottime possibilità di entrare in Parlamento per poi
proporsi, in caso di ballottaggio, nelle vesti di junior partner, come dichiara all’Huff Post
Quagliariello. L’incognita è Fi. A botta calda fioccano i no. «Se questo è il metodo di Renzi
non si va da nessuna parte: pronti a discutere ma senza imposizioni leonine», attacca
subito la testa calda Brunetta. E’ tutt’altro che isolato: il coro azzurro è unanime e concorda con lui. Persino Verdini avrebbe consigliato al capo di puntare i piedi: «Così siamo
morti: al ballottaggio ci vanno Pd e M5S». Invece il cavaliere è tentato dall’accettare, e del
resto quel passaggio del discorso di domenica, «vinceremo da soli», puntava in quella
direzione. In parte dipende dal fatto che anche re Silvio, dopo vent’anni di tormenti, delle
coalizioni non ne può più e ritiene che col premio di lista, pur perdendo le prossime elezioni politiche, spazzerebbe via ogni formazione di destra, con la sola esclusione del Carroccio. Sempre che, però, le soglie non vengano abbassate di molto, come chiederà
Alfano. In parte maggiore, il “suicidio” azzurro risponderebbe a logiche e a mercanteggiamenti che c’entrano sì con gli interessi di Berlusconi, non con quelli politici però.
Infine il centrosinistra: il premio alla lista spazzerebbe via ogni possibile concorrenza, ma
senza il ritorno delle preferenze eliminerebbe anche ogni dissenso interno al Pd. Non ha
tutti i torti l’azzurra Ravetto quando afferma che così «il Pd diventerebbe la Lista Renzi».
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Del 21/10/2014, pag. 4
Conflitto di disinteresse
Alla Camera. Arriva in aula un testo inefficace che somiglia molto a una
legge Frattini bis. I parlamentari disertano, i relatore si dissocia e il
governo si distrae
Andrea Fabozzi
<<E’ un punto di partenza meramente algebrico». «È un buon testo ma va corretto». «È il
papello che prova l’inciucio». Ieri pomeriggio in una camera dei deputati semivuota
è cominciata la discussione generale della legge sul conflitto di interessi.
Il primo giudizio — la sintesi «algebrica» — è del relatore del provvedimento, atteso da
vent’anni e rinviato venti mesi anche in questa legislatura. Il relatore è il forzista Sisto, berlusconiano ormai intiepidito (sta col capo delle fronda, Fitto). Il testo che approda in aula
l’ha scritto lui, ma l’ha fatto solo «per servizio», perché malgrado sia un testo blando che
non prevede il blind trust e introduce sanzioni solo eventuali, è comunque troppo rispetto
all’evanescente legge Frattini (che festeggia dieci anni di inefficacia). Limitare i governanti
che controllano patrimoni o attività rilevanti, secondo Sisto, finirebbe col «devitalizzare la
politica». Il secondo commento alla proposta di legge — «va bene, ma va cambiata» —
timidamente difensivo, è del democratico Francesco Sanna, il primo a sapere che approvare un buon testo sul conflitto di interessi in vigenza del patto del Nazareno è più impossibile che difficile. L’idillio tra Renzi e Berlusconi domina tutto, verosimilmente anche oltre
le reali preoccupazioni personali del Cavaliere, che più che a lui deve pensare ai suoi successori dinastici. Il terzo giudizio, la drastica stroncatura, l’«inciucio», è del Movimento
5 Stelle, che considera il testo base proposto da Sisto praticamente una «Frattini-bis».
Eppure i deputati grillini stavolta non scatenano l’ostruzionismo per affossare la proposta.
Anzi, sono stati gli unici a non presentare emendamenti in commissione, volendo la legge
in aula. È stata la loro insistenza a costringere il Pd ad affrontare un argomento assai scomodo — ancora di più con le riforme costituzionali e la nuova legge elettorale in ballo —
e hanno capito che la tentazione comune ai «pattisti» è quella di rimandare tutto in commissione. Rinviare. E così la strada della legge è più sbarrata che in salita, malgrado tanto
Sel che il democratico di minoranza Civati facciano saggiamente notare come il conflitto di
interessi dovrebbe precedere la revisione costituzionale (argomento che sopravvive sotto
la cenere delle audizioni in commissione e tornerà di attualità dopo la sessione di bilancio).
E il governo? A fine serata prende per la prima volta la parola il sottosegretario Scalfarotto,
lo fa per annunciare che si tratta di una legge «importante». Niente impegni, se non che
l’esecutivo seguirà il dibattito «con l’abituale rispetto del parlamento». Potrebbe essere
una minaccia, ma in questo caso è solo la garanzia che Renzi guarderà dall’altra parte.
Del 21/10/2014, pag. 6
LA GIORNATA
Grillo ora espelle i militanti che chiedono
democrazia “Clandestini? Spedirli a casa”
Via i quattro che occuparono il palco al Circo Massimo Attacco sugli
immigrati. E alla Ue un estremista salva il gruppo
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TOMMASO CIRIACO
Quattro epurazioni e un patto di ferro con chi invita a picchiare le mogli. È il bilancio di una
confusa giornata a cinquestelle, iniziata con il post scriptum sul blog con cui Beppe Grillo
butta fuori - senza processo né votazione on line - i quattro dissidenti che occuparono il
palco del Circo Massimo. Le foto dei malcapitati Giorgio Filosto, Orazio Ciccozzi,
Pierfrancesco Rosselli e Daniele Lombardi, cerchiati di rosso, fanno da sfondo alla
sentenza: «Hanno disatteso ai loro compiti di responsabili della sicurezza. Sono fuori dal
Movimento». La colpa della pattuglia di “occupypalco”? Aver chiesto trasparenza sul
portale e sul ruolo della Casaleggio associati. La nuova cacciata appare sproporzionata a
molti frequentatori del blog. Ed è accolta con compostezza dai diretti interessati.
L’esclusione dal portale «non ci fa né caldo, né freddo», ma «siamo addolorati nel vedere i
danni causati al M5S da questi abusi continui ». Il dito è puntato contro le «persone
invisibili» che dominano la galassia grillina: «Chi ha emesso la condanna e chi l'ha
eseguita? - domandano - Beppe, Gianroberto, il famoso staff?». A sera, rintracciato
telefonicamente, Filosto annuncia: «Mercoledì, durante un evento, spiegheremo perché
abbiamo occupato il palco. Daremo la nostra versione. Troppo tardi? Dipende...». Non è
chiaro, però, se si appelleranno contro la decisione: «Decideremo assieme. Siamo un
gruppo» Non solo di espulsioni vive però la giornata pentastellata. Con una decisa virata a
destra, il comico genovese fronteggia le difficoltà all’Europarlamento. E per far rinascere il
gruppo euroscettico Efdd esploso a causa della defezione di una parlamentare lettone abbraccia con Nigel Farage il polacco Robert Jaros Iwaszkiewicz. Per inquadrare il
personaggio basta citare un’intervista di maggio. «Picchiare la moglie in certi casi la
aiuterebbe a tornare con i piedi per terra», diceva, difendendo anche il leader negazionista
del suo partito: «Ha semplicemente detto che non ci sono prove che Hitler fosse a
conoscenza dell’Olocausto». I toni di Grillo sull’immigrazione, poi, fanno concorrenza al
Carroccio: «Chi entra in Italia con i barconi è un perfetto sconosciuto. Va identificato
immediatamente. I profughi vanno accolti - distingue - gli altri, i cosiddetti clandestini,
rispediti da dove venivano». Infine la ciliegina: «Chi entra sia sottoposto a visita medica
obbligatoria per tutelare la salute sua e degli italiani».
Del 21/10/2014, pag. 1-35
Il cerchio rosso sui dissidenti
SEBASTIANO MESSINA
BEPPE Grillo ha decapitato la dissidenza del Circo Massimo segnando su Facebook le
teste dei colpevoli con un cerchio rosso, e Gianroberto Casaleggio ha risposto a quei
quattro che gli chiedevano dal palco un po’ più di trasparenza espellendoli in un post
scriptum. Ormai la realtà supera la satira, nel M5s, e gli stessi militanti restano senza fiato
assistendo alla degenerazione farsesca di quella democrazia del web dove tutto doveva
essere meraviglioso.
E OGNI decisione sarebbe stata fantastica, e invece si scopre a poco a poco che tutti
possono scrivere un post, non tutti possono parlare, pochi possono votare ma solo due
persone possono decidere: uno si chiama Beppe e l’altro Gianroberto.
Chi ha votato — per restare alle ultime 48 ore — la nuova linea dura dei Cinquestelle
sull’immigrazione, con quel post para-leghista di Grillo che annuncia che «i cosiddetti
clandestini vanno rispediti da dove venivano», dopo che la base del partito — la Rete! —
si era chiarissimamente schierata con un referendum per l’abolizione del reato di
clandestinità? Chi ha discusso, sull’Europa, lo scivolamento sempre più a destra del
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Movimento, che dopo essersi affidato alla leadership dell’ultra-conservatore Farage — per
il quale «le donne che lavorano e hanno figli valgono meno ed è giusto che guadagnino
meno degli uomini» — ha aperto ieri le porte persino al polacco Iwaszkiewicz, eletto nel
Partito della Nuova Destra e autore della teoria secondo cui picchiare le mogli «aiuterebbe
molte di loro a tornare con i piedi per terra»? E chi ha emesso la sentenza di espulsione
immediata del sindaco di Comacchio, Marco Fabbri, colpevole di essersi candidato alla
Provincia per difendere gli interessi dei suoi concittadini, cacciato su due piedi con una
tale brutalità da trasformare un appassionato militante in un cittadino così amareggiato,
così deluso da arrivare a parlare di «una deriva squadrista e fascista»?
Ma il capolavoro del tandem Beppe& Gianroberto è stata ieri la radiazione dei quattro
militanti, subito degradati a dissidenti perché avevano osato interrompere la liturgia del
Circo Massimo salendo sul palco per domandare con parole semplici che le votazioni sul
portale grillino fossero almeno verificabili, «e soprattutto vorremmo sapere qualcosa di
questo “staff” col quale tutti ci interfacciamo ma nessuno lo conosce». Chiedevano, in una
parola, solo un po’ di quella trasparenza che i cinquestelle reclamano dagli altri ma non
applicano mai in casa propria. E sono subito diventati un bersaglio che Grillo ha appeso su
Facebook cerchiando di rosso le loro teste, e Casaleggio ha centrato in pieno con un
colpo secco: un post scriptum in coda a una delle sue allegre profezie, «Press Obituary”,
necrologio della stampa: «I quattro sono fuori dal M5S».
È difficile capire perché un abilissimo stratega della comunicazione e un formidabile
comunicatore siano scivolati nella trappola di rispondere a un’accusa di scarsa
trasparenza con una sentenza assolutamente priva di trasparenza. Perché anche nella
non-democrazia inventata dai grillini, Casaleggio non avrebbe in teoria alcun potere: non
ha incarichi, non è stato eletto, non è stato nominato. Tutti sappiamo, per carità, del suo
ruolo fondamentale nella nascita e nella crescita del Movimento, ma come può una forza
politica che si candida a governare il Paese dare di sé l’immagine di una setta nella quale
il potere massimo — quello di decidere chi è dentro e chi è fuori — è nelle mani di
un’eminenza grigia che non risponde a nessuno se non al suo socio?
Grillo invece — che non si è mai candidato alle elezioni perché una vecchia condanna lo
priva di uno dei requisiti che lui stesso pretende dagli altri — una carica ce l’avrebbe:
quella di presidente del Movimento. Se l’assegnò da solo, una sera di dicembre di due
anni fa, davanti al notaio di Cogoleto nominando vicepresidente suo nipote Enrico e
segretario il suo commercialista. Una carica che lui non ostenta, e che gli serve solo per
decidere chi è candidabile e chi no, quale meetup avrà il simbolo e quale no, e soprattutto
chi va cacciato e chi può rimanere. Purché stia buono, canti in coro la canzoncina che lui
ha scritto e non si azzardi a fare mai una domanda indiscreta sulla trasparenza di un
movimento dove tutto è sempre magnifico, incredibile e stupendo, un luogo magico dove
comandano finalmente i cittadini, i militanti, la Rete, mentre lui e Casaleggio prendono solo
le decisioni.
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Del 21/10/2014, pag. 12
Rimborsopoli in Piemonte Il gip contro il pm:
“Processate vicepresidente e assessore”
Coinvolti nove consiglieri regionali (sei di centro-sinistra, tra loro
segretario Pd) Chiamparino: “Fiducia immutata”. Lega, FI e 5 Stelle: “Si
dimettano subito”
OTTAVIA GIUSTETTI
«L’abbuffatina» del centro-sinistra va di traverso alla giunta regionale di Sergio
Chiamparino e decine di coppette gelato, cappuccini e brioche, tramezzini e cibi da fast
food obbligano il governatore a cambiare i suoi intenti. «Attendiamo il primo grado di
giudizio»: dice adesso che il gip di Torino ha chiesto l’imputazione coatta per due suoi
assessori, Aldo Reschigna (Pd) al Bilancio, e Monica Cerutti (Sel) alle Pari opportunità.
Mentre in campagna elettorale diceva: «Nessun rinviato a giudizio nella mia giunta».
L’accusa per loro è di peculato per aver utilizzato impropriamente i fondi dei gruppi
regionali, e l’inchiesta è la stessa che due anni fa travolse la Regione in mano al centrodestra guidato dal leghista Roberto Cota. Nel fascicolo dove per il presidente del Carroccio
c’era lo scontrino delle “mutande verdi”, e per i suoi colleghi della maggioranza fiumi di
cene a base di tartufo e borse di Louis Vuitton, il giudice, alle prese con le richieste di
archiviazione, ha rispolverato le note spese di chi allora stava all’opposizione e adesso
governa. E ha emesso un’ordinanza di imputazione coatta per nove politici, tre del centrodestra e sei del centrosinistra, mentre la procura li voleva archiviati. Rischiano ora il
processo anche il segretario regionale del Pd e vicepresidente del Consiglio regionale,
Davide Gariglio, e il senatore Pd Stefano Lepri.
«Mangiare è un bisogno personale non un’esigenza della politica», scrive il gip Roberto
Ruscello nella sua ordinanza. E poi spunta idealmente uno a uno dai bilanci del Partito
democratico, dal 2008 al 2010, decine di piccole spese ricorrenti, quelle per i pasti veloci
tra una riunione e l’altra, per le colazioni al bar prima di entrare in Consiglio, la scatola di
praline e il pandoro, le bottiglie di spumante per i regali di Natale. Chiamarla abbuffata è
troppo. Ma l’elenco alla fine si fa lungo lo stesso. E sono di nuovo migliaia di euro di
denaro pubblico. «La fiducia nei confronti dei miei assessori resta immutata», dice il
governatore Sergio Chiamparino. E le dimissioni formali di Reschigna e Cerutti non fanno
neppure in tempo a toccare la scrivania del presidente: «Appena appresa la notizia i due
assessori hanno subito messo a disposizione le loro deleghe che io ho respinto nel modo
più netto». «Siamo di fronte a due livelli della magistratura — aggiunge — il pm che aveva
chiesto l’archiviazione e il gip che ha dato valutazioni opposte. Se la magistratura ha dato
due interpretazioni diverse sarebbe bizzarro che io dessi la ragione a uno o all’altro. Chi
ha la titolarità per decidere deciderà, noi intendiamo attendere quel giudizio ». Adesso la
procura dovrà scrivere il capo d’accusa per gli indagati, poi sarà fissata un’udienza
preliminare, durante la quale un altro giudice deciderà se processare o proscioglierli.
Chiamparino sottolinea che «al momento non c’è nessun rinvio a giudizio». E sottolinea
che nulla cambierà nella trattativa sulla legge di stabilità con il governo dove, nei giorni
scorsi, da numero uno della Conferenza delle Regioni, ha preso posizione contro il
premier Matteo Renzi. Dimissioni respinte anche per Davide Gariglio, cui la segreteria
regionale del Pd, riunitasi ieri sera, ha rinnovato la fiducia. Ma l’apparente sicurezza di
Chiamparino e del suo partito non fermano il treno delle reazioni del centro-destra che,
nell’ambito della stessa inchiesta, si prepara a fronteggiare questa mattina la prima
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udienza del processo dove è imputato Roberto Cota insieme a 24 consiglieri. «La sinistra
è specializzata nel fabbricare a suo uso e consumo una doppia morale e nell’utilizzo
sistematico della strumentalizzazione », commenta il presidente del gruppo regionale della
Lega Nord, Gianna Gancia. «Chiamparino sia coerente e ritiri le deleghe agli assessori
Reschigna e Cerutti»: chiede il Movimento 5 Stelle. E il capogruppo di Forza Italia in
regione, Gilberto Pichetto: «Ora misureremo la coerenza del governatore e del Partito
democratico che hanno utilizzato il tema di rimborsopoli in campagna elettorale».
Del 21/10/2014 – pag. 3
MANOVRA ANCORA FANTASMA
ORA IL QUIRINALE È IRRITATO
PADOAN AVEVA PROMESSO: “PRONTA LUNEDÌ MATTINA”. AL COLLE
L’ASPETTAVANO PER LE 18, MA NON S’È VISTA. RESTA DA CAPIRE
COS’HANNO VOTATO I MINISTRI
di Marco Palombi
È pronta, vediamo gli ultimi dettagli in queste ore. Domattina sarà al Quirinale”. Il
ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha forse tratto dalla sua giovinezza in un Pci
impanato di gramscianesimo l’ottimismo della volontà che domenica, ospite di Lucia
Annunziata a In 1/2 Ora, lo ha spinto a promettere che la Legge di Stabilità fantasma quella approvata mercoledì scorso dal Consiglio dei ministri (ma quale testo se
continuano a riscriverla?) - ieri mattina sarebbe stata portata al Colle per la firma. Per
non sacrificare il binomio originale, è toccato al Fatto Quotidiano esercitare dunque il
pessimismo della ragione: ebbene al momento di andare in stampa, non sappiamo infatti
quali siano i programmi per la notte del ministero del Tesoro, la manovra autunnale che
per legge dovrebbe essere alle Camere entro il 15 ottobre non era stata ancora portata
al Quirinale (e dunque, contrariamente a quanto promesso dal ministro Boschi, oggi non
sarà depositata a Montecitorio).
L’ENNESIMO RITARDO non è stato affatto accolto bene alla presidenza della
Repubblica: proprio ieri il Tesoro aveva promesso all’ufficio legislativo del Colle che la
legge di Stabilità sarebbe arrivata entro le 18. Un po’ tardi per la pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale ma tant’è: e invece niente. È appena il caso di chiarire che Giorgio
Napolitano e il suo staff hanno di certo ricevuto via email le varie bozze preparatorie, ma
quella che era attesa ieri è la versione definitiva, quella “bollinata” dalla Ragioneria
generale dello Stato. Insomma sembra che gli “ulti - mi dettagli” di Pier Carlo Padoan
stiano prendendo più tempo del previsto mentre i particolari della manovra tendono a
gonfiarsi con l’aria delle dichiarazioni: uno dei principali consulenti economici del premier,
ad esempio, il deputato Pd Yoram Gutgeld, ieri sul Corriere della Sera ha aumentato e
non di poco la portata della detassazione triennale dei nuovi assunti a tempo
indeterminato. Se il ministro dell’Economia, infatti, aveva promesso 800mila nuovi posti
di lavoro, Gutgeld s’è spinto a 850mila e con uno sgravio più alto: 8.060 euro a contratto
anziché 6.200. Al di là della promessa berlusconiana (su cui torneremo subito) il costo
dell’operazione passa così a quasi sette miliardi nel triennio 2015-2017, mentre nelle
bozze della manovra ne erano stati inseriti solo 3 mentre, prendendo per buone alcune
dichiarazioni di Padoan, si poteva ipotizzare uno stanziamento finale di 5 miliardi.
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Ovviamente la cosa non ha alcuna relazione coi nuovi posti di lavoro: 800 o 850mila in
tre anni che siano, si tratta solo dei contratti per cui le imprese beneficeranno degli
sgravi, non certo di nuovi posti. Nel 2013, per dire, anno di crisi nera, in Italia sono stati
attivati più di un milione e mezzo di contratti a tempo indeterminato, 400mila a trimestre:
come faranno Padoan e Gutgeld a riconoscere i loro? Di più: se questa è la dinamica a
febbraio i fondi per il 2015 saranno già finiti, finendo per sgravare assunzioni che le
aziende avevano probabilmente già deciso in precedenza. Un regalo. In realtà la
manovra rischia di riservare una pessima sorpresa anche dal lato delle tasse. Tra i 3,5
miliardi di minor deficit che dovrebbero costituire la “riserva” da offrire alla Sfinge di
Bruxelles nel caso la Commissione Ue ritenga inaccettabile la legge di Stabilità, entra
per una quota che dovrebbe aggirarsi sui due terzi (due miliardi) un taglio di detrazioni,
deduzioni e agevolazioni fiscali: vecchia fissa dei governi fin dai tempi di Giulio Tremonti,
che le cosiddette “spese fiscali” le voleva tagliare dieci volte di più. Come è intuibile, in
ogni caso, minori detrazioni fiscali significano più tasse da pagare soprattutto sui redditi
mediobassi, quelli che usufruiscono di più delle detrazioni.
DOVRANNO accontentarsi del bonus triennale da 80 euro al mese per i figli nati nel
2015 (non è chiaro se anche per quelli nati l’anno dopo) in famiglie con reddito inferiore
a 90mila euro l’anno o Isee inferiore a trentamila (non è chiaro). Un po’ di numeri: nel
2013 in Italia sono nati circa 515mila bambini, quindi il bonus per ogni singola leva costa
un po’ meno di mezzo miliardo l’anno. Bene, si dirà, esattamente lo stanziamento di
Renzi. C’è un problema: nelle bozze quei soldi sono una tantum. Altra questione. Se gli
80 euro a figlio verranno mantenuti anche negli anni successivi il costo è destinato a
salire: quasi un miliardo nel 2016 e circa 1,4 miliardi nel 2017. I soldi per ora non ci sono,
ma se Matteo l’ha promesso a Barbara in diretta tv...
Del 21/10/2014, pag. 10
La manovra
Il presidente della Commissione Ue uscente vuole chiedere al nostro
governo una modifica del disavanzo strutturale di 0,5 punti per evitarci
la bocciatura
Padoan ha previsto invece una riduzione di 1,6 miliardi più una riserva
di altri 3,4 in caso di emergenze Più morbida la posizione di Juncker
Deficit, Barroso insiste “L’Italia tagli 8
miliardi” Ultime correzioni alla legge di
Stabilità
ALBERTO D’ARGENIO
ROBERTO PETRINI
ROMA . La legge di Stabilità 2015 arriva al Quirinale con una buona dose di “suspense”.
Attesa ieri, come aveva annunciato lo stesso ministro per l’Economia Pier Carlo Padoan,
arriverà con tutta probabilità solo oggi. Ma per l’intera giornata si sono rincorsi interrogativi
sulle motivazioni del ritardo. “Aggiustamenti tecnici”, hanno spiegato fonti del Tesoro. La
chiave del “giallo” va cercata tuttavia Bruxelles.
Il negoziato con la Ue, infatti, sembra tornare a complicarsi. Nelle prossime ore, come
anticipato ieri da Repubblica, è attesa una lettera nella quale la Commissione europea
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esprimerà i propri dubbi sulla manovra italiana. Nel mirino la scelta di tagliare il deficit
strutturale di un solo decimo di punto nel 2015, in violazione del Fiscal Compact. E
secondo fonti europee citate dall’Ansa il presidente uscente della Commissione, Josè
Manuel Barroso, resterebbe fermo sulla richiesta di chiedere una correzione dello 0,5%,
pari a 8 miliardi. Il governo risponderà alla missiva dicendosi disponibile ad aumentare il
risanamento allo 0,25%, al massimo allo 0,35 dando fondo alla “riserva” da 3,4 miliardi
inserita nella manovra proprio in caso di irrigidimento da parte di Barroso, che punta a una
terza vita politica in patria e non può fare sconti ai big dopo che i portoghesi hanno subito
le rudi attenzioni della Troika. Il governo confida però sul suo successore, Jean Claude
Juncker, che sarebbe pronto a un accordo che tenga conto della flessibilità, quindi in linea
con le cifre indicate governo. La partita si giocherà tutta nei prossimi sette giorni: se
Barroso deciderà, il 29 ottobre, di bocciare comunque la Legge di Stabilità, il governo
cercherà un accordo successivo con Juncker, che appena tre giorni dopo prenderà le
redini della Commissione. Ma Roma vorrebbe evitare la bocciatura pubblica che potrebbe
avere serie conseguenze sui mercati. Per questo sono in corso contatti ai massimi livelli
istituzionali per indurre Barroso a passare la mano, esprimendo pure i suoi dub- bi nella
lettera in gestazione ma evitando poi di rimandare platealmente la manovra e lasciando
che sia Juncker a gestire il dossier. E la sensazione dei nuovi malumori di Bruxelles ha
consigliato, anche sulla base di considerazioni che sono state fatte in Italia, di lasciare
“libera” la riserva di 3,4 miliardi, pari a circa lo 0,2 per cento del Pil. Il “tesoretto” non sarà
dunque utilizzato, neppure temporaneamente, per coprire altri sgravi o interventi di spesa.
Ma ci sono anche altre questioni da definire sul fronte italiano e nelle ultime ore i
maldipancia salgono. Le partite ancora aperte nelle ultime ore riguardano la definizione dei
meccanismi del bonus da 80 euro da 9,5 miliardi reiterato per il prossimo anno i cui criteri
contabili cambieranno: lo sconto diventerà una vera e propria detrazione fiscale, passando
contabilmente da maggiore spesa a minore entrata: dunque la necessità di far quadrare le
cifre. C’è poi l’ultima sortita sul bonus-bebè che, secondo le intenzioni di Palazzo Chigi
dovrebbe funzionare con il criterio degli 80 euro a mamma dove il reddito familiare è
inferiore ai 90 mila euro con la deroga oltre questa soglia per i nuclei dove si supera il
terzo figlio: anche in questo caso il meccanismo fiscale è di complessa realizzazione. La
Cgil tuttavia contesta: «Meglio aprire con le stesse somme 1.000 asili nido ». Secondo
alcuni (ad esempio il gruppo di Forza Italia alla Camera) non ci sarebbero le coperture
economiche necessarie per i fondi alle neomamme che, per il ministro Lorenzin,
dovrebbero essere erogati con «un assegno per l’anno 2015 non inferiore a 900 euro».
L’altra questione sul tavolo è quella delle Regioni: se, come fatto filtrare dai protagonisti
della trattativa, il taglio di 4 miliardi sarà ammorbidito con il ricorso a prestiti della Cassa
Depositi e prestiti, c’è da cambiare la norma. Ma l’accordo tarda ad arrivare e l’incontro
potrebbe esserci solo la prossima settimana, mentre le Regioni lamentano anche la
perdita di 450 milioni di taglio dell’Irap. Infine le critiche, che il governo, per ora, non
sembra intenzionato raccogliere: aumento delle tasse sui Fondi pensione, neutralità fiscale
dell’anticipo del Tfr, sblocco dei contratti per gli statali, senza contare la richiesta di un
aumento delle risorse per le assunzioni a contributi-zero che riguarderebbero solo stipendi
fino a 1.200 euro al mese. Troppo pochi si dice e si chiede un aumento delle risorse.
Dubbi e polemiche arrivano anche sull’entità dello sconto Irap sul costo del lavoro: per il
prossimo anno sarà di 5 miliardi ma bisogna tenere conto che viene abrogato lo sconto
dell’aprile scorso del 10 per cento sull’aliquota e che in questo modo il beneficio si riduce.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 21/10/2014 – pag. 9
Cittadino chi nasce qui a studi finiti
ROMA Nella girandola di nuove iniziative parlamentari, Matteo Renzi annuncia anche
l’adozione dello ius soli : il diritto di cittadinanza per i ragazzi stranieri nati, ma anche
giunti, sul suolo italiano. Attualmente lo si ottiene solo dopo aver presentato richiesta al
compimento del diciottesimo anno di età.
Di proposte di legge per allargare o restringere le maglie di questa norma in Parlamento
ce ne sono molte. Neanche una, invece, sta attualmente impegnando gli uffici tecnici del
Viminale. Il premier ha fatto riferimento ad uno « ius soli temperato». Cosa intende? Che i
ragazzi diventino cittadini italiani al completamento di un ciclo di studi. Se sono nati qui, al
termine della scuola dell’obbligo. Se sono arrivati quando erano già adolescenti, alla fine
della licenza di scuola superiore.
Potrebbero essere 50 mila l’anno i nuovi italiani, se passasse questa norma. Ora il 47,2%
degli stranieri iscritti nelle nostre scuole nel 2013 è nato in Italia. Soddisfatto il garante
dell’Infanzia Vincenzo Spadafora: «Lo chiediamo da tempo. Sono 4 milioni gli stranieri che
vivono in Italia e più di un milione di loro è minorenne». Per Filippo Miraglia dell’Arci la
proposta è un bluff: «Dalla nascita a 16 anni continuerebbero a essere considerati stranieri
nella terra di nascita». Mentre, secondo il governatore leghista Luca Zaia, è «solo
un’iniziativa per distrarre i cittadini dai problemi reali».
V.Pic.
Del 21/10/2014, pag. 15
All’Opéra col velo. Il coro la caccia via
Scontro in Francia
La donna araba era assieme al marito. I due costretti a lasciare lo
spettacolo
PARIGI - Fine del primo atto della «Traviata» all’Opéra Bastille, Violetta (Ermonela Jaho)
appena cantato Sempre libera degg’io / Folleggiar di gioia in gioia davanti a una donna in
niqab di colore tenue, seduta in prima fila, accanto al marito. Si chiude il sipario, e prima
che l’opera di Verdi ricominci dietro le quinte i coristi protestano. Manderanno a monte la
rappresentazione, se la donna non si toglie il velo islamico che le copre tutto il volto tranne
gli occhi. È la prima volta che succede in un teatro, da quando l’11 aprile 2011 la Francia
ha approvato la legge che vieta il burqa (velo integrale con una sorta di griglia di tessuto
sul volto) e il niqab (una fessura lasciata sugli occhi) nei luoghi pubblici. La donna è una
turista del Golfo, per avere quei posti a pochi metri dal palco lei e il marito hanno prenotato
molti mesi prima e pagato 231 euro a testa. Durante il primo atto il suo volto coperto è
stato inevitabilmente inquadrato dalle telecamere interne, assieme ai gesti del direttore
d’orchestra, e proiettato sui maxi-schermi.
Il vicedirettore dell’Opéra, Jean-Philippe Thiellay, dice che l’errore è stato compiuto subito,
all’ingresso, quando la signora è stata lasciata entrare. La legge francese stabilisce che
«nessuno può, nello spazio pubblico, portare una tenuta destinata a dissimulare il volto.
Sono in particolare proibiti passamontagna, veli integrali, maschere o qualsiasi altro
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accessorio destinato a nascondere il viso». Ma i facoltosi visitatori dal Medio Oriente sono
una risorsa importante, e talvolta si lascia correre. Sugli Champs Elysées, per esempio,
non è infrequente vedere coppie di ricchi turisti arabi che fanno shopping con la donna
coperta di nero. Nel luglio 2013 un controllo di identità per un niqab a Trappes, nella
periferia di Parigi, aveva provocato incidenti e auto date alle fiamme. Qualche giorno fa
l’ex ministra sarkozista Nadine Morano ha apostrofato un donna in burqa alla Gare du
Nord, chiedendole di scoprirsi il volto e facendo intervenire i poliziotti, a suo giudizio troppo
lassisti. Le forze dell’ordine spesso preferiscono evitare tensioni, con il risultato che i veli
integrali si vedono sempre più spesso per strada, in metro, sugli autobus.
All’Opéra, venerdì 3 ottobre, sono stati i coristi a pretendere il rispetto della legge. «Un mio
collaboratore si è avvicinato alla signora in prima fila e ha spiegato la situazione —
racconta Thiellay —: o si toglieva il velo, o era costretta a uscire. Lei e l’accompagnatore
hanno preferito alzarsi e andarsene, senza protestare». Il breve colloquio si è svolto in
realtà con il marito: la donna non aveva il diritto di rivolgere la parola a uno sconosciuto. Il
ministero della Cultura ha inviato una nota all’Opéra Bastille e Garnier per ricordare la
corretta applicazione della legge. Una donna in burqa o niqab non può entrare a teatro,
ma se per qualche motivo supera i controlli spetta poi alla polizia farla uscire, e non al
personale. La Francia è stato il primo Paese a introdurre il divieto del burqa nell’aprile
2011, seguito pochi mesi dopo la Belgio, dal comune di Barcellona e nel settembre 2013
dal Canton Ticino, in Svizzera; si dibatte se introdurre la stessa misura in Gran Bretagna.
A luglio la Corte europea dei diritti umani ha respinto il ricorso di una 24enne musulmana e
riconosciuto che la Francia persegue un «obiettivo legittimo». Chi contravviene alla
proibizione rischia un’ammenda di 150 euro e uno «stage di cittadinanza» sui valori della
République. Finora sono state fatte un migliaio di multe, a circa 600 donne.
Stefano Montefiori
Del 21/10/2014, pag. 36-37
Londra, Italia
Fanno i barbieri o i medici, gli avvocati o i camerieri. C’è chi sfonda, nel mondo della
ricerca o lanciando startup. È un esodo inarrestabile: nella capitale britannica
vivono oltre 500mila connazionali Attirati dall’economia che vola, dall’inglese. Da
una città sempre più trendy
ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA
IL MIO barbiere è un italiano, il mio avvocato è un italiano, il mio medico di famiglia è un
italiano, la mia libraia di fiducia è un’italiana, l’insegnante di scuola guida di mio figlio è
italiano, è italiana la segretaria della sua facoltà universitaria, è italiano il mio dentista, è
italiana la ragazza che mi prepara il caffè al bar, sono italiani la cameriera del ristorante
giapponese sotto casa, il cameriere del ristorante di hamburger all’angolo, il commesso
del negozio dove compro jeans e magliette, il gelataio dove compro il gelato (anche quello
di produzione italiana) e la maggioranza degli amici e amiche con cui mi ritrovo una volta
al mese in una pizzeria di Camden, naturalmente italiana, dove lavorano soltanto
camerieri e cuochi italiani. Vivo a Londra da un decennio, ma per certi versi è come se
fossi in Italia: dovunque vado, sono circondato di connazionali.
Non è soltanto un’impressione personale. Secondo i dati del Consolato d’Italia, nella
capitale britannica siamo in 250mila ad avere il passaporto del Bel Paese, ma questi sono
solo gli iscritti all’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero, cioè coloro che hanno
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ufficialmente spostato la propria residenza nel Regno Unito. Il Consolato calcola che il
numero reale, includendo gli italiani che la residenza la tengono in Italia, sia almeno il
doppio. Mezzo milione, una Little Italy londinese grande come Bologna o Firenze, la cui
crescita continua, anzi si espande a dismisura: 2 mila in più al mese, soltanto per quanto
riguarda gli iscritti all’Aire, con un aumento complessivo nell’ultimo anno del 71 per cento
della nostra immigrazione in Inghilterra rispetto al 2013. Oggi la Gran Bretagna è il paese
del mondo che accoglie più immigrati italiani. Ormai è un esodo. O una grande fuga.
Per questo dall’inizio del 2014 il Consolato ha creato un apposito “sportello” per i nostri
nuovi immigrati: si chiama “Primo approdo”, è una serata in cui avvocati, fiscalisti, medici,
esperti di servizi sociali, siedono a un tavolo offrendo gratuitamente consulenze agli italiani
appena sbarcati sotto il Big Ben. Gli argomenti sono lavoro, casa, salute e mondo
accademico. «Lo facciamo per essere vicini ai nostri cittadini, per rispondere a
un’esigenza che abbiamo sentito diventare più ampia ed urgente», dice Pasquale
Terracciano, l’ambasciatore d’Italia a Londra, che ha promosso l’iniziativa, coordinata dal
Console Generale Massimiliano Mazzanti e dal console Sarah Castellani. «Finora
abbiamo organizzato dieci serate, di cui tre dedicate a come preparare il curriculum giusto
per cercare lavoro in questo paese», spiega l’ambasciatore. «In tutto hanno partecipato
650 persone, per lo più giovani. Il 57 per cento sono laureati, ma alcuni finiscono per
accettare, almeno come primo impiego, anche lavori in cui la laurea non è necessaria ».
Luca Vullo, giovane cineasta italiano (a sua volta immigrato a Londra), sta girando un
documentario sul progetto.
I “seminari per immigrati” si svolgono in un luogo simbolicamente appropriato: il nostro
Consolato è a Farringdon road, a due passi da Clerkenwell, la strada della prima
immigrazione italiana in Inghilterra, dove sorge St. Peter’s Church, più antica parrocchia
italiana di Londra, in cui tutte le domeniche dice messa (in italiano) padre Carmelo di
Giovanni. In questa che fu la prima “Little Italy” londinese vissero Giuseppe Mazzini in
esilio e Giuseppe Garibaldi come suo ospite, quindi ci sono arrivati generazioni di
immigrati. Ma adesso la “Piccola Italia” di Londra non è più tanto piccola: è un fiume in
piena. Gli italiani d’oggi vengono per fare di tutto: il banchiere, l’avvocato, il manager,
l’architetto, il medico, l’ingegnere, il barista, il cameriere, il cuoco, il commesso, la nanny, il
traduttore, l’assistente fotografo, il gallerista d’arte, l’insegnante, l’artigiano. In pratica tutti i
mestieri. Il motivo è semplice: qui, magari dopo qualche settimana o mese di ricerche, il
lavoro si trova. Attirano indubbiamente anche altri fattori, il desiderio di imparare l’inglese,
fare un’esperienza all’estero, vivere in una megalopoli globalizzata e trendy, ma la chiave
è che l’occupazione a Londra non è una chimera. Merito dell’economia che vola, con il pil
che cresce del 3 per cento, l’espansione più forte d’Europa, e la disoccupazione al 6 per
cento, la più bassa dal 2008. Merito di una normativa più semplice e anche più neoliberale: si viene licenziati su due piedi, se le cose vanno male, così come si è assunti
facilmente se vanno bene. Ma basta consultare Londranews.com, uno dei tanti siti per gli
italiani di Londra, per trovare offerte di lavoro in ogni categoria. Certo non tutto è così
luccicante come sembra da lontano: gli affitti sono esorbitanti, i trasporti costano due o tre
volte più che in Italia, le distanze sono immense, il ritmo è frenetico. «Bisogna imparare a
fare la coda, arrivare in orario, essere sempre cortesi e rispettosi», scrive Cristina
Carducci, sociologa e immigrata anche lei da quattro anni, sul suo blog “Londra chiama
Italia”. Ma se vengono in tanti significa che ne vale la pena.
Racconta il mio barbiere, che poi è una parrucchiera, Marcella, 26 anni, di Alessandria: «In
Italia mi facevano fare la stagista a 400 euro al mese per tre mesi e poi dovevo cercarmi
un altro posto. Qui mi assumono e guadagno abbastanza per vivere». Paga 400 sterline al
mese per un letto in una stanza con un’amica in una casa con dieci coinquilini (tutti
italiani), ma è più contenta e realizzata di prima. Antonia, 24 anni, di Pescara, cameriera al
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mio ristorante giapponese preferito, è ancora più entusiasta: «Con le mance prendo 500
sterline alla settimana, 2 mila sterline al mese. Guadagno più io di mio padre». Molti
lavorano mentre fanno l’università: un compagno di studi italiano di mio figlio è stato
assunto come centralinista in un albergo. Ci sono quelli che devono accontentarsi di 7
sterline l’ora per preparare caffè e cappuccini da Starbucks o Caffè Nero, due delle grandi
catene di caffetterie (all’italiana) della città. Bisogna adattarsi, comunicare con famiglia e
amici via Skype, tornarli a trovare ogni tanto con i voli a basso costo di Easyjet e Ryan Air.
Ma ci sono pure quelli che hanno fatto centro ad alto livello: come Ferdinando Giugliano,
laurea e Phd in economia a Oxford, ora redattore del Financial Times, o Giandomenico
Iannetti, anche lui uscito da Oxford, adesso docente di neurologia alla Ucl (University
College London), dove ha ricevuto 2 milioni di sterline di finanziamenti per le sue ricerche.
E poi ci sono gli italiani che il lavoro se lo sono creati qui da soli, in ogni campo: uno per
tutti Riccardo Zacconi, l’inventore di Candy Crush, il giochino per telefonini con utenti in
tutto il mondo, titolare di una fortuna di 700 milioni di sterline partita come start-up e
approdata in Borsa. I business italiani o rivolti agli italiani di Londra sono così tanti, in
effetti, che sono nate anche le pagine gialle tricolori, sul web, The Italian Community
London, con più di 2 mila inserzionisti (peraltro gratuiti) – e anche questa è una start-up
italiana. Insomma, “gli italiani non sono pigri” , come afferma fin dal titolo il libro di Barbara
Serra, conduttrice dagli studi di Londra di Al Jazeera, la tivù di news araba, anche lei
un’immigrata italiana che si è affermata lungo le rive del Tamigi. Non è questione di
pigrizia, bensì di opportunità e merito, verrebbe da concludere. Beninteso, non tutti
pensano di trasferirsi a Londra per sempre: un conto è vivere in due in una stanza, un altro
metter su famiglia. Ma intanto la “Piccola Italia” cresce, lavora e produce. London calling,
Italy risponde.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 21/10/2014 – pag. 11
EXPO, ADESSO È ALLARME AMIANTO
S’INDAGA SUI LAVORI DI MALTAURO
UN ESPOSTO DENUNCIA LE MANCATE ANALISI PER GLI SCAVI DELLE
“VIE D’ACQUA”
di Davide Milosa
Milano - Ci sono bonifiche non fatte. Terreni contaminati movimentati tra le case. Ci sono
le istituzioni che non rispondono. Ci sono gli appalti di Expo sui quali, dopo la bufera
corruzione, rischia di abbattersi la tempesta inquinamento. Più di un campanello d’allarme
arriva dalla vicenda dell’appalto per le “Vie d’acqua sud”. I lavori riguardano la costruzione
di un canale sotterraneo che dal sito Expo porterà l’acqua fin dentro all’Olona. Peccato
che si stia scavando in un’area circondata da terreni inquinati da amianto e idrocarburi
pesanti.
LE BONIFICHE preventive sono state fatte ovunque tranne che sul terreno delle “Vie d’ac
- qua” dove da settimane la terra potenzialmente inquinata da materiale cancerogeno
viene accatastata a pochi metri dalle abitazioni. La gara per l’affida - mento del cantiere è
finita sotto la lente della procura di Milano che la scorsa settimana ha ottenuto gli arresti
domiciliari per l’ex presidente del Padiglione Italia Antonio Acerbo. Nell’inchiesta, nata dal
filone della cosiddetta cupola degli appalti, finiscono persone legate alle imprese Maltauro
e Tagliabue. Si parla di corruzione aggravata e di turbativa d'asta. Copione classico. A
questo va aggiunta la tegola ambientale sulla quale sta indagando la polizia giudiziaria.
Punto di partenza la denuncia-querela fatta il 9 ottobre scorso da Enrico Fedrighini,
presidente della Commissione Ambiente e Mobilità della zona 8, davanti agli investigatori
della Polizia ambientale e forestale. Una pagina di documento dove si legge che “prima di
iniziare i lavori non è stata effettuata alcuna preventiva verifica analitica dell’area cantiere
per quanto riguarda il parametro amianto”. E questo, nonostante le opere di scavo, iniziate
un mese e mezzo fa, stiano avvenendo “a pochi metri dai terreni oggetto di operazioni di
bonifica da fibre di amianto”.
CI TROVIAMO nella zona del Gallaratese tra via Bolla e via Castellanza. Si tratta di un’ex
area industriale dove è sorto un grande quartiere. Tanta gente. E molte zone verdi che tali
restano perché inzuppate di idrocarburi. Succede nel prato a pochi metri dal cantiere
Expo. Qui, ha ordinato il comune, non si può muovere una zolla. Oltre il marciapiede in via
Castellanza, il centro residenziale MyBonola è in stato di abbandono. Chi doveva costruire
è fallito. Prima di farlo, però, ha scavato trovando amianto. Viene informato il comune.
Parte la bonifica. Ma solo nel perimetro occupato dal palazzo. Nell’area adiacente (si tratta
di centimetri) interessata dai lavori Expo eseguiti da Maltauro non è stato cercato
l’amianto. Insomma, la posizione di Fedrighini è chiara. “Prima d’ini - ziare i lavori,
Maltauro non ha fatto le analisi preventive sul parametro amianto”. Vanno oltre i
rappresentanti del movimento No Canal. “Nei documenti dell’appalto non vi è traccia di
analisi del terreno”. Di più: “Maltauro ha utilizzato il documento di bonifica dell’area
cosiddetta MyBonola”. Diversa la posizione dell’appaltatore. “Abbiamo verificato
l’esistenza sull’area di una certificazione di avvenuta bonifica per amianto fornita dalla
Provincia di Milano nel 2011 - precisa l’impresa di costruzioni Maltauro - . L’area è inoltre
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stata certificata dal Comune di Milano come area per uso verde-residenziale. L’im - presa
ha svolto i lavori di cantiere all’interno dell’area nella piena osservanza di tutti i
regolamenti”.
LA VICENDA viene sollevata a metà settembre quando i camion iniziano a movimentare
la terra. Il rischio è alto. L’amianto è cancerogeno. Fedrighini raccoglie l’allarme e chiede
conto al settore competente del comune di Milano. Il dirigente risponde il 24 settembre che
una bonifica è stata fatta per “uso verde-residenziale”. Non è la risposta giusta. Perché
quell’opera fu fatta, ma prima del 14 luglio 2009, quando MyBonola segnalò la presenza di
amianto. A quel punto si bonificò ma solo nell’area dove poi è sorto il palazzo oggi
bloccato dal fallimento. Oltre, e cioè nel terreno che doveva andare al comune sotto forma
di giardino e che oggi è oggetto dei lavori Expo, non si fece nulla. Il comune di Milano ne
prende atto, spiegando che il dl 69/13 (“decreto del Fare”) ha semplificato le procedure
affidando le certificazioni all’ope - ratore. Lo stesso decreto, però, alla voce “sicurezza sul
lavoro” esclude la semplificazione in ambienti interessati “dalla presenza di agenti
cancerogeni”. Questi i fatti. E mentre la polizia ambientale inizia i primi accertamenti,
l’ingegner Roberto Stefani che per Metropolitana Milanese fa la direzione lavori getta
acqua sul fuoco. “Maltauro ha fatto le analisi”. Poi taglia corto: “Ho fatto una relazione e
l’ho inviata al rup di Expo Carlo Chiesa”.
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INFORMAZIONE
Del 21/10/2014, pag. 31
Le notizie di Sky in chiaro sul digitale “Ma
non riduciamo l’offerta a pagamento”
Sky si prepara a portare dalla pay-tv al digitale terrestre in chiaro i suoi canali di
informazione. Il network italiano di Rupert Murdoch ha però ribadito ieri che la sua
strategia «è focalizzata sul core business» del satellite, ragion per cui non è previsto (SkyNews24 a parte) «il lancio di un pacchetto di canali gratuiti in chiaro». Mossa che
romperebbe la fragile pax televisiva raggiunta negli ultimi anni tra Mediaset e la controllata
di News Corp. Qualcosa, a dire il vero, si muove, visto che lo stesso ad di Sky Italia
Andrea Zappia ammette «la possibilità del trasloco alla televisione gratuita» (tempi e modi
sarebbero ancora da definire) dei canali di notizie del gruppo. Santa Giulia però getta
acqua sul fuoco: «La presenza di Sky sulla televisione free continuerà a essere garantita
da Cielo — scrive in una nota — il canale in chiaro che nel mese di settembre ha toccato
l’1,35% di share medio e che nel corso del 2014 è il canale nativo digitale cresciuto
maggiormente rispetto allo stesso periodo del 2013: +74%». Nessuno di stupisce,
comunque delle fibrillazioni del settore tv in Italia. La crisi economica e quella degli spot
hanno messo in seria difficoltà i conti dei due grandi player del settore e della Rai. I tagli ai
costi sono ormai stati fatti quasi tutti. E in attesa che ripartano pil e spot, il Biscione e le reti
satellitari di Murdoch si stanno preparando da tempo ad affrontare la competizione di
Netflix & C. («Netflix non ci preoccupa» è però il mantra di Zappia) che dopo aver
sbancato l’etere americano si stanno preparando alla conquista dell’Europa.
Sky e Mediaset, non a caso, hanno già iniziato a diversificare i loro business. Anche a
costo di cannibalizzare un po’ di audience e di ricavi delle loro attività principali. Cologno
ha lanciato Infiniti, un supercatalogo di 5mila film da acquistare online più ricco di quello di
Netflix. E per un attimo — quando con Al Jazeera sperava di mettere le mani sia sui diritti
della Serie A che su quelli della Champions — aveva accarezzato l’idea di sbarcare sul
satellite. Sky, come già fa BSkyB a Londra, ha un listino che oltre a un po’ di digitale
terrestre gratuito (mai spinto davvero commercialmente proprio per non fare le scarpe al
satellite) prevede già la vendita online di trasmissioni e film. La velocità dei cambiamenti
tecnologici e la convergenza tra media e tlc sta rimescolando le carte del mondo delle tv in
una partita dove le armi a disposizione sono due (il controllo dei diritti sui grandi eventi e la
banda per distribuirli) e l’obiettivo finale è il cliente cui vendere il prodotto. Una situazione
fluida in cui tutti stanno imparando obtorto collo a fare di tutto. In vista, dicono in molti, di
un’offerta finale unica in cui si acquisteranno telefonia, tv e banda per navigare su internet.
British Telecom ha sfidato Murdoch comprando i diritti del calcio inglese. Telefonica (forse
anche per salvare Prisa causa moral suasion del Governo di Madrid) ha comprato a peso
d’oro Digital + e una quota di Mediaset Premium. Sky ha stretto un accordo commerciale
con Telecom Italia — «è la nostra scommessa per il futuro assieme a Sky online» per
Zappia — mentre il Biscione continua a sognare un accordo con l’azienda guidata da
Marco Patuano, magari sempre su Premium, per ammortizzare i soldi (1,1 miliardi) pagati
per vincere l’asta Champions del triennio 2015-2018 e “salvare” i diritti della Serie A. Un
salasso importante in un momento difficile per la pubblicità tv in Italia, specie per il
Biscione che ha già fatti quasi tutti i tagli ai costi fattibili. Il futuro dell’etere (in campo ci
sono pure Amazon, Apple e Google) è ancora tutto da scrivere. Ma nel timore di perdere il
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treno giusto tutti, dal satellite al digitale, dallo streaming alla pay, stanno imparando a fare
tutto.
CULTURA E SCUOLA
Del 21/10/2014, pag. 1-25
I treni perduti di Matera capitale della cultura
senza la stazione
La città dei Sassi è l’unico capoluogo tagliato fuori dalla rete Fs Dal
1986, data di inizio dei lavori, si sono sprecati 270 milioni
FABIO TONACCI
Per le Ferrovie dello Stato Matera non esiste. Cancellata. Il nome della futura capitale
europea della cultura non appare in nessun tabellone delle partenze. Non viene mai
pronunciato dalla voce metallica degli speaker nelle stazioni. Inutile pure cercarlo tra le
destinazioni sul sito di Trenitalia dove si comprano i biglietti online: “Nessuna soluzione
trovata”. La città dei Sassi, il patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco, è l’unico
capoluogo d’Italia tagliato fuori dalla rete ferroviaria nazionale. Benvenuti a Matera, dove il
binario che non c’è porta alla stazione mai aperta. Questa che da altre parti suonerebbe
come un paradosso, una frase ad effetto, qui è la realtà. Perché uno scalo targato Fs,
Matera, ce l’ha. Basta scendere in località “la Martella”, a pochi minuti dal centro, per
goderselo in tutta la sua incompletezza. Centinaia e centinaia di metri quadrati di piazzale,
l’ipotetico parcheggio, nel mezzo del quale si erge la stazione rivestita in pietra: le porte
sono murate, le pensiline cadono a pezzi, nei due solchi per i binari crescono sterpaglie
alte due metri. Abbandonata e in rovina. Presenza ormai accettata dai 60mila materani,
che tra cinque anni vedranno arrivare, quasi tutti in macchina o in pullman, almeno 5
milioni di turisti.
Già così, fa male. E però dallo scalo mai aperto si allunga una lingua di cemento di 29
chilometri, che passa davanti alla Cripta del Peccato Originale sfregiandone la bellezza,
attraversa colline su ponti con pilastri di trenta metri e campate di acciaio, taglia tutta la
valle del Basento con una cicatrice di calcestruzzo, si infila in una galleria lunga 11
chilometri sotto il bosco della Manferrana fino a sbucare a Ferrandina. Un vilipendio alla
Basilicata che rimarrà tale, perché dal 1986, data di inizio lavori, le Fs non sono state in
grado di completare l’opera con rotaie e cavi elettrificati. Dunque la linea che doveva
collegare Matera e creare un corridoio fino a Napoli, è rimasta incompiuta.
«Un progetto nato male e finito peggio», sostiene Pio Acito, architetto di Legambiente, che
ha seguito la storia maldestra della Ferrandina- Matera fin dalla sua genesi. «Già allora
pareva inutile, perché poco fruibile. Sarebbe stato meglio seguire un percorso diverso,
collegare Metaponto sullo Ionio allo snodo di Foggia, passando per Matera». I lavori sono
andati avanti a passo di lumaca: le aziende ingaggiate fallivano una dopo l’altra, per colpa
degli eccessivi ribassi nelle gare d’appalto. La costruzione della galleria Miglionico,
scavata nel terreno argilloso e resa fragile da gas sotterranei, fu un disastro e comportò un
incremento di spesa di decine di miliardi di lire e il giorno del varo del ponte di ferro sul
fiume Bradano la struttura si piegò. «Costò alle casse pubbliche 115 miliardi di vecchie
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lire», ricorda Acito. Secondo altri calcoli, la spesa complessiva della Ferrandina- Matera
ammonta a 530 miliardi di lire (270 milioni di euro).
Nel 2007 la ferrovia morta sembrò risorgere, ma fu un fuoco di paglia. La regione
Basilicata e il ministero delle Infrastrutture conclusero un accordo per completarla, «entro il
31 dicembre 2008» con i fondi delle aree sottosviluppate. Non si è mossa una ruspa.
Ormai era evidente a tutti che fosse un affare in perdita. Le Fs hanno recentemente
dichiarato che per completare l’opera servirebbero altri 150 milioni di euro, che non hanno.
Aggiungendo una frase che sa di epitaffio: «Per questo progetto al momento tutti i lavori
sono sospesi ».
Matera non avrà i convogli di Trenitalia entro il 2019, quando vestirà i panni della capitale
europea della cultura. Forse non li avrà mai. «Non ci interessa nemmeno più quel rudere
di stazione — sbotta Nino Paternoster del comitato Matera2019 — abbiamo in programma
600 milioni di euro di investimenti in infrastrutture, raddoppieremo le corsie della strada
che porta a Bari, allargheremo le due statali che vanno a Gioia del Colle e Ferrandina. Le
navette con l’aeroporto Bari Palese al momento sono tre, ma le faremo diventare quindici,
copriranno la distanza in 50 minuti. E poi i treni, Matera, ce li ha già».
È vero. Sono i vecchi Fiat diesel a due e quattro vagoni delle Fal, le Ferrovie Appulo
Lucane (di proprietà del ministero dei Trasporti) che arrancano fino al capoluogo, tra olivi e
mandorli, su un binario a scartamento ridotto, uno dei pochi che non è stato smantellato
dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fu inaugurato nel 1915. Difficile immaginare che la
gran massa di turisti arriverà a bordo di quei trenini, se non cambieranno le cose.
Attualmente ce ne sono solo 13 che, nell’arco della giornata, servono Bari e Matera. Ci
mettono un’ora e 40 per fare una settantina di chilometri, fanno 15 fermate, nelle ore di
punta molti passeggeri devono stare seduti a terra o in piedi nel corridoio. E c’è da sperare
pure di trovarsi nella parte giusta del convoglio, perché ad Altamura il trenino si divide in
due, la testa va a Matera, la coda a Gravina. Alle biglietterie è vietato pagare con carte di
credito e bancomat: accettano solo i contanti (9,80 euro andata e ritorno). «È la ferrovia
calabro- lumaca — scherza Giuseppe Appella, creatore e direttore del Musma, il museo
della scultura contemporanea — abbiamo un problema di accessibilità, è vero. Ma
mancano ancora cinque anni, e non è il caso di lamentarsi per la stazione delle Fs mai
aperta. Le Fal, ad esempio, possono diventare una sorta di “metropolitana” molto
efficiente, se aumenteranno le corse». Intanto però non fanno servizio su rotaia di
domenica e nei festivi. Suppliscono con i pullman. Quello da Potenza delle 14.24, per dire,
ci mette 3 ore e 55 per arrivare a Matera e prevede 4 cambi. Insomma, la capitale europea
è fatta, il problema ora è portarci l’Europa.
Del 21/10/2014, pag. 53
R2 Cultura
Dagli Aztechi alla “religione” del Pil, il pensiero unico attraversa da
sempre la storia. Zygmunt Bauman individua in Francesco un potente
antidoto
Se il Papa ama il dialogo vero più della verità
ZYGMUNT BAUMAN
MACIEJ Zieba adopera il concetto di “società veritale” per significare quella forma di
coesistenza umana in cui «l’intera vita individuale, dalla culla alla tomba, così come la vita
collettiva» sono imperniate su «una verità trascendente universalmente riconosciuta». E
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per chiarire che forma ha in mente, Zieba si affretta ad aggiungere che «questo vale non
solo per gli Aztechi e i Masai ma anche per i seguaci di Marx e Mao, e per chi nutre una
fiducia acritica e quasi-religiosa nella fisica e nella genetica». Aggiungerei i credenti quasi
religiosi nel Pil, nel commercio, nell’informatica. In tutti questi casi la divinità è una; questo
tratto comune relega ai margini le differenze tra un caso e un altro.
Nell’idea di “verità”, non importa se associata o no al termine “uno”, c’è dal principio un
suggerimento arduo da togliere che qualcosa di “unico” ci sia o almeno vada presupposto.
Quella di verità è un’idea agnostica per la sua origine e la sua natura. È infatti un concetto
che può emergere solo dall’incontro col suo contrario, con un antagonista. La necessità
del concetto di verità è avvertita dal momento in cui l’affermazione «è quel che è» diventa
insufficiente e occorre aggiungere «e non è quel che dicono alcuni (chiunque siano) ».
“Verità” è a suo agio in un lessico del monoteismo, e, in ultima analisi, in un monologo. Ed
effettivamente, usare “verità” al singolare in un mondo polifonico è come voler applaudire
con una mano sola... Con una mano si può dare un ceffone, ma non applaudire.
Ecco perché le parole di papa Francesco sull’aprire le porte e andare incontro a tutti,
pronunciate ad Assisi, e più ancora le sue parole sul comunicare non per far proseliti ma
per capirsi, mi hanno così toccato; soprattutto perché pronunciate conversando con un
agnostico dichiarato e direttore di un autorevole giornale anticlericale, che stampa
regolarmente nelle sue colonne punti di vista mal deglutiti dai cardinali. Mi hanno
commosso perché succede molto di rado, per non dire mai, nei monologhi a puntate
spacciati per “dialoghi”. Non è a queste forme molto comuni di finto dialogo che Francesco
guarda, né nelle conversazioni a cui partecipa di persona né nella teoria del dialogo che,
tenacemente, promuove da anni. In un articolo pubblicato in origine nel 1990, riproposto
nel 2005 solo con modifiche minori, egli considerava il finto dialogo un segno di
corruzione, la corruzione essendo, diversamente dal peccato (che si può perdonare),
imperdonabile; la corruzione, lungi dall’andar perdonata, «andrebbe curata». Il marchio
dell’individuo corrotto, secondo Jorge Mario Bergoglio, sta nel «prender male qualunque
critica. [Un individuo così] svaluta chi lo giudica negativamente, e vorrebbe disfarsi di
qualsiasi autorità morale atta a disapprovare qualche aspetto della sua condotta; giudica
gli altri e disdegna chi è di parere diverso. Il loro [dei corrotti] modo di perseguitare è
imporre un sistema di terrore a chiunque li ostacola; si vendicano rimuovendo [gli
oppositori] dalla vita sociale». «Il corrotto non riconosce la fratellanza né l’amicizia, solo la
collaborazione. L’amore verso i nemici per lui conta nulla, al pari della distinzione di amico
e nemico su cui si basava il diritto antico. Piuttosto, egli si muove nell’ottica
dell’opposizione collaboratore- nemico. Così un corrotto con un incarico pubblico finisce
sempre per coinvolgere altri nella propria corruzione. Li abbasserà al suo livello e li farà
complici della scelta». Inoltre ala persona corrotta non vede la sua corruzione. È come con
l’alito cattivo: chi ne soffre non se ne accorge».
Tirando le somme, è possibile indicare un’emozione tipica del corrotto e del suo
comportamento: l’odio, l’opposto dell’amore. Quell’amore che Henryk Elzenberg, un
importante filosofo etico polacco, ha definito come «la gioia dell’esistenza di qualcun
altro». In particolare, il corrotto odia chi non collabora, chi si sente in diritto di pensare
diversamente, chi fa resistenza. Chiudo gli occhi, mi turo le orecchie... mi affretto a
premere “cancella” quando sul monitor mi imbatto in un’idea in disaccordo con le mie. Hic,
davanti al portatile, all’i-Pad o allo schermo dell’i-Phone; e nunc, nelle circa sette ore che
l’uomo medio di oggi passa a guardarli. Questo hic et nunc che abbiamo avuto in dono
dall’intelligenza artificiale, è una “comfort zone”; uno spazio al riparo dalle controversie,
dalla stancante necessità di portare prove e argomenti a sostegno di ciò che diciamo, e
dal pericolo di esser smentiti in uno scambio dialettico. Hic et nunc, in un mondo sempre
più affollato e congestionato in cui chiese cattoliche, luterane e ortodosse, moschee,
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sinagoghe e luoghi di culto metodisti, battisti e dei Testimoni di Geova, si contendono lo
spazio disponibile a volte nella medesima strada, ignorarsi a vicenda è sempre meno
possibile.
Come Jorge Bergoglio prima di lui, papa Francesco non solo predica la necessità del
dialogo, ma la pratica. Di un dialogo vero, tra persone con punti di vista esplicitamente
diversi, che comunicano per comprendersi. Non di un dialogo all’insegna dell’elogio
reciproco, pensato dall’inizio per concludersi con una standing ovation; né un “dialogo”
(solo in apparenza di tipo opposto) che sia in realtà una mera giustapposizione di
monologhi. È stata una decisione molto significativa da parte di Francesco concedere la
prima intervista alla stampa del suo pontificato all’apertamente anticlericale La Repubblica,
rappresentata, con Eugenio Scalfari, da un decano del giornalismo che non fa mistero di
non essere credente.
Di sicuro l’arte che papa Francesco predica, e pratica lui stesso ogni giorno, è difficile da
imparare e, più ancora, da attuare quotidianamente. La sua meno rischiosa alternativa è
molto più allettante. Dopo tutto, in un dialogo degno del nome si deve mettere in conto
anche l’insuccesso; la possibilità che il nostro punto di vista, ciò in cui crediamo, risulti
errato, o che il nostro interlocutore risulti più nel giusto di noi... Simili timori tendono ad
aggravarsi e moltiplicarsi, perché meno ci confrontiamo con persone e punti di vista diversi
dai nostri, più si indebolisce la nostra capacità di provare i meriti della nostra posizione
(che è tutt’altro, naturalmente, dal cercare di aver la meglio alzando la voce, o dal turarsi le
orecchie per non sentire le ragioni di chi consideriamo nient’altro che un nemico) e
aumentano i nostri motivi di temere il confronto. Ma non lasciamoci indurre in tentazione!
Sottrarci al dialogo, voltare le spalle al dovere di confrontarci con la varietà delle umane
ricette per una vita decente, ci darà forse la pace mentale (benché, senza dubbio, solo per
un po’) ma non risolverà nessuno dei problemi che minacciano il pianeta di estinzione e
avvelenano la vita dei suoi abitanti. Per il futuro dell’umanità in un mondo irreversibilmente
multiculturale e multicentrico, l’accettazione del dialogo è una questione di vita o di morte.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 21/10/2014, pag. 3
Manovra Renzi, 600 euro di nuove tasse
Legge di stabilità. I tagli alle regioni e lo sconto Irap si scaricheranno
sulle famiglie. La previsione è dei consumatori. E gli studenti lanciano
l’allarme atenei: «Via 300 milioni»
Antonio Sciotto
È una pioggia di tagli la legge di stabilità, e man mano che si va definendo emergono
nuove sorprese. Spiacevoli. Ad esempio, le Regioni hanno calcolato che oltre ai 5,8
miliardi di minori entrate già calcolate (i 4 di Renzi più il lascito dei governi Monti e Letta),
dovranno rinunciare a ulteriori 450 milioni di euro a causa della prevista riforma dell’Irap.
Ancora, secondo i conti dell’associazione Link, all’università potrebbero venire a mancare
300 milioni. E i consumatori denunciano il rischio di una possibile stangata da 606 euro
a famiglia. Ma soprattutto a far discutere è il “bonus neomamma” o “bonus bebé” annunciato a sorpresa domenica sera da Matteo Renzi durante la trasmissione di Barbara
D’Urso: costo 500 milioni di euro per il primo anno. Ovviamente, come d’altronde tutto il
resto della legge, non è ancora specificato, ma secondo le dichiarazioni della ministra
Beatrice Lorenzin (che in quanto Ncd intesta al proprio partito questo sostegno alle famiglie) si tratterebbe di 80 euro al mese nei primi 3 anni di vita del bambino, per i nati dal
2015 in poi: andrebbero ai nuclei con uno o più figli e con reddito annuo fino a 90 mila
euro, mentre dai 90 mila euro in su se ne avrebbe diritto solo dal terzo figlio in poi. Per
i redditi fino a 26 mila euro si sommerà agli 80 euro da bonus Irpef. La misura è stata criticata da Pippo Civati – che ha anche annunciato il voto contrario sullo “Sblocca Italia” —
e per la stesse ragioni addotte dal piddino “dissidente” ha mostrato perplessità la Cgil:
«Sono soldi spesi male – osserva Rossana Dettori, segretaria Fp Cgil – Con le stesse
risorse messe sul piatto dal presidente del consiglio, 500 milioni in 3 anni, si potrebbero
attivare 1000 asili per 60 mila bambini, creando al tempo stesso 12 mila posti di lavoro».
Attacca la norma anche la leader Cgil, Susanna Camusso: «Non so se l’intervento potrà
essere coperto dal fondo previsto nella legge di stabilità e mi colpisce che non si decida
mai una politica organica sulla povertà – commenta – Ci vedo anche il rischio che possa
essere contraddittorio con il lavoro delle donne». Sul fronte delle Regioni ancora si tratta. Il
presidente della Conferenza dei governatori, Sergio Chiamparino, ha proposto uno scambio: le amministrazioni rinuncerebbero ai 2 miliardi destinati alla sanità dal Patto per la
salute, rimodulando in cambio i 4 miliardi di tagli previsti da Renzi. Soldi che però, come
abbiamo già detto, in realtà si vanno a sommare ad altre cifre decurtate. Il coordinatore
degli assessori al Bilancio, Massimo Garavaglia (Lombardia), ha calcolato che «oltre ai 5,8
miliardi di tagli (tra Salva-Italia, dl Irpef e legge di Stabilità 2015), le Regioni dal prossimo
anno dovranno far fronte anche a un calo del gettito di 450 milioni per effetto del taglio
dell’Irap proposto dal governo». Quindi la triade Monti-Letta-Renzi peserebbe per 6,2
miliardi su bilanci già disastrati. Catastrofico anche il costo per le università: «L’articolo 28
della legge di stabilità prevede tagli per centinaia di milioni di euro su spese e servizi –
spiega l’associazione studentesca Link – Vanno aggiunti 18,8 milioni di decurtazione del
Fondo 2015–2016 prevista dal decreto Irpef e 170 milioni di tagli già disposti per il 2015
e non abrogati. Sono 287,5 i milioni di euro di tagli previsti per il 2015». Secondo Adusbef
e Federconsumatori, la manovra è «recessiva e con coperture aleatorie, come il recupero
di 3,8 miliardi di evasione. Inoltre «addossa a Sanità, Regioni ed enti Locali oneri per circa
8 miliardi di euro che dovranno essere coperti da nuove tasse, stimate in almeno 330 euro
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per ogni nucleo familiare, anche per pagare l’Irap delle imprese». Ma ci sono anche «14
euro dall’inasprimento delle tasse sui fondi pensione; 23 euro dall’anticipo Tfr delle banche; 239 euro per la clausola di salvaguardia rincaro Iva dal 4 al 10% su pane, latte, pasta.
Per un totale di 606 euro». Lo sgravio contributivo sui neoassunti, infine, ha spiegato il
consulente di Renzi, Yoram Gutgeld, varrà 1,9 miliardi di euro: dai 6200 agli 8060 euro
l’anno, dando luogo secondo il governo a ben 800 mila nuovi posti in 3 anni.
Del 21/10/2014, pag. 11
Una precarietà che plasma la vita
Ricerche. "Strategie di conciliazione famiglia-lavoro per i lavoratori
atipici"
Roberto Lessio e Marco Omizzolo
La precarietà, stando alle retoriche neoliberiste prevalenti e agli sforzi di tutti governi italiani ammaliati dai fari alti della flessibilità e dell’insicurezza sociale, sembrerebbe rappresentare lo status incontestabile della società contemporanea. Superare questa retorica
è doveroso. La sociologia può contribuire a denunciare le grandi ipocrisie del neoliberismo. Già Ulrich Beck denunciava l’irruzione della discontinuità, della flessibilità,
dell’informalità all’interno dei bastioni occidentali della società della piena occupazione
quale variante dello sviluppo capitalista, in costante espansione all’interno delle più mature
società del lavoro occidentali. Sono milioni in Europa i lavoratori e le lavoratrici costretti ad
una multiattività nomade, ossia a svolgere più lavori per riuscire ad ottenere le risorse economiche necessarie per vivere. La conseguenza è la trasformazione della società del
lavoro nella società della precarietà e il consolidarsi di uno stato di insicurezza endemica
quale elemento distintivo del capitalismo avanzato.
Il saggio Strategie di conciliazione famiglia-lavoro per i lavoratori atipici. Una rassegna
della letteratura di Cavaletto e Musmanno, pubblicato sul n. 1/04 de «La Rivista di Servizio
Sociale dell’Istituto per gli Studi sui Servizi Sociali» approfondisce l’analisi spostando il
focus dalle tematiche economiche classiche del lavoro e dei diritti a quella delle interferenze tra le traiettorie professionali e la quotidianità. Ciò ha permesso di mettere in luce le
conseguenze dello smantellamento del sistema di garanzie che ha governato il conflitto tra
lavoro e capitale nel XX secolo e le difficoltà del welfare italiano a riformarsi per garantire
le nuove classi sociali dal baratro della povertà. La ricerca analizza in particolare i percorsi
esistenziali dei giovani, delle donne e delle famiglie, e le conseguenze su di essi prodotte
dal Pacchetto Treu del 1997, Legge Biagi del 2003 e dalla riforma Fornero.
I neo diplomati e neo laureati italiani, ad esempio, risultano destinati ad entrare nel mercato del lavoro con forme contrattuali atipiche, spesso impiegati in occupazioni frustranti
e non formative, per periodi di tempo non prevedibili e senza alcuna garanzia della loro
conversione in formule contrattuali protette. Queste condizioni sposterebbero in avanti il
loro ingresso nel lavoro retribuito a causa dell’allungamento del periodo formativo, fatto di
continui master, stage e corsi di formazione. La conseguenza è il parallelo allungamento
del periodo di dipendenza dal nucleo familiare d’origine insieme a gravi difficoltà nel raggiungere l’autonomia abitativa, economic. Si manifesta un atteggiamento open-end in cui
indipendentemente dalla situazione esistente si mantiene una via di uscita che evita
l’impegno a lungo termine, a fronte di progettualità di corto respiro che accentuano la propria precarietà, scivolando nella spirale discendete del lavoro atipico. Venendo meno la
possibilità di costituire una famiglia, si allontana parallelamente la possibilità di «investire
nella genitorialità». Analizzando i tassi di natalità dei paesi europei negli ultimi dieci anni le
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due autrici registrano una duplice tendenza. Da una parte si troverebbero i paesi con elevata occupazione femminile e welfare «amico» delle famiglie, in cui la natalità è aumentata
o almeno rimasta stabile. Dall’altra si troverebbero i paesi, come l’Italia, in cui ad un basso
tasso di occupazione femminile si registra un welfare residuale e tassi di natalità tra i più
bassi a livello mondiale. Emergono così tutti i limiti strutturali del welfare italiano che resta
frammentario, scarsamente finanziato e con un sistema di sostegno al reddito quasi inesistente. Il saggio pubblicato dall’Istisss si concentra anche su una delle retoriche giustificazioniste più diffuse del precariato secondo la quale esso garantirebbe supposti vantaggi
alle donne. L’assunto risiederebbe nella strutturale instabilità che caratterizza da sempre
l’attività occupazionale femminile, così giustificando la loro disponibilitànaturale alla precarietà lavorativa. Si tratta di una rappresentazione ideologica. Si consideri ad esempio che
per una donna precaria la scelta di avere un figlio genera l’involontaria uscita dal mercato
del lavoro, peraltro spesso non temporanea. Inoltre, se anche la coppia è precaria, diventa
inderogabile la necessità di avere redditi stabili, comportando il rinvio della genitorialità ad
un momento di maggiore stabilità. La precarietà modificherebbe anche l’organizzazione
tradizionale del tempo, impedendo la routine utile per l’esercizio dei ruoli genitoriali. I precari sono infatti più esposti alla flessibilità d’orario e a cambiare sede di lavoro.
All’aumento della precarietà, contro la quale bisognerebbe inaugurare una nuova stagione
di lotta, non è seguita in Italia una revisione delle politiche di sicurezza sociale. Il sistema
di «flex-security» italiano ha prodotto drammi sociali ai quali si somma l’incapacità del welfare di adeguarsi alle mutate condizioni occupazionali, generando un sistema di flexinsecurity sociale. È davvero il caso di dire, precari di tutto il mondo uniamoci.
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