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Ricerche storiche nella zona tirrenica della Provincia di Messina.
Dal neolitico alla fine del feudalesimo. Atti del I convegno.
Montalbano Elicona, 7-8 settembre 2012
Presentazione
L’insieme delle comunicazioni presentate durante il convegno Dal neolitico alla
fine del feudalesimo. Ricerche storiche nella zona tirrenica della provincia di Messina,
tenutosi nel salone conferenze “Arnaldo da Villanova” del castello-palazzo reale di
Montalbano Elicona, il 7 e l’8 settembre 2012, ed ora qui riunite e pubblicate, intende
proporsi come esempio di un ideale punto d’incontro e di un proficuo tavolo di lavoro
tra mondo universitario, ricercatori locali ed istituzioni (presente, oltre il Comune, anche la Soprintendenza di Messina), con reciproca soddisfazione delle parti.
Il convegno ha visto alternare, con sessioni ante e postmeridiane, dodici studiosi
che hanno offerto nuovi apporti nel campo della ricerca storica e archeologica in un
area molto interessante della Sicilia, quella appunto tirrenica messinese.
L’ampio arco di tempo che dalla preistoria arriva al periodo normanno è stato
il tema di fondo all’interno del quale hanno trovato spazio le ricerche presentate. Seguendo questo percorso cronologico, le varie relazioni si sono inserite come dei flash
che hanno permesso di illuminare o di mettere almeno a fuoco tratti ancora in ombra
del quadro storico generale di quest’area dell’antico Valdemone.
Da un punto di vista strettamente geografico i punti interessati dalle comunicazioni hanno mantenuto fede al disegno che ne era alla base: da Monte Scuderi, sui Peloritani, a Rometta, dall’entroterra di Barcellona a Montalbano e Tindari, da capo Calavà
di Gioiosa Marea all’estremo lembo dei Nebrodi con Demenna-San Marco d’Alunzio.
Relativamente ai temi affrontati, con un moderno approccio multidisciplinare, si
è molto spaziato: partendo dal mito omerico e dalle rappresentazioni tragiche dell’antica Tyndaris si è arrivati al modo di sentire odierno (P. Pio Sirna); dalle tracce della
città sicula di Longane (Filippo Imbesi), alle problematiche legate alla moderna ricerca archeologica di superficie (Michele Fasolo); dalla viabilità di epoca romana (Roberto Motta, Luigi Santagati), alla toponomastica risalente a tale periodo (Giuseppe
Pantano) e all’impulso di origine araba e non bizantina dato alla viabilità medievale
(Shara Pirrotti); dagli ultimi luoghi di resistenza bizantina di difficile identificazione,
come Demenna (Michele Manfredi Gigliotti) e Miqus (Franz Riccobono), a quelli
certi, come Rometta (Piero Gazzara).
Ma il vero cuore del convegno è stato il fenomeno religioso più profondamente
radicato nel Valdemone medievale, quello del monachesimo italo-greco, con i suoi
santi eremiti (P. Alessio Mandranikiotis), il suo rifiorire sotto i Normanni e il conse-
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guente declino con la “ricattolicizzazione” latina, nei sui suoi risvolti non solo religiosi, ma anche politici, economici e sociali (Luciano Catalioto).
In questo senso, non è stata casuale, anzi fortemente voluta ed emblematica, la
contemporanea presenza, tra i relatori, di un sacerdote cattolico e di un monaco di rito
greco, entrambi locali e grandi conoscitori del territorio: esempi viventi ancora oggi di
una lontana storia che merita ampiamente la nostra riflessione.
Desidero ringraziare l’Officina di Studi Medievali per i supporti culturali, scientifici ed editoriali che ha voluto dedicare a questa iniziativa che si inserisce in una
più ampia ricerca, guidata dal prof. Alessandro Musco, sul contesto storico, culturale,
politico, sociale ed istituzionale del Regnum di Federico III d’Aragona; in particolare,
un ringraziamento speciale va a Salvatore D’Agostino, giovane studioso che collabora
con l’Officina, per il suo prezioso lavoro di editing e revisione editoriale delle relazioni
qui pubblicate.
Giuseppe Pantano
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Luciano Catalioto
Gli Altavilla e la Chiesa di Roma in Sicilia:
il Valdemone tra cultura greca e latinizzazione
Nel 1089 papa Urbano II, dando concreto seguito agli accordi raggiunti con Ruggero I d’Altavilla nell’incontro di Troina del 1088, emanava da Salerno la bolla con cui
attribuiva al Granconte, sicut verbum promisimus [et] haereditaliter, l’esercizio della
Legazia Apostolica, ovvero il diritto alle nomine episcopali in Sicilia e Calabria.1 Questo riconoscimento ufficiale, che sembra porsi come punto d’inizio di una rinnovata
stagione storica del Mezzogiorno d’Italia, è in realtà un atto formale che conferma una
situazione di fatto già sancita da Niccolò II nel sinodo di Melfi del 1059, quando tra gli
Altavilla e la Chiesa di Roma si costituì un fronte comune di azione politica e strategia
religiosa.2 Durante il trentennio che separa lo sbarco normanno presso Messina dalla
Il testo della concessione papale è in Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae
et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, a cura di E. Pontieri, in RIS 5.1, Bologna 1927,
lib. IV, p. 108. Tale impegno verbale, rileva Ernesto Pontieri, giustificherebbe il fatto che il Granconte
avesse assunto titolo e mansioni di legato prima che la bolla fosse promulgata. Sul privilegio della Regia
Monarchia cf., soprattutto, S. Fodale, Comes et legatus Siciliae. Sul privilegio di Urbano II e la pretesa
Apostolica Legazia dei Normanni in Sicilia, Manfredi, Palermo 1970; Id., L’Apostolica Legazia e altri
studi su Stato e Chiesa, Sicania, Messina 1991; G. Catalano, Studi sulla Legazia Apostolica di Sicilia,
Parallelo 38, Reggio Calabria 1973. Sui rapporti tra monarchia e Chiesa in età normanna, inoltre, cf. S.
Fodale, «Il Gran Conte e la Sede apostolica», in Ruggero il Gran Conte e l’inizio dello stato normanno,
Atti delle seconde giornate normanno-sveve (Bari 19-21 maggio 1975), Dedalo, Bari 1991, pp. 25-42;
Id., «Fondazioni e rifondazioni episcopali da Ruggero I a Guglielmo II», in Chiesa e società in Sicilia,
I, L’età normanna. Atti del I Convegno Internazionale, Arcidiocesi di Catania (25-27 novembre 1992),
Società Editrice Internazionale, Torino 1995, pp. 74 ss.; Id., «Stato e Chiesa dal privilegio di Urbano II
a Giovan Luca Barberi», in Storia della Sicilia, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli
1980, vol. III, pp. 575-600.
2
Le complesse motivazioni che indussero Nicolò II a sancire il noto legame al sinodo del 23 agosto 1059 sono illustrate, tra gli altri, da M. Scaduto, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale:
rinascita e decadenza, sec. 11°-14°, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1982 [19471], pp. 3-8; Un
affresco della vita religiosa in Sicilia in età normanna e delle complesse implicazioni politiche e culturali ad essa riconducibili, è stato offerto da J. M. Martin, La vita quotidiana nell’Italia meridionale al
tempo dei Normanni, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1997, pp. 263-315 e passim. Cf., inoltre,
H. Houben, Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, Liguori, Napoli
1996; F. Giunta, Medioevo normanno, Manfredi, Palermo 1982; Roberto il Guiscardo e il suo tempo,
Atti delle prime giornate normanno-sveve (Bari 28-29 maggio 1973), Dedalo, Bari 1975; N. Kamp,
«Der unteritalienische Episkopat im Spannungsfeld zwischen monarchischer Kontrolle und römischer
“libertas” von der Reichsgründung Rogers II. bis zum Konkordat von Benevent», in Società, potere
e popolo nell’età di Ruggero II, Atti delle terze giornate normanno-sveve (Bari 23-25 maggio 1977),
Dedalo, Bari 1979, pp. 99-132.
1
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caduta dell’ultima roccaforte saracena (1061-1091), Ruggero e Roberto il Guiscardo,
nell’alternare operazioni belliche ad interventi intesi a definire il nuovo assetto feudale, non trascurarono una sistematica azione diretta a rafforzare l’alleanza con la Chiesa
ed assegnare concrete basi politiche al programma di conquista/cristianizzazione, con
la realizzazione nell’intera contea di nuovi assetti economici e sociali, per consolidare
i quali la geografia ecclesiastica si mostrò determinante.3
In Sicilia, dopo cinque secoli di dominazione bizantina e musulmana, il rito latino era praticamente scomparso e con gli Altavilla il papato coglieva l’occasione per
rinnovare le rivendicazioni della Chiesa Romana ed avviare la riorganizzazione del
proprio clero, attraverso delicate fasi dirette alla ripresa dell’opera di riforma ecclesiastica. Ma il quadro delle relazioni tra Normanni e Chiesa assumeva proprio nell’Isola
tratti e tonalità assai particolari anche perché gli Altavilla, nell’accentuare il controllo
sulle chiese, dovettero tenere conto del delicato equilibrio tra clero greco e gerarchia
latina. Che tale binomio costituisse una questione nodale nell’economia della conquista normanna, era senz’altro chiaro ai protagonisti dell’impresa, e Ruggero, ancora
prima del suo incontro con Urbano II a Troina nel 1088 e nel decennio che separa
tale evento dalla concessione dell’Apostolica Legatia, aveva sostenuto con generose
concessioni e nuove fondazioni il monachesimo benedettino (istituendo peraltro i vescovati di Troina, Agrigento, Catania, Mazara e Siracusa), ma pure aveva garantito la
sopravvivenza del clero greco e salvaguardato la sua identità culturale. Il territorio del
Valdemone, in particolare, custode quasi esclusivo nell’Isola della tradizione greca,
costituì il banco di prova di nuove forme di integrazione etnica e culturale. Ovvero,
l’incontro tra le culture latina, greca ed araba ed il superamento dei concreti problemi
di convivenza delle diverse etnie consentirono la ristrutturazione dei poteri locali e
l’impianto della nuova società, basata inizialmente sulla coesione di espressioni diversificate anche sotto il profilo linguistico e religioso.
In questo specifico campo di ricerca, la ricca letteratura storica e le fonti cronistiche si mostrano di sostanziale utilità, ma specifici fondi documentari, come quello
contenuto presso l’Archivio Capitolare di Patti,4 costituiscono un insieme di dati fonSulle fasi dell’offensiva normanna nell’Italia meridionale ed in Sicilia, cf. S. Tramontana, La
monarchia normanna e sveva, Utet, Torino 1986, pp. 107 ss. e M. Scaduto, Il monachesimo basiliano,
cit., pp. 8-15, con relativa bibliografia. Una sintesi efficacemente modulata sui temi legati all’inserimento dei Normanni e della Chiesa di Roma nell’isola è scaturita dal convegno «Troina medievale»,
svoltosi nel centro nebroideo dal 16 al 18 maggio 1992, che, prendendo spunto dalla ricorrenza del IX
Centenario del conferimento della Legazia Apostolica a Ruggero I da parte di Urbano II, ha dato modo
a diversi studiosi (tra cui Bianca Maria Foti, Francesco Giunta, Enrico Pispisa, Giacomo Ferraù, Salvatore Tramontana, Salvatore Fodale) di mettere a fuoco importanti problematiche connesse ai molti
aspetti politici, socio-economici e culturali della Sicilia allo scorcio dell’XI secolo. Ma circa il rapporto
diretto e privilegiato con il papato e sulla consacrazione papale della legittimità dell’impresa si veda,
soprattutto, il saggio di E. Cuozzo, La monarchia bipolare. Il regno normanno di Sicilia, Elio Sellino,
Pratola Serra 2000, pp. 19 ss. e passim.
4
D’ora innanzi citato con la sigla della sezione che contiene il documento, secondo il criterio
indicato in L. Catalioto, Il Vescovato di Lipari-Patti in età normanna (1088-1194). Politica, economia,
3
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damentali per acquisire una chiave di lettura strutturale del complessivo disegno di
conquista normanno, rappresentando una chiara spia dei processi di insediamento ed
integrazione, delle fasi di trasformazione demica e religiosa, dei fluidi rapporti politici,
dei nuovi usi feudali e delle variegate signorie di banno. Si definisce un microcosmo,
in definitiva, al cui interno si riflettono le scelte adottate in seno ai vertici del potere
laico ed ecclesiastico, ma dove peraltro si realizza una sorta di sperimentazione economica e demografica sul territorio, cioè una riorganizzazione della società rurale ed
urbana, sia monastica che laica, come modello produttivo cui si sarebbe dovuto uniformare il Mezzogiorno normanno dopo l’unificazione regia.
Per comprendere tale momento fondamentale, che si pone alla base della struttura ecclesiastica in Sicilia e, in particolare, nel Valdemone, è opportuno ripercorrere
in rapida sintesi la vicenda religiosa dell’Isola nei secoli altomedievali, quando il marcato diradamento della presenza cristiana, romana soprattutto, avrebbe prodotto una
lacuna che allo scorcio del X secolo apparve di preoccupante ampiezza. Un disappunto
che si coglie in alcuni passi della Ystoire di Amato di Montecassino5 ed in impliciti
riferimenti della cronaca malaterriana,6 ma si evince anche da significativi interventi
di normalizzazione demica attuati dai primi abati benedettini, come i due Constituta
(1095-1101) di Ambrogio per il ripopolamento delle possessiones di Lipari e Patti
con gentes linguae latinae,7 e la serie di Constitutiones promulgate nel marzo 1133 da
società in una sede monastico episcopale della Sicilia, Intilla, Messina 2007, pp. 9 ss.
5
La rapidità della conquista normanna del Valdemone, attribuita con intenti celebrativi esclusivamente al partecipe sostegno che gli Altavilla trovarono da parte della popolazione cristiana, d’altra
parte non escluderebbe l’ipotesi di una situazione demica analoga a quella descritta per Messina, la quale «estoit vacante des homes liquel i habitoient avant» (Amato di Montecassino, «Storia de’ Normanni
volgarizzata in antico francese -Ystoire de li Normant-», a cura di V. De Bartholomaeis, in Fonti per la
Storia d’Italia dell’Istituto Storico Italiano, Tipografia del Senato, Roma 1935, vol. XIX, p. 239).
6
In merito allo spopolamento del territorio pattese, cf. Goffredo Malaterra, De rebus gestis,
cit., Annales Siculi, p. 115.
7
Cf. il Constitutum del 9 maggio 1095 (F I, f. 20) in C. A. Garufi, Memoratoria, Chartae et
Instrumenta divisa in Sicilia nei secc. XI a XV, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano» 32 (1912),
p. 119, n. 1; Id., Patti agrari e Comuni feudali di nuova fondazione in Sicilia, in «Archivio Storico
Siciliano» 2 (1947), p. 99 e L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 179, n. 6. Il Constitutum emanato prima
del 1101, il cui originale manca dall’Archivio, è trascritto in una sentenza pronunciata da Ruggero II
a Messina il 10 gennaio 1133 contro il vescovo Giovanni ed a favore della «maxima pars hominum
Pactas inhabitantium»: F I, f. 94 e CPZ, f. 13 (G. C. Sciacca, Patti e l’amministrazione del comune nel
Medioevo, Scuola tipografica Boccone del Povero, Palermo 1907, p. 217, n. 1; R. Gregorio, Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino ai presenti, in Id., Opere scelte, Tipografia
Garofalo, Palermo 1845, p. 116, nota 1; L. R. Ménager, Amiratus -’Ameras. L’émirat et les origines
de l’amirauté, XIe-XIIIe siècles, S.E.V.P.E.N., Paris 1960, p. 63, n. 2; E. Caspar, Roger II (1101-1154)
und die Gründung der normannisch-sizilischen Monarchie, Innsbruch 1904 [trad. it.: Ruggero II e la
fondazione della monarchia normanna di Sicilia, Laterza, Roma-Bari 1999], n. 80; L. T. White, Latin
Monasticism in Norman Sicily, The medieval Academy of America, Cambridge-USA 1938 [trad. it.: Il
monachesimo latino nella Sicilia normanna, Dafni, Catania 1984], p. 133; L. Catalioto, Il Vescovato,
cit., p. 200, n. 33).
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Giovanni de Pergana per incrementare gli homines dell’arcipelago.8
Gregorio di Tours tramanda che, verso il 574, Gregorio Magno, per accogliere stabilmente i numerosi monaci dell’Italia centro-meridionale in fuga dal dominio
longobardo, «in rebus propriis sex in Sicilia monasteria congregavit». Tra VI e VII
secolo, in effetti, innalzare e dotare chiese rurali e cenobi nelle terre che occorreva
popolare fu pratica largamente diffusa in seno agli ambienti dei più influenti e munifici terrerii, solleciti all’affermazione del proprio casato.9 In Sicilia, pertanto, non si
sarebbe registrato il crollo delle strutture episcopali che, a cavallo dei due secoli, si
era abbattuto sul Mezzogiorno peninsulare, e il monachesimo pare fosse di rito esclusivamente latino e di matrice benedettina. Nella seconda metà del VII secolo, tuttavia,
è documentato un deciso processo di ellenizzazione delle comunità monastiche che si
innestò sopra il persistente sostrato culturale bizantino, sedimentato tra V e VI secolo
e alimentato dal flusso costante di monaci provenienti da Bisanzio.10 Il fenomeno può
essere collegato al trasferimento nel 663 della corte dell’imperatore Costante II a Siracusa11 ed al vasto flusso migratorio greco che, dalla prima metà di quel secolo, dalla
Siria e dall’ Egitto si era riversato pure in Sicilia, alimentato sia da monaci iconoduli in
fuga dalle persecuzioni degli imperatori iconoclasti, sia da profughi melchiti dispersi
dopo il 614 dai persiani sassanidi di Cosroe II e, in seguito, dallo stesso basileus Eraclio. Tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo, pertanto, il latinismo dell’Isola si era
stemperato nella progressiva ellenizzazione, dissolvendosi significativamente dopo il
pontificato di Gregorio II (715-731), quando la Chiesa di Roma prendeva posizione
contro l’iconoclastia, imposta nel 726 da Leone III Isaurico (716-741), e si assicurava
l’appoggio dei Franchi, accelerando in Sicilia l’affermazione della giurisdizione bizantina su quella romana ed il passaggio dell’episcopato latino nell’orbita del patriarca
di Costantinopoli.12
Prima che l’islamismo, introdotto con l’invasione araba dell’827, ne sconvolgesF I, f. 93 R. Gregorio, Considerazioni, cit., p. 117, nota 2; L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p.
203, n. 36. In questa occasione Giovanni confermava il Constitutum di Ambrogio, ma ribadiva che le
terre concesse sarebbero dovute tornare alla Chiesa in caso di ribellione o infedeltà, esattamente come se
fossero concessioni di tipo feudale-vassallatico, senza tuttavia beneficiare di alcun diritto successorio.
9
Cf. Gregorio di Tours, Storia dei Franchi. I dieci libri delle Storie, a cura di M. Oldoni, I,
Mondadori, Milano 1981, p. 407.
10
Un quadro chiaro e documentato del fenomeno monastico nel Mezzogiorno normanno è in A.
Cilento, Potere e monachesimo. Ceti dirigenti e mondo monastico nella Calabria Bizantina (secolo
IX-XI), Nardini, Firenze 2000, corredato da ampia bibliografia.
11
È una tesi, d’altra parte, a suo tempo sostenuta da D. G. Lancia di Brolo (Storia della chiesa
in Sicilia nei dieci primi secoli del cristianesimo, II, Stabilimento Tipografico Lao, Palermo 1884, p.
21) e sostanzialmente confermata da White (Il monachesimo latino, cit., pp. 44 ss.) e Scaduto (Il monachesimo basiliano, cit., p. XVIII), che peraltro rileva come l’apporto considerevole di questi rifugiati
orientali in Sicilia sia provato innanzi tutto dalla tradizione manoscritta del Nuovo Testamento e si
esprimesse pure nel settore giuridico e, naturalmente, nella liturgia e nelle arti.
12
Sull’avvicinamento della Chiesa di Roma ai Franchi, formalizzato nel 755, e sugli effetti nell’isola dell’iconoclasmo, cf. L. T. White, Il monachesimo latino, cit., p. 48 e M. Scaduto, Il monachesimo
basiliano, cit., pp. XXV, XXVII ss.
8
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se la gerarchia, il clero siciliano partecipava attivamente alle vicende del patriarcato di
Costantinopoli e la persistenza del monachesimo bizantino nel Valdemone sembrerebbe peraltro confermata dal massiccio trasferimento di comunità monastiche in Calabria che si verificò in seguito alla conquista araba. Purtroppo, le fonti sul monachesimo
siciliano del IX secolo sono di sconfortante esiguità e dalla rara documentazione attendibile è possibile cogliere solo qualche notizia frammentaria e generica, solitamente riferita al Valdemone, come quella secondo cui l’imperatore Niceforo (802-811) avrebbe
utilizzato Lipari come terra di confino per i monaci riottosi nei confronti del fiscalismo
regio.13 In definitiva, le vicende del monachesimo siciliano furono caratterizzate da
un flusso migratorio verso la penisola che si mantenne costante sino alla metà del X
secolo, sebbene molti asceti rimanessero nell’Isola. Ma, nei decenni che seguirono,
un clima di tolleranza sarebbe subentrato nei rapporti tra i dominatori musulmani ed i
monaci rimasti entro il territorio insulare, contro i quali non pare si verificasse alcuna
persecuzione sistematica.14
Quando la spedizione normanna guidata dal conte Ruggero si diresse verso l’interno della Sicilia e puntò su Troina, dove avrebbe stabilito la propria capitale, trovò
una situazione demica che vedeva fortemente rappresentata sul territorio l’etnia greca,
quei bizantini «veteres (qui) sub Sarracenis tributari erant»,15 come riporta la cronistica
ufficiale, e che avevano concentrato i propri insediamenti tra le Madonie ed i Nebrodi:
da un lato verso Troina (con Cerami, Capizzi, Agira) fino a Centuripe, Adernò, Paternò, dall’altro da Mistretta (con Geraci, Petralia, Polizzi) fino a Caltavuturo.16 NumeÈ quanto emerge da una lettera di San Teodoro (Ep. I, 58) contenuta in P. Ewald-L. M. Hart(eds.), Gregorii I papae registrum epistolarum, in MGH, Epistolae, libri I-VII, Berlino 1887-99
(nuova ed.: München 1978), ad indicem. Il primo presule liparese di cui si ha notizia storica è Sant’Agato (254); tra i suoi successori figurano Augusto (501-504 o 530), Agato II (583, 591), Paolino (592),
Peregrino (649), N[…] (700), Basilio (787) e Samuele (878). Cf. R. Pirri, Sicilia Sacra disquisitionibus
et notitiis illustrata, t. II, a cura di A. Mongitore con aggiunte di V. M. Amico, Palermo 1733, ed. anast.
con introduzione di F. Giunta, Forni, Sala Bolognese 1987, vol. II, pp. 949-52; P. B. Gams, Series episcoporum ecclesiae catholicae, Regensburg Akademische Druck, Ratisbon 1873, p. 946; J. D. Mansi,
Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, vol. VIII, Firenze 1758, coll. 252, 265, 299, 315 e
D. G. Lancia di Brolo, Storia della chiesa in Sicilia, cit., pp. 326 ss.).
14
Cf. L. Catalioto, «Nefanda impietas Sarracenorum: La propaganda antimusulmana nella conquista normanna del Valdemone», in R. Castano-F. Latella-T. Sorrenti (a cura di), Comunicazione e
propaganda nei secoli XII-XIII, Atti del Convegno Internazionale (Messina 24-26 maggio 2007), Viella,
Roma 2008, pp. 173-185.
15
Goffredo Malaterra, De rebus gestis, cit., p. 234.
16
Per una visione complessiva della Sicilia prenormanna, cf. M. Congiu-S. Modeo-M. Arnone
(a cura di), La Sicilia bizantina: storia, città e territorio, Atti del VI Convegno di studi organizzato da
SiciliAntica (Caltanissetta 9-10 maggio 2009), Sciascia, Caltanissetta 2010. Inoltre: S. Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne, Istituto Italiano per gli Studi
Storici, Napoli 1963; Il passaggio dal dominio bizantino allo Stato normanno nell’Italia meridionale,
Atti del II Convegno internazionale di Studi sulla Civiltà rupestre medievale nel Mezzogiorno d’Italia
(Taranto-Mottola 1973), Taranto 1977; L. Cracco Ruggini, «La Sicilia tra Roma e Bisanzio», in Storia
della Sicilia, cit., pp. 1-96; F. Giunta, Bizantini e bizantinismo nella Sicilia normanna, Palumbo, Palermo 1974; A. Guillou, La Sicilia bizantina; un rilancio delle ricerche attuali, in «Archivio Storico
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rosi monasteri ancora attivi, seppure ridotti sotto il profilo patrimoniale, disponevano
di ampi margini di autonomia ed esercitavano probabilmente diritti di signoria nelle
terre che possedevano, in prevalenza ubicate nell’area dei Nebrodi, cioè in quelle terre destinate a costituire la parte più consistente del patrimonio agrario ed umano dei
benedettini che il Granconte, programmaticamente, volle insediare nell’antica sede
liparese e nella prospiciente fascia costiera.
La presenza greca, così radicata nel territorio nebroideo, rappresentò quindi un
dato strutturale di grande rilevanza per la prima azione di cristianizzazione promossa
dal Granconte nel Valdemone, ma fu soprattutto la chiave per il recupero di consistenti
porzioni di agro e l’apertura di nuovi spazi produttivi nell’economia locale, giacché la
contrazione demografica di fine millennio aveva determinato l’abbandono delle colture e ceduto terreno ad ampi spazi boschivi. La crisi economica, peraltro, assumeva una
dimensione allarmante per la pressoché totale inattività mercantile, che aveva paralizzato la costa tirrenica al di qua del Salso nel momento in cui, con la conquista araba, i
contatti commerciali con l’Oriente si contrassero bruscamente a vantaggio delle ritrovate rotte che collegavano l’Isola al Nordafrica, congiuntura che avrebbe motivato il
precoce potenziamento delle sedi di Cefalù e Patti da parte di Ruggero.17 L’Altavilla,
dunque, avviò un recupero delle risorse umane ed impose ai signori che lo avevano
seguito un atteggiamento munifico nei confronti delle fondazioni basiliane, soprattutto
quelle inserite nel contesto territoriale della nuova fondazione benedettina di Lipari e
Patti, inteso al controllo politico ed economico, ma pure funzionale alla salvaguardia
di un importante settore culturale.18
Sotto il profilo della gestione rurale, un documento significativo è costituito dalla
Platea antiqua bonorum Ecclesiae Pactensis,19 al cui interno un lungo elenco tramanSiracusano» n.s. 4 (1975-1976), pp. 45-89.
17
Come riporta M. Amari (Storia dei Musulmani di Sicilia, 2° ed. a cura di C. A. Nallino, Romeo Prampolini, Catania 1986, rist. an. dell’ediz. del 1933, 1a ed. Firenze 1854-1872, vol. III, p. 314),
le prime sette diocesi dell’età normanna «coincidono a un dipresso con le divisioni politiche nate tra i
Musulmani verso la metà dell’XI secolo»; cioè, le circoscrizioni di Ibn Mankut, Ibn al-Hawwas, Ibn
al-Maklati, Ibn at-Tumnah e la «repubblica di Palermo» corrisponderebbero, nell’ordine, alle diocesi
di Mazara, Agrigento, Catania, Siracusa e Palermo. A questo riguardo cf. anche I. Peri, Uomini, città e
campagne in Sicilia dall’XI al XIII secolo, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 4.
18
Cf. L. Catalioto, Il Vescovato, cit. pp. 36 ss. e Id., «Monachesimo greco e Chiesa latina
nella Sicilia normanna: laboratorio culturale e sperimentazione politica», in Religion in the History of
European Culture, European Association for the Study of Religions - Società Italiana di Storia delle
Religioni, Convegno Internazionale (Messina, 14-17 settembre 2009), in corso di stampa. M. Scaduto,
Il monachesimo basiliano, cit., pp. 17 e 62-5, segnala alcuni dei motivi che indussero i Normanni a
proteggere e perpetrare il rito greco e la cultura bizantina.
19
Il testo originale dell’antico Rollus, oggi perduto, venne ricopiato dopo il 1131 dal notaio
Giovanni Matteo Dominedò dietro incarico dell’abate/vescovo Giovanni de Pergana: Platea antiqua,
ex scripturis conservatis intus sacristiam maioris Ecclesiae Pactensis, in qua sunt privilegia Episcopatus Pactensis extracta (F II, f. 521; PV, ff. 133, 309 e 314; ERA, ff. 521 e 524; OR, ff. 16, 19, 21 e
27; COT, f. 1). Ora integralmente edito in Catalioto, Il Vescovato, cit., pp. 47-52. Cf., inoltre, C. A.
Garufi, Censimento e catasto della popolazione servile, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale»
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Gli Altavilla e la Chiesa di Roma in Sicilia: il Valdemone tra cultura greca e...
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da i nomi dei 344 villani posseduti dalla chiesa pattese nelle terre che ne componevano
il territorio: Naso, Fitalia, Panagia e Librizzi. Risulta confermata, in questo consistente
ambito del Valdemone, una modesta presenza saracena (solo 53 nomi arabi) tra la popolazione assoggettata, di fronte alla preponderante consistenza demica dei greci, che
sono 291, equamente suddivisi tra le terre di Naso (102), Fitalia (61), Panagia (69) e
Librizzi (59). Dall’antico Rollus, utile sotto il profilo demografico, è possibile desumere una precisa stima della rendita prodotta in natura ed in solidum dai bellavnoi:
gli oltre cento rustici greci di Naso fruttavano 260 salme di frumento; gli uomini di
Fitalia, al pari di quelli residenti a Panagia, apportavano 321 tarì, 50 salme di frumento
«et enim tenebatur quinquaginta in totidem ordei»; i circa sessanta villani librizzesi,
infine, rendevano alla chiesa di Patti 256 tarì.20
La presenza di laboratores greci continua ad essere registrata nei decenni successivi in diversi atti di assegnazione di casalia e tenimenta, come quello vergato in
lingua greca e araba da Ruggero II nell’aprile 1132, relativo al casale di Rachalzufar
(presso Nicosia) con adscripti trentacinque homines.21 Tuttavia, sino allo scorcio del
XII secolo, una significativa presenza dell’etnia greca è attestata ai livelli più elevati
della società, impegnata spesso nella gestione del patrimonio ecclesiastico, come quello
pattese, al cui servizio negli anni Quaranta troviamo notai e ufficiali greci a Naso, Fitalia e in altri centri del Valdemone.22 Ma costituita pure da proprietari terrieri qualificati
come milites a Caccamo23 e in Val di Milazzo,24 stratigoti e vicecomites, anche in centri
di forte impronta culturale islamica del Val di Mazara,25 come l’ammiraglio Giorgio,
40 (1928), p. 92, n. 3.
20
È degno di nota che nella Platea i villani musulmani, evidentemente soggetti ad una maggiore
mobilità, non siano ascritti alle rispettive terre di appartenenza, come nel caso dei greci, ma vengano
elencati in un unico ordine, suddiviso in cinque colonne, ed individuati tramite un’articolata ricostruzione parentale.
21
ACP, F I, f. 83. Il privilegio in greco fu tradotto in latino dal prete Giovanni Proto de Terra Sancti Angeli e, successivamente, transuntato dal notaio Nicolò Proto il 10 agosto 1361 (F I, ff. 82 e 86; DV,
n. 82; PV, f. 195bis; MON, ff. 1 e 6; edito in K. A. Kehr, Die Urkunden der normannischen-sizilischen
Könige, Wagner, Innsbruck 1902, p. 15; S. Cusa, I diplomi greci ed arabi di Sicilia pubblicati nel testo
originale, tradotti e illustrati, Tipografia Lao, Palermo 1868 e 1882 (ed. anast. a cura di A. Noth, KölnWien 1982), p. 513, n. 4. In MON, ff. 6-7 si trova una preziosa traduzione del privilegio greco in siciliano.
22
L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 213, n. 48 e p. 215, n. 49. La presenza greca, naturalmente,
fu rilevante anche all’interno della trama comitale e poi regia del governo, se pur limitata a specifici
ambiti burocratici, prevalentemente ai vertici dell’ammiragliato (il notaio-ammiraglio Eugenio, il logoteta Leone, il camerario Nicola, gli ammiragli Eugenio, Teodoro, Cristodulo e Giorgio d’Antiochia).
23
F I, ff. 112-4 (copia); cf. L. T. White, Il monachesimo latino, cit., p. 400, n. XV e L. Catalioto,
Il Vescovato, cit., p. 209, n. 42.
24
Ad esempio Teodoro, che appare nella definizione dei confini di Santa Lucia del 1101 (ivi, p.
183, n. 11); Costantino Carallario, figlio di Michele Scafullo, feudatario nel 1188 (p. 234, n. 67); miles
Genatus, testimone di una donazione del 1182 a Santa Croce di Baccarato (p. 230, n. 64).
25
Ivi, p. 188, n. 17; cf. anche L. R. Ménager, Amiratus, cit., p. 46, nota 2; D. Girgensohn-N.
Kamp, Urkunden und Inquisitionen des 12. un 13. Jahrhunderts aus Patti, in «Quellen und Forschungen» 45 (1965), p. 13, n. 17.
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vicecomes et stratigotus Jatinae.26 Inoltre, la frequente simultaneità di stratigoti e vicecomites, rispettivamente magistrati della popolazione greca e di quella latina,27 cioè
dei franco-normanni e lombardi, registrata a Patti tra il 1130 ed il 113328 e ancora nel
1188,29 attesterebbe un tessuto sociale misto, in cui la popolazione greca avrebbe avuto
agio di emergere sotto il profilo qualitativo. E pure la nutrita documentazione capitolare
in lingua greca e la presenza di burgenses e notai di chiara origine bizantina che ancora
nel XIV e XV secolo operavano anche in qualità di traduttori, come i membri della
famiglia Proto presenti in numerosi atti,30 indicherebbero un persistente inserimento
dell’elemento di cultura ellenica nel tessuto demico del Valdemone.31
L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 200, n. 33.
Questa la tesi sostenuta da L. Genuardi, Il comune nel Medioevo in Sicilia: contributo alla storia del diritto amministrativo, Fiorenza, Palermo 1921, pp. 82 ss., mentre R. Gregorio, Considerazioni,
cit., p. 99 ritiene che lo stratigoto fosse preposto alla giustizia penale ed ai vicecomites fosse demandata
quella civile.
28
Signum Roberti vicecomiti: 1130 ca. (SCA, f. 165, edito in L. T. White, Il monachesimo latino,
cit., p. 408, n. XIX; L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 196, n. 27). De Pactensibus [...] Iohannes vicecomes: Messina, 10 gennaio 1133 (orig. mancante; copie in F I, f. 94 e CPZ, f. 13; edito in G. C. Sciacca,
Patti, cit., p. 217, n. 1; R. Gregorio, Considerazioni, cit., p. 116, nota 1; L. R. Ménager, Amiratus, cit.,
p. 63, n. 2; L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 200, n. 33).
29
Ansaldus stratigotus Pactensis e W[illelmus] vicecomes Pactensis: marzo 1188 (ivi, p. 234, n. 67).
30
Aprile 1132: clericus Giovanni Proto, della terra di Sant’Angelo, traduttore (originale greco-arabo in F I, f. 83; copia latina del 1361 in F I, ff. 82 e 86; DV, n. 82; PV, f. 195bis; MON, ff. 1 e 6; edito
in K. A. Kehr, Die Urkunden, cit., p. 15; S. Cusa, I diplomi, cit., p. 513, n. 4; L. Catalioto, Il Vescovato,
cit., p. 200, n. 32). 15 dicembre 1270: notaio Nicolò Proto (PIE, f. 15). 1 gennaio 1316: notaio Nicolò
Proto, del casale di Psicrò (F II, f. 344; CGE, f. 14). 10 agosto 1361: notaio Nicolò Proto, di Patti (DV, n.
82; PV, f. 195bis; MON, ff. 1-2 e 6-7); 12 marzo 1368 (F I, ff. 1-3); 2 aprile 1371 (MON, ff. 16 ss.). 27
aprile 1409: notaio Vinci Proto, di Patti (PIE, f. 36). Sulla presenza a Patti di burgenses, distinti in cives
e oppidani, si veda G. C. Sciacca, Patti, cit., p. 231 e L. Genuardi, Il comune, cit., p. 67.
31
Degno di nota il fatto che nell’area dei Nebrodi, nel corso del basso Medioevo e della prima
età moderna, siano state eseguite preziose traduzioni in volgare siciliano di alcuni documenti in greco
e arabo del XI secolo, come la donazione del casale del Monaco dell’aprile 1132, trascritta il 10 agosto
1361 (originale greco-arabo in F I, f. 83; copia latina del 1361 in F I, ff. 82 e 86; DV, n. 82; PV, f. 195bis;
MON, ff. 1 e 6; edito in K. A. Kehr, Die Urkunden, cit., p. 15; S. Cusa, I diplomi, cit., p. 513, n. 4; L.
Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 200, n. 32). Cf. anche la continentia del Constitutum di Ambrogio, vulgaliter exposita, ritrovata dal can. Sidoti in un documento cartaceo del fondo pattese inserito nel primo
volume delle Donationes: A. Sidoti, I documenti dell’Arca Magna del Capitolo Cattedrale di Patti,
in «Timeto» 1 (1987), p. 32. Fonti linguistiche di notevole rilievo, inoltre, costituiscono due versioni
vernacolari eseguite da frate Girolamo di Raccuia dopo il XIII secolo: la trascrizione in siciliano del
privilegio commerciale in greco-arabo concesso dal re normanno al vescovo Giovanni nel gennaio 1134
(originale greco-arabo in F I, f. 104; copia del 28 sett. 1266 in F I, f. 105; edito in S. Cusa, I diplomi, cit.,
p. 517, n. 6; edizione latino-volgare in G. C. Sciacca, Patti, cit., p. 220, n. 2; L. Catalioto, Il Vescovato,
cit., p. 204, n. 37) e la traduzione in latino volgare del sigillo in greco con cui Adelasia, il primo dicembre 1111, autorizzava Gervasio Malconvenant a sposare la vedova di Riccardo Malet ed amministrarne
temporaneamente i beni (originale greco in CPZ, f. 22; edizione latina in P. Collura, «Appendice al
regesto dei diplomi di re Ruggero compilato da Erich Caspar», in Atti del Convegno internazionale di
studi ruggeriani, vol. II, Palermo 1955, p. 595, n. 1; F. Dölger, Beiträge zur Geschichte der byzantinischen Finanzverwaltung besonders des 10. und 11. Jahrhunderts, in «Byzantinische Zeitschrift» 49
26
27
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Nell’arco di circa un ventennio Ruggero I eresse in Sicilia quattro abbazie benedettine (Lipari, Catania, Patti e Santa Maria de Scalis), di fronte ai quasi venti edifici
greci fondati o ricostruiti nello stesso periodo,32 alcuni dei quali beneficiati da particolari forme di immunitas, come il cenobio di Sant’Angelo di Brolo, che nel 1084
l’Altavilla definiva liberum et exemptum ab omnibus episcopis, archiepiscopis et omni
ecclesiastica et saeculari persona.33 Questo insediamento, strettamente collegato al
monastero di Sant’Angelo di Ficarra, avrebbe costituito quantomeno sino alla metà
del XII secolo un’enclave greca dotata di autonomia amministrativa all’interno del
territorio soggetto all’abate di Patti, come si evince dalla dettagliata descrizione dei
confini effettuata, dietro indicazione di numerosi probi homines Demii Vallis in preva-
[1956], p. 168; L. R. Ménager, Amiratus, cit., p. 32, n. 7; L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 187, n. 16).
32
Una ricca bibliografia, relativa ai monasteri di rito e cultura greca nell’Italia meridionale, consente di seguire in modo documentato le vicende dell’ordine basiliano in Sicilia durante la dominazione
normanna. Tra tali lavori, oltre ai saggi già citati di White e Scaduto, si vedano soprattutto gli interventi
contenuti in Basilio di Cesarea. La sua età, la sua opera e il basilianesimo in Sicilia, Atti del Congresso
internazionale, Messina 3-6 dicembre 1979, vols. I e II, Messina 1983 ed in La Chiesa greca in Italia
dall’VIII al XVI secolo, in «Italia Sacra» 20-22 (1972-73). Cf., inoltre: E. Calandra, Chiese basiliane del
periodo normanno, in «Palladio» 5 (1941); S. Borsari, Il monachesimo bizantino, cit.; F. Giunta, Medioevo normanno, cit., pp. 49-69 e passim; V. Von Falkenhausen, «I monasteri greci dell’Italia meridionale
e della Sicilia dopo l’avvento dei Normanni: continuità e mutamenti», in Il passaggio, cit., pp. 77 ss.;
Ead., «I diplomi dei re normanni in lingua greca», in G. De Gregorio-O. Kresten (a cura di) Documenti
medievali greci e latini. Studi comparativi, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1998,
pp. 253-308; C. Filangieri, «Monasteri basiliani di Sicilia», in Mostra dei codici e dei monumenti basiliani siciliani (Messina, 3-6 dic. 1979), Palermo 1980; L. Cracco Ruggini, «La Sicilia tra Roma e Bisanzio», in Storia della Sicilia, cit., pp. 1-96; M. Amelotto-V. Von Falkenhausen, «Notariato e documento
nell’Italia meridionale greca (X-XV secolo)», in Per una storia del notariato meridionale. Studi storici
sul notariato meridionale italiano, Studi storici sul notariato italiano, VI, Roma 1982, pp. 9-69. Oltre,
naturalmente, alle datate ma preziose raccolte di fonti costituite dai lavori di E. Miller, Catalogue des
manuscrits grecs de la Bibliothèque de l’Escurial, Imprimerie nationale, Paris 1848; S. Cusa, I diplomi,
cit.; G. Spata, Diplomi greci siciliani inediti, in «Miscellanea di Storia italiana» 12 (1871), pp. 3-109; Id.,
Le pergamene greche esistenti nel grande Archivio di Palermo, tradotte e illustrate, Tipografia e legatoria Clamis e Roberti, Palermo 1862; F. Miklosich-J. Muller, Acta diplomata Graeca medii aevi sacra
et profana, 6 vols., C. Gerold, Vindebonae 1890; C. A. Garufi, Un documento greco ritenuto del secolo
XIV e la diplomatica greco-sicula, in «Archivio Storico Italiano» 22 (1898), pp. 73-87; Id., Memoratoria,
cit., pp. 67-127; Id., Per la storia dei monasteri di Sicilia nel tempo normanno, in «Arch. Stor. Sicil.» 4
(1940), pp. 1-96; Corpus des actes grecs d’Italie du sud et de Sicile. Recherches d’histoire et de géographie, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1980; e così via (un percorso bibliografico è al
riguardo tracciato da S. Tramontana, La monarchia, cit., pp. 333 ss.).
33
Il documento originale, redatto in greco nel 1084 e non più reperibile, venne trascritto nel 1145
e tradotto in latino nel 1487 (Pirri, Sicilia Sacra, cit., pp. 1020 ss.; si veda pure il regesto in E. Caspar,
Ruggero II, cit., n. 189). Una copia del privilegio in lingua greca e latina, del dicembre 1143, in base al
quale alla Chiesa di Patti veniva assegnata, oltre alla terra di Focerò, l’abbazia di Sant’Angelo con terre
e pertinenze, è in F I, ff. 126-7; PV, f. 213; FIC, ff. 507-8 L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 215, n. 49).
Altra copia dell’ordine regio presentato dal vescovo Giovanni de Pergana allo stratigoto (F I, f. 161;
edito in C. A. Garufi, Censimento, cit., p. 90, n. 2; L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 213, n. 48), sembra
non sia autentico (D. Girgensohn-N. Kamp, Urkunden, cit., p. 19, n. 40).
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lenza greci, dal perceptor e stratigoto di San Marco, Filippo Polὲmen.34 Verso levante
si estendevano le terre soggette agli insediamenti greci di San Teodoro in insula Milatii
e San Filippo de Sancta Lucia, dove la Chiesa di Patti sin dal 1094 ebbe assegnati da
parte degli Altavilla cospicui possedimenti,35 successivamente ampliati grazie a donazioni di feudatari normanni ed acquisizioni da famiglie di chiara origine greca, come
Costantino Carallario de valle Milacii, filius domini Michaelis Skapullus.36
Tra i nuclei basiliani risorti per impulso del primo Ruggero figurano San Filippo
di Fragalà, San Filippo Maggiore (d’Argirò), fondato forse nel 1100; San Nicolò de
Fico, presso Raccuia, a quanto pare eretto da Ruggero nel 1091; Santa Maria de Gala,
presso Castroreale, voluto dal Granconte, ultimato nel 1105 da Adelasia e confermato
da Ruggero II; San Pancrazio di San Fratello, dotato dal primo Altavilla e poi rifondato da Ruggero II nel 1134; Santa Marina de Mallimachi, prope Castaniam e Santa
Maria grecorum o de Lacu, non lontani da Naso. Nel territorio nebroideo erano attive,
nel corso del XII secolo, molte altre fondazioni di rito greco, alcune delle quali sorte
come dipendenze di San Filippo di Fragalà all’interno o ai margini dei possedimenti
assegnati alla chiesa di San Bartolomeo di Patti.37 Di particolare interesse è la vicenda
del monastero basiliano di San Filippo tou\ Melituvrou (o to;n Deme;nnon poi detto di
Cf. la conferma del casale di Focerò all’abate Giovanni disposta da Ruggero II nel dicembre
1142 (originale greco-arabo in F I, f. 124; copia latina in FIC, ff. 504), edito in S. Cusa, I diplomi, cit.,
p. 525, n. 11; G. Spata, Diplomi greci, cit., p. 30, n. 5 e P. Collura, Appendice, cit., p. 584, n. 59; L.
Catalioto, Il Vescovato, cit., pp. 212 ss., n. 47.
35
F I, f. 15 (ora in CPZ, f. 3); edito in R. Pirri, Sicilia Sacra, cit., p. 770; C. A. Garufi, Adelaide,
nipote di Bonifacio del Vasto e Goffredo figliuolo del Gran Conte Ruggiero. Per la critica di Goffredo
Malaterra e per la diplomatica dei primi normanni in Sicilia, in «Rendiconti e memorie della R. Accademia di scienze, lettere ed arti degli Zelanti» 4 (1904-5), pp. 185-96 e in «Antologia Meridionale»
1 (1906), pp. 29-41. C. A. Garufi, Adelaide, cit., p. 199, n. 9; Id., Per la storia dei secoli XI e XII. Miscellanea diplomatica, I: Le isole Eolie a proposito del «Constitutum» dell’Abate Ambrogio del 1095,
in «Arch. Stor. Sic. Or.» 9 (1912), p. 191; L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 178, n. 5. Cf. pure D.
Girgensohn-N. Kamp, Urkunden, cit., p. 11, n. 5.
36
Originale mancante; copia in PV, f. 112; edito in C. A. Garufi, Per la storia dei monasteri, cit.,
p. 79, n. 6; S. Cusa, I diplomi, cit., p. 528, n. 12; L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 234, n. 67. Indicativa
la presenza di numerosi testimoni grecofoni, come Arcontessa, Teotoco monaco di San Michele; Teodoreto categumeno di Sant’Angelo, Giovanni Manzes, Nicolò figlio di Giovanni Barzacle, Menglabita,
Guglielmo Tolomeo e il presbitero Luciano.
37
A Patti (Sant’Ippolito), ad Alcara Li Fusi (San Barbaro di Demenna, Santa Maria de Rogato
e San Nicolò di Paleocastro), a Troina (San Michele Arcangelo, San Basilio, San Mercurio e Sant’Elia
Aebuli o de Ambula), a Galati Mamertino (San Basilio del Tormento e San Pietro di Mueli), a Naso (San
Basilio), a Oliveri (Sant’Elia di Scala o de Burracha), a San Marco d’Alunzio (San Felice, San Marco in
Valdemone, San Pietro di Deca o di Voca), a Frazzanò (Santa Maria di Fricanò e San Michele Arcangelo
di Demenna), a Mistretta (Santa Maria grecorum de Bucanto, o Vocante), a Motta d’Affermo (Santa
Maria di Sparti o di Spanto), presso Novara di Sicilia (San Giacomo di Calò), a Castroreale (Santa
Venera de Venellu, o Vanella, indicata anche come San Parasceve e dipendente dall’archimandritato).
Sulle singole fondazioni si vedano R. Pirri, Sicilia Sacra, cit., pp. 1016, 1027, 1029, 1042, 1053, 1057,
1059 e 1060; M. Scaduto, Il monachesimo basiliano, cit., pp. 93-95, 101 ss., 110-116, 143-145 e 163 e
M. Spadaro, I Nebrodi nel mito e nella storia, Edas, Messina 1993, pp. 69, 100, 102, 163.
34
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Fragalà), il più grande cenobio greco dell’età normanna e principale centro propulsore
della rinascita basiliana nell’isola, di cui ci resta non solo un ricco tabulario, ma anche
il testamento spirituale dell’abate Gregorio, rifondatore del cenobio alla fine dell’XI
secolo.38 Raggiunse l’apice della prosperità negli anni di reggenza della contessa Adelasia, quando a vantaggio del kaqhgoὺmeno~ Gregorio affluirono ricche donazioni sia
per intervento della reggente e dei suoi collaboratori di origine greca (il notaio-ammiraglio Eugenio, il logoteta Leone, il camerario Nicola), come pure da parte di vari
feudatari normanni, quali Aleazar Mallabret, signore di Galati, ed i fratelli Matteo e
Ugo di Craon, che dominavano Mistretta. Il fatto che nel 1105 dipendessero dal monastero numerosi metochi,39 testimonia l’ampiezza della valorizzazione del territorio
perseguita dal nucleo basiliano a partire dagli anni dell’abate Gregorio, grazie al forte
impulso in tal senso impresso dalla politica economico-religiosa dei primi Normanni. Ma è nel campo della tradizione culturale, soprattutto in quello della produzione
manoscritta, che il cenobio acquista risalto, giacché rappresenta l’unica testimonianza
certa di un’attività di copia in Sicilia prima del SS. Salvatore di Messina, attivo dagli
inizi del XII secolo.40
D’altra parte, il popolamento dei centri monastici italo-greci di nuova fondazione con monaci provenienti dalla vicina Calabria fu una scelta dettata anche dalla
necessità di reclutare manodopera specializzata per le attività di copia e di traduzione.
Indicativa, in questo senso, la presenza a Troina nel 1124 del calligrafo Leone di Reggio, la cui attività rimanda ad un ambiente monastico e la cui scrittura, prendendo le
mosse dalla Perlschrift costantinopolitana, si lascia influenzare dalla tipicità grafica
precipua della Calabria del nord, definita Rossanese, e si orienta allo stesso tempo ver-
Il testamento, vergato tra il 1096 ed il 1097, è esito in V. Von Falkenhausen, Die Testamente
des Abtes Gregor von San Filippo di Fragalà, in «Harvard Ukrainian Studies» 7 (1983), pp. 173-96.
Studi ancora validi, seppur datati, relativi alla pergamena restano quelli di S. Cusa, I diplomi, cit., pp.
411-15; G. Silvestri, Tabulario di San Filippo di Fragalà e di Santa Maria di Maniaci, Palermo 1887;
G. Cozza Luzi, Del testamento dell’abate fondatore di Demenna, in «Arch. Stor. Sicil.» 15 (1890), pp.
35-39; C. A. Garufi, Di una pergamena bilingue del monastero di Demenna conservata nel Museo Nazionale di Palermo, in «Arch. Stor. Ital.» 23 (1899), pp. 131-44. Sul monastero di Fragalà cf., inoltre: A.
Salinas, Escursioni archeologiche, III. Il monastero di San Filippo di Fragalà, in «Arch. Stor. Sicil.»
12 (1887), pp. 385-393; C. Filangeri, Ipotesi sul sito e sul territorio di Demenna, in «Arch. Stor. Sicil.»
4 (1978), pp. 27-40; S. Nibali, Rinascita e decadenza del monastero di San Filippo di Fragalà, in «Synaxis» 5 (1987), pp. 225-59 e, più recentemente, l’ampia e documentata monografia di S. Pirrotti, Il
Monastero di San Filippo di Fragalà (Secoli XI-XV). Organizzazione dello spazio, attività produttiva,
rapporti con il potere, cultura, Officina di Studi Medievali, Palermo 2008.
39
San Tallaleo, Sant’Ippolito, San Barbaro, San Teodoro di Mirto, San Nicolò di Paleocastro (de
Rocca, de Petra, de Scalis), Santa Maria della Gullia, Santa Maria di Fricanò o Frazzanò, San Pietro di
Galati o di Mueli, SS.Cosma e Damiano. Il metochio era un insediamento rurale, per lo più dotato di
una piccola chiesa o cappella, che dipendeva da una fondazione monastica; era, cioè, una sorta di casale
ecclesiastico il cui sfruttamento veniva diretto dai monaci della sede principale, ma per la conduzione
del quale erano utilizzati i villani che ne costituivano la dote.
40
Esaustivo al riguardo il contributo di B. M. Foti, Il monastero del S.mo Salvatore in Lingua
Phari. Proposte scrittorie e coscienza culturale, Società messinese di Storia Patria, Messina 1989.
38
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so la stilizzazione che verrà definita Scrittura di Reggio.41 Inoltre, significativo sotto il
profilo dell’evoluzione linguistica è pure un manoscritto del monastero di San Michele
di Troina, fondato dal primo Ruggero nel primo decennio del XII secolo, un codice
trilingue (greco, latino ed arabo), corredato di molte annotazioni marginali, che attesta
la convivenza di linguaggi e schemi culturali diversi e indica il possibile insegnamento di uno dei tre idiomi, chiaro segno di un multilinguismo partecipe e di un interesse
verso culture e professioni di fede diverse tenuto vivo dall’azione della Chiesa.42 Il Val
di Demenna, di fatto, fu il fulcro della rinascita dell’ellenismo registrata in Sicilia attorno all’anno Mille e tramite con il quale la vecchia cultura bizantina avrebbe trovato
consistenti canali d’irradiazione verso l’Occidente. L’attività culturale greca raggiunse
i più alti livelli con il grammatico Leone di Centuripe,43 l’omileta Leonzio di Fragalà
e Filippo Filagato da Cerami, fιlόsofo~, esegeta ed oratore di grande fama,44 ma
l’orientamento scientifico della vita cortigiana si sarebbe mantenuto anche sotto i regni
di Guglielmo I e Guglielmo II (basti citare Enrico Aristippo, Maione di Bari, l’ammiraglio-notaio Eugenio, poeta e traduttore),45 contribuendo ad affidare gran parte del
patrimonio classico all’Umanesimo.46
Tuttavia, sebbene i Normanni realizzassero attraverso il sostegno concesso al
clero greco un equilibrio fondamentale per il controllo politico del territorio ed il suo
sviluppo economico e demografico, con il passare degli anni il rafforzamento della
dinastia si sarebbe basato sempre più sulla crescita del clero e dell’etnia latina, anche nella parte orientale dell’Isola, mostrando come il giuramento prestato nel 1059
a Melfi, con cui gli Altavilla si impegnavano sostanzialmente alla promozione ed alla
salvaguardia degli interessi della Chiesa cattolica, costituisse il cardine attorno al quale si muoveva la politica del tempo. La latinizzazione, progressiva e inarrestabile, può
considerarsi fenomeno di lunga durata, legato al consolidamento della dinastia normanna e poi della corona sveva: dalla metà del XII secolo il flusso in Sicilia di monaci
latini (cistercensi e cluniacensi, ma pure certosini e agostiniani) divenne continuo,
soprattutto attraverso i centri che erano sorti precocemente in Calabria, come l’abbazia
cluniacense di Sant’Eufemia, il monastero agostiniano di Santa Maria di Bagnara e
Cf. P. Batiffol, L’Abbaye de Rossano. Contribution à l’histoire de la Vaticane, A. Picard, Paris
1891 e L. R. Ménager, La «byzantinisation» religieuse de l’Italie méridionale (IXe-XIIe siècles) et la
politique monastique des Normands d’Italie, in «Révue d’Histoire Ecclésiastique» 54 (1959), pp. 5-40.
42
Cf. L. Catalioto, Monachesimo greco, cit.
43
B. M. Foti, Cultura e scrittura nelle chiese e nei monasteri italo-greci, in «Quaderni di Messana» 2 (1992), pp. 22-43.
44
Cf. F. Halkin, L’éloge du patriarche S.Nectaire par Léon de Sicile (BHG 22 84), in «Rivista di
Studi Bizantini e Neoellenici» n.s. 22-23 (1985-1986), pp. 171-89.
45
C. H. Haskins, Studies in the History of Mediaeval Science, Harvard University Press, Cambridge 1927, pp. 171-76.
46
Significativa la rinascita della cultura bizantina che, in età aragonese, si sarebbe registrata a
Messina con la scuola umanistica di Costantino Lascaris: cf. G. Ferraù, «La vicenda culturale», in La
cultura in Sicilia nel Quattrocento, De Luca, Roma 1982, pp. 17-36.
41
14 (luglio-dicembre 2013)
Gli Altavilla e la Chiesa di Roma in Sicilia: il Valdemone tra cultura greca e...
209
quello cistercense di San Nicola di Filocastro.47 L’immigrazione fu alimentata pure dai
clerici e dagli homines residenti nelle fondazioni che i benedettini di Patti possedevano nel ducato calabrese sin dai primi anni di governo del Granconte, cioè le chiese di
Santa Venera di Mileto, San Nicolò de Juga, Sant’Angelo di Genitocastro, San Nicolò
de Saltu a Stilo, e le terre di San Nicolò de Aligisto, San Pantaleo e de Pileriis.48
Che le abbazie latine dell’Isola, opportunamente definite «chiese di frontiera»,49
incoraggiassero le immigrazioni di lombardi nelle proprie sedi è un fatto noto che ripropone, in una prospettiva locale, quanto rilevato in senso ampio da Brandileone in
un saggio della fine dell’Ottocento, dove afferma che «gli ordini religiosi occidentali
[…] intraprendono e compiono la nuova latinizzazione».50 Immigrazioni di lombardi
sono documentate sin dai primi decenni del XII secolo in numerosi centri del Valdemone, come San Piero Patti, Librizzi, Santa Lucia di Milazzo, Piazza, Butera, Randazzo,
Vicari e Nicosia, ma il processo fu rinvigorito in modo particolare dall’arrivo sempre
più cospicuo di mercanti amalfitani, genovesi e veneziani, e in seguito dai nuovi flussi
migratori dell’età fridericiana intesi a popolare anche molte terre del Val di Mazara.51
La Chiesa regolare, con i tratti propri della signoria rurale, cioè di un istituto consolidato e diffuso nelle terre di provenienza dei nuovi signori,52 era stata strumento affi-
Nel 1062 Roberto il Guiscardo fondava e dotava l’abbazia calabrese di Sant’Eufemia, la cui
colonia più nutrita sarebbe stata quella siciliana; altro insediamento avvenne in Calabria nel 1084, dove
Ruggero I favorì la fondazione del monastero agostiniano di Santa Maria di Bagnara, che avrebbe poi
colonizzato con elementi transalpini la prioria di Santa Lucia di Noto e la stessa cattedrale di Cefalù;
una terza ondata migratoria dal Nord in Calabria venne guidata nel 1091 da San Bruno di Colonia, fondatore dell’ordine certosino. Per concludere, un ulteriore insediamento calabrese che si sarebbe espanso
in Sicilia fu quello cistercense di San Nicola di Filocastro, fondato nel 1140 da cluniacensi provenienti
da Clairvaux (cf. L. T. White, Il monachesimo latino, cit., pp. 79-86 e 124) A proposito della fondazione di Sant’Eufemia, si veda E. Pontieri, L’abbazia benedettina di Sant’Eufemia in Calabria e l’abate
Roberto di Grantmesnil, in «Arch. Stor. Sic. Or.» 12 (1926), pp. 92 ss.
48
Cf. la Platea antiqua, ex scripturis conservatis intus sacristiam maioris Ecclesiae Pactensis, in
qua sunt privilegia Episcopatus Pactensis extracta, a cura del notaio Giovanni Matteo Dominedò: originale mancante; copie in F II, f. 521; PV, ff. 133, 309 e 314; ERA, ff. 521 e 524; OR, ff. 16, 19, 21 e 27;
COT, f. 1; edito in C. A. Garufi, Censimento, cit., p. 92, n. 3; L. Catalioto, Il Vescovato, cit., p. 216, n. 52.
49
S. Tramontana, La monarchia, cit., pp. 106 ss.
50
F. Brandileone, Il diritto greco-romano nell’Italia meridionale sotto la dominazione normanna, in «Archivio Giuridico», 36 (1886), p. 287.
51
Cf., tra gli altri, S. Tramontana, La monarchia, cit.; I. Peri, Uomini, città e campagne in Sicilia
dall’XI al XIII secolo, cit.; E. Pispisa, Medioevo Fridericiano e altri scritti, Intilla, Messina 1999.
52
Una visione più ampia dei complessi usi feudali e signorili nell’Europa medievale, il cui studio ha avuto un nuovo impulso a partire dagli anni Sessanta (G. Duby, L’economia rurale nell’Europa
medievale. Francia, Inghilterra, Impero, secoli IX-XV, Laterza, Roma-Bari 1966; Id., Lo specchio del
feudalesimo. Sacerdoti, guerrieri e lavoratori, Laterza, Roma-Bari 1989; R. Boutruche, Signoria e
feudalesimo, Il Mulino, Bologna 1971; P. Cammarosano, Le campagne nell’età comunale -metà sec.
XI-metà sec. XIV-, Loescher, Torino 1974; J. P. Poly-E. Bournazel, Il mutamento feudale. Secoli X-XII,
Mursia, Milano 1990; Structures féodales et féodalisme dans l’occident méditerraneen.X-XIII siècles,
École française de Rome, Roma 1980) è offerta dalle più aggiornate analisi di G. Sergi, «Lo sviluppo signorile e l’inquadramento feudale», in N. Tranfaglia-M. Firpo [a cura di], La storia. I grandi problemi
47
14 (luglio-dicembre 2013)
210
Luciano Catalioto
dabile dell’azione di latinizzazione condotta dagli Altavilla, come mostra il consistente
ricambio demico che si registrò in molte terre d’immigrazione lombarda controllate dai
benedettini. Ma, al tempo stesso, le strutture ecclesiastiche avevano esercitato in modo
indiretto una funzione di controllo etnico e implicitamente di tutela delle minoranze,
preservandone la stessa identità culturale (che si continuò ad esprimere nei costumi,
nella vita quotidiana, nelle strutture sociali e nei quadri mentali) quando la presenza
musulmana o quella greca era apparsa necessaria ed opportuna sotto il profilo politico ed
economico, perché compresa entro un più vasto disegno di governo. Negli ultimi anni
del dominio normanno si sarebbe compiuto il tramonto della presenza greca anche nel
Valdemone, profondamente scosso dall’esplosione xenofoba registrata nel centro peloritano al passaggio del Barbarossa, di Riccardo Cuordileone e Filippo II Augusto diretti
nel 1190 in Terrasanta per la terza crociata.53 Un declino destinato ad accentuarsi con
l’arrivo in Sicilia di Enrico VI di Svevia, drammaticamente esemplato nella Epistola ad
Petrum Panormitane Ecclesie Thesaurarium de calamitate Sicilie, con cui lo pseudo
Falcando condanna il furor theutonicus e denuncia accoratamente il progressivo offuscarsi della coscienza del regno e la perdita del suo prezioso equilibrio multiculturale.54
dal Medioevo all’età contemporanea, vol. II, Utet, Torino 1986, pp. 369-94), E. Conte (Servi medievali:
dinamiche del diritto comune, Viella, Roma 1996); M. F. L. Ganshoff, Che cos’è il feudalesimo, Einaudi, Torino 1992; G. Tabacco, Sperimentazioni del potere nell’alto Medioevo, Einaudi, Torino 1993; C.
Violante, «La signoria rurale nel contesto storico dei secoli X-XII», in G. Dilcher-C. Violante [a cura
di], Strutture e trasformazioni della signoria rurale nei secoli X-XIII, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento» 44 [1996], pp. 6-56; S. Carocci, «Signori, castelli, feudi», in Storia medievale,
Donzelli, Roma 1998, pp. 247-67), L. Provero, L’Italia dei poteri locali. Secoli X-XII, Carocci, Roma
1998; F. Panero, Schiavi, servi e villani nell’Italia medievale, Paravia, Torino 1999; D. Barthelemy, La
mutation de l’an Mil a-t-elle eu lieu?, Fayard, Paris 1997; Id., «Signoria», in J. Le Goff-J. C. Schmitt
(eds.), Dizionario dell’Occidente medievale. Temi e percorsi, Einaudi, Torino 2003, pp. 1059-70; P.
Bonassie, «Libertà e servitù», in Dizionario, cit., pp. 604-18.
53
Del drammatico soggiorno a Messina di Riccardo Cuor di Leone, diretto in Terrasanta per la
terza crociata, hanno scritto A. R. Levi, Riccardo Cuor di Leone e la sua dimora in Messina, in «Atti
della R. Accademia Peloritana» 15 (1899-1900), pp. 297-311 ed E. Rota, Il soggiorno di Riccardo Cuor
di Leone in Messina e la sua alleanza con re Tancredi, in «Arch. Stor. Sic. Or.» 3 (1906), pp. 276-283.
54
S. Tramontana, Lettera a un tesoriere di Palermo sulla conquista sveva in Sicilia, Sellerio,
Palermo 1988, pp. 122-143.
14 (luglio-dicembre 2013)
Michele Fasolo
La carta archeologica del territorio di Tindari.
Aspetti metodologici e operativi delle ricerche topografiche
1. Premessa
Negli ultimi decenni si è accelerato, in tutte le regioni del bacino del Mediterraneo, il processo che sembra ormai connaturale alla Modernità di continua e progressiva distruzione dei segni e delle forme che conferiscono originalità, riconoscibilità,
senso e abitabilità al territorio, ovvero di tutto ciò che fa di un territorio, di un ambiente
naturale un paesaggio culturale,1 ovvero uno spazio che non è più estensione inerte di
terra, ma un tessuto umano concretamente vivente perché qualificato dalla profonda
sedimentazione storica di avvenimenti e di attività di comunità, che imprimendovi e
cancellandovi segni, lasciando tracce molteplici e significati, intrecci di interazioni
dense e profonde, su più dimensioni, con l’ambiente e tra loro, gli hanno conferito
una fisiognomica2 unica, condivisa ed irripetibile, esprimendovi così, storicamente e
simbolicamente,3 la propria identità.
1
G. Andreotti, Paesaggi culturali: teoria e casi di studio, Unicopli, Milano 1996; Ead., Paesaggi in movimento: paesaggi in vendita, paesaggi rubati, Valentina Trentini, Trento 2007; L. Bonesio, La
terra invisibile, Marcos y Marcos, Milano,1993; Ead., Geofilosofia del paesaggio, Lyasis, Milano 1997;
Ead., «Oltre il paesaggio», in M. Ricci (a cura di), Paesaggio: teoria, storia, tutela, Pàtron, Bologna
2004; A. Magnaghi (a cura di), Il territorio dell’abitare: lo sviluppo locale come alternativa strategica,
Franco Angeli, Milano 1998; Id., Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000; S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento: la battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010.
2
Per il paesaggio come cifra fisiognomica di un’epoca e dei suoi valori prevalenti O. Spengler,
Il tramonto dell’occidente, Guanda, Parma 2005, p. 260.
3
Sulla fenomenologia del paesaggio e sullo studio degli aspetti percettivi e simbolici attraverso i
quali si esprime il rapporto delle comunità con il proprio territorio e i modi di agire in esso si vedano le
riflessioni di O. Belvedere, La ricognizione di superficie. Bilancio e prospettive, in «JAT» 20 (2010), pp.
31-40 con richiami bibliografici ai lavori di numerosi studiosi (P. Attema, «Cartography and Landscape
Perception: A Case Study from Central Italy», in G. Barker-D. Mattingly [eds.], The Archaeology of
Mediterranean Landscapes, 5 vols., Oxbow Books, Oxford 1999-2000, vol. III, pp. 23-34; P. F. Fisher,
«Geographical Information Systems: Today and Tomorrow», in G. Barker-D. Mattingly, The Archaeology of Mediterranean Landscapes, cit., pp. 5-12; R. E. Witcher, «GIS and Landscapes of Perception», in G. Barker-D. Mattingly, The Archaeology of Mediterranean Landscapes, cit., pp. 13-22; R.
Bradley, An Archaeology of Natural Places, Routledge, London 2000; P. Attema–G-J. Burgers-E. van
Joolen-M. van Leusen-B. Mater, New Developments in Italian Landscape Archaeology, Archaeopress,
Oxford 2002 [BAR International Series 1091]; M. Given-A. B. Knapp [eds.], The Sidney Cyprus Survey
Project. Social Approaches to Regional Archaeological Survey, UCLA Cotsen Institute of Archaeology,
Los Angeles 2003; W. Ashmore, «Social Archaeologies of Landscape», in L. Meskell-R.W. Preucel
«Mediaeval Sophia». Studi
w w w. m e d i a e v a l s o p h i a . n e t
e ricerche sui saperi medievali
E-Review semestrale dell’Officina di Studi Medievali
14 (luglio-dicembre 2013), pp. 211-230
212
Michele Fasolo
Il processo degenerativo del tessuto territoriale costituisce una questione cruciale, una tematica fondamentale, proprio perché vede ogni giorno dissolversi pericolosamente ed in maniera estrema, insieme con le sempre più vaste porzioni di spazio degradate, decostruite, destrutturate, e riconformate con una omologazione, che sembra
inarrestabile, dei luoghi a modelli produttivi e logiche deterritorializzanti, nel territorio
divenuto inerte e che non può più essere vissuto, e in cui l’identità non può più essere
espressa, le fondamenta profonde, il senso del nostro legame comunitario nella civitas.
È proprio però oggi la crisi, paradossalmente proprio come scriveva Hölderlin
«Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch», a farci comprendere con stringente
urgenza che non è possibile abitare la terra senza prendersene cura. È soprattutto la
crisi a permetterci di pensare il paesaggio e di assumerlo nell’ordinamento giuridico e
nell’epistemologia con un accezione più ampia di quella estetica che è stata caratterizzante nel passato prendendo coscienza della sua pluriforme, e per noi che la dobbiamo
decifrare, impegnativa complessità.
Una complessità che deve essere innanzitutto conosciuta prima che si degradi
irrimediabilmente ed i segni impressi dagli uomini nel corso dei secoli più lontani
scompaiano. Il nostro sforzo conoscitivo dovrà assumere, per affrontare con efficacia i
processi dissolutivi in atto, un punto di vista insieme multidisciplinare e plurimetodologico,4 dotarsi di strumenti e metodi cognitivi nuovi che siano in grado di spiegare i
fenomeni, i caratteri fondativi delle identità dei luoghi, gli elementi che strutturano durevolmente il territorio, adeguati ad una realtà come quella territoriale le matrici della
cui complessità si dislocano su più dimensioni, immediatamente leggibili, ad accesso
differenziato o a volte invisibili ad ogni lettura anche la più sottile. L’accelerazione e la
pervasività della crisi infatti impongono allo storico di dare risposte che non siano più
riproposizioni di meri inventari ma ricostruzioni in termini dinamici e funzionali degli
assetti territoriali antichi e delle loro persistenze nel paesaggio attuale. Risposte che
inoltrate, a sua volta, dal topografo dell’antichità, dal geografo storico all’urbanista
permettano a questi di formulare ipotesi convincenti sul rapporto da intrattenere con i
segni che degli assetti antichi sopravvivono nel paesaggio attuale.5
Conoscere ma è anche indispensabile promuovere, a partire dalla conoscenza,
[eds.], A Companion to Social Archaeology, A Companion to Social Archaeology, Blackwell Pub. Ltd.,
Oxford-Malden 2004, pp. 255-271; M. Given, «From density counts to ideational landscapes», in E. F.
Athanassopoulos-L. Wandsnider [eds.], Mediterranean Archaeological Landscapes: Current Issues,
University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology, Philadelphia 2004, pp. 165182; R. Witcher, Broken Pots and Meaningless Dots? Surveying the Rural Landscapes of Roman Italy,
in «Papers of the British School at Rome» 74 [2006], pp. 39-72; M. Johnson, Ideas of Landscape,
Blackwell Publ., Malden MA-Oxford 2006).
4
Per la distinzione tra approccio multidisciplinare e interdisciplinare, con riferimenti bibliografici al dibattito sul tema, O. Belvedere, «Metodologia e finalità della ricerca», in Id. et al., Himera III.2.
Prospezione archeologica nel territorio, “L’Erma” di Bretschneider, Roma 2002, p. 20 e n. 130.
5
L. Quilici-S. Quilici Gigli, «La Carta archeologica della valle del Sinni dalle premesse alla
realizzazione», in Iid. (eds.), Carta archeologica della valle del Sinni 1, vol. X, fasc. 1, L’Erma di Bretschneider, Roma 2003 (Atlante tematico di topografia antica. Supplementi 10), p. 30.
14 (luglio-dicembre 2013)
La carta archeologica del territorio di Tindari. Aspetti metodologici e operativi...
213
esperienze specifiche di produzione comunitaria e di valorizzazione del paesaggio culturale perseguendo una partecipazione collettiva su progetti concreti riguardanti i territori che coinvolgano ed aggreghino a vari livelli e modalità di partecipazione comunità
locali, esperti, amministratori, associazionismo e cittadini.
2. Obiettivi della ricerca
La ricerca ha inteso esplorare queste tematiche, motivata eticamente dalle riflessioni precedenti, affrontando, come caso applicativo di studio, i problemi conoscitivi,
di tutela, di salvaguardia e di valorizzazione del paesaggio culturale di Tindari.
Nonostante la presenza di due centri abitati antichi a distanza ravvicinata (Tindari e l’insediamento di cui non conosciamo ancora il nome a Gioiosa Guardia, individuato in maniera casuale agli inizi degli anni ’80 del XX sec.) e di alcune ville romane
tra cui l’ampia residenza monumentale di Patti Marina, questo territorio, prospiciente
le isole Eolie, è del tutto sconosciuto per l’età antica alla letteratura scientifica ed alle
carte archeologiche e dati esigui sono conosciuti anche per gli assetti territoriali di età
medievale.6 Assai scarna e generica è la consistenza del materiale inedito relativo ai
rinvenimenti fortuiti. Il percorso della via romana Valeria che l’attraversava è ignoto
nel suo reale tracciato. Mancano studi sulle origini e le dinamiche del popolamento,
l’uso del territorio e la distribuzione degli insediamenti nelle varie epoche, dalla preistoria al medioevo.7
Proprio l’assenza di pregresse ricerche archeologiche e la carenze di dati conoscitivi riguardanti il territorio, l’importanza di Tindari in età antica e la rilevanza del
centro di Patti in età normanna, nonché i processi di degrado del tessuto territoriale
incombenti8 hanno reso opportuna una ricerca territoriale sistematica da condursi secondo l’ormai consolidata impostazione pluridisciplinare e plurimetodologica, finalizzata a guadagnare informazioni dai più diversi ambiti, che caratterizza ormai da vari
decenni gli studi territoriali, che le componesse poi in un quadro organico e stratificato,
6
Per una ricostruzione degli assetti territoriali rimando ai miei lavori su Focerò, M. Fasolo,
Alla ricerca di Focerò, s.n., Quintily, Roma 2008; Id., «L’assetto del territorio ad ovest di Tindari in età
normanna», in Da Halesa ad Agathyrnum. Studi in memoria di Giacomo Scibona, Edizioni del Rotary
Club, Sant’Agata di Militello 2011, pp. 161-184.
7
In passato si è tentato di spiegare questa assenza di dati più che con la mancanza di ricerche
autoptiche sui luoghi, o con la particolare e non stabile morfologia del territorio che rendono difficoltosi
il riconoscimento e la decifrazione del dato archeologico e la stessa conservazione di alcuni tipi di deposito archeologico, con uno scarso popolamento che l’intera zona costiera tra Mylai ed Himera avrebbe
sempre avuto sin dall’età arcaica allorché i soli due centri conosciuti erano gli insediamenti greco-siculi
di Agathyrnon e di Kephaloidion e che solamente parzialmente si modificò tra il V ed il IV sec. a. C. con
le fondazioni di Kale Akte, Alaisa Arconidea e Tyndaris.
8
Tra Milazzo e Capo d’Orlando sta prendendo corpo una conurbazione derivante dalla fusione
dei centri abitati presenti sulla costa.
14 (luglio-dicembre 2013)
214
Michele Fasolo
concretamente un Sistema Informativo Territoriale, non solo base informativa9 ed interpretativa, ma anche concreto strumento di tutela.
Qualificano questo ambito territoriale, in vista di interventi di valorizzazione e di
fruizione, notevoli componenti ambientali (i laghetti di Marinello e la zona protetta costiera del promontorio di Tindari, la vallata del torrente Elicona con i paesaggi pastorali dell’entroterra e i lembi superstiti di boschi secolari), archeologiche (i siti di Tindari,
Gioiosa Guardia, la villa romana di Patti Marina) e religiose (santuario di Tindari).
L’esigenza di pervenire ad una conoscenza quanto più organica ed integrale
possibile del territorio, attraverso l’individuazione dei beni archeologici presenti con
raccolta di informazioni su spettri cronologici e culturali che vanno dalla preistoria
al medioevo, ha trovato adeguata corrispondenza in particolare nell’adozione di una
metodologia di ricerca di superficie diacronica, sistematica e intensiva secondo l’impostazione che informa ormai da molto tempo le ricerche in Italia.10 Si è evitato sempre
di intendere queste modalità in maniera totalizzante ma si è cercato di farvi riferimento
avendo coscienza del dibattito scientifico sulle varie metodologie di ricerca da adottarsi sul campo emerse negli ultimi trent’anni e sulla circostanza che talora «un approccio
diacronico, intensivo e sistematico può non ottenere risultati di eguale livello per tutti
i periodi cronologici» anche se i dati sono stati raccolti tutti con lo stesso metodo rigoroso e attento alla diacronia.11
9
O. Belvedere, La ricognizione di superficie. Bilancio e prospettive, cit.
In particolare si è fatto riferimento quanto più possibile per la raccolta e l’esposizione dei dati
a O. Belvedere, La ricognizione sul terreno, in «JAT» 4 (1994), pp. 69-84; Id., «Metodologia e finalità
della ricerca», in Himera III.2. Prospezione archeologica nel territorio, cit., pp. 3-23; O. Belvedere,
«Paesaggio catastale, paesaggio letterario e archeologia del paesaggio. Tre percezioni a confronto», in
A. Burgio, Il paesaggio agrario nella Sicilia ellenistico-romana. Il territorio di Alesa, “L’Erma” di
Bretschneider, Roma 2008, pp. 1-10. O. Belvedere, La ricognizione di superficie. Bilancio e prospettive, cit.; F. Cambi-N. Terrenato, Introduzione all’archeologia dei paesaggi, La Nuova Italia Scientifica,
Roma 1994; M. Given-A. B. Knapp (eds.), The Sidney Cyprus Survey Project. Social Approaches to
Regional Archaeological Survey, UCLA Cotsen Institute of Archaeology, Los Angeles 2003; M. Guaitoli, «Nota sulla metodologia della raccolta, della elaborazione e della presentazione dei dati», in P.
Tartara, Torrimpietra, Olschki, Firenze 1999 (Forma Italiae 39), pp. 357-365; L. Quilici, Nella media
ed alta valle del Sinni. Introduzione alle ricerche di topografia antica, in «Ocnus» 6 (1998), pp. 83-105;
S. Quilici Gigli, La forma della città e del territorio: esperienze metodologiche e risultati a confronto.
Atti dell’incontro di studio - S. Maria Capua Vetere 27-28 novembre 1998, “L’Erma” di Bretschneider,
Roma 1999; L. Quilici-S. Quilici Gigli, Carta archeologica della valle del Sinni 5, vol. V, L’Erma
di Bretschneider, Roma 2001 (Atlante tematico di topografia antica. Supplemento 10); L. Quilici- S.
Quilici Gigli, «La Carta archeologica della valle del Sinni dalle premesse alla realizzazione», cit.; M.
Valenti, Carta archeologica della provincia di Siena, Volume III. La Val d’Elsa (Colle Val d’Elsa e
Poggibonsi), Nuova Immagine Editrice, Siena, 1999, pp. 7-14.
11
O. Belvedere, La ricognizione sul terreno, cit.
10
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La carta archeologica del territorio di Tindari. Aspetti metodologici e operativi...
215
3. Delimitazione del contesto topografico oggetto della ricerca
Per quanto riguarda l’individuazione di un appropriato contesto topografico di
indagine12 le possibilità percorse e suggerite da studi analoghi erano diverse e tutte in
qualche modo legittime: seguire, in base a prevalenti motivazioni di ordine ricostruttivo storico, la ripartizione territoriale antica o medievale, attestarsi su limiti naturali,
seguire quelli convenzionali della cartografia nazionale o regionale o, infine, far rientrare l’indagine in un ambito amministrativo.
Sviluppare la ricerca all’interno di spazio delimitato in termini di geografia storica avrebbe significato confrontarsi sin dall’inizio con due ostacoli rilevanti. Il primo
è il concetto stesso di confine, che sarebbe risultato insufficiente, addirittura incapacitante nell’ambito di una ricostruzione diacronica del popolamento antico in un’area
che ha visto il succedersi nel corso dei millenni, sino alla stabilizzazione definitiva a
partire dal XIV secolo,13 di baricentri delle attività amministrative ed economiche e di
poli attrattori dell’insediamento diversi con interrelazioni “oltreconfinarie” complesse
(i vari abitati protostorici, la Tindari ellenistica e romana, la villa tardo-antica di Patti
Marina, la Patti normanna con i suoi casali). Il secondo è costituito dalla mancanza
di dati14 per la ricostruzione dei confini culturali e politici nei vari periodi storici che
avrebbe inevitabilmente condotto, in base ad un ragionamento circolare, a ipotizzarne
il riconoscimento alla fine in quelli naturali.
Anche l’attenersi a limiti geografici avrebbe comportato problemi. Il territorio
ad ovest di Tindari è infatti diviso dal torrente Timeto in due settori, morfologicamente diversi tra loro: il settore occidentale è caratterizzato in gran parte da rilievi a
carattere collinare-montano che degradano in una estesa fascia costiera caratterizzata
da modesta acclività della superficie topografica procedendo verso Nord Est, invece
il settore orientale presenta più dorsali montuose, dirette da NNO-SSE/N-S a NNE-SSO procedendo da Ovest verso Est, con rilievi acclivi con quote fino a 500 m s.l.m.
e direttamente degradanti verso il mare e con una pianura alluvionale costiera, la cui
estensione è massima in corrispondenza della foce del torrente Timeto. Scegliere l’uno
o l’altro settore, l’una o l’altra unità morfologica e paesaggistica15 avrebbe ristretto
significativamente le possibilità di una ricostruzione storica.
Alla stessa maniera avrebbe avuto anche poco senso in mancanza di un progetto
Sulla scelta della scala di indagine O. Belvedere, La ricognizione di superficie. Bilancio e
prospettive, cit.
13
Come nel resto dell’Europa occidentale e centrale. C.T. Smith, Geografia storica d’Europa,
Laterza, Bari 1982, p. 5.
14
Non ci si può giovare neppure delle approssimative indicazioni che potrebbero provenire
riguardo ai territori dall’applicazione dei poligoni di Thiessen dato che rimangono ignote o controverse
sia l’ubicazione che l’estensione areale di molti centri urbani antichi.
15
Per una metodologia recente di individuazione di aree paesaggistiche omogenee G. Gisotti,
Le unità di paesaggio: analisi geomorfologica per la pianificazione territoriale e urbanistica, Dario
Flaccovio Editore, Palermo 2011.
12
14 (luglio-dicembre 2013)
216
Michele Fasolo
di catalogazione più ampia portata in cui inserire la ricerca abbracciare, l’intera tavoletta 253 III-N.O. della Carta d’Italia I.G.M. o in via subordinata solamente alcune
sezioni della C.T.R. della Regione Siciliana.
Alla luce di queste considerazioni i limiti del contesto della prospezione intensiva sul terreno sono stati identificati con quelli amministrativi del comune di Patti.
Patti (Latitudine 38°8’52”08 N – Longitudine14°58’13”44 E), 157 m s.l.m, ha
un territorio comunale di 50,48 Km2 che si estende, in direzione S-N, da Pizzo Cola,
alla foce del torrente Timeto per 9 km, e in quella E-O, da Capo Tindari a monte di
Gioiosa per 11 km. Il centro abitato è situato una collina alle pendici dei monti Nebrodi, che con i Peloritani ad est e le Madonie ad ovest, costituiscono l’Appennino siculo.
II territorio è piuttosto popolato. La popolazione ammonta a 13.108 ab. (Istat 2001),
con una densità di 268,2 ab/km2. Secondo i dati Istat, dal 1861 al 2001, la popolazione
è aumentata quasi costantemente con momenti di decremento legati a vicende storiche,
periodi di migrazioni che seguono un andamento nazionale. L’insediamento urbano
principale è quello di Patti con un tessuto molto denso; ugualmente denso risulta l’urbanizzato delle località costiere mentre nelle restanti aree riscontriamo un tessuto urbano rado, in alcune zone con numerose abitazioni sparse nelle campagne, con relative
proprietà, frazionate ed intensamente ancora oggi coltivate, esito delle politiche del
monastero benedettino di Patti che incentivarono il popolamento dell’area concedendo
che i beni ottenuti in concessione dai coloni divenissero di proprietà con trasmissibilità agli eredi.16 Più dispersa e rada è invece la distribuzione dell’insediamento e della
proprietà nelle aree, non di pertinenza del monastero benedettino, che nell’entroterra
di Patti per secoli hanno fatto parte di feudi di famiglie nobiliari.
Si è ritenuto opportuno in questa prospettiva di seguire l’evoluzione dell’impostazione e dei criteri che hanno fatto oggi delle carte archeologiche degli strumenti
sempre più in grado di fornire, nel quadro di un rapporto fra le comunità locali e istituzioni di ricerca, contenuti utili agli enti competenti per la pianificazione territoriale.17
La carta archeologica di un territorio comunale si rivela al riguardo particolarmente opportuna perché permette di ancorare istituzionalmente la tutela e la conservazione
dei beni culturali a un ben individuato contesto istituzionale, amministrativo e comunitario, offrendo uno strumento operativo, una carta delle evidenze archeologiche completa
per quanto possibile e sufficiente a fornire una conoscenza analitica del territorio.
Il lavoro non costituisce però solamente un catasto delle evidenze per permettere
16
Archivio Capitolare della Cattedrale di Patti, Cpz f. 13.
P. Sommella, «Forma Italiae: un progetto scientifico e uno strumento operativo», in M. Pasquinucci-S. Menchelli, La cartografia archeologica: problemi e prospettive. Atti del convegno internazionale Pisa, 21-22 marzo 1988, Amministrazione provinciale, Pisa 1989; Id., «Carta archeologica d’Italia
(Forma Italiae). Esperienze a confronto», in Archeologia del paesaggio. 4 Ciclo di Lezioni sulla Ricerca
Applicata in Archeologia, Certosa di Pontignano (Siena), 14-26 gennaio 1991, 2 vols., All’Insegna del
Giglio, Firenze 1992, pp. 797-801; R. Francovich-A. Pellicanò-M. Pasquinucci (eds.), La carta archeologica fra ricerca e pianificazione territoriale, All’Insegna del Giglio, Firenze 2001; M. P. Guermandi
(ed.), Rischio archeologico. Se lo conosci lo eviti, All’Insegna del Giglio, Firenze 2001.
17
14 (luglio-dicembre 2013)
La carta archeologica del territorio di Tindari. Aspetti metodologici e operativi...
217
interventi di tutela e di valorizzazione e più in generale un supporto per la programmazione territoriale. La scelta di operare seguendo i contorni territoriali di un ambito
amministrativo non ha affatto indebolito infatti le possibilità di una plausibile ricostruzione storica nel territorio, e si è rivelata adeguata per affrontare ed interpretare criticamente le tematiche archeologiche e storiografiche in un arco cronologico compreso tra
la Preistoria e il Medioevo. Il territorio di Patti abbraccia infatti con i suoi 50 km2, una
parte consistente di quello che presumiamo sia stato il territorio dell’antica Tyndaris,
ricomprendendone in particolare tutto quello immediatamente adiacente alla città antica verso ovest. Per l’età medievale l’attuale territorio comunale rappresenta infine la
parte centrale di un terzo dei territori, tra Capo Tindari, Capo d’Orlando e Polverello,
assegnati in continuità territoriale dal conte Ruggero al monastero benedettino di Patti
perché li ripopolasse e così ne riattivasse le attività produttive.18
4. Metodi e strumenti di ricerca
La ricerca non si è discostata dalla tradizionale e consolidata impostazione pluridisciplinare e plurimetodologica, finalizzata a guadagnare informazioni dai più diversi
ambiti, che caratterizza ormai da vari decenni gli studi territoriali.
La prima fase del lavoro ha riguardato la definizione di un quadro delle fonti in
grado di fornire dati utili per la ricostruzione dell’antico paesaggio antropizzato e la
loro raccolta sistematica in particolare presso Biblioteche, Archivi e Enti vari.
Particolare attenzione si è data all’esame del quadro ambientale moderno, nelle
sue componenti geologiche, morfologiche, idriche, climatiche, pedologiche, in modo
da desumerne le informazioni riguardanti gli ecosistemi, che hanno interagito nel corso degli ultimi millenni con le attività dell’uomo nel territorio.
Sin da questa fase iniziale tutte le informazioni e i dati derivati, in via diretta o
M. Fasolo, «L’assetto del territorio ad ovest di Tindari in età normanna», in Da Halesa ad
Agathyrnum. Studi in memoria di Giacomo Scibona, Edizioni del Rotary club, Sant’Agata di Militello
2011, pp. 161, 162, 182.
18
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218
Michele Fasolo
indiretta dalle fonti scritte,19 archivistiche,20 cartografiche,21 telerilevate,22 toponomastiche,23, orali24 e dalla bibliografia scientifica e a carattere locale25 e quelle provenienti da
Sono state poi prese in esame le fonti scritte a carattere epigrafico, storico-letterario, tecnico-itinerario, odeporico, geografiche, corografiche dall’antichità all’età contemporanea.
20
Particolare rilievo assumono nell’area oggetto della ricerca le fonti amministrative con il fondo
archivistico dell’Archivio Capitolare della Cattedrale di Patti che custodisce documenti a partire dal
1094, sinora studiato essenzialmente sotto il profilo della storia istituzionale, e di cui mancano indici
completi sui nomi di luoghi e di contrade ricorrenti in ognuno dei volumi che lo compongono. I volumi consultati hanno permesso di ampliare notevolmente il quadro sulle conoscenze toponomastiche
del territorio. L’archivio in alcune sue serie ha fornito anche informazioni importanti sui processi di
insediamento e sulle forme di trasformazione demica, delle colture e del paesaggio in età medievale, in
generale sulla configurazione del terreno, opere ed infrastrutture. Sono stati effettuati sondaggi anche di
alcuni fondi archivistici presenti nell’Archivio Centrale dello Stato, negli Archivi di Stato di Palermo e
di Messina, e in quello comunale di Patti (dalla fine del XVI secolo) con l’acquisizione di dati utili per
la ricostruzione dell’assetto e del popolamento rurale nelle campagne di Patti, per l’individuazione e la
puntuale localizzazione di molti toponimi.
21
Per quanto riguarda le fonti cartografiche e iconografiche particolarmente utile si è rivelata
specialmente per la ricostruzione della viabilità, una rappresentazione a olio su tela di grandi dimensioni
del territorio di Patti risalente probabilmente agli inizi del XVIII secolo e custodita in una collezione
privata di Roma (C. Sciacca).
22
Per l’analisi mediante telerilevamento è stata utilizzata e acquisita presso la società e-Geos
un’immagine telerilevata (prodotto Realvista) da aereo (sensore VEXCEL-Ultracam X), multispettrale,
con una risoluzione spaziale di 0,5 m e un errore di 2.5 m r.m.s. L’immagine è georeferenziata nel sistema di riferimento UTM 33 datum WGS84. Le informazioni di questa immagine sono state affiancate da
quelle contenute in due immagini satellitari QuickBird del 26 maggio 2006, una pancromatica con una
risoluzione spaziale di 0,7 m e una risoluzione di 2,8 m, entrambe in sistema di riferimento UTM 33
WGS84. Inoltre sono state aggiunte al database e georeferenziate n. 6 ortofoto digitali del 10/10/2004
dell’Arta Sicilia (Assessorato Territorio e Ambiente), riprese ad una quota media di 4.000 m con una
scala del fotogramma di 1:7.500, tre ortofoto Agea in scala di grigio risalenti all’anno 2002 con una risoluzione di 0,5 m. e un’ortofoto alla scala approssimativa 1:33.000 facente parte della ripresa nazionale
Gai (volo base) realizzata nel 1954 acquisita presso l’Aerofoteca-I.C.C.D del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali. Alla banca dati di immagini telerilevate, si è aggiunta una scansione laser LiDAR,
con densità di 1,5 punti per m2, con relativi modelli digitali del terreno (DTM) e di superficie (DSM) di
una porzione del territorio del comune di Patti con un buffer di 800 m dalla linea di costa verso l’interno,
utile per ricostruire con alta precisione la morfologie del territorio e identificarvi tracce da microrilievo
a valenza archeologica.
23
Il recupero sistematico della toponomastica ha preso avvio con l’acquisizione su piattaforma
GIS dei toponimi (n. 145) contenuti nella Tavoletta” 253 III-NO (Patti), della Carta d’Italia alla scala
1:25.000 dell’Istituto Geografico Militare. A essi sono stati aggiunti ulteriori toponimi (n. 67) contenuti
nelle sezioni della C.T.R. e, mediante inserimento manuale, quelli (n. 246) contenuti nei fogli di mappa
catastale a scala 1:2.000 del comune di Patti e, per le aree interessate dalla ricerca, dei limitrofi comuni
di Gioiosa Marea, Montalbano Elicona e Oliveri. Inoltre sono stati aggiunti i toponimi recuperati dalla
cartografia storica e dalle fonti scritte. L’indagine orale ha poi permesso di aggiungere numerosi microtoponimi non riportati nelle mappe ma di grandissima utilità.
24
La collazione, l’incrocio, e la localizzazione e verifica di tutte le segnalazioni orali di ritrovamenti archeologici nel territorio si è rilevata, come sempre, particolarmente utile.
25
È stata spogliata la letteratura scientifica e le pubblicazioni di studiosi locali ed eruditi locali,
riguardanti il territorio di Tindari, Patti e Oliveri, la documentazione dell’archivio delle Soprintendenze
19
14 (luglio-dicembre 2013)
La carta archeologica del territorio di Tindari. Aspetti metodologici e operativi...
219
ambiti disciplinari apparentemente non affini, sono stati organizzati, gestiti e messi in
relazione in un Sistema Informativo Territoriale a prevalente carattere archeologico su
piattaforma Gis, conferendo ad esse localizzazione perlomeno areale, in modo da orientare in tempo reale la ricerca. Si è tentato di riferire al territorio moderno con una localizzazione possibilmente puntuale topografica tutte le informazioni ricavate dalle fonti
documentarie, in particolar modo i dati spaziali ed i toponimi registrati nei documenti.
Per quanto riguarda la cartografia moderna si è utilizzata come cartografia di base
della ricerca la Carta Tecnica Regionale (C.T.R.)26 a cura del Dipartimento Regionale
Urbanistica dell’Assessorato Territorio ed Ambiente della Regione Siciliana acquisita
sia in formato vettoriale,27 il più idoneo per query geospaziali, analisi e interpretazioni,
che raster.28 Sono state analizzate anche altre carte, diverse per scala, data ed origine.29
4.1. La prospezione intensiva
La prospezione con la raccolta dei dati di superficie, autorizzata dalla competente Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali di Messina,30 è stata effettuata in
maniera intensiva e sistematica a tendenziale copertura totale31 del terreno. È stata indirizzata verso una conoscenza quanto più organica e capillare possibile del territorio,
registrando testimonianze di ogni tipo dalla preistoria all’età moderna,32 pur presentandosi la scelta particolarmente impegnativa. Ci si è attenuti per quanto possibile a
quell’insieme di criteri e di modalità che al riguardo da tempo risultano ormai condiviBB.CC.AA. di Messina e di Siracusa, quest’ultima erede dei materiali archivistici dell’ex Soprintendenza unica per la Sicilia Orientale solamente in parte trasferiti a Messina. Con le informazioni d’interesse
estratte si è costituito un repertorio bibliografico georeferenziato, con grado di precisione ovviamente
calibrato a quello della fonte, molte volte sprovvista di un sistema di riferimento topografico, ed alle
condizioni attuali di visibilità.
26
La Carta Tecnica Regionale in scala 1:10.000, scala che si ritiene calibrata al livello di approfondimento richiesto dalla ricerca, è rappresentata nella proiezione di Gauss, inquadrata nel sistema Geografico Europeo Unificato, ma con coordinate piane riferite al sistema nazionale Gauss-Boaga.
27
Il formato vettoriale cad (.dwg) delle 5 sezioni della Carta Tecnica Regionale (C.T.R.) alla scala
1:10.000, nelle quali ricade l’intero territorio del Comune di Patti, è stato convertito in formato shape (.shp).
28
In formato geotiff (.tiff)
29
Tra le altre carte, diverse per scala, data ed origine, ovvero topografiche, catastali, si ricordano
quelle tematiche (geologiche, pedologiche, litologiche, e, di uso del suolo), nonché alcuni modelli digitali del terreno (Digital Elevation Model, DEM) a 30 m., i D.T.M. del Dipartimento Regionale Urbanistica. Un DEM è stato estratto dai dati di livello L1 stereo satellitari del sensore multispettrale ASTER
in orbita dal 1999. La cartografia, DEM e DTM sono stati utilizzati per l’analisi del territorio attuale e
la ricostruzione dell’ambiente antico mediante ulteriore produzione cartografica (carte delle pendenze,
sezioni, profili, carte delle esposizioni, del soleggiamento).
30
Nota del Servizio Archeologico in data 21.07.2010 prot. N. 2503.
31
Tanto più tenendo presenti i fini della tutela, della conservazione e della pianificazione territoriale che la ricerca ha inteso perseguire.
32
Per un esempio di ampio arco cronologico V. Alliata-O. Belvedere-A. Cantoni-G. Cusimano-P. Marescalchi-S. Vassallo, Himera III, 1. Prospezione archeologica nel territorio, cit.
14 (luglio-dicembre 2013)
220
Michele Fasolo
si nel mondo scientifico, grazie a discussione e scambi di esperienze pluridecennali, e
che sono ritenuti efficaci per le ricerche da compiersi nell’ area mediterranea.33
L’attività sul terreno si è svolta in tre campagne: 2010 (tra giugno e novembre),
2011 (tra giugno e novembre), 2012 (tra maggio e ottobre).
Sono rimaste escluse tutte le porzioni del territorio del comune di Patti a visibilità nulla, perché urbanizzate, edificate o distrutte da cave o da altri interventi antropici.
Per ragioni di tempo e di opportunità non sono state sottoposte a prospezione,
dopo alcune verifiche a campione, la fascia a ridosso della spiaggia, estesa da un minimo di 200 ad un massimo di 600 m a settentrione del tracciato autostradale, e gran
parte del fondovalle del torrente Timeto in corrispondenza della cuspide SO del territorio comunale. Riguardo alla prima va rilevata la sua formazione recente a partire
dall’intensificazione dell’occupazione delle campagne pattesi iniziata nel ‘600, con
l’estensione della coltivazione del gelso e della bachicoltura e dalle grandi alluvioni
alla fine dello stesso secolo e anche verso la fine del XIX secolo con un forte sfruttamento agricolo del territorio, che ha determinato un aumento del trasporto dei materiali
detritici da parte dei corsi d’acqua. La fascia, in parte urbanizzata in maniera “spontanea” e attraversata da una viabilità paralitoranea secondaria, presenta una suddivisione
in numerose piccole proprietà, circondate da alte recinzioni, ciascuna in genere con
una villetta, cui non è stato quasi mai concesso accedere. Riguardo alla seconda zona
esclusa dalle ricognizioni risulta ricoperta da una coltre notevole costituita dal conoide
di deiezione del torrente Librizzi.
A fronte di queste esclusioni si è ritenuto di allargare le indagini a porzioni dei
comuni confinanti di Oliveri Montalbano Elicona e Gioiosa Marea quando ciò è stato
richiesto da motivazioni di continuità territoriale nelle ricerche.
Il territorio presenta numerose difficoltà alcune delle quali desumibili dalla seguente tabella (Tab. 1) di distribuzione delle acclività (Fig. 1) che ha conseguenze
rilevanti sull’uso del suolo, le lavorazioni agricole34 e la visibilità delle superfici.
33
O. Belvedere, La ricognizione sul terreno, cit., p. 69. In particolare il Belvedere richiama
alcuni importanti incontri di studio e di approfondimento di aspetti metodologici e applicativi della
prospezione archeologica intensiva in ambiente mediterraneo svoltisi tra i primi anni ottanta e i primi
anni novanta del XX secolo. Per l’incremento di nuovi siti che la ricognizione sistematica determina
rispetto a quelli noti dai dati ricavati dallo spoglio bibliografico L. Quilici-S. Quilici Gigli, «La Carta
archeologica della valle del Sinni dalle premesse alla realizzazione», cit., pp. 30-31.
34
Nel territorio italiano si ritiene in genere, e a maggior ragione dobbiamo pensarlo almeno per
l’età romana, che i terreni con pendenza superiore al 35% non siano suscettibili di proficue lavorazioni
e pertanto vadano lasciati a bosco e a pascolo. Tra il 20 e il 30% vi vengono spesso previste solamente
colture arboree.
14 (luglio-dicembre 2013)
221
La carta archeologica del territorio di Tindari. Aspetti metodologici e operativi...
Tabella 1
Classe
Acclività
Angolo di
scarpa
km2
% territorio comunale
Sup. pianeggianti
0-7%
0-4°
5,66
11,3%
Sup.
pianeggianti
moderatamente inclinate
7-15%
4-8,2°
7,52
15%
Sup. mediamente inclinate
15-20%
8,2-12°
7,17
14,3%
Sup. inclinate
20-30%
12-17°
6,22
12,4%
Sup. fortemente inclinate
30-50%
17-27°
13,68
27,5%
Sup. scoscese e ripide
> 50%
> 27°
9,77
19,5%
Figura 1.
14 (luglio-dicembre 2013)
222
Michele Fasolo
Su un totale di 50,482 km2 di territorio comunale la parte edificata ammonta35
a 11,824 km2. Aggiungendo le aree interessate dal bosco (0,8 km2) e dalla macchia
permanente inaccessibile (7,5 km2) alla luce della tabella soprastante e della Fig. 1 il
territorio che può effettivamente essere sottoposto a ricognizione non supera i 20 km2.
La prospezione ha coperto complessivamente una superficie di circa 18 km2.
Tutto il comprensorio si caratterizza per una fortissima pressione edilizia con
costruzione di sempre nuovi edifici che hanno rimodellato specialmente nell’area tra il
centro abitato di Patti e il Timeto le caratteristiche morfologiche del territorio secondo
un processo che sta trasformando in un unica conurbazione lineare la fascia litoranea
compresa tra Milazzo e Capo d’Orlando. Enorme è la pressione che si avverte intorno
all’area di Tindari,36 ancora non interessata, insieme a porzioni dell’entroterra, da programmi di espansione edilizia.
Anche alcune pratiche agricole, finanziate con risorse pubbliche, hanno provocato notevoli alterazione del paesaggio, con conseguenze a livello idrogeologico, con
la creazione di strade interpoderali e di terrazzamenti per l’impianto di colture, in genere l’oliveto, in zone poco adatte.
Altri fattori condizionano e limitano le attività di prospezione nella nostra zona.
Innanzitutto è da considerare la finestra temporale, molto ristretta, in cui è possibile
effettuare proficuamente le prospezioni intensive: da metà giugno a metà ottobre. E
questo nonostante in genere nell’area mediterranea il periodo che offre le condizioni
di visibilità migliori, con le superfici prive di vegetazione, con i campi arati ma non
seminati, i vigneti fresati, grazie alle prime piogge autunnali, sia ritenuto quello che
va dalla fine dell’estate all’inizio dell’autunno. L’erba nei campi inizia infatti ad essere sfalciata dai proprietari dei terreni, spronati da ordinanze dei comuni, in genere
dalla metà del mese di giugno in poi essendo prima troppo tenera e piena di umidità.
Nei primi 20 giorni di agosto le temperature elevate rendono poco proficua e di fatto
impossibile la ricognizione anche nelle prime ore del giorno. Nel periodo che va dalla
fine dell’estate all’autunno inoltrato l’attività è stata spesso impedita dagli andamenti
meteo-climatici, negli ultimi anni mutati e caratterizzati da abbondanti precipitazioni
a fine estate ed inizio autunno. Nei mesi di settembre-ottobre 2010 i giorni di pioggia
sono stati ad esempio 28 su 61 (con 500 mm totali di pioggia),37 con conseguenze
sulla praticabilità dei campi anche nelle giornate successive non piovose soprattutto
laddove sono affioranti litologie argillose. Nelle vallate, specialmente alle quote più
Il calcolo è stato effettuato sommando in ambiente Gis la superficie dei poligoni in formato
shape riferiti all’edificato presenti nelle porzioni delle sezioni in cui ricade il territorio comunale. I dati
sono stati confrontati e verificati con quelli Istat.
36
Due immagini telerilevate della zona, acquisite in tempi diversi, sono state sottoposte a processo di classificazione automatica e confrontate secondo un metodo di change detection con estrazione
degli edifici più recenti documenta in maniera impressionante il crescere della pressione antropica.
37
Fonte Bollettino agrometeorologico regionale mensile del Servizio Informativo Agrometeorologico Siciliano (Assessorato Risorse Agricole e Alimentari della Regione Siciliana) consultabile
all’indirizzo web http://www.sias.regione.sicilia.it.
35
14 (luglio-dicembre 2013)
La carta archeologica del territorio di Tindari. Aspetti metodologici e operativi...
223
alte, la maggiore umidità asseconda la crescita veloce del manto erboso Già da fine
ottobre i campi risultano in genere ricoperti dalla vegetazione tanto da rendere inutile la prospezione. Vanno inoltre considerate le tempistiche e le modalità imposte da
alcune coltivazioni presenti come gli orti, i vigneti, i seminativi che li rendono accessibili solamente in alcuni periodi. A queste tempistiche delle pratiche agricole si deve
adattare con flessibilità il progredire dei lavori di prospezione comportando, molto
spesso, la rottura della continuità fisiografica delle indagini. Incombono infine sulle
attività di ricognizione i pericoli rappresentati dalla presenza in alcune aree montane e
negli impluvi dei torrenti delle vipere che a fine primavera escono dal letargo e dopo
gli accoppiamenti, che avvengono all’inizio dell’estate, partoriscono tra fine agosto e
la prima quindicina di ottobre. Il pascolo brado dei maiali e le zecche impongono poi
ulteriori tempistiche e cautele.
Le principali lavorazioni del terreno riscontrate nell’area sono l’aratura (poco
diffusa e con profondità non superiori ai 40 cm), l’aratura leggera (con profondità dai
25 ai 30 cm), la fresatura con motozappa (molto diffusa con profondità non superiori
ai 15 cm).
Nelle prospezioni si è tentato di individuare ogni attività umana,38 rintracciandone qualsiasi traccia anche la più labile e sporadica, nella consapevolezza che il paesaggio non è un insieme immobile di siti, monumenti, ma un continuum di relazioni39
spaziali in cui si esprime il vivere umano. Quindi si è posta attenzione anche ai rinvenimenti sporadici, a quelli a bassissima densità esito molte volte di processi post-deposizionali,40 la cui complessità e variabilità si è sempre cercato di riconoscere. Questa
variabilità di presenze ha reso opportuno indicarle nel modo più oggettivo e generico
possibile. Per tale motivo, senza esprimere giudizi interpretativi da rimandare a fasi
di analisi successiva, si è preferito utilizzare, tra i termini che compongono il sistema
di riferimento concettuale dell’attività di prospezione archeologica, la definizione di
“Unità Topografica” invece che di “Sito”41 per indicare le evidenze materiali riscontra-
O. Belvedere, La ricognizione sul terreno, cit., p. 71. Il Belvedere richiama il caso della
prospezione imerese, sottolineando che essa, anche se non condotta con i metodi della off-site archaeology, non è andata solo alla ricerca di siti (intesi come insediamenti stabili), ma alla ricerca di tracce
di attività, anche minime.
39
«Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni.
Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine
di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città,
ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un
lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte
e i festoni che impavesavano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e
il salto dell’adultero che la scavalca all’alba [...]», I. Calvino, Le città invisibili, A. Mondadori, Milano
1995, p. 33.
40
O. Belvedere-A. Burgio-R. M. Cucco, Relazioni tra geomorfologia, processi post-deposizionali e visibilità del suolo nella lettura dei dati di prospezione archeologica, in «Archeologia e calcolatori» 16 (2005), pp. 129-152.
41
Per una definizione di sito S. Plog-F. Plog-W. Wait, Decision Making in Modern Surveys, in
38
14 (luglio-dicembre 2013)
224
Michele Fasolo
te sulla superficie del terreno, sulla scia delle esperienze compiute in Sicilia dal gruppo
di ricerca che ha operato nella chora di Himera.42 Il termine prescelto cerca di corrispondere all’esigenza di tenere distinta la fase di individuazione delle evidenze, di cui
deve essere preservata quanto più possibile l’oggettività, da quelle, successive, interpretative, di caratterizzazione e di definizione tipologica e funzionale, in cui comunque
interviene la valutazione soggettiva dello studioso. Quest’ultimo tenta di ri-conoscere
e di ri-costruire in base alle sue competenze e alle sue esperienze; un processo che non
potrebbe indubbiamente svolgersi correttamente e senza distorsioni mettendo da parte
il presupposto dell’oggettività.
Le Unità Topografiche corrispondono quindi nella carta archeologica finale sia
ad affioramenti di frammenti fittili43 sia a strutture, sia a elementi sporadici di frequentazioni antica, sia infine a segnalazioni di presenze o rinvenimenti rinvenuti in letteratura, negli archivi, o semplicemente appresi da fonte orale.
Riguardo alle Unità Topografiche va sottolineato che si è ormai da tempo consapevoli che non esiste sempre e comunque correlazione certa tra affioramenti di
materiali fittili in superficie e presenza di strutture nel sottosuolo. La dispersione dei
materiali può essere infatti esito sia di processi naturali, sia di processi culturali e
comportamentali.44 Nè può esserci rapporto diretto tra numero dei rinvenimenti e dimensioni della popolazione.45
In moltissimi casi l’identificazione del tipo di presenza archeologica riscontrata
è risultata estremamente complicata o addirittura impossibile46 a causa della varietà dei
materiali individuati e della loro distribuzione sul terreno.
Le Unità Topografiche rinvenute sono state documentate sul campo ed ex post
mediante un’apposita scheda che ha raccolto le informazioni ambientali e archeologiche, improntata a criteri quanto più possibile di massima semplicità, escludendo
descrizioni di tipo qualitativo e iperanalitiche. Nel corso del lavoro la scheda ha subito
«Advances Advances in archaeological method and theory» 1 (1978), pp. 384-421.
42
V. Alliata-O. Belvedere-A. Cantoni-G. Cusimano-P. Marescalchi-S. Vassallo, Himera III,
1. cit.; O. Belvedere, La ricognizione sul terreno, cit.
43
O. Belvedere, La ricognizione di superficie. Bilancio e prospettive, cit., p. 34: «Aree di concentrazione dai limiti ben definibili, che si staccano nettamente dal ‘rumore di fondo’».
44
O. Belvedere, La ricognizione sul terreno, cit., p. 75; M. J. Allen, «Analysing the Landscape:
a Geographical Approach to Archaeological Problems», in A. J. Schofield (ed.), Interpreting artefact
scatters. contributions to ploughzone archaeology, Oxbow Books, Oxford 1991, pp. 39-57. Il Belvedere
riporta per contro però anche «i casi in cui raccolte intrasito, effettuate con il metodo della quadrettatura,
che hanno permesso di distinguere, ad esempio, la pars rusticadi una villa romana dalla pars urbana».
45
O. Belvedere, La ricognizione di superficie. Bilancio e prospettive, cit.
46
Cf. O. Belvedere, La ricognizione sul terreno, cit., pp. 72, 75; Id., La ricognizione di superficie. Bilancio e prospettive, cit. Per i tentativi di classificazione adoperati in studi recenti M. Given-A.
B. Knapp-N. Meyer et al., The Sidney Cyprus Survey Project, in «Journal of Field Archaeology» 26
(1999), pp. 19-39; M. Given-A. B. Knapp (eds.), The Sidney Cyprus Survey Project. Social Approaches
to Regional Archaeological Survey, UCLA Cotsen Institute of Archaeology, Los Angeles, 2003, che
distinguono POSIs (Places of special interest) e SIAs (Special interest areas).
14 (luglio-dicembre 2013)
La carta archeologica del territorio di Tindari. Aspetti metodologici e operativi...
225
alcuni aggiustamenti e perfezionamenti funzionali.
Una prima parte comprende le voci che consentono una localizzazione inequivocabile: di tipo amministrativo (Comune, Provincia, Frazione), toponomastico (con indicazione del toponimo principale ed eventualmente di un microtoponimo secondario
espressi anche in forma dialettale), topografico47 (posizione matematica con le coordinate piane, latitudine e longitudine, del baricentro dell’UT, espresse secondo il sistema di
riferimento Gauss-Boaga,48 quota media sul livello del mare) cartografico (il Foglio IGM
1:25 000, la Sezione della Carta Tecnica della Regione Siciliana, la Carta catastale con
l’indicazione per l’esatta delimitazione areale, di Comune, Foglio e particella.
Nella seconda parte sono raccolte le informazioni relative alla geografia fisica:
l’inquadramento geografico generale49, la posizione, pianeggiante, sommitale, di versante, o di impluvio con le sue varianti,50 l’esposizione, l’andamento del terreno con la
pendenza indicata in percentuale, l’inquadramento geologico con identificazione dei
litotipi presenti, la presenza di faglie e di fenomeni erosivi o di accumulo, le caratteristiche pedologiche del suolo e il suo uso.
Quindi vengono riportate la destinazione urbanistica e le eventuali prescrizioni
del Piano Regolatore Generale del Comune, i vincoli di vario tipo se esistenti. La data
in cui è avvenuta la ricognizione, le condizioni metereologiche e quelle di visibilità
riscontrate sul terreno (secondo una scala che ne articola il grado in cinque classi: Ottimo, Buono, Sufficiente, Scarso, Inaccessibile).
Sono state infine aggiunte la distanza in m da sorgenti note o da corsi d’acqua e
la visibilità, ad un’altezza dal suolo di 1,50 m, delle aree circostanti quantificata in km2
e l’intervisibilità con le altre U.T.
A queste tre parti segue la descrizione del contesto e dell’U.T., posizione all’interno dell’unità di rilevamento, forma, orientamento, estensione lineare e areale, concentrazione e distribuzione dei reperti affioranti con la loro sommaria descrizione e
una datazione in via preliminare per epoche e ove possibile per secoli da sottoporre a
verifica con la successiva classificazione tipologica dei materiali.
Una parte della scheda contiene le informazioni storiche, bibliografiche, se presenti, e quelle orali raccolte tra gli abitanti del luogo, e i rimandi a fotografie, rilievi e
allegati vari.
47
vazione.
La georeferenziazione è uno dei requisiti imprescindibili di ogni intervento di tutela e conser-
A partire dal 27 febbraio 2012 «il Sistema di riferimento geodetico nazionale adottato dalle
amministrazioni italiane è costituito dalla realizzazione ETRF2000 – all’epoca 2008.0 – del Sistema
di riferimento geodetico europeo ETRS89, ottenuta nell’anno 2009 dall’Istituto Geografico Militare,
mediante l’individuazione delle stazioni permanenti l’acquisizione dei dati ed il calcolo della Rete Dinamica Nazionale». Art. 2 Decreto 10 novembre 2011 Adozione del Sistema di riferimento geodetico
nazionale (Gazzetta Ufficiale n. 48 del 27/02/2012 - Supplemento ordinario n. 37).
49
Le ripartizioni territoriali sono state individuate in base a criteri descrittivi: pianura, bassa collina,
alta collina e bassa montagna in base alle tre grandi unità di paesaggio in cui il territorio è suddividibile.
50
Sommità isolata o di crinale a cresta o a dorsale, sella o valico, cresta, tratto intermedio o piede
di versante ecc.
48
14 (luglio-dicembre 2013)
226
Michele Fasolo
La scheda si conclude, se ciò è reso possibile dalla tipologia dei materiali osservati, con una proposta di interpretazione e di inquadramento cronologico.
Tutte le schede di U.T., sono state organizzate, fra le tante opzioni pure possibili,
per unità fisiografiche, individuate nei bacini idrografici. Una volta controllate, sono
state informatizzate.51
Tutte le U.T. la cui estensione è risultata inferiore ai 500 m2, quelle derivanti da
segnalazioni bibliografiche, d’archivio o orali e i rinvenimenti sporadici sono state
rappresentate sulla carta archeologica in maniera puntuale, le altre tramite poligoni
che cercano di riprodurne al meglio l’estensione areale. Si è infatti cercato di calcolare
sempre l’area massima di diffusione dei materiali, valutandone i baricentri e, ove possibile, il punto originario di dispersione.
Hanno partecipato alle prospezioni alternandosi alcuni volontari dell’associazione Sicilia Antica.
Come verificato in esperienze applicative la prospezione ha portato ad un incremento cospicuo delle conoscenze, in particolare all’individuazione di una grande
quantità di U.T. nel nostro caso costituite, in prevalenza, da aree di frammenti fittili che
non erano in precedenza note in letteratura o a seguito di segnalazioni. In soli tre casi
le località erano state oggetto di scavi di frodo.
Il campo, delimitato da recinzioni, muretti a secco, ruscelli o individuato da coltivazioni omogenee è stato considerato in sede progettuale ed esecutiva come l’unità
minima della prospezione ed utilizzato per l’attività sul campo al posto dei rettangoli
convenzionali sovrapposti come griglia della ricognizione alla cartografia di base o
alle immagini aeree o satellitari utilizzate. Tutte le operazioni di posizionamento sono
state effettuate con strumentazione gps.52
I partecipanti alla prospezione (i ricognitori, i fieldwalkers dell’archeologia anglo-americana), di volta in volta mai meno di due e mai più di sette, si sono disposti
sul terreno ad una distanza reciproca che non ha mai superato i 10 m, pur variandola
in relazione all’uso del suolo, alle pendenze, alle diverse colture, alla visibilità, alla
necessità del momento.
La ricognizione si è svolta una sola volta. In poche occasioni sono stati effettuati
in momenti differenti ritorni, determinati da motivi disparati, negli stessi campi già
indagati. Al riguardo si è constatato, anche se ciò può non valere sempre e dappertutto, un miglioramento della campionatura dei reperti e forse l’acquisizione di ulteriori
elementi che hanno reso più sicura l’interpretazione ma non l’identificazione di nuove
U.T. o di nuove fasi cronologiche.
L’intensità applicata nel corso della prospezione è stata elevata e ha influenzato
fortemente il numero di nuove U.T. individuato, 168, che si sono andate ad aggiungere
La spatial technology si sta sempre più trasformando da mezzo di archiviazione e gestione dei
dati in strumento di analisi e interpretazione cf. O. Belvedere, La ricognizione di superficie. Bilancio e
prospettive, cit.
52
Garmin Etrex, Magellan Explorist e Trimble R6 (differenziale).
51
14 (luglio-dicembre 2013)
La carta archeologica del territorio di Tindari. Aspetti metodologici e operativi...
227
alle 39 che erano state ricavate, spesso limitate a poche generiche indicazioni, dallo
spoglio della letteratura scientifica, dagli studi locali e dallo schedario, estremamente
scarno, della Soprintendenza di Messina.
Ogni ricognitore ha coperto ogni giorno una superficie media di 0,05 km2 nel
corso di un’attività quotidiana che in genere non ha mai superato le 4 ore, periodo di
tempo oltre il quale, si è constatato, diminuisce drasticamente l’attenzione, ovvero utilizzando il metodo che quantifica l’intensità misurando il tempo impiegato a indagare
un’unità di superficie, espresso in giorni/uomini/km2, ogni ricognitore ha impiegato in
media 20 giorni per indagare 1 km2.
Anche la produttività della prospezione è da ritenersi alta: ove si utilizzi il metodo di quantificarla attraverso il rapporto tra superficie complessiva ricognita (18 km2)
e rinvenimenti effettuati questi risultano di 9 U.T. ogni km2, una media doppia rispetto
a quella riscontrata nel corso di altre prospezioni nell’area mediterranea.53
Quotidianamente l’estensione della superficie sottoposta a ricognizione da parte
di ciascun partecipante, come anche singolarmente quella di ciascun campo, ha subito
variazioni a seconda delle diverse condizioni di praticabilità e di visibilità delle varie
zone: le pendenze, il tipo di suolo, le coltivazioni, la copertura vegetativa ma anche i
materiali affioranti.
Per comprendere nella loro portata i risultati della prospezione, influenzati dalla
visibilità delle tracce archeologiche sulla superficie del terreno, l’attività di ricognizione è stata accompagnata di pari passo con il progredire dei lavori dalla redazione di
carta della visibilità54 dei suoli utilizzando come base la C.T.R. 1:10 000.
Per indicare i gradi di visibilità è stata costruita, tenendo conto della geomorfologia ma soprattutto ancorandola all’obiettiva copertura vegetale del terreno e a determinati tipi di lavorazione, una scala55 articolata in cinque classi,56 da 0 (inaccessibile) a 5
(visibilità ottima), contraddistinte nell’apposita cartografia tematica da colori diversi,
con le seguenti definizioni:
0 inaccessibile (edificato, sbancamenti, cave, recinzioni, acclività > 50%, incolto con
vegetazione spontanea fitta e intricata);
1 scarso (incolto con copertura erbosa che copre parzialmente le superfici, aree parzialmente boscate);
2 sufficiente (incolto sfalciato, vigneto/oliveto non lavorato da tempo ma sfalciato, pascolo);
3 buono (arati superficialmente o fresati, vigneto/oliveto lavorato di recente);
53
La media è di circa 4,5 x Km2, J. F. Cherry, «Frogs around the Pond: Perspectives in Current
Archaeology Survey Projects», in D. R. Keller-D. W. Rupp (eds.), Archaeological survey in the Mediterranean Area, B.A.R., Oxford 1983, pp. 375-416. Vanno tenute comunque ben presenti le difficoltà
di comparazione di dati ottenuti, anche nell’ambito di una medesima regione cfr. O. Belvedere, La
ricognizione sul terreno, cit., p. 73.
54
Sulla visibilità M.B. Schiffer-A. P. Sullivan-T. C. Klinger, The Design of Archaeological
Survey, in «Wiadomości Archeologiczne» 10 (1978), pp. 6-8.
55
O. Belvedere, La ricognizione sul terreno, cit., p. 73.
56
A volte aggregano condizioni diverse di uso del suolo.
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228
Michele Fasolo
4 ottimo (terreni arati profondamente e successivamente fresati).
In genere è stato possibile percorrere i campi in condizioni sufficienti e scarse,
complessivamente poco favorevoli alla ricerca di superficie.
La consistenza, visibilità e qualità degli affioramenti sono risultati in relazione
diretta con l’uso del suolo e in particolare con le colture e le rispettive pratiche di lavorazione del terreno. Queste ultime comportano differenti gradi distruttivi dei depositi
archeologici. Si fornisce nella tabella di seguito (Tab. 2) la distribuzione percentuale
delle classi di uso del suolo nel comune di Patti con l’indicazione per ciascuna di esse
della percentuale di UT sul totale rinvenuti. Registra delle tendenze: generalmente i
terreni arati, a seminativo o foraggere, ma anche le colture eterogenee, in genere intensive, e sorprendentemente situazioni classificate come parzialmente boscate e incolto
hanno dato buoni risultati. Nessuna UT ha restituito l’agrumeto ormai abbandonato e
non più lavorato.
Tabella 2
Uso suolo
%
UT in %
Urbanizzato tessuto denso
3,06
5,29
+
Urbanizzato tessuto rado
2,5
2,94
+
Seminativo
10,09
13,52
+
Agrumeto
5,33
0
-
Oliveto
38,10
37,64
-
Frutteto
0,95
0
-
Colture eterogenee (con vigneti)
1,04
3,52
+
Bosco
1,48
1,17
-
Parzialmente boscato
2,47
4,70
+
Macchia
14,36
0
-
Pascolo
12,95
10,58
-
Incolto
4,51
20,58
+
Alvei fluviali
2,47
0
-
Visibilità e produttività basse si sono registrate in genere anche nei terreni fresati. Nei vigneti ad esempio dopo lo scasso iniziale dell’impianto che porta, se presenti,
molti materiali fittili in superficie, le fresature ripetute nel corso degli anni non fanno
altro che frammentare sempre di più i reperti, riducendone drasticamente le dimensioni sino a renderli quasi irriconoscibili. E la stessa dinamica si registra nell’oliveto dove
14 (luglio-dicembre 2013)
La carta archeologica del territorio di Tindari. Aspetti metodologici e operativi...
229
a volte l’impianto iniziale con la realizzazione di terrazzamenti risulta particolarmente
distruttivo. Visibilità scadente offrono i pascoli con zone a volte prive completamente
di copertura vegetale ma costipate. Buoni risultati hanno offerto invece i terreni arati
in vista di colture stagionali. Difficoltosa ma a volte con risultati insperati si è rivelata
la prospezione in settori dell’alta collina e della bassa montagna, occupati dal bosco di
roverelle di sugherete.
Sulla visibilità ha inciso infine un fattore antropico: il sospetto e la diffidenza
pervicace da parte degli abitanti dei luoghi, siano esse persone ignoranti o acculturate,
verso ogni attività di ricerca archeologica nei propri terreni, hanno determinato conseguenze negative sull’andamento della ricerca. In alcuni di questi casi l’acquisizione
dei dati è stata parziale, frantumando l’unitarietà dell’osservazione di alcuni comprensori. Su questi atteggiamenti pesano indubbiamente i fallimenti di politiche culturali
incapaci di mettere in atto percorsi di valorizzazione del patrimonio culturale al di
là della dicotomia tra congelamento vincolistico e mummificazione da una parte e,
dall’altro, degrado accompagnato da libera manomissione del tessuto territoriale. Alla
fine, purtroppo, questa dicotomia è prevalsa con conseguenze disastrose.
Figura 2. Manifestazioni esasperate di jus prohibendi l’ingresso nei propri fondi.
Sono stati individuati e posizionati con acquisizione delle coordinate assolute
mediante strumentazione Gps, con successiva conversione e correzione dei dati, circa
6000 frammenti: fittili, ceramici, metalli, ed elementi litici.
I materiali, ove possibile, sono stati identificati, tipologicamente e cronologicamente in base alla forma e agli impasti. I reperti più significativi sotto stati catalogati,
descritti, disegnati sul posto e datati attraverso confronti con i repertori tipologici principali e con le attestazioni da contesti di scavo dell’area, datati stratigraficamente.57
U. Spigo (a cura di), Tindari, 1’area archeologica e 1’Antiquarium, Rebus Ed., Milazzo 2005;
R. Leone-U. Spigo (a cura di), Tyndaris 1, Ricerche nel settore occidentalwe: campagne di scavo 19932004, Assessorato dei Beni Culturali, Palermo, 2008; G. Tigano-L. Borrello-A. L. Lionetti, Terme
Vigliatore-S. Biagio. villa romana. Introduzione alla visita, Assessorato dei Beni Culturali, Palermo,
57
14 (luglio-dicembre 2013)
230
Michele Fasolo
Alcuni tipi di ceramica hanno costituito fossili guida.
Periodi /Secoli e markers ceramici:58
Periodo pre-protostorico (eneolitico; età del bronzo; età del ferro): Impasti
Periodo tardo classico ed ellenistico (fine V a. C.-III a. C.): Vernice nera, ceramica d’uso comune, anfore
Periodo ellenistico-romano (II-I a. C.): Vernice nera, vernice rossa (cd. presigillata), ceramica d’uso comune, anfore
Periodo prima e media età romana imperiale (fine I a.c. - III d. C.): Terra sigillata
italica, Terra sigillata africana A, ceramica d’uso comune, anfore
Periodo tardo antico e bizantino (IV-VII d. C.): Terra sigillata africana C e D,
ceramica d’uso comune, anfore
Periodo medievale: ceramica acroma, invetriata, protomaiolica
Periodo rinascimentale-moderno: ceramica acroma, maiolica, invetriata da cucina.
Tutti i dati raccolti, georeferenziati, sono stati inseriti in una banca dati informatica in forma tabellare e combinati con dati cartografici vettoriali e raster mediante il
software Grass Gis (Geographic Resources Analysis Support System) dando così vita
ad un sistema informativo territoriale informatizzato.
2008; Ead. (a cura di), Mylai II: scavi e ricerche nell’area urbana, 1996-2005, Assessorato dei Beni
Culturali, Sicania, Messina, 2009; G. Tigano-P. Coppolino, L’Antiquarium archeologico di Milazzo,
Sicania, Messina 2011.
58
Ceramica comune: G. Olcese, Ceramiche comuni a Roma e in area romana: produzione, circolazione e tecnologia : tarda età repubblicana-prima età imperiale, S.A.P., Mantova 2003.
Sigillata italica: Conspectus Formarum Terrae Sigillatae Italico Modo Confectae, Habelt, Bonn 1990.
Sigillata africana e ceramica da cucina africana: L. Anselmino-C. Pavolini, «Terra sigillata: Lucerne», in Atlante delle forme ceramiche, I. Ceramica fine romana nel bacino mediterraneo, Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, Istituto della Encilcopedia italiana, Roma 1981, pp. 184-207;
S. Tortorella, «Ceramica da cucina», in Atlante delle forme ceramiche, I. Ceramica fine romana nel
bacino mediterraneo, Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1981, p. 208-227; J. W. Hayes, Late Roman Pottery, The British School at Rome, London
1972; A. Carandini-L. Saguì-S. Tortorella, «Terra sigillata: vasi non decorati o decorati a stampo»,
in Atlante delle forme ceramiche, I. Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, Istituto della
Enciclopedia italiana, Roma 1981, pp. 19-117; M. Bonifay, Etudes sur la céramique romaine tardive
d’Afrique, BAR International Series 1301, Oxford 2004.
Lucerne: D. M. Bailey, A catalogue of the Lamps in the British Museum. Vol. II Roman lamps made
in Italy, British Museum Publications, London 1980
Ceramica altomedievale: L. Saguì (ed.), Ceramica in Italia: VI-VII secolo: atti del convegno in onore di John W. Hayes, Roma, 11-13 maggio 1995, All’Insegna del Giglio, Firenze 1998.
Anfore: C. Vandermersch, Vins et amphores de grande Grèce et de Sicile IVe-IIIe s. avant J.-C.,
Berard, Napoli 1994; E. Will Lyding, Greco-italic Amphoras, in «Hesperia» 51 (1982), pp. 330-356;
C. Panella, «Le anfore italiche del II secolo d. C.», in Amphores romaines et histoire economique: dix
ans de recherche (Actes du colloque de Sienne, 22-24 mai (1986), Roma 1989 (Collection de l’Ecole
Francaise de Rome 114), pp.139-178; Ead., «Le anfore di età imperiale del Mediterraneo occidentale»,
in Céramiques Hellénistiques et Romaines, Les Belles Lettres, Paris 2001, pp.177-275.
14 (luglio-dicembre 2013)
Piero Gazzara
L’area nord-orientale della Sicilia tra gli anni 902 e 965:
vecchie e nuove questioni storiografiche insolute
Discorrendo sulla fine dell’autorità politica e militare dell’Impero romano d’Oriente sulla Sicilia è facile imbattersi in due scuole interpretative diverse che fondano
entrambe le loro tesi sulla conquista musulmana di due centri urbani della Sicilia orientale. Una parte degli storici è propensa ad indicare come fine dell’esperienza siciliana
di Bisanzio il 902,1 anno della cruenta conquista di Taormina, mentre altri spostano tale
termine sessantatre anni dopo, facendola coincidere con la sanguinosa espugnazione
della roccaforte peloritana di Erymata o Rémata (oggi Rometta) avvenuta nel maggio
del 965.2 Mentre un’altra data, quella dell’878, coincidente con la presa musulmana di
Siracusa, è rimasta e rimane tutt’oggi accettata e condivisa da più parti come data utile
solo a scopo didattico per indicare la fine del dominio bizantino sull’Isola.3 Siracusa
in quanto ritenuta la città che ha esercitato da sempre una sorta di supremazia politica
e culturale sulla Magna Grecia prima, e nella provincia romana dopo, oltre ad essere
stata la sede imperiale (dal 663 al 668). Ma, stando agli avvenimenti che si susseguirono dalla presa di Siracusa e sino alla prima metà dell’anno mille, l’Impero di Bisanzio,
in realtà non smise di interessarsi della Sicilia ma investì ingenti risorse militari ed
economiche per riprendersi il controllo dell’Isola. Infatti, lo scontro tra Bisanzio e gli
Arabi per la Sicilia, ovvero per la supremazia marittima nel Mediterraneo centrale,
continuò nel tempo ben oltre la perdita della città aretusea.4
1
Per il 902 si schierano: F. Cardini, Europa e Islam, Bari 2005, p. 34; P. Orsi, Sicilia Bizantina,
Catania 2000, p. 99; G. Romano, Le dominazioni barbariche in Italia (395-1024), Milano 1910, p. 583;
A. Ahmad, Storia della Sicilia islamica, Catania 1977, p. 57; G. Arnaldi, L’Italia e i suoi invasori, Bari
2004, p. 63; C. Azzarà, Le invasioni barbariche, Bologna 1999, p. 133; J. Huré, Storia della Sicilia,
Catania 1997, p. 62; H. Grégoire, «Le dinastie amoriana e macedone, 842-1025», in A. Merola et al.
(a cura di), Storia del mondo Medievale. L’Impero Bizantino, Milano 1978, vol. III, cap. V, p. 165. G.
Tabacco-G. G. Merlo, Medioevo, Milano 2004, vol. VII, p. 112.
2
Per il 965 propendono: F. Maurici, Breve storia degli Arabi in Sicilia, Palermo 2006, p. 53;
S. Correnti, Storia di Sicilia, Milano 1972, p. 81; R. Santoro, I Bizantini, Palermo 2008, p. 31; L.
Gatto, Sicilia medievale, Roma 1992, p. 18; R. Papa Algozino, La Sicilia araba, Catania 1996, p. 43;
M. Canard, «Bisanzio e il mondo musulmano alla metà dell’XI secolo», in A. Merola et al. (a cura di),
Storia del mondo Medievale, L’espansione islamica e la nascita dell’Europa feudale, Milano 1979, vol.
II, cap. IX, p. 307.
3
Vd. M. I. Finley, Storia della Sicilia antica, Bari 2003, pp. 215-216; J. J. Norwich, I Normanni
nel Sud, p. 65; R. S. Lopez, Nascita dell’Europa, Milano 2004, p. 446; H. Pirenne, Maometto e
Carlomagno, Roma 1993, p. 143.
4
Nel 964 la spedizione militare di Niceforo Foca e nel 1040 quella di Giorgio Maniace.
«Mediaeval Sophia». Studi
w w w. m e d i a e v a l s o p h i a . n e t
e ricerche sui saperi medievali
E-Review semestrale dell’Officina di Studi Medievali
14 (luglio-dicembre 2013), pp. 231-240
232
Piero Gazzara
Come vedremo più avanti, cercare di schematizzare la storia in date ed eventi,
seppur a volte risulti necessaria per individuare un ideale spartiacque, una linea virtuale di demarcazione, può assumere connotazioni riduttive soprattutto in una ricerca
storica dove, si può correre il rischio di affossare e impedire il cammino ad altre ricerche che potrebbero arricchire la comprensione di un evento o di una dinamica storica,
come, di converso, potrebbe ridurne l’importanza fino ad allora affermata. Negli ultimi
trent’anni molte prospettive e numerosi dati storici sono stati messi in discussione
dai progressi avvenuti in campo archeologico, epigrafico, numismatico ed archivistico
determinando la continua evoluzione delle nostre conoscenze in campo storiografico.
Perché era importante la Sicilia per l’Impero romano d’Oriente?
Le motivazioni che spinsero gli strateghi di Bisanzio a conquistare l’antica provincia romana di Sicilia erano pressoché le stesse sia per la renovatio imperii di Giustiniano che per le successive azioni militari quali quella organizzata da Niceforo II del
964 o per la leggendaria impresa di Giorgio Maniace del 1038. Indiscusse le ragioni di
prestigio politico, ma le esigenze economiche di riaprire le rotte marittime occidentali,
cioè verso i mercati agricoli dell’Africa settentrionale, della Sicilia e verso quelli minerari della Sardegna e della Spagna, giocarono un ruolo fondamentale nello spingere
gli strateghi giustinianei a pianificare la riconquista degli antichi territori occidentali di
cui gli imperatori di Costantinopoli si ritenevano i legittimi successori.
La Sicilia era stata da sempre una fonte inesauribile di grano. Nel Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, conosciuto come «Cronaca episcopale ravennate di Andrea detto Agnello Ravennate», vissuto tra 800-850 d. C., è riportato un documento
della seconda metà del VII secolo della chiesa ravennate in cui un diacono di nome
Benedetto, Rector delle proprietà della Chiesa in Sicilia, ritorna a Ravenna con diverse
navi cariche di grano siciliano, oltre 50.000 modii e alia legumena et aristae assieme a
vasi d’argento e di oricalco e ben 31.000 solidi aurei: queste quantità di merce preziosa
lasciavano periodicamente la Sicilia ogni anno.5 Nel 546, in piena guerra gotica, Papa
Virgilio rifugiatosi in Sicilia organizzò un eccezionale convoglio navale, carico di grano siciliano e di altre vettovaglie che spedì da Catania a Roma, assediata ed affamata
dai Goti.6 Frumento, olio, vino e altri prodotti agricoli erano la ricchezza dell’Isola.
E per poter sfruttare queste risorse l’Impero bizantino lanciò una massiccia offensiva
militare verso l’Occidente conquistando la fertilissima provincia d’Africa eliminando
per sempre dal Mediterraneo le scorrerie della flotta dei Vandali (534); poi toccò alla
Sicilia (535) e all’Italia, strappate ai Goti dell’est, ed infine al sud della penisola iberica, tolto dalle mani dei Visigoti.
L’attacco ai regni romano barbarici d’Occidente non solo mise in evidenza la perfetta macchina da guerra bizantina che poggiava su un esercito addestrato e notevolmente
riformato con tecniche da guerra innovative, ma fece emergere in modo impressionante
5
Agnellus, Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, XXXIV, 111, O. Holder-Egger (ed.),
Hannoverae 1878 (MGH. Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX), pp. 350-352.
6
Procopius, De Bello Gothico, Lib. III, cap.15.
14 (luglio-dicembre 2013)
L’area nord-orientale della Sicilia tra gli anni 902 e 965: vecchie e nuove questioni...
233
l’assenza di un efficace sistema di difesa territoriale della Sicilia. Solo Siracusa, Palermo,
Messina e Lilibeo potevano contare su un sistema fortificato a difesa del proprio centro
abitato. D’altra parte, cinque secoli di pax romana, dalla sconfitta dei pirati da parte di
Pompeo Magno, nel 67 a. C., alla conquista di Cartagine da parte dei Vandali nel 439 d.
C., avevano costituito il più lungo intervallo di tranquillità nell’area del Mediterraneo.
Celebrata solennemente da Augusto con la vittoria della campagna di Sicilia del 36 a.
C. «[…] mare pacavi a praedonibus»,7 la “pace romana” aveva agevolato lo sviluppo
urbanistico sulle coste siciliane, in particolar modo quella settentrionale dove, numerosi
centri urbani piccoli e medi, quali Haelesa, Mylae, Tyndaris e Haluntium per citarne alcuni, prosperarono per il commercio poiché i loro porti erano toccati dall’affollata rotta
seguita dalle navi annonarie e mercantili da cabotaggio che quotidianamente trasportavano le mercanzie dalla ricca e fertile provincia dell’Africa a Roma.
Ma la restaurazione territoriale voluta da Giustiniano ben presto subì un arretramento fatale. Ad appena sedici anni gran parte delle conquiste del nord della penisola
italiana furono minacciate dai Longobardi che, dal 568 al 751, riuscirono a limitare notevolmente le imprese dei generali Belisario e Narsete, mentre i Visigoti in poco meno
di due decenni rigettarono in mare i bizantini dalla penisola iberica. L’Africa del nord
fu fagocitata dal veloce ed inarrestabile espansionismo islamico del VII secolo. Solo la
Sicilia e una parte dell’Italia meridionale rimasero ancorate più a lungo a Costantinopoli.
All’indomani della conquista giustinianea l’Isola iniziava ad assumere una funzione di ridotto militare, quasi un baluardo estremo, dal quale l’Impero d’Oriente non
intendeva assolutamente ritirarsi. E la necessità di mettere in sicurezza la Sicilia con
opportune misure di difesa, con molta probabilità, dovette farsi largo nelle menti degli
strateghi bizantini in piena guerra gotica, soprattutto quando Totila, re dei Goti, nel 550
invase e saccheggiò una parte della Sicilia. Organizzare le difese e disporre il territorio
ad un nuovo e profondo assetto urbanistico significava trasformare l’Isola in una base
militare dai cui porti la flotta imperiale poteva intervenire tempestivamente su qualunque scenario di guerra nel Mediterraneo occidentale e centrale. L’importanza strategica
ancorché economica era stata sancita dallo stesso Giustiniano nel 537 con la Novella 75:
«[…] semper Sicilia quasi peculiare aliquid commodum imperatoribus accessit».8
Ad appena cento anni dalla riconquista siciliana l’impero bizantino assistette
al sorgere della marina musulmana che operando, in questa prima fase dai porti della
Siria, tagliò le rotte del Mediterraneo, già messe in pericolo dai pirati slavi. Il cuore
stesso dell’Impero sperimentò la gravità del pericolo arabo nel 674 con un blocco navale musulmano, durato quattro anni, davanti alla stessa Costantinopoli. In Sicilia la
minaccia musulmana o saracena si era materializza potentemente solo alcuni anni pri-
7
Gaius Iulius Caesar Octavianus, Res Gestae Divi Augusti, T. Mommsen (ed.), Berlino 1865,
vol. XXV, 1, p. 68. cf. A. Tarwacka, Romans and Pirates. Legal Perspective, Warszawa 2009, cap. IV,
par. 2.1, pp. 72-85.
8
Iustinianus, Novellae, R. Schoell-G. Kroll (eds.), Berlino 1928 e successive edizioni, vol. III;
cf. R. Rizzo, Papa Gregorio Magno e la nobiltà in Sicilia, Palermo 2008, p.120.
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Piero Gazzara
ma, nel 669, a Siracusa con una poderosa flotta proveniente dall’Egitto e con il primo
saccheggio subito dalla città dove gli abitanti furono costretti a cercare rifugio «per
munitissima castra et iuga confugerant montium», come ci ricorda Paolo Diacono9 e
anche un breve inciso del Liber Pontificalis.10 Parlando di questo primo affaccio sullo
scenario siciliano dei saraceni, così Michele Amari riporta:
Vennero d’Alessandria su dugento navi, condotti da Abd-Allah-ibn-Kais irruppero in
Siracusa con molta strage; se non che i cittadini rifuggivansi nelle montagne e nelle più
munite rôcche dell’isola. Dopo un mese, fatto gran cumulo di preda, prese varie terre o
piuttosto battuto il paese qua e là coi cavalli i Musulmani si rimbarcarono. Portaron via,
dicono gli scrittori cristiani, i tesori delle chiese e i bronzi rubati da Costante a Roma.
Dicono i Musulmani che si trovò nel bottino gran copia d’idoli fabbricati di preziosi
metalli e di gemme: e che il Califfo li mandò ai mercati degli idolatri d’India, sperando
che ne conoscessero e pagassero il pregio.11
Fu anche per questa ragione che sotto l’impero di Giustiniano II (685-695), l’Isola fu costituita in Thema (le antiche provincie romane), dotandola di un sistema
amministrativo, economico e, soprattutto, militare in maniera tale da poter sostenere
qualsiasi minaccia esterna ed interna oltre a mantenere un soffocante regime fiscale
che provvedeva a drenare risorse verso Costantinopoli. A partire dall’VIII secolo le
scorrerie musulmane, partendo dalle coste africane e spagnole islamizzate colpirono
incessantemente la Sicilia e continuarono anche dopo lo sbarco pianificato di Capo
Granitola, presso Mazara, nel 827.
La comparsa nelle acque del Mediterraneo delle veloci navi musulmane ripropose, questa volta con una forte accelerazione, un fenomeno urbanistico e sociale che
aveva già colpito durante le terribili devastazioni dei Vandali del V secolo: l’assottigliamento della popolazione residente nei ricchi centri abitati della costa con la conseguente riduzione urbanizzata dell’area antica. Come lo fu la barbara vastitas (440475), così l’attività corsara dei musulmani innescò in Sicilia una serie di modifiche di
vasta portata sia per la durata temporale che per la globalità della popolazione e del
territorio coinvolti, quali: una drastica flessione delle attività nautiche, un ridimensionamento e, in taluni casi, la scomparsa di porti e centri costieri cristiani, un impoverimento diffuso della popolazione residente nelle città costiere e la decadenza del sistema viario romano con lo spostamento verso l’entroterra delle vie di comunicazione.
Di conseguenza si darà impulso alla nascita o al ripopolamento dei siti di altura, adatti
alla difesa e, soprattutto, luoghi dove poter vivere la vita di tutti i giorni in sicurezza.
9
Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, Lib. V, in Corpus Consuetudinum Monasticarum,
Vol I, ed. H. Bethmann-G. Watz, Hannover 1878, p. 301
10
Liber Pontificalis 1, l. XXVIII, c. 137 (ed. L. Duchesne, Paris 1886-92); vedi anche E.
Kislinger, Regionalgeschichte als Quellenproblem: die Chronik von Monembasia und das sizilianische
Demenna: eine historisch-topographische Studie, Vienna 2001, p. 120.
11
M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Firenze 1854, vol. I, p. 99.
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Alle rappresaglie, alle devastazioni delle guerre o dei semplici movimenti degli eserciti, alle improvvise incursioni piratesche nei centri rivieraschi, al timore e alla paura
sia spirituale che fisica, la popolazione reagì emigrando verso luoghi più sicuri. Le
zone litoranee del Mar Tirreno si spopolarono e, in taluni casi, caddero nell’abbandono
completo. Si assistette così ad un lento e graduale processo di trasferimento dell’habitat, una salita verso i vicini luoghi collinari.
Dagli scavi archeologici abbiamo dei riscontri di questo assottigliamento urbano
nonché depauperamento residenziale delle fasce costiere, floride durante l’impero di
Roma, mentre ci tramandano i segni della loro decadenza tra il V e l’VIII secolo. Come
la città di Alesa nella cui agorà, già abbandonata, sono state ritrovate delle sepolture
di epoca bizantina.12 Così nel foro di Taormina. Tindari non è più una fiorente città ma
solo un borgo fortificato. Prima dello sbarco a capo Granitola, le flotte corsare saracene
colpivano i centri della costa con razzie rapide, con il prelievo di gente quasi sempre
giovane con cui alimentare il commercio degli schiavi e con l’imposizione di tributi
e di riscatti, mentre dall’827 oltre alle incursioni provenienti dal mare, le gualdane
saracene giungevano anche dalla terraferma. In questo periodo la Sicilia si presentava
ai nuovi invasori irta di torri e fortezze,13 di paesi potentemente fortificati, incastellati
in cima a rupi scoscese e adatti alla difesa, collegati tra loro da un efficientissimo sistema di comunicazione ottica poggiante su torrette14 sparse nel circondario: non a caso
la conquista musulmana rispetto a quella bizantina, fu lenta e difficile, assumendo in
alcuni casi carattere episodico e di scorreria.15
12
A. Burgio, «Il territorio di Alesa: prime considerazioni sul popolamento di età repubblicana
e alto imperiale», in La Sicilia romana tra Repubblica e alto impero, Atti del Convegno (2006),
Caltanissetta 2007 p. 60.
13
L. Santagati, Storia dei Bizantini di Sicilia, Caltanissetta 2012, p. 229.
14
Sistema ancora oggi leggibile nel territorio della fortezza di Erymata (Rometta) e nella Valle
del Platani con un sistema poggiante su torrette, alcune delle quali utilizzate in epoche successive, vd.
S. Modeo-A. Cutaia, «Il sistema bizantino di difesa e di trasmissione dei messaggi ottici nella Valle del
Platani», in M. Congiu-S. Modeo-M. Arnone (a cura di), La Sicilia bizantina, storia, città e territorio
Caltanissetta 2010. P. Gazzara, Archivio Storico Romettese, Trento 2005, vol. II, p. 92.
15
Sull’incastellamento della Sicilia, una questione ancora tutta aperta, vd. H. Bresc, «Terre e
castelli: le fortificazioni nella Sicilia araba e normanna», in R. Comba-A. Settia (a cura di), Castelli,
Storia e archeologia, Torino 1984, Torino; Id., L’incastellamento in Sicilia, in M. D’Onofrio, I
Normanni popolo d’Europa 1030-1200, catalogo della Mostra, Venezia, 1994; ed ancora F. Maurici,
L’insediamento medievale in Sicilia: problemi e prospettive di ricerca, in «Archeologia Medievale» 22
(1995), pp. 487-500. Ed inoltre: durante il Convegno di Studi sul tema Chiesa bizantina di S.Maria dei
Cerei o San Salvatore di Rometta, tenutosi nel maggio del 2011 in Rometta, il relatore ha evidenziato
i tre livelli insediativi che portarono alla fondazione di Rémata basata sulla rilevazione eseguite da P.
Orsi e da G. Scibona. Rilevazioni sui diversi ipogei esistenti nel territorio e, recentemente, esplorate ed
analizzate dallo stesso dove, ha individuato nel complesso rupestre delle contrade di Sotto S.Giovanni
e di Sottocastello, comprensive di due chiese scavate nella roccia, il primo insediamento riferibile al
V sec. d. C. adoperato come rifugio dalla popolazione sfollata dei centri costieri limitrofi; al secondo
insediamento si deve la costruzione del santuario rupestre, sotto il titolo di S. Giovanni, presso il
Convento dei cappuccini, realizzato sulla sommità del centro abitato: per gli affreschi e per la tipologia
strutturale il santuario si deve collocare tra la prima metà del VI sec. e non oltre la prima metà del VII
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Dal susseguirsi temporale delle conquiste dei centri abitati possiamo notare che
le direttrici d’avanzata dell’esercito arabo puntarono principalmente su due direzioni:
una verso Nord, Palermo (conquistata nel 831) e l’altra verso Sud-Est, cioè verso Siracusa (878). Da Palermo, sia per via terrestre che per via mare, le armate musulmane
assaltarono la cuspide nord-orientale dell’Isola, conquistando Tindari (835), Milazzo
(843) e infine Messina (844). Le fonti arabe, successive alla conquista, registrano gli
innumerevoli tentativi di conquista effettuati contro i centri abitati insistenti nell’area
della dorsale appenninica peloritana e nebroidea, sino a raggiungere la vasta regione
pedemontana dell’Etna. Territori per di più montuosi, coperti da un fitto manto boscoso, che mal si adattavano alle qualità militari della temibile cavalleria saracena, nerbo
delle armate musulmane e fautrice della veloce e vittoriosa espansione dell’Islam. E
non è un caso che proprio in questa vasta porzione di territorio siciliano, immediatamente dopo l’inizio dell’invasione, assurgono d’importanza nelle fonti diverse località,
tra nuove e di antica fondazione, tra le quali tre in particolare mostrano opere difensive
notevoli e difficili da espugnare. Per due di questi siti possediamo con certezza la loro
ubicazione: Taormina sul versante ionico e Rèmata o Erymata identificata con l’odierna Rometta, sul versante tirrenico. Per la terza località, Demenna o Demona, «buona
a difendersi e non ad offendere»16 possediamo diverse ipotesi sulla sua localizzazione:
ultimamente l’attenzione degli studiosi punta fortemente su S. Marco d’Alunzio,17 anche se su questa ci siano indizi18 che portano ad escludere l’opulenta Aluntium romana,
il «Castrum Sancti Marci»19 rifugio fortificato di Ruggero d’Altavilla.
Ancora oggi chi pone mano allo studio dell’ultima parte della conquista musulmana della Sicilia sarà assillato da interrogativi ai quali gli sarà difficile rispondere,
tra questi uno in particolar modo ha costretto gli storici a rispondere in modo incerto:20
è possibile che nei pressi di Messina e di Milazzo, espugnati rispettivamente nel 843
sec. ad opera degli stessi abitanti delle grotte sottostanti; mentre alla fase di stabilizzazione e, quindi
all’organizzazione urbanistica del centro abitato fortificato coincidente con gli anni della resistenza (VIIIX sec.), appartiene la solida Chiesa Bizantina di Gesù e Maria o del S. Salvatore (Atti del Convegno
in fase di pubblicazione).
16
M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Firenze 1858, vol. II, p. 70.
17
Relazione svolta da E. Kislinger in occasione del Convegno di studi Presenze bizantine in
Valdemone tenutosi presso il Monastero di San Filippo di Fragalà nei giorni 3 e 4 agosto 2002, organizzato
dal Centro Studi Filippo di Demenna: lo studioso austriaco ha illustrato il suo percorso di studi che lo
hanno portato ad avallare l’ipotesi di San Marco D’Alunzio. Tesi poggiante anche su alcuni documenti
scoperti alla Geniza del Cairo, una sorta di deposito-archivio di documenti delle sinagoghe. In questa sede
sono state studiate dal Kislinger alcune lettere commerciali provenienti da Demenna, e in particolare da un
gruppo di mercanti del Val Demone che intrattenevano rapporti commerciali con l’Egitto.
18
L. Santagati, Storia dei Bizantini, cit., p. 96.
19
G. Malaterrae, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi
Ducis fratris eius, ed. E. Pontieri, Bologna 1928 (RIS, 2), cap. XVII, p. 34.
20
Solo per citarne alcuni: E. Kislinger, Milazzo – Stelai (880 D. C.): una battaglia navale
cambia luogo in «Archivio Storico Messinese» 69 (1995), p. 9.; L. Catalioto, «Il Medioevo: economia,
politica e società», in F. Mazza (a cura di), Messina. Storia, cultura, economia, Soveria Mannelli (CZ)
2007, p. 71.
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L’area nord-orientale della Sicilia tra gli anni 902 e 965: vecchie e nuove questioni...
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e 844, e quindi sotto il controllo politico e militare dell’emirato di Palermo, potesse
esistere, sino al 902 un luogo come Rometta ancora non sottomesso?
Per Taormina l’interrogativo è meno proponibile: Catania e la fortezza di Aci
saranno ridotte all’obbedienza islamica solo nel 900. La risposta ci viene data direttamente dalle notizie dei numerosi tentativi di conquista messi in atto dall’esercito
musulmano e raccolti dall’Amari:
L’emiro di Sicilia, Khafagia, dopo l’ennesimo tentativo di espugnare Taormina primo
di rebì dell’anno 255 (869) movea sopra Tiracia (forse Randazzo) […] Non si sa ch’ei
la espugnasse.21
Il duecento sessantanove (20 luglio a 9 luglio 883) Mohammed affligea con saccheggi,
cattività, uccisioni i contadi di Rametta e Catania, ma tornava in Palermo tra il giugno e
il luglio dell’ottocento ottantatrè.22
[…] Sewàda-ibn-Mohammed, tornato in Palermo, movea l’anno dugento settantasei (5
maggio 889 a 23 aprile 890) contro Taormina, e invano l’assediava.23
Nell’anno 900, il governatore Abd-Allah uscito da Palermo cavalcò il contado di Taormina; distrusse le vigne; molestò il presidio con avvisaglie; e come l’inverno s’inoltrava, sperando ridurre più agevolmente Catania, città in pianura, la assediò; poi nella primavera successiva (901) apparecchiò più poderosi armamenti […] con l’esercito andò
a porre il campo a Demona; pianto i mangani contrò le mura; le battè per diciassette
giorni; ma risaputo d’un grande sforzo di genti che i Bizantini adunavano in Calabria,
lasciò stare il presidio di Demona […] e volò con l’esercito a Messina.24
Da ciò possiamo ben argomentare che gli Arabi, sino al 902, non esercitavano
il pieno e costante controllo militare sulla totalità del territorio della Sicilia nord-orientale ma controllavano saldamente solo le aree costiere, compresi i centri abitati
come Messina, Milazzo e Tindari e una vasta fascia dell’entroterra, come ad esempio
la ricca e fertile Piana di Milazzo. Nella parte montuosa e collinare, invece, dominata
dalle città, forti nella difesa, quali Rometta, Demenna, Taormina e Aci, territori ancora
non domati, i Musulmani, sino al 900, potevano addentrarsi solo in forze e ben armati,
portare guasti sin sotto le mura delle città-fortezze cristiane e poi, nell’impossibilità
di espugnarle, scorazzare per il contado limitrofo mettendolo a ferro e fuoco. Quindi,
non ci troveremo molto lontani dalla realtà nel pensare alle fortezze cristiane della Val
Demone come ad una sorta di enclave, cioè a dei territori limitati, arroccati sulle cime
più alte ed inaccessibili dei contrafforti dei Nebrodi, protetti e circondati oltre che da
un ambiente asperrimo anche dall’enorme foresta, che come un immenso manto verde
di vegetazione perenne ed inestricabile, si estendeva senza soluzione di continuità, dai
Monti Nettuni (oggi monti Peloritani) sino alle Madonie.
21
M. Amari, Storia dei Musulmani, cit., vol. I, p. 350.
Ivi, p. 423.
23
Ivi, p. 428.
24
Ivi, pp. 70-71.
22
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Foresta Linaria, Magna Foresta, alcuni dei nomi delle grandi aree boschive25
della dorsale appenninica peloritana e nebroidea dove, gli indomiti abitanti del Val
Demone, riottosi ad accettare la presenza islamica vissero liberi nelle grotte o nei
pagliai26 raggruppati talvolta in piccole comunità nei punti più inaccessibili, traendo
tutto quello di cui abbisognavano dalla foresta, luogo di immense risorse spontanee:
vi si poteva cacciare, legnare e fare carbone nonché pascolare gli armenti e ricavare
materiale da costruzione per l’edilizia. Non possiamo dimenticare che in tutta la regione era forte la presenza dei religiosi, soprattutto monaci, che nei cenobi, eremi, laure,
mantenevano i rapporti con il territorio circostante e spronavano alla resistenza contro
l’invasore islamico. Qui citiamo la presenza di S. Elia di Castrogiovanni, detto il Giovane, a Taormina nel 902 ad esortare gli abitanti alla difesa della città,27 mentre nel
962-963 un’intera famiglia di monaci, passati poi agli onori degli altari, S. Cristoforo
di Collesano, la moglie Calì e i due figli, S. Saba e S. Macario,28 soggiornarono per un
breve periodo a Rometta nell’attesa di continuare il viaggio verso la libera Calabria.
Quindi per Messina si può ipotizzare che sino al 902, essendo vicina alle coste calabresi, controllate dalla flotta bizantina, non fosse tenuta in considerazione strategica
e, quindi dopo essere stata conquistata, ridotta a città tributaria, ma sempre alla mercé
degli eserciti arabi che vi potevano entrare in qualsiasi momento. Una sorta di status
di “città aperta” oltre che di frontiera. Così lo fu nell’immediatezza del 902, quando
l’energico Ibraim a capo di un poderoso esercito giunse a Messina e da qui attraversò
lo Stretto e dopo aver conquistato Reggio con un massacro indicibile ritornò su Messina dove, era appena giunta una squadra navale bizantina: «[…] sapendo arrivata da
Costantinopoli a Messina un’armata greca: e la coglie nel porto; le prende trenta navi;
fa diroccar le mura della città, per castigo o cautela».29
Dunque nel 900, stando alle fonti, abbiamo un vasto territorio della Sicilia
nord-orientale con grossi e piccoli centri abitati, muniti di opere difensive, non ancora
occupati dagli eserciti musulmani e fedeli all’Impero romano d’Oriente. E su queste
città-fortezze si abbatté la furia devastatrice del terribile Ibraim che a capo di un numeroso esercito intraprese una vasta controffensiva nei confronti delle ultime città libere.
Catania (il suo nome verrà arabizzato in Madi-nat al-fi-l, la città dell’elefante) cadde nel
900 e nel 902 Taormina fu conquistata con le armi. Rometta e Demenna assieme alle
25
H. Bresc, Un monde méditerranéen. Economie et société en Sicilie. 1300-1450, Roma 1986.
Data l’eccezionalità della condizione degli insediamenti è facile supporre che la tipologia dei
ricoveri abitativi fosse costituita da abitazioni scavate negli affranti rocciosi o capanne pagliai: strutture
temporanee in legno con coperture in canne o di paglia. Vd. S. Pirrotta, Il Monastero di san Filippo di
Fragalà, secoli XI-XV, Palermo 2008, p. 173.
27
C. Martorana, Seguito della risposta al sac. Nicolò Buscemi, in «Giornale di scienze, lettere
e arti per la Sicilia» 45/13 (1834), p. 137.
28
Orestes Hierosolymitanus, Historia et laudes SS. Sabae et Macarii iuniorum e Sicilia auctore
Oreste Patriarca Hierosolymitano, a cura di I. Cozza-Luzi, Roma 1893; Id., Vies des SS. Christophe et
Macaire in Analecta Bollandiana, Tomo XII, Bruxelles 1893, pp. 317-318.
29
M. Amari, Storia dei Musulmani, cit., vol. I, p. 72.
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altre fortezze si arresero e le loro mura diroccate. Dopo la presa di Taormina e la resa
di tutti i centri fortificati della resistenza siciliana del Val Demone si può affermare che
fu portata a compimento la conquista totale dell’Isola da parte dei Musulmani e sembra
terminare lo scontro sanguinoso tra l’Islam e Bisanzio per il possesso della Sicilia.30
Ma nel 962-965 le fonti31 ritornano sugli stessi luoghi a descriverci degli eventi
che hanno come protagoniste nuovamente i centri di Demenna, Taormina e Rometta.
Quindi ad una prima lettura è da supporre che l’area montana della cuspide nord-orientale non sia stata del tutto ridotta all’obbedienza da parte dell’emirato di Sicilia. Invece, è immaginabile che questi centri, dopo il 902, siano diventati, negli anni successivi, tributari dei Musulmani. E a questa conclusione sembra portarci la testimonianza
successiva di Goffredo Malaterra32 quando a proposito dello sbarco dei Normanni in
Sicilia nel 1060, afferma: «Hic Christiani, in valle Deminae manentes, sub Sarracenis
tributarii erant». Da un’altra fonte, inclusa nel Sirat Giawdhar, cogliamo un’ulteriore
notizia in tal senso: si tratta di una lettera inviata dal quarto Califfo Fatimida dell’Ifriqiya, al-Muizz, all’emiro siciliano, Ahmad ibn al-Hasan dove, al Muizz prega Iddio
«affinché le genti di Ratmah e Tabarmin, di cui ci servivamo per il taglio del legno,
ribellatesi possano subire presto un castigo esemplare».33 Con molta probabilità agli
abitanti dei centri cristiani del Val Demone che si erano arresi, e questo lo sarà ad
esempio per Rometta e Demenna, fu concesso di pagare i tributi: la giziah (imposta
personale o testatico) e la kharag (fondiaria), corrisposti anche in natura. Con i tributi
le popolazioni cristiane potevano conservare la libertà e i beni con il diritto di avere
propri giudici e proprie leggi. Per Taormina è probabile che dopo lo sterminio della
sua popolazione nel 902 gli stessi arabi permisero un suo ripopolamento con genti di
fede cristiana che con il passar del tempo (dal 902 al 962) divennero la fazione maggioritaria rispetto ad un’eventuale presenza araba. La notizia riportata nel documento
di al-Muizz sul taglio del legname ci conferma ulteriormente lo sfruttamento su scala
industriale delle foreste siciliane che, a partire dagli Arabi, verrà condotto indistintamente sino al XIX sec. comportando la scomparsa di intere aree boschive. Uno storico
contemporaneo, Maurice Lombard, ha ipotizzato che dietro l’invasione musulmana
ci sia stato il preciso obiettivo di impadronirsi delle ingenti risorse di legname della
Sicilia, materia prima per gli arsenali navali dell’Islam.34
Quindi si parla di rivolta, forse in conseguenza di un eccessivo carico dei tributi
30
Ivi, p. 85 e ss.
Ibn ‘Al Atir (1160-1233), ‘An Nuwayri (1278-1332), Muhammad ‘Ibn ‘Haldun (1332-?)
Yaqut (1178-?), Codices Cryptenses (X sec. d. C.), Codice Vaticano 1912 (X sec. d. C.), Codice
Parigino 920 (sec. X-XI sec. d. C.) e Cronica di Cambridge (XI-XII sec. d. C.) in P. Gazzara, Archivio
Storico Romettese, cit., pp. 23-44.
32
G. Malaterrae, De rebus gestis Rogerii, cit., cap. II, c. XIV, p. 55.
33
U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, pp. 29-30.
34
M. Lombard, «Arsenaux et bois de marine dans la Méditarranée musulmane (VII-XI siècles)»,
in Le navire et l’économie dans la Méditarranée musulmane. Travaux du II° Colloque d’histoire
marittime, Paris 1958, pp. 54-106.
31
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Piero Gazzara
da versare all’erario musulmano dell’emirato di Palermo che spinse le popolazioni di
alcune città siciliane a prendere le armi e sperare in un aiuto dell’Impero bizantino. Gli
aiuti arrivarono sul finire del 964: troppo in ritardo per Taormina che era stata costretta
alla resa nel dicembre di due anni prima. Un numeroso corpo di spedizione bizantino
sbarcò sulle spiagge di Messina e senza indugiare attaccò l’esercito musulmano all’assedio di Rometta. La battaglia che ne seguì fu cruenta e sino alla fine nessuna delle due
parti riusciva a prevalere sull’altra fino a quando il comandante greco rimase ucciso
nello scontro. Fu il segnale della disfatta imperiale: oltre diecimila soldati greci rimasero sul campo di battaglia, mentre molti furono presi prigionieri. La fortezza peloritana resistette altri sette mesi subendo un totale e duro assedio: alla fine uscirono dalla
roccaforte le donne e i bambini superstiti che vennero accolti nel campo saraceno,
mentre gli ultimi uomini si rinserrarono dentro la città assediata in attesa dell’ultimo
assalto dei saraceni che avvenne la mattina del cinque maggio del 965. La città ribelle,
ultimo focolaio di resistenza, fu saccheggiata e data alle fiamme.
Con la caduta di Erymata finiva di fatto la rivendicazione ufficiale da parte di Bisanzio di intervenire militarmente in Sicilia con il precipuo scopo di soccorrere le città dove
ancora esistevano popolazioni che riconoscevano l’autorità dell’imperatore bizantino.
Ma sulle alture delle montagne e negli anfratti rocciosi, all’ombra della “Grande
Foresta” e lontano dalle grandi vie interne di attraversamento dei monti Nebrodi, intere
comunità di stirpe siceliota e latina, sopravvissero senza sottostare all’invasore straniero, libere ed autonome, dove le gualdane musulmane non rischiavano di inoltrarsi
perché quei luoghi erano abitati dai Demoni Cristiani.
14 (luglio-dicembre 2013)
Michele Manfredi Gigliotti
Demenna nella letteratura arabo-sicula
‘Al-Sharîf ‘al-Idrîsî,1 nella sua opera ‘Al kitâb nuzhat ‘al muśtâq fî ihtîrâq ‘al
‘afâq,2 rititolata dagli eruditi arabi ‘Al kitâb ‘al-Rudjâri,3 annota, fra l’altro, le distanze
geografiche tra alcuni toponimi della Sicilia. Di una distanza in particolare ci occuperemo in questa che va considerata alla stregua di una breve animadversio al testo.
L’autore, parlando di Galati Mamertino, afferma: «Galati, difendevole fortilizio tra
eccelse montagne, è popolato, prosperoso; ha terre da seminagione e bestiame; vi si
coltiva di molto lino [in prati] irrigui». Prosegue subito dopo aggiungendo: «Di qui
alla kanîsat Śant Mârkû sette miglia4 tra ponente e tramontana».
«Kanîsat Śant Mârkû» si traduce con la “Chiesa di San Marco”, proposizione
nella quale, kanîsat rappresenta la nostra incognita, mentre Śant Mârkû si identifica,
pacificamente, con San Marco d’Alunzio.
Abbiamo percorso la strada da Galati Mamertino tra «ponente e tramontana» ossia
la Strada Provinciale 157,5 misurando la distanza chilometrica con un apparecchio VDO.
Il suo nome per intero era: ‘Abû Abd ‘Allâh Muhammad ‘ibn Muhammad ‘ibn ‘abd ‘Allâh
‘ibn ‘Idrîs. Discendente dal Profeta, come attesta il suo nome, era nato nel Maghreb, a Ceuta, e aveva
compiuto gli studi in Spagna, nella Cordoba degli Almoravidi (‘al-Muwahhidûn: “coloro che affermano
l’unicità di Dio”). Della sua vita si conosce pochissimo, quasi niente e, a conferma di ciò, non si sa
neppure il luogo della sua morte, ma solo l’anno, il 1165. Morì ricco di gloria e di averi, donatigli da
Ruggero II per ricompensarne la geniale fatica. Medico e geografo, aveva iniziato a lavorare alla Corte
siciliana sin dai primordi del 1140, rapito, come era accaduto a tanti altri, dal “fascino” degli Altavilla.
2
Letteralmente: Il libro del sollazzo per chi si diletta di girare il mondo.
3
Il libro di re Ruggero. L’opera era stata commissionata da Ruggero II allo studioso arabo, il
quale la ultimò appena cinque settimane prima che Ruggero morisse a Palermo il 26 febbraio 1154. Il
titolo posticcio, in quanto postumo e, soprattutto, in quanto arbitrario, come spesso avviene per i termini
corrotti, ha avuto maggiore fortuna di quello originale, tanto che oggi non v’è alcuno che, riferendosi a
tale opera, non la indichi con il titolo de Il libro di re Ruggero.
4
’Al-Idrîsî esprime le distanze geografiche solitamente in miglia arabiche (un miglio arabico
misura all’incirca millenovecentottanta metri, cinquecento in più sia rispetto a quello romano [m.
14.810] sia a quello siciliano, unificato nel 1809 in metri 1.487) e qualche rara volta in miglia franche
(leghe) che sono estese il triplo delle prime (all’incirca, quindi, cinquemilanovecentoquaranta metri).
Per tali unità di misura ci siamo riferiti agli studi ad hoc di C. A. Nallino e C. Andolina, entrambi
riportati da L. Santagati, Viabilità e topografia della Sicilia Antica. La Sicilia del 1720, vol. I, Regione
Siciliana Assessorato dei BB.CC.AA. e della P.I., Caltanissetta 2006.
5
Data la situazione dei luoghi, riteniamo che la strada da Galati a San Marco coincidesse, per
la maggior parte del suo tracciato, con la S.P. 157, almeno da Galati a Frazzanò. Da quest’ultimo
centro, il tracciato stradale, che poi raggiungeva San Marco d’Alunzio, “diverticolava”, attraverso
le montagne, verso ovest. Per la ricostruzione delle arterie viarie locali riferibile all’epoca, di cui ci
1
«Mediaeval Sophia». Studi
w w w. m e d i a e v a l s o p h i a . n e t
e ricerche sui saperi medievali
E-Review semestrale dell’Officina di Studi Medievali
14 (luglio-dicembre 2013), pp. 241-252
242
Michele Manfredi Gigliotti
La distanza di sette miglia franche (leghe), corrispondenti a circa 40 chilometri,
ci avrebbe condotto molto al di fuori del raggio topografico interessato, addirittura
oltre il successivo toponimo considerato da Idrisi. Al contrario, alla distanza di 7 miglia arabiche, corrispondenti a circa 13,860 chilometri, abbiamo rinvenuto il bivio che
dalla S.P. 157 conduce al Monastero di San Filippo di Demenna.6
Più precisamente, la distanza riportata da ‘al-Idrîsî, commisurata in miglia arabiche, corrisponde a circa 13,860 chilometri, mentre quella da noi verificata è di 10,900
chilometri, a cui vanno aggiunti circa 1,500 chilometri dal bivio fino al monastero, per
una distanza complessiva, così, di circa 12,400 chilometri, che ci fa tranquillamente
concludere per una assoluta coincidenza tra il dato escerpto dalla letteratura di riferimento e quello riscontrato in loco, tenuto conto, altresì, di una probabile, lieve diversità di percorso tra ora e allora.
Secondo la lezione tramandataci da Idrisi, dunque, San Filippo di Demenna o di
Militiro o di Fragalà è la «Chiesa di San Marco».
L’inciso non lascia adito ad alcun dubbio per ciò che riguarda San Marco, essendo pacifico che tale toponimo altro non possa essere se non l’odierna San Marco
d’Alunzio. La stessa cosa non può dirsi quando si parla di San Filippo di Demenna
con tutte le varianti che abbiamo riportato alla nota contrassegnata dal n. 6. Dicendo,
infatti, San Filippo di Demenna, il riferimento di specificazione può, ambivalentemente, riferirsi sia alla circoscrizione amministrativa del Valdemone, sia alla città di
Demenna. La maggior parte degli autori arabi – e Sharîf ‘al-Idrîsî non sfugge alla
regola – adopera indifferentemente il termine íqlîm (corrispondente al greco clivma)
sia per indicare la “provincia”, come avviene spesso per Demona, sia per indicare il
“distretto” o il “comune”, come avviene per Sciacca e Siracusa.7
stiamo occupando, raccomandiamo lo studio di S. Pirrotti, «Un itinerario normanno nel Valdemone»,
in Nuove ricerche sul Valdemone Medievale, Edizioni del Rotary Club, Sant’Agata di Militello 2005.
La Pirrotti attesta che nei pressi di Galati Mamertino era presente un trivio detto “del Mueli” (oggi, la
denominazione toponomastica persiste nel toponimo Pizzo Mueli), da cui si dipartiva la strada per San
Marco d’Alunzio, San Fratello, Caronia. Cf. S. Cusa, I diplomi greci ed arabi di Sicilia pubblicati nel
testo originale, tradotti ed illustrati, Palermo 1868-1882 e G. Spata, Le pergamene greche esistenti nel
grande archivio di Palermo, Palermo 1862, i quali riportano un documento retrocalendato al 1094 in cui
sono citate due arterie viarie: ovdov~ tou` galavtou (strada di Galati) e triovdiou mouhvlh (trivio di Mueli).
6
Il Monastero è variamente attestato nelle fonti letterarie tràdite: San Filippo di Demenna, di
Demina, di Demona, di Demanna, di Dimnah. Ma anche San Filippo di Fragalà (che è la denominazione,
oggi, corrente), di Fargala, di Fragala, di Fragalla, di Fargara, di Falgara, di Falcara, di Fargola. Fragalà:
noi riteniamo che tale denominazione derivi dalla corruzione di un termine della lingua araba: faràg ‘al
- ‘Allâh, ossia “la gioia di ‘Allah”. Del toponimo si conosce anche una aggettivazione. In una bolla di
papa Alessandro VI si parla, infatti, di un priorem in monasteriis Sancti Philippi Fragalatis. Ci è nota,
infine, una terza, e ultima, denominazione: San Filippo di Melitiro con le seguenti varianti: Militiro,
Militetu, Miliura, Miliato. Tale ultima apposizione si riferisce ad un casale allocato nella zona ed alla
omonima contrada. In un diploma di Ruggero il Granconte del 1090, si rinviene, anche, San Filippo di
Demina in Melitiro.
7
Al vaglio dell’esame storico-geografico, le notizie tramandate da ‘Al-‘Idrîsî sono, per la
maggior parte, oggettivamente riscontrate. Sorprende, per questo, che l’Autore, così attento e puntuale
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Demenna nella letteratura arabo-sicula
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Che San Filippo sia posto nel Valdemone non può seriamente revocarsi in dubbio.
È necessario, al contrario, riscontrare il dato geografico allorché si parla di Demenna, Demina o Demona come distretto o comune. Questo toponimo, con tutte le varianti
relative, a quale comune corrisponde? Dire che San Filippo è «di Demenna» o di «San
Marco» equivale a dire che Demenna e San Marco sono le medesime entità territoriali?
Riferendoci agli autori arabi, dobbiamo precisare che essi usano, ambivalentemente, sia il termine Demona che l’altro, San Marco,8 con una inclinazione preferenziale, per la maggior parte di essi, per Demona.9
Così, ‘An Nuwajri, nella sua opera richiamata, non nomina San Marco ma, per
due volte, nomina e trascrive «Demona», sebbene egli sia vissuto a cavallo tra il duecento e il trecento, essendo nato il 1278 e morto nel 1332, ossia in un’epoca nella quale
il centro si chiamava già San Marco da almeno due secoli. La trascrizione dei diplomi
che contengono riferimenti al toponimo, anche se necessariamente effettuata per relationem e a campione, potrà dare indicazioni utili verso la soluzione del problema.
Vediamone qualcuno:
A) Palermo 1192, 26 dicembre, Ind. XI. Tancredi, re di Sicilia e altro, conferma
libertà ed esenzioni accordate dai suoi predecessori, a Pancrazio di San Filippo di Valle
Demena;
B) Naso, novembre 1220, Ind. VIII. Parisio, arcidiacono di Messina, riconosce il
diritto su alcune terre di Naso della Chiesa di San Filippo di Demina;
C) Randazzo 1273, 7 dicembre, Ind. II. Alessandro di Bonsignoro vende due
case con orto a Pachimio abate di San Filippo di Demina;
D) Messina 1339, gennaro 24, Ind. VIII. Quietanza rilasciata da Leone de Cumissali da Taormina ad Annikio Longo, abate del Monastero di San Filippo di Valdemona;
E) Randazzo 1340, luglio 28, Ind. VIII. Anichio viene definito «venerabilis abnella tradizione di dati anche di minore importanza, abbia, per un verso, usato il termine ‘iqlîm in
modo assolutamente indiscriminato e, per altro verso, non abbia, addirittura, mai fatto alcun cenno alla
tripartizione amministrativa dell’Isola.
8
’Al-‘Idrîsî, nella sua opera fondamentale, nomina, una sola volta il Val di Demona e cinque
volte il toponimo San Marco. Questa predilezione dell’autore per San Marco è, a nostro parere, riferibile
al sentimento di devozione e gratitudine che Idrisi ha voluto esternare coram populo agli Altavilla e,
in particolare, al suo mecenate, Ruggero II, il cui padre, Ruggero il Granconte, e il cui zio, Roberto il
Guiscardo, avevano denominato il luogo in tale modo, in ricordo di San Marco Argentano, in Calabria,
da cui aveva preso il via la loro fortunata conquista del Meridione d’Italia e dell’Isola.
9
’An-Nuwajri (1278-1332), nel Nihâjat ‘al ‘arib non nomina mai San Marco, mentre nomina
Demona due volte; ‘Ibn haldûn (1332) nel Kitâb ‘al-‘ibr, nomina per tre volte solo Demona; Yaqût
(1178), in Mu’gàm ‘al-buldân, nomina una sola volta Demona e un’altra volta la nomina nell’altra sua
opera Mârasîd; ‘Ad Dimiśqî (m.1327), in Nuhbat ‘ad dahr, nomina una sola volta Demona; ‘Al‘Umarî
(1300-1348), nel Masâlik ‘al ‘absâr, nomina, uno dopo l’altro, testualmente, «Il castel di Demona,
San Marco», come se fossero o località diverse o come se volesse spiegare a quale centro, a lui coevo,
corrispondesse il castel di Demona. Più precisamente, troviamo nell’elenco delle rocche della Sicilia, la
seguente sequenza: «Il castel di Tusa, la rocca di Qal’at ‘al Qawârib, il castel di Demona, San Marco, il
castel di Naso, il castel di Patti, il castel di Milazzo […]» e così via di seguito; Ibn ‘al ‘atir (1160-1233),
nel suo Kâmil ‘at tawârîh, nomina per due volte Demona.
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Michele Manfredi Gigliotti
bas Sancti Philippi de Valle Demine»;
F) Monastero di San Filippo 1342, settembre 15, Ind. XI. Guglielmo, figlio di
Bartolomeo di Crasa, del casale di Frazzano, confessa di essere villano ascrittizio del
Monastero Sancti Philippi de Valle Demine. La circostanza assume notevole importanza
perché la superiore confessione avviene dinanzi a Falcone de Maclì, judice terre Sancti
Marci e, quindi, nell’esercizio del suo ufficio giurisdizionale sulle terre del Monastero;
G) Re Guglielmo (manca il locus editionis) nel mese di aprile 1187, Ind. V, concede alcune terre a Pancrazio, abate di San Filippo di Demina;
H) Messina 1168, 18 gennaro, Ind. I. Guglielmo II e Margherita, sua madre,
permettono e concedono licenza di pascipascolo per 2000 pecore, 100 giumenti, 200
vacche e 100 porci a favore del Monastero di San Filippo di Demina;
I) Conte Ruggero (manca, anche qui, il locus) nel mese di giugno 1090, Ind.
XIII, concede totale esenzione per tutti i beni del Monastero a Gregorio, abate di San
Filippo di Demina in Melitiro;
L) Conte Ruggero nel 1090 concede esenzione da tutti i dazi e angarie alla Chiesa di San Filippo di Demina;
M) Margherita, regina di Sicilia (manca il locus) nel mese di novembre 1175
concede a Luca, abate di San Filippo di Melitiro, il diritto della canna per la misurazione dei panni e quello della caldara per le carni. Nel corpo del documento è dato
leggere: «Da undi secundu lu misi di novembre, tu honoratu Fratri Luca venisti a Nuy
in Palermu, Abbati di lu munasteriu di Santu Philippu; essendo in lu locu di Militiru in
pressu di la terra di Sanctu Marcu, in la Valli di Demina di la terra di la nostra dota»;
N) Randazzo 1441, 20 maggio, Ind. IV. Matteo Camayrano, giudice di Randazzo, ad istanza di Marco di Notarleone, abate del Monastero di San Filippo di Falgara
Vallis Demine rende pubblica una cedola della Corte Capitaniale con cui si conferisce
incarico al frate Blasio de Blasio di tradurre in latino i diplomi greci del suddetto Monastero. In un luogo del documento è dato leggere:
Venerabilis frater Marcus de Notario Leone, humilis Abbas Monasterii Sancti Philippi
de Falgara Vallisdemine presens, coram nobili iudice Iohanne Russo, tamquam iudice
terre Sancti Marcii et casalium, ubi dictum Monasterium fuit et est, nec non iudice terre
Randacii sic suam exposicionem caritativam coram eo exposuit et narravit dicens, quod,
cum idem Frater Marcus Abbas Monasterii antedicti habeat, teneat et possideat certa
ipsius Monasterii privilegia in numero septem factiencia ad opus Monasterii ipsius […];
O) Conte Ruggero, il I giugno 1090 concede a Gregorio esenzione da ogni secolare e chiesastica autorità per i beni del Monastero di San Filippo di Demina in Melitiro affermando: «[…] datum ad te Abbatem Gregorium et ad tuos Monachos habitantes
nunc et in futurum habitaturos Monasterium Sancti et Gloriosi et Miraculosi Apostoli
Philippi, situm in territorio demeno, in loco nominato Melitiro […]»;
P) San Filippo di Fragalà, 2 aprile 1510. Transunto di un privilegio di re Ruggero
del 20 marzo 1146 in cui, all’epigrafe, si legge: «Abbatia Sancti Philippi de Fargala
Vallis Deminis, alias de Militiro, prope casale Mirti et Frazano, ordinis Sancti Basilii
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de subditis Archimandritatus».
A conclusione di quanto sopra riportato, crediamo di potere ragionevolmente
affermare che nei luoghi letterari in cui San Filippo viene definito «di» o «in» Valle
Demena, Valisdemona e similari, il riferimento sia effettuato alla circoscrizione amministrativa regionale del Valdemone,10 mentre, quando viene definito solo «di» Demina,
Demona, Demenna e similari, il riferimento venga effettuato alla città di Demenna,
quale sua pertinenza feudale o patrimoniale.
Se non fosse così non avrebbe, in verità, alcun senso l’inciso «San Filippo di
Demina in Melitiro»: in tale espressione, «di Demina» indica l’appartenenza e «in
Melitiro» l’ubicazione.
La denominazione “Demona” (centro urbano), con tutte le varianti sopra riportate, e “Valdemone” (circoscrizione amministrativa), anche qui con tutte le varianti già
viste, rappresenta, secondo la teoria più accreditata e verosimile, un etnonimico.
Kislinger sostiene che Demenna è il nome assunto da San Marco d’Alunzio a
seguito di un importante incremento demografico ad opera di una popolazione greca.
Nota, infatti, lo studioso austriaco che il nome di Alunzio (Haluntium) scompare nel
secolo VI e circa trent’anni dopo tale scomparsa nasce il nuovo toponimo di Demenna.11
Gli altri due valli, in cui era divisa la Sicilia, erano il Val di Mazara e il Val di Noto, almeno
sino all’anno 1812, in cui l’isola venne divisa in 23 Distretti (Messina, Castroreale, Patti, Mistretta,
Cefalù, Termini, Palermo, Alcamo, Trapani, Mazara, Sciacca, Bivona, Girgenti, Modica, Terranova,
Noto, Siragusa, Catania, Nicosia, Caltagirone, Piazza, Caltanissetta, Corleone), mentre nell’anno 1817
venne divisa in sette Valli (Palermo, Messina, Catania, Siragusa, Caltanissetta, Girgenti, Trapani). Per
un elenco dettagliato dei comuni ricompresi in ciascun Vallo, vd. F. Maggiore Perni, La popolazione
della Sicilia e di Palermo nel secolo XIX, Palermo 1897. In via esemplificativa, ricordiamo alcuni dei
maggiori centri abitati dei tre Valli: a) In Val di Mazara, esteso per kmq 10654: Palermo, Castellammare,
Trapani, Marsala, Mazzara, Sciacca, Girgenti, Licata, Naro, Bivona, Polizzi, Vicari, Caccamo, Termini;
b) In Valdemone, esteso per kmq. 6498: Cefalù, Messina, Pollina, Castelbuono, Geraci, Nicosia, Traina
(Troina), Motta, Taormina, Limina, Fiumedinisi; c) In Val di Noto, esteso per kmq. 8484: Catania,
Augusta, Siracusa, Pachino, Scoglitti, Terranova, Agira, Piazza, Mazzarino.
Non, dunque, la Valdemone, la Val di Mazara, la Val di Noto, ma “il” per tutti e tre i Valli. Anche
nella lingua latina esiste, almeno, una tricotomia: vallis (femminile: “valle”); vallum (neutro: “vallo”,
“trincea”); vallus (maschile: “palo di sostegno delle viti”). Riferito alla tripartizione isolana, il termine,
è ovvio, non viene usato in senso oro-geografico, bensì in senso tecnico e, più precisamente, giuridicoamministrativo. L’etimo della parola è arabo (Wayla, spesse volte latinizzato, anche in molti documenti
protocollari, in vallis) e significa “governo”, “prefettura”, “provincia”. La tripartizione sopra riportata
è comunemente attribuita agli Arabi, anche se non sono certamente pochi gli studiosi (Michele Amari,
capo fila) che su tale paternità avanzano forti dubbi puntellandoli con l’assoluta assenza di documenti,
soprattutto legislativi, che comprovino la veridicità storica di tale credenza. A nostro modo di vedere, la
semplice mancanza di un supporto cartaceo non può annichilire una tradizione millenaria che vuole la
tripartizione amministrativa della Sicilia in valli opera degli Arabi.
11
E. Kislinger, Monumenti e testimonianze greco bizantine di San Marco d’Alunzio, Sant’Agata
Militello 1995, osserva, con puntualità, che il nome del centro, Alunzio, non viene più riportato
negli atti ufficiali quasi che fosse scomparso dalla faccia della terra. In tale contesto appare agevole
pensare che la scomparsa dalle fonti storico-letterarie sia coincisa con una verticale decadenza sociopolitico-economico-amministrativa dell’insediamento, che dovette ridursi al ruolo di città fantasma con
10
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Michele Manfredi Gigliotti
Cosa c’è alla base di tale mutamento?
Alla fine del VI secolo, a causa delle pressioni esercitate dagli Avari e Slavi,
molte popolazioni della Grecia furono sospinte verso sud, verso la Laconia e la sua
punta estrema, la regione del Mani o Maina. Alcune di esse, fiere e ribelli, preferirono
emigrare anziché vivere in patria in stato di schiavitù.12
Un contingente venne a stabilirsi in Sicilia nella città che da essi fu detta Demenna; altri (gli abitanti di Patrasso) si fermarono in Calabria, a Reggio;13 gli Argivi
andarono nell’isola di Orobi14 e i Corinzii si fermarono nell’isola di Egina.15
Di notevole valenza è l’affermazione che gli immigrati mantennero nella nuova
fondazione (o forse dovremmo dire άποικία) il dialetto dei Lacedemoni.16
conseguente depauperamento, se non annichilimento, dell’elemento demografico.
12
Tovte dhv kai; oiJ Lakwne~ tov patrwvon e]dafo~ kataliponte~, oiJ me;n ejn th/` vnhvsw/
Sikeliva~ ejxeplevusavvn, oiJ kai; eiJ~ e]ti ejisivn ejn auJth/`, ejn tovpw/ kaloumevnw/ Devmenna kai; Devmenivtai
anti Lakedaimonitw`n katanomazovmenoi kai; th;n iJdivan tw`n Lakwvnwn diavlekton diaswvzonte~
(«Allora anche gli abitanti di Lacedemone abbandonarono la terra natia, salparono, alcuni di loro verso
l’isola di Sicilia e ancora adesso vi restano, nel luogo che si chiama Demenna e, conservando il dialetto
dei Lacedemoni, cambiarono il nome in quello di Demenniti»). Cf. I. Dujcev, Cronaca di Monemvasia,
Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, Palermo 1976.
13
Traducendo alla lettera, qui si dice: «Nella terra dei Calabresi di Reggio» (Kaiv hJ mevn twvn
Patrw`n povli~ metw/kivsqe ejn th/` tw`n Kalaurw`n cw`ra/ tou` Rigivou). B. Lavagnini, in «Βιζαντιον»,
Tomo I, Atene 1986, ricorda come, a pochissimi chilometri da Reggio Calabria, esista una frazione
denominata Diminniti. Anche in Aspromonte, nel comune di Scido, esiste una contrada che si chiama
Diminiti. Una omonima contrada è registrata nel comune di Gerace e un casale Diminniti è nel comune
di Calanna. Alla testimonianza di Lavagnini vogliamo aggiungere, di nostro, che in tutta la provincia
di Reggio diffusissimo è il cognome Minniti. Personalmente, noi conosciamo parecchie persone che si
chiamano Demetrio Minniti, il che è tutto dire. Nell’estate 2004 abbiamo avuto la ventura di leggere un
interessantissimo libro di P. L. Fermor, Mani, viaggi nel Peloponneso, Adelphi, Milano 2006. Siamo
rimasti molto sorpresi leggendo che, in uno sperduto paesino dell’Alto Mani, Κ ι τ τ α, la piazza viene
chiamata ruga (ρουγα) proprio come a Nocera Terinese, il nostro paese di nascita in provincia di
Catanzaro, per indicare “rione” si dice ruga. La cosa sconvolgente è che, per quanti dizionari di lingua
greca abbiamo compulsato, non siamo riusciti a trovare il termine ρουγα che non viene assolutamente
riportato. Infatti, si tratta solo di un demotico della Laconia o meglio del Peloponneso o, ancora più
esattamente, del Mani o Maina: ecco perché non potevamo trovarlo nel dizionario. Ma la domanda
che ci siamo posti, e ci poniamo, è questa: come avrà fatto questo termine dialettale greco a finire
nel dialetto di Nocera Terinese? Le risposte possibili sono due: o non è possibile dare una risposta
storicamente valida, oppure essa è talmente semplice da non avere bisogno di ulteriori chiosature.
14
Incerta è l’identificazione di questo toponimo. Alcuni ritengono trattarsi della città di Orobiai,
in Beozia. Al di là, però, dall’evidente assonanza non vi è alcunché di certo. Si potrebbe identificare,
come opina P. Lemerle, La chronique improprement dite de Monenvasie: Le contexte historique et
légendaire, in «Revue des études byzantine» 1 (1963), con l’isola di Orobis-Lebinthos, ma neanche così
l’incertezza è risolta, trattandosi di sole ipotesi.
15
L’isola di Egina si trova nel golfo Saronico.
16
San Marco d’Alunzio rappresenta, tutt’oggi, un’isola linguistica, sia dal punto di vista dei
nomi, sia da quello dell’inflessione dialettale. Quando l’Aluntino parla nel suo idioma, produce una
sorta di cantilena molto simile a quella di alcuni paesi della Calabria di influsso linguistico dorico (K.
Caratzas, Ena dwriko katavloipo stiv~ eJllenikev~ kai; wmanike;~ dialevktou~ th`~ Kalabriva~ kai;
Sikeliva~, qewrouvmeno ajpabikov, in «Ellhnika;» tom. timht. S. K. Kougea 1957). È un vero peccato
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La denominazione di Demenna, quindi, deriva, come dicevamo, da quella del
popolo dei Lacedemoni o Spartani, abitanti della Laconia.
Si è detto in precedenza che non vi è certezza storica circa l’effettiva esistenza della tripartizione amministrativa della Sicilia. Essa, in verità, si ricava aliunde e,
precisamente, dagli atti di cancelleria dei Normanni nei quali è dato rinvenire sovente
la formula: «Secundum antiquas divisiones Saracenorum», sempre raccomandata da
Ruggero II che la riteneva, allo stesso tempo, sia indicazione tecnica di natura amministrativa, che formula propiziatoria non avendo mai abbandonato le sue mire di
conquista della Ifriqîyya, ricambiato, in questo sentimento, dagli Arabi i
quali, riferendosi emblematicamente a due città della Sicilia, Palermo (‘aziz, “la
splendida”) e Catania (medina ‘al fil, “la città dell’elefante”), erano soliti dire: «Che
Dio le restituisca ai Musulmani!».
È opportuno a questo punto ricordare che, quando Roberto (il Guiscardo) e suo
fratello Ruggero (il Granconte) approdano in Sicilia, l’Isola appartiene al dar ‘al-Islam
in quasi tutta la sua estensione territoriale, ad eccezione di una vasta oasi di Greci ortodossi installatisi nel Valdemone.
L’Isola è organizzata, dal punto di vista amministrativo, in modo mirabile, tecnico e, soprattutto, efficiente. La burocrazia araba dimostra di avere grande esperienza amministrativa e organizzativa e ciò non sfugge al grande intuito degli Altavilla i
quali, non solo non commettono l’errore di smantellare l’apparato amministrativo già
esistente e perfettamente funzionante, quanto, con strategia che alla fine si rivela vincente, lasciando al loro posto gli impiegati e i funzionari arabi.
Non vi sono discriminazioni basate su differenze di razza o di religione, anzi i
funzionari diligenti e produttivi vengono incentivati con promozioni e incarichi fiduciari. Agli uomini di ceppo normanno viene riservato il compito di costituire il nucleo
fondamentale dell’esercito e il nerbo della cavalleria (specialità militare fondamentale, quest’ultima, se è vero che la conquista del Meridione e dell’Isola è avvenuta
con appena seicento cavalieri normanni). Quando, in una seconda fase, i conquistatori
capirono che potevano fidarsi dell’elemento etnico arabo, finirono con l’assoldare i
temibili arcieri saraceni che si rivelarono determinanti in più di una occasione.
Nel campo delle arti, poi (letteratura, poesia, musica, architettura, scultura, pittura, etc.), la politica degli Altavilla fu improntata ad una visione assolutamente multietnica e multireligiosa, con l’ingaggio dei più rinomati artisti del mondo conosciuto.
Anche gli artigiani, i professionisti e le maestranze, provenienti da ogni angolo della
terra, erano i migliori nei loro rispettivi settori.
In questo clima, è evidente che gli Altavilla mirassero, in ogni occasione, ad
ingraziarsi l’elemento etnico arabo, rammentando gli splendori dell’Isola sotto il loro
dominio, anche nelle formule degli atti ufficiali. Viene poco agevole pensare che i
che sul dialetto di San Marco d’Alunzio non vi siano studi mirati. G. Rohlfs, Grammatica storica della
lingua italiana e dei suoi dialetti-Fonetica, Einaudi, Torino 1966, ha preferito occuparsi di parecchi
paesi vicinissimi a San Marco, ma mai di quest’ultimo.
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documenti della cancelleria venissero corredati con la frase «secundum antiquas divisiones Saracenorum», senza che ciò fosse vero.
Se, poi, si pone mente che questo “falso storico” sarebbe avvenuto alla presenza e
con la connivenza dello stesso elemento arabo (impiegati e funzionari o discendenti di
quegli impiegati e funzionari delle cancellerie che, come abbiamo avuto modo di dire,
erano le colonne portanti dell’architettura amministrativa normanna), appare in tutta la
sua peregrinità il volere accreditare la tesi che quell’inciso in lingua latina non rifletta la
realtà storica. Sarà vero, invece, il contrario e, cioè, che sia molto probabile, che si debba
proprio all’iniziativa degli impiegati e funzionari arabi l’inserimento di quella formula
che, essendo per relationem, evitava l’inceppamento redazionale di dovere trascrivere,
volta per volta, le denominazioni delle circoscrizioni amministrative dell’Isola.
La divisione della Sicilia in distretti non è, d’altra parte, un’invenzione recente,
risalendo essa al tempo della conquista di Roma, quando l’isola era divisa, per finalità
di εὐνομία (ossia, di buon governo) e, soprattutto, per comodità di prelievo tributario
e di amministrazione della giustizia, in due parti facenti capo, rispettivamente, alle due
città di Siracusa e Lilibeo.
Anche Federico II – divenuto re di Sicilia dopo Guglielmo I (il Malo), Guglielmo II (il Buono), Enrico IV (suo padre) e considerato, tout court, di casato svevo –
divide l’Isola in due distretti amministrativi: Sicilia citra flumen Salsum, ad oriente;
Sicilia ultra flumen Salsum, ad occidente.17
Ritornando ai Normanni e alla tripartizione amministrativa dell’Isola, è da notare che il cambio della guardia (Normanni che succedono agli Arabi) avviene in un
lasso di tempo troppo breve perché la formula «secundum antiquas divisiones Saracenorum» sia stata inventata di sana pianta senza che alcuno non se ne accorgesse e non
lo facesse notare scrivendone. Gli storici e i cronisti che, a torto o a ragione, odiavano i
a) Federico II è considerato unanimemente da tutti gli storici, a qualsiasi livello, di casa sveva,
tanto che, con la sua ascesa al potere, si fa iniziare per l’Isola l’omonima dominazione. Per la precisione,
Federico era figlio di Costanza d’Altavilla e di Enrico VI. Costanza era, a sua volta, figlia di Ruggero
II e della ultima sua sposa, Beatrice di Rethel. Quando Costanza nacque (?), Ruggero II era già morto
(1154). Enrico VI era figlio di Federico di Hohenstaufen (il Barbarossa). Come si vede il DNA di
Federico II risulta, per quote paritarie, di composizione svevo-normanna. È indubbio, però, che nel
modo di comportarsi nella gestione della cosa pubblica, egli assomigli più al nonno materno, Ruggero II,
che a quello paterno, Federico il Barbarossa. Per le sue estrosità e genialità nell’affrontare le molteplici
problematiche del suo regno, egli fu, senz’altro, un Altavilla più che un Hohenstaufen. E degli Altavilla
fu il suo animo di precursore in moltissimi campi dello scibile, come pure la sua lungimiranza politica.
Per quanto ci riguarda, noi lo abbiamo sempre considerato, per questo, più normanno che svevo. b) In
ognuna delle due parti geografico-amministrative in cui divise l’Isola, pose due Giustizieri. Possiamo,
dunque, dire che la suddivisione veniva effettuata per meglio amministrare la giustizia e per facilitare la
riscossione delle imposte. Federico III d’Aragona istituì, al posto dei due Giustizierati, quattro province:
Val di Mazara; Val di Agrigento; Val di Noto, Val di Castrogiovanni e Val Demona. Castrogiovanni
corrisponde a Enna e deriva da una corruzione testuale del nome che, originariamente, era Castrum
Ennae, tradotto dagli Arabi in ‘Qasr ‘castello’ Ianne (nella credenza, errata, che derivasse da un nome
proprio, Giovanni), da cui deriva l’ulteriore corruzione volgarizzata di Castrogiovanni che, come spesso
avviene per tutte le denominazioni corrotte ed errate, ha avuto più fortuna rispetto a quella originale.
17
14 (luglio-dicembre 2013)
Demenna nella letteratura arabo-sicula
249
Normanni, erano tanti e non avrebbero, certo, perso l’occasione per dare loro addosso
ove la richiamata intestazione degli atti di cancelleria non corrispondesse a verità storica. Il fatto è che vi sono logiche e fondate motivazioni per ritenere che, realmente, le
circoscrizioni amministrative dei Tre Valli siano legalmente ed effettivamente esistite
e debbano essere ritenute frutto dell’inventiva amministrativa degli Arabi.
Ma, riprendiamo il discorso sui Valli.
1. Val di Noto
Il toponimo del capoluogo è conosciuto sin dall’epoca classica. Cicerone e Silio Italico riferiscono di un Netum, mentre di un popolo di Netini parlano Cicerone e
Plinio. Diodoro Siculo scrive Νεαιτῖνοι e Tolomeo chiama la città Νέητον. In latino
medievale si hanno Nota, Notho e, al genitivo, Neti. ‘Ad-Dimisqî e ‘Al-Edrîsî annotano
il toponimo come Nut[u]s.
Da Idrisi: «Ad una giornata da Siracusa è Nutus, rocca delle più forti ed elevate,
e città delle più belle; vasta d’area, ricca d’entrate e molto importante, cò suoi mercati
disposti in bell’ordine e coi suoi palazzi torreggianti. Portan acque copiose i fiumi del
suo territorio e muovon di molti mulini […]». Era, in sostanza, Noto una delle piazzeforti
più importanti, mentre Siracusa, ad esempio, era in rovina. Nulla di eccezionale e straordinario, dunque, che essa sia stata messa al vertice di una circoscrizione amministrativa.
2. Val di Mazara
Mazara (oggi, Mazara del Vallo) è toponimo di origine greca: Mavzaro~ potamo~ (Diodoro); Mazavph frourivon Selinountivw (Stefano Bizantino); Μazaris (Itinerarium Antonini). L’insediamento primigenio, probabilmente, è di origine fenicia
o persiana. Idrisi, che riporta Mâzar, così la descrive: «Splendida ed eccelsa città cui
nulla manca, non ha pari né simile […] questa città è il non plus ultra. Aduna in sé
quante bellezze non aduna altro soggiorno; ha mura alte e forti. Da tutte le parti vengono a Mazara. A piè delle sue mura [scorre] il fiume Wâdî ‘al Maǵnûm (‘fiume dello
spiritato’, ossia il Màzaro)». Era sede del dîwân dei benefici militari, da cui (in latino,
duana de secretis) deriva l’italiano “dogana”. Era, quindi, città ben fortificata, bella,
ricca e commerciale. Finì, naturalmente, con il capeggiare un’altra circoscrizione amministrativa, la più estesa delle tre.
3. Valdemone
Il toponimo di Demena (da cui deriva la denominazione del Vallo) come città
fortificata, appare per la prima volta nella storia della Sicilia in occasione della conquista dell’Isola da parte degli Arabi. Raccontano, infatti, gli annalisti arabi che ‘Ibrahîm
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250
Michele Manfredi Gigliotti
‘ibn ‘Ahmad, dopo avere espugnato Taormina nell’anno 902, mandò una parte dell’
esercito, al comando del proprio figlio ‘Abû ‘al ‘Aghlâb, ad espugnare le due fortezze
di Rametta (Rometta) e di Demona, trovando quest’ultima vuota in quanto gli abitanti
l’avevano abbandonata. Anche nell’anno precedente, 901, Demona aveva subito l’assalto arabo ad opera, questa volta, di ‘Abû ‘al ‘Abbâs, il quale tentò invano di espugnarla piantandovi contro i mangani per molti giorni.18
‘Ibrahîm mise in corsa le gualdane per le città di Sicilia ch’eran tenute ancora dai
19
Rûm: una gualdana a Mîquś 20 e una a Demona; le quali trovarono che già gli abitatori
avevano sgomberato; onde presero quanto v’era [in quei castelli]. Un altro corpo di
Musulmani fu mandato da Ibrahîm a Rametta ed uno ad ‘Al Yâǵ (‘Aci’)
[…] Ibn ‘abî Hinzîr, nell’anno novantotto (9 settembre 910-28 agosto 911) mosse con
l’esercito contro Demona [nel cui territorio] egli arse, predò, fece prigioni e ritornò
[in Palermo] [...] Ibrahîm navigò dall’Africa verso la Sicilia; sbarcò a Trapani; passò
da questa città in Palermo; pose il campo a Demona; assediolla per diciassette giorni;
prese quindi Messina e ne abbatté le mura ed espugnò Taormina, allo scorcio di sàban
dell’anno ottantanove (11 luglio-8 agosto 902), con gran terrore del re dei Rûm sedente
in Costantinopoli […] L’anno novantotto (9 settembre 910-25 agosto 911) ‘Al Hasan
‘ibn ‘Ahmad ‘ibn ‘abî Hinzîr uno dei principali [della tribù berbera] di kutâmah, mandato dal conquistatore dell’Africa ‘Ubayd ‘Allâh ‘al mahdî, mosse con gli eserciti alla
volta di Demona; e infestate quelle regioni fece ritorno [in Palermo].
È interessante riportare questo passo da ‘Al Muqaddasî:
‘Isqiliâh (Sicilia): La capitale di essa è Balarm (Palermo). Le città più importanti: ‘Al Haliśah (Kalsa); ‘Itrâbiniś (Trapani); Mâzar (Mazara); ‘Ayn ‘al mulattâ (ma,
secondo Amari, è forse ‘Ayn ‘al qattâ, ossia Canicattì); Qalát ‘al ballût (Caltabellotta);
Ġirǵant (Girgento, Agrigento); Butîrah (Butera); Saraqûsah (Siracusa); Lantînî (Len-
«Ei si pose a campo sotto Dimnas, la quale egli assediò per diciassette giorni; indi venne a
Messina e passò con le navi da guerra a Reggio, dove s’era adunata gran moltitudine di Rum. Ai quali
ei diè battaglia dinanzi la porta della città; li ruppe; entrò in Reggio con le armi alla mano, nel mese di
ragab (dal 21 giugno al 20 luglio) e fece preda di grosse somme di denaro. Indi tornò in Messina; ne
abbatté le mura e, trovatevi delle navi ch’eran venute da Costantinopoli, ne prese ben trenta».
19
Letteralmente “romani”, ma con tale termine gli Arabi erano soliti indicare tutti gli
abitatori, estranei all’Islam, sia dell’Italia che dell’Europa, i quali ultimi, in certe occasioni, venivano
genericamente chiamati anche “franchi”. Erano Rûm, poi, anche i Cristiani di Costantinopoli. Con
questo termine, in definitiva, gli Arabi intendevano esprimere un concetto di predominanza di Roma
rispetto a tutti gli altri «infedeli». Ciò è anche confermato dal fatto che il Mare Mediterraneo, chiamato
dai Latini Mare Nostrum, quasi a volere sottolineare l’estrinsecazione su di esso di un vero e proprio jus
proprietatis, veniva chiamato dagli Arabi con la denominazione Bahr ‘ar Rûm, che, dovendosi tradurre
con l’espressione italiana il “Mare dei romani”, altro non è se non un esplicito riconoscimento, da parte
del popolo arabo, proprio di quello jus proprietatis a cui sopra si faceva cenno.
20
Secondo l’ottima lezione dell’Amari, si suppone essere il toponimo indicativo di una fortezza
vicina al monte Miconio o, meglio, all’alta montagna Dinnamare, che nella carta del 1867 viene
erroneamente riportata come «Antenna a mare».
18
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Demenna nella letteratura arabo-sicula
251
tini); Qatâniâh (Catania); ‘Al Yâǵ (Aci); Batarnû (Paternò); Tabarmîn (Taormina);
Y.n.f.s (forse Mîquś: vedi la nota n.20); Massînah (Messina); Rimtah (Rametta-Rometta); Damannaś (Demona); Gârâs (Geraci); Qalat ‘al qawârib (‘La rocca delle
barchette’, vicino Santo Stefano di Camastra); Qalát ‘as sîrât (Golisano); Qalát ‘abî
Tawr (Caltavuturo); Batarliah (forse Petralia); Tirmah (Termini); Bûrqâd (Castello di
Brugato); Qurlîûn ( Corleone); Qarînaś (Carini); Bartinîq (Partitico); ‘Ahyâs (Amari
propone la lettura ‘Agnâs: Cinisi); Balǵah (Belice); Bartannah (Partanna).21
Non si può dubitare, dunque, della effettiva esistenza di una città chiamata Demona o Demenna e della sua importanza. Il toponimo, come già accennato, è ancora
trascritto dai seguenti autori arabi: Yaqût (in Mu’ǵam) riporta: «D.m.nnaś, città marittima di Sicilia». Sempre Yaqût (questa volta, in Marâsîd) insiste nel riportare notizie su
Demenna scrivendo: «D.m.nnaś, una delle città di Sicilia, vicina al mare». ‘Ad Dimisqî
riporta il toponimo, sic et simpliciter, mentre nel Masâlik ‘al Abasâr, ‘Al ‘Umari, nel
punto in cui elenca le rocche della Sicilia, riporta, dopo Qalat ‘al Qawârib: «Il castel
di Demona, San Marco» e, poi, prosegue con «il castel di Naso, il castel di Patti, il
castel di Milazzo etc.».
Da notare che in questa lunga elencazione, tutti i toponimi sono preceduti
dall’appositivo “castello” oppure “rocca”, tranne uno, San Marco, trascritto subito
dopo il castel di Demona.
A noi sembra che l’Autore, più che elencare un ulteriore toponimo, dopo Demona e prima di Naso, abbia voluto inserire una apposizione esplicativa. Infatti, come prima si è evidenziato, tutti i toponimi sono preceduti dal sostantivo “castello” o “rocca”,
tranne San Marco che pure un castello era. D’altra parte, se non fosse stato un castello
o non fosse stato una rocca, non avrebbe dovuto essere ricompreso in un elenco che ha
per epigrafe: «Le rocche [della Sicilia] sono: […]».
La spiegazione più logica, anzi, unicamente logica, è che l’Autore abbia voluto
dire proprio quello che ha detto: “Demona” uguale “San Marco”. Ricordiamo, soprattutto a noi stessi, che l’autore del Masâlik ‘al ‘Absâr, ‘Al ‘Umari, nacque a Damasco
nel 1300 e, per conseguenza, era in grado di sapere, de auditu, che il sito aveva mutato
denominazione, da Demona in San Marco. A ciò si aggiunga che tale mutazione era
avvenuta non molto tempo prima rispetto a quando lo stesso ‘Al ‘Umari ne scriveva.
Non vogliamo, in questa sede, ripercorrere, in modo esaustivo, la lunga e variegata storia degli studi mirati all’identificazione del sito di Demona come città. Non
fosse altro perché non vogliamo mancare di riguardo al valore degli studiosi che si
sono occupati del problema e continuano a farlo incessantemente. Le dimensioni del
Il brano è stato riportato per molteplici finalità. Intanto, perché l’autore elenca le città più
importanti della Sicilia, anche se, come appare dalla lunga teoria riportata, senza seguire alcun criterio di
successione geografica o alfabetica. In secondo luogo, per dare un’idea della terminologia araba riguardo
ai toponimi più noti della Sicilia. È da sottolineare, come circostanza certamente notevole, che, anche
in questo luogo letterario, Demona viene inclusa tra le città più importanti dell’Isola. Per avere, infine,
un’idea dell’epoca di riferimento, diciamo che ‘Al Muqaddasî, “Il Gerosolimitano”, più noto come ‘Ibn ‘al
Bannâ’, “Il figlio dell’architetto” è nato nel 947 e, quindi, scrive di cose a lui contemporanee.
21
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252
Michele Manfredi Gigliotti
presente lavoro non consentono un’esposizione bibliografica a carattere terminativo.
Sentiamo il dovere, e il piacere, di ricordare, però, gli studi di Ewald Kislinger22
dell’Istituto di Studi Bizantini di Vienna, il quale, da svariati anni frequentatore “scientifico” della Sicilia, aggiunge, con cadenza quasi annuale, nuovi tasselli al mosaico che
vede Demona identificata con San Marco d’Alunzio.
Avendo noi impresso a questo breve excursus un carattere enciclico, dobbiamo
necessariamente ritornare al punto di partenza. Nell’incipit abbiamo detto che ‘AlSharîf ‘al-Idrîsî, nella sua opera fondamentale, riportando le distanze tra gli insediamenti urbani della Sicilia, ad un certo punto, dice: «Da Galat alla Kanîsat Śant Mârkû
sette miglia tra ponente e tramontana».
È stato detto, anche, che noi abbiamo misurato la distanza indicata e siamo giunti
a San Filippo di Demenna o di Fragalà o di Melitiro, che nel testo è definito «la Chiesa
di San Marco». Sembra, dunque, che la letteratura araba, di cui abbiamo riportato gli
incisi relativi al toponimo, ritenesse Demona o Demenna, capoluogo del Valdemone,
coincidente con l’abitato di San Marco, oggi San Marco d’Alunzio. Non sappiamo a
quali conclusioni sarà giunto il lettore che, prendendo l’abbrivo dalla prima pagina,
avrà avuto la pazienza di arrivare sin qui.
Per quanto ci riguarda, man mano che procedevamo nella stesura di questo testo,
ci siamo convinti, risolvendo, così, un originario dubbio che pure avevamo espresso
in qualche lavoro precedente, che quel centro abitato che attraverso i secoli ha mutato
denominazione dall’originario Ἀλόντιον in Haluntium e, poi, in San Marco e, quindi
(per un mero errore) in San Marco d’Alfonsio23 e, finalmente, in San Marco d’Alunzio,
sia stato anche la Demenna che andiamo cercando.
E. Kislinger, Una moneta bizantina trovata nel “Conventazzo”, Torrenova,, Wien 1991; Id., Le
isole Eolie in epoca bizantina ed araba, Messina 1991; Id., Monumenti e testimonianze greco-bizantine
di San Marco d’Alunzio, Sant’Agata Militello 1995; Id., «Il Conventazzo, 1500 anni di storia siciliana,
Torrenova», in Atti del Convegno Torrenova, Palermo 2003; Id., «I Normanni, la seta bizantina e San
Marco d’Alunzio», in Miscellanea nebroidea, Contributo alla conoscenza del territorio dei Nebrodi,
Sant’Agata Militello 1999; Id., Regionalgeschichte als Quellenproblem die Chronik von Monembasia
und das sizilianische Demenna. Eine historisch- topographische studie, Wien 2001; Id., «Una tarda
testimonianza per la grecità nel territorio di San Marco d’Alunzio. Il codice Vaticanus graecus 2032»,
in Miscellanea, cit.; Id., «Demenna città e territorio, storia e archeologia», in Nuove Ricerche sul
Valdemone medievale, Sant’Agata di Militello 2005.
23
Per la storia ed origine di questa denominazione, che è l’evidente risultato di un errore, vedi
M. Manfredi Gigliotti, San Marco d’Alfonsio, provincia di Messina, in «Variae Historiae Fragmenta»,
vol. I, San Marco d’Alfonsio provincia di Messina, Edizioni Microsoft, Palermo 2003, pp. 17-18. Non
siamo riusciti a reperire notizie che altri, prima di noi, abbiano riportato tale toponimo.
22
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Filippo Imbesi
Da Longane a Gala: ricerche storico-archeologiche
nel territorio di Barcellona Pozzo di Gotto
I documenti e le tradizioni letterarie sopravvissute sul territorio di Barcellona
Pozzo di Gotto – comune di recente fondazione (1835) attraversato dall’antico fiume
Longano,1 con un vastissimo territorio oggetto di stratificazioni archeologiche e fasi
storiche millenarie – sono alquanto frammentarie e lacunose, almeno fino alla dominazione normanna. Le uniche certezze riguardano l’importanza di Milazzo e della vasta piana circostante (in cui anticamente ricadeva il territorio barcellonese), decantati
come luoghi fertilissimi già da Teofastro (371-286 a. C.), che li descriveva ricchi di
pascoli meravigliosi e foreste.2
I reperti più antichi e significativi, che a partire dalla metà del secolo scorso
furono riferiti al comprensorio barcellonese, sono alcune litre d’argento d’incerta provenienza, coniate nella seconda metà del V secolo a.C., raffiguranti sul dritto la testa
giovanile di Eracle attorniata dall’iscrizione retrograda «LOGGANAION» (o «LONGANAION»), e sul rovescio la testa di una divinità fluviale con un piccolo corno sulla
fronte3 (fig. 1A).
1
Il torrente Longano, un tempo fiume dalla notevole portata idrica, «occupa una superficie
complessiva di 30,08 km2» ricadente nei comuni di Barcellona Pozzo di Gotto e Castroreale, in provincia
di Messina. Esso presenta la forma di foglia allungata con andamento est-ovest, caratterizzata da una
ramificazione principale a Y e da un reticolo di affluenti laterali che, congiungendosi tra loro, sfociano nel
mare Tirreno in corrispondenza della frazione Calderà di Barcellona Pozzo di Gotto. La ramificazione
principale e i suoi tre fondamentali affluenti (torrenti Crizzina, S. Gaetano e S. Giacomo) collegano tra
loro borgate antichissime e nuclei recenti (tra cui quelli di Catalimita, Castroreale, Maloto, Gala, Gurafi,
Nasari, Barcellona e Pozzo di Gotto). Il bacino idrografico del Longano è strettamente collegato a quello
di altre fiumare limitrofe (torrenti Mela, Idria e Patrì) che, «estendendosi dalla dorsale secondaria che
si diparte da Pizzo Batteddu dello spartiacque principale dei Monti Peloritani», arrivano a congiungersi
con la costa tirrenica (Piano Stralcio di Bacino per l’Assetto Idrogeologico-Bacino Idrografico del
Torrente Longano, Regione Siciliana-Dipartimento Territorio e Ambiente, Palermo 2006, pp. 9, 11).
2
T. Di Ereso, De historia plantarum, apud Henricum Laurentium, Amstelodami 1644, VIII, 2.8.
3
Oggi sono ufficialmente conosciute nove litre di Longane, in due varianti (testa del dio
fluviale a destra o a sinistra). Secondo la Consolo Langher (S. Consolo Langher, Contributo alla
storia dell’antica moneta bronzea in Sicilia, Giuffrè editore, Milano 1964, p. 143), la testa di Eracle è
simile tipologicamente e stilisticamente a quella che ricorre sui tetradrammi di Kamarina. Il dio fluviale
presente sul rovescio delle litre, secondo Jenkins, presenta affinità con il dio fluviale Gelas del conio
di Gela (G. K. Jenkins, The coniage of Gela, Antike Münzen und Geschnittene Steine II, Berlino 1970,
«Mediaeval Sophia». Studi
w w w. m e d i a e v a l s o p h i a . n e t
e ricerche sui saperi medievali
E-Review semestrale dell’Officina di Studi Medievali
14 (luglio-dicembre 2013), pp. 253-269
254
Filippo Imbesi
A queste testimonianze fu collegato un khruvkeion (caduceo) bronzeo della prima metà del V secolo a.C., che il British Museum di Londra acquisì nel 1875. Proveniente da un sepolcro imprecisato della Sicilia e riferito alla sepoltura di un araldo
o ambasciatore (kh±rux), esso presenta un lungo stelo cilindrico su cui campeggia
l’iscrizione calcidese (dialetto ionico) «LONGENAIOS EMI DHMOS[IOS]» (sono
l’araldo pubblico longanese), culminante nella sommità con due serpenti che, con
teste contrapposte e occhi e bocca incisi, si fondono per formare un anello4 (fig. 1B).
Questi importanti reperti attestarono l’esistenza di un’antica città siciliana legata
alle prime ajpoikivai calcidesi fondate nell’Isola dopo il primo nucleo di capo Schisò
(oggi Giardini Naxos),5 e forse collegabile etimologicamente, per mezzo della radice Logg, alla vergine Longatide («kleinovn tov i{druma parqevnou Loggavtido~»), o
dea Longatis («trigevnnhto~ qeav boarki;a Logga±ti~ JOmolwi;~»), di cui esisteva un
famoso tempio presso Pachino, descritto in uno scolio del poeta greco Licofrone di
Calcide (IV secolo a. C.).6
Alcune tesi proposte legarono in un primo tempo questi reperti alla città di
«Lo;ggwnh» (e all’epiteto «loggwnai`o~» con cui erano definiti i suoi abitanti) che il
siracusano Filisto (430-356 a. C.), in uno dei pochi frammenti sopravvissuti della sua
nn. 499 e 501). Il numismatico britannico, inoltre, riferì due litre di Longane al «late fifth century BC»,
periodo compreso tra il 424 (congresso di Gela) e il 415 a. C. (spedizione ateniese in Sicilia), durante
il quale gli insediamenti del tempo ebbero una certa autonomia (G. K. Jenkins, «The coinage of Enna,
Galaria, Piaco, Imachara, Kephaloidion and Longane», in Le emissioni dei centri siculi fino all’epoca
di Timoleonte e i loro rapporti con la monetazione delle colonie greche di Sicilia, Atti del IV convegno
internazionale di studi numismatici, Roma 1975, pp. 99-101). Due litre di Longane (oggi custodite nel
Museo Nazionale di Siracusa) furono rinvenute a Kamarina e ad Alesa (Tusa).
4
Secondo Jenkins, la variante LONGENE, presente sul caduceo, diversa dal LOGGANE delle
litre, indica che esso fu realizzato in un periodo antecedente alla coniazione delle monete e che il nome
della città, analogamente a quanto rilevato sulle monete di Messina (che passarono da Messene al dorico
Messana), può essere cambiato in Longane o Loggane (G. K. Jenkins, «The coinage of Enna, Galaria,
Piaco, Imachara, Kephaloidion and Longane», cit., pp. 99-101). Bernabò Brea riferì la forma ionica
«LONGENAIOS», registrata sullo stelo del caduceo, al «periodo anteriore al 461 a. C.» (L. Bernabò
Brea, «Città di Longane», in Longane. Contributo alla conoscenza della città di Longane in occasione
della celebrazione del 20° anniversario dell’Autonomia Comunale 1947-1967, Biblioteca Comunale
Popolare Longane, Rodì Milici 1967, p. 42).
5
Secondo Tucidide, la prima colonia calcidese dell’Isola fu quella di Naxos, fondata nel 734
a.C. (G. Carandente-G. Voza, Arte in Sicilia, Electa, Milano 1983, p. 31; E. Gabba-G. Vallet, La
Sicilia antica. La Sicilia greca dal VI secolo alle guerre puniche, Società editrice storia di Napoli e della
Sicilia, Palermo 1980, p. 109; R. Panvini, La Sicilia in età arcaica: dalle apoikiai al 480 a. C., Centro
regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione, Palermo 2009, p. 61).
6
A questo tempio si riferivano epiteti propri del culto di Atena (nata tre volte, che aggioga buoi
e omoloide), derivati dalla Beozia e da Tebe, ma riferibili anche a «località della Sicilia e al culto di una
divinità identificabile con Ecate» (E. Ciaceri, La Alessandra di Licofrone, Niccolò Giannotta Editore,
Catania 1901, pp. 209, 290; G. W. Mooney, The Alexandra of Lycophron, G. Bell, Londra 1921, p. 56;
A. Holm, Storia della Sicilia nell’antichità, Carlo Clausen, Torino 1896, I, p. 45; S. Mirone, Le monete
di Lòngane o Lòngone, in «Rivista italiana di numismatica e scienze affini pubblicata per cura della
Società Numismatica Italiana e diretta da Francesco ed Ercole Gnecchi» 29 [1916], p. 452; M. Vinci, Il
sogno di Licofrone, in « {Ormo~» 9 [2007], pp. 376-377).
14 (luglio-dicembre 2013)
Da Longane a Gala: ricerche storico-archeologiche nel territorio di Barcellona...
255
Sikelikà (divulgati in seguito da Stefano Bizantino), descriveva esistente nell’Isola alla
fine della colonizzazione greca.7 Questo sito, definito da Diodoro Siculo «kata;nh~
fru;rion uJph`rce, kalou;menon JIta;lion»,8 fu identificato da numerosi autori (tra cui
Ciaceri,9 Casagrandi,10 Mirone11 e Pace),12 con la borgata Ognina o Lognina presso
Catania, e il dio fluviale delle litre fu riferito al fiume Amenano o ad altre fiumare che
scorrevano nelle sue vicinanze.13
Le tesi proposte, che volevano “Longane” e “Longone” come un unico sito cata14
nese, trovarono in seguito scarso riscontro, sia per l’esistenza di dracme greche (metà
del V sec. a. C.) coniate da Kata;nh e riportanti sul rovescio la testa del dio fluviale
«AMENANOS»15 (rappresentato in modo diverso dal dio fluviale presente sulle litre
coeve con gli epiteti «LOGGANAION» e «LONGANAION»), sia per la mancanza di
rispondenze archeologiche nel sito presunto.
Cominciò così a prendere corpo l’ipotesi che in Sicilia, durante la colonizzazione
greca, fossero stati presenti due diversi luoghi: “Longone”, legato all’epiteto «loggwnai`o~» di Filisto e connesso al «kata;nh~ fru;rion» di Diodoro Siculo, e “Longane”,
caratterizzato dagli epiteti, «LONGANAION», «LOGGANAION» e «LONGENAIOS», registrati sulle litre e sul caduceo del British Museum di Londra, che apparve
collegabile al fiume Longanòs della piana di Milazzo, sede della battaglia, tra i Mamertini di Kio e i Siracusani di Gerone II, avvenuta nel 269 a. C.16
7
«LOGGWVNH, Sikeliva~ povli~. Oï poli;th~ loggwnai`o~. Fivli~to~ dekavtw/J. Longone,
Siciliae urbs. Civis Longonaeus. Philistus lib. decimo» (T. De Pinedo, Stephanus de urbibus quem
primus Thomas de Pinedo latij jure donabat, et observationibus, scrutinio variorum linguarum, ac
praecipuè Hebraica, Phoeniciae, Graecae detectis illustrabat, his additae praeter eiusdem Stephani
fragmentum collationes Jacobi Gronovii, apud Rud.&Gerh. Wetstenios, Amstelodami 1725, p. 425).
8
S. Mirone, Le monete di Lòngane o Lòngone, cit., p. 450.
9
E. Ciaceri, La Alessandra di Licofrone, cit., pp. 209, 290; Id., Culti e miti della storia antica di
Sicilia, Battiato, Catania 1911, p. 157.
10
V. Casagrandi, La pistrice sui primi tetradrammi di Catana e sull’aureo della collezione
Pennisi con osservazioni sull’antica monetazione di Catana-Aetna, in «Archivio Storico per la Sicilia
Orientale» 11/1 (1914), pp. 29-30.
11
S. Mirone, Le monete di Lòngane o Lòngone, cit., pp. 452-455.
12
B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica III, Dante Alighieri, Roma-Napoli 1945, p. 541.
13
R. Stuart Poole, A catalogue of the greek coins in the British Museum. Sicily, Londra 1876,
p. 96; J. Babelon, Catalogue de la collection de Luynes. Monnaie Grecques, Jules Florange & Louis
Ciani, Parigi 1924, vol. I, p. 196, n. 1005; V. Casagrandi, La pistrice sui primi tetradrammi di Catana
cit., pp. 29-30; S. Mirone, Le monete di Lòngane o Lòngone, cit., pp. 452-455.
14
Le ipotesi avanzate collegavano tra loro l’i{cuna di Athena Longatis descritta da Licofrone
di Calcide, la città di «LOGGWVNH» di Filisto, il castello «Lo;ggwn» di Diodoro Siculo e gli epiteti
«LOGGANAION» e «LONGENAIOS» registrati sulle litre e sul caduceo bronzeo del British Museum.
15
Tra i numerosi testi di riferimento si vedano: R. Arena, Iscrizioni greche arcaiche di Sicilia
e Magna Grecia, Cisalpino-Goliardica editore, Milano 1994, vol. III, p. 93; A. Holm, Geschichte
Siciliens, von Wilhelm Engelmann, Leipzig 1870, vol. I, pp. 27, 131; G. Romano, Sopra alcune monete
scoverte in Sicilia che ricordano la spedizione di Agatocle in Africa, tipografia di Arrigo Plon, Parigi
1862, pp. 47-49.
16
L’archeologo inglese James Millingen, nel 1837, sulla base della segnalazione di una litra
con l’epiteto «LOGGANAION» che il Calcagni riportava esistente nella collezione del barone Antonio
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Filippo Imbesi
Questo epico scontro, in tutta la storia antica, fu registrato soltanto da Polibio
e Diodoro Siculo. Lo storico di Megalopoli riferiva sinteticamente che i Mamertini
erano stati affrontati e sconfitti, nella battaglia decisiva, presso il fiume Longanòs della
piana di Milazzo («ejn tw`/ Mulaviw/ pediw/ peri;; to;n Loggano;n kalou;menon potamo;n»).17 Più prodigo d’informazioni fu Diodoro Siculo, che definì «Loivtanon» (forse
viziato da errori di trascrizione) il fiume sede della battaglia, ma dalla sua descrizione
non è possibile ricavare informazioni utili all’individuazione del sito, tranne l’esistenza del colle Thorax («to;n plhsivon lovfon to;n ojnomazovmenon Qwvraka») nelle prossimità della fiumara.18
Astuto di Noto (M. Calcagni, Dè re di Siracusa, Finzia e Liparo non ricordati dalle storie riconosciuti
ora con le monete, dalla Stamperia Reale, Palermo 1808, vol. I, p. 25), la riferì alla città catanese di
Longone, menzionata da Filisto e Diodoro Siculo, o al fiume «Longanus» di Diodoro e Polibio, sito
«in the Mylaean plain», rilevando anche, sulla scorta dello scolio di Licofrone di Calcide, che il nome,
di origine ellenica, trovava un collegamento con un borgo della Beozia detto «Logga;~», dove era sito
un tempio di Minerva «Logga;ti~» (J. Millingen, Silloge of ancient unedited coins of greek cities and
kings from various collections principally in Great Britain, Londra 1837, p. 27). Al Millingen seguirono
il Roberts (1887), che riferì il caduceo a «Longana» sita «near Messene» (E. Stewart Roberts, An
introduction to greek epigraphy. The arcaic inscriptions and the greek alphabet, Cambridge 1887, p.
206), l’Hill (1903), che legò la litra con l’iscrizione «LOGGANAION» a un luogo sito «near Mylae»
(G. F. Hill, Coins of Ancient Sicily, Archibald Constable & Co., Westminster 1903, p. 92), l’Holm
(1906), che la riferì al fiume della piana di Milazzo (A. Holm, Storia della moneta siciliana, Torino
1906, vol. III, p. 85), e l’Head, che, datando una litra tra il 466 e il 415 a.C., dapprima (1887) la collegò
a Longone «in the territory of Catana» (menzionando il fiume Longano di Polibio), e in un secondo
tempo (1911) la riferì a «some town on the river Longanus», sita «in the Mylaean plain» (B. V. Head,
Historia numorum. A manual of greek numismatics, at the Clarendon press, Oxford 1887, p. 132; B. V.
Head, Historia numorum. A manual of greek numismatics new and enlarged edition, at the Clarendon
press, Oxford 1911, p. 151).
17
I. Casaubonus, Polibii Lycortae F. Megalopolitani Historiarum libri qui supersunt, ex officina
Johannis Janssonii, Amstelodami 1670, p. 12.
18
A partire dalla prima metà del III secolo a. C., i Mamertini (alleati dei Siracusani contro i
Cartaginesi), dopo la morte di Agatocle (289 a. C.), erano riusciti a occupare Messina e gran parte del
versante nord-orientale della Sicilia (tra cui le città di Mylai, Halaesa, Tyndaris e Kalè Akté). Il siracusano
Gerone, non tollerando tale predominio su un’area che già in precedenza era stata sotto il controllo di
Siracusa, mosse loro guerra nell’intento di riconquistare i territori perduti. Diodoro Siculo narrava che
Gerone, avendo strappato Milazzo e altri luoghi ai Mamertini, si era recato presso Amesello (Regalbuto),
riuscendola a espugnare. Seguentemente riuscì a conquistare Alesa e fu ben accolto dalle città di
Abakainon e Tindari. Possedendo già Taormina, vicina a Messina, decise di accamparsi presso il fiume
Loìtanon («para; to;n Loivtanon potamovn»), avendo un esercito di diecimila fanti e millecinquecento
cavalieri («pezou;~ e[cwn murivou~ iJppei`~ de; cilivou~ pentakosivou~»). I Mamertini gli opposero
contro un esercito composto da ottomila uomini e quaranta cavalieri, comandati da Kio («e[conte~
pezou;~ ojktakiscilivou~, ijppei`~ de; strathgo;n de; ei\con Kivwn»). Quest’ultimo, interrogati gli
aruspici sull’esito della battaglia, ebbe come risposta che gli Dei annunziavano che avrebbe pernottato
negli accampamenti nemici. Lieto di ciò, Kio cercò di attraversare il fiume e di attaccare i Siracusani.
Gerone, per contrastare i Mamertini, inviò duecento fuoriusciti Messeni e quattrocento soldati scelti a
circondare un colle detto Thorax, dove i Mamertini si erano appostati, mentre col grosso dell’esercito li
assalì di fronte. L’esito della battaglia, che appariva incerto, fu risolto dai Siracusani che erano passati
oltre il colle Thorax, i quali, essendo freschi di forze, assaltarono alle spalle e all’improvviso i Mamertini
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Da Longane a Gala: ricerche storico-archeologiche nel territorio di Barcellona...
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Per molti secoli seguenti non è più possibile rintracciare informazioni dirette sul
fiume Longanòs e suoi affluenti perché legati nelle indicazioni geografiche ai luoghi a
essi vicini o perché inglobati nella vasta area che gravitava attorno a Milazzo. Soltanto
dalla seconda metà del XVI secolo, a seguito della diffusione delle prime indicative
mappe storiche della Sicilia e dei testi di Diodoro Siculo e Polibio, cominciò a nascere
un diffuso dibattito storico-geografico volto a individuare quest’antica fiumara nella
piana di Milazzo.
L’identificazione dell’antico «Loggano;n» di Polibio (o del «Loivtanon» di Diodoro Siculo) con il corso idrico della fiumara di Castroreale (oggi torrente Longano
e suoi affluenti) fu fornita per la prima volta dal geografo Filippo Cluverio, il quale,
nella sua mappa della Sicilia antiqua (1619), redatta dopo la visione diretta dei luoghi,
ritenne che il fiume Longanòs «nullus alius esse potest quam qui a sinistro sive occidentali Mylarum latere, vulgari nunc adpellatione accolis dicitur Fiume di Castroreale»19 (fig. 1C).
Maggiori dettagli sul fiume barcellonese si evincono dalla carta che fu redatta
dal Mercator alla fine del XVI secolo e in seguito pubblicata da Hondius20 (fig. 1D). In
essa, il Longano fu definito «Castri regalis flu(men)», e rappresentato con due bracci
(oggi torrenti S. Giacomo e S. Gaetano) terminanti con «Lo Castro» (Castroreale) e
con l’«Abbat(ia) de Gala». Allo stesso modo della mappa di Cluverio, il fiume di Castroreale fu rappresentato con dimensioni e importanza maggiori rispetto alle limitrofe
fiumare, tra cui il Mela a oriente.21
L’identificazione del Longanòs di Polibio con il fiume di Barcellona e Castroreale cominciò così a diffondersi in numerosissime altre mappe e pubblicazioni. Al Por-
che, vedendosi circondati, si diedero alla fuga. Kio, ferito e privo di forze, fu catturato e condotto, per
essere curato, nel campo dei Siracusani. Si avverava così la predizione degli aruspici che volevano il
suo pernottamento negli accampamenti nemici. Mentre Kio stava recuperando le forze, i cavalli presi ai
nemici furono presentati a Gerone. Kio, vedendo il cavallo del figlio e ritenendo che egli fosse morto,
ruppe le fasciature delle ferite, lasciandosi morire dissanguato. I Mamertini, avuta notizia della morte
di Kio e della sconfitta, stavano deliberando di arrendersi. Loro fortuna fu la presenza del cartaginese
Annibale nell’isola di Lipari, il quale, udita la vittoria dei Siracusani, dopo essersi congratulato con
Gerone, si recò a Messina, invitando i Mamertini a non consegnare la città ai Siracusani e lasciando
soldati in loro aiuto. Gerone, ritenendo di non riuscire più a espugnare Messina (centro di potere
mamertino), ritornò a Siracusa colmo di onori per le sue imprese (L. Dindorfius, Diodori Biblioteca
historica ex recensione et cum annotationibus, in aedibus B. G. Teunbneri, Lipsia 1867, vol. IV, lib.
XXII, pp. 311-314).
19
P. Cluverius, Sicilia antiqua cum minoribus insulis ei adjacentibus. Item Sardinia et Corsica,
ex officina Elseviriana, Lugduni Batavorum 1619, vol. II, pp. 303-304. Al Cluverio si deve anche
l’ipotesi che il «Qwvrax lovfo~» (colle Thorax) fosse sito a destra del «Longanus amnis».
20
J. Hondius, Gerardi Mercatoris Atlas sive cosmographicae meditationes de fabrica mundi et
fabricati figura, Amsterdam 1619.
21
Nella mappa, tra l’Oliverio Flumen (torrente Elicona) e il Castri regalis flu(men), furono
rappresentate due piccole fiumare site nelle prossimità del casale Furnaris (oggi Furnari), forse il Patrì
e il Mazzarà.
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cacchi (che rappresentò il Longano con un unico braccio sotto Castroreale),22 seguirono il Briet23 e l’Hailler24 (che riproposero il Longanus flumen della mappa di Cluverio),
Ferrarius e il Baudrand (che definirono il Longano «nunc fiume di Castro Reale»),25 il
Deseine (che tra gli amnes et flumina decurrentia esistenti nelle vicinanze di Milazzo
menzionava il «Fiume di Castroreale Longanus»),26 De Wit (che rappresentò il Longano come nella mappa del Mercator),27 Giustiniani,28 Caruso,29 Lenglet du Dufresnoy,30
Pasqualino,31 Piaggia,32 Amico,33 Di Marzo Ferro,34 Zuccagni Orlandini,35 Vallardi,36
Rossitto,37 Corcia38 e numerosissimi altri geografi, storici e studiosi.
All’identificazione del «Loggano;n» di Polibio con il fiume che collega Bar-
22
T. Porcacchi, L’isole più famose del mondo descritte da Thomaso Porcacchi da Castiglione Arretino
e intagliate da Girolamo Porro Padouano, presso gli heredi di Simon Galignani, Venezia 1590, p. 51.
23
P. Briet, Parallela geographica Italiae veteris et novae, sumptibus Sebastiani Cramoisy et
Gabrielis Cramoisy, Parigi 1653.
24
M. Hailler, Siciliae Antiquae Descriptio, Philippi Cluverii introductionis in universa
geographiam tam veterem quam novam olim studio et opera, Johannis Bunonis,Wolfenbüttel 1694.
25
P. Ferrarius-M. A. Baudrand, Lexicon geographicum in quo universi orbis urbes, provinciae,
regna, maria et flumina recensentur, typis Iacobi de Cadorinis, Patavii 1674, p. 385.
26
F. Deseine, Tavole della geografia antica, moderna, ecclesiastica e civile, overo divisione del
globo terrestre nelle sue principali parti, regioni, regni, stati, provincie, città e altri luoghi riguardevoli.
Opera cominciata dà Signori Samson, geografi del Re Christianissimo, Nicolò Angelo Tinaffi stampator
Camerali, Roma 1690, tav. XV.
27
F. De Wit, Insula sive Regnum Siciliae Urbibus praecipuis exornatum, Amsterdam 1680.
28
F. Giustiniani, El Atlas abreviado ó el nuevo compendio de la Geografía Universal, Política,
Historica, i curiosa, segun el estado presente del Mundo, por Jaime Certa, Leon 1739, vol. III, p. 162.
29
G. B. Caruso, Memorie istoriche di quanto è accaduto in Sicilia dal tempo de’ suoi primieri
abitatori sino alla coronazione del re Vittorio Amedeo, Stamperia di Antonino Gramignani, Palermo
1742, vol. II, p. 3.
30
N. Lenglet Du Dufresnoy, Méthode pour étudier la géographie; Où l’on donne une Description
exacte de l’Univers, formée sur les Observations de l’Académie Royale des Sciences et sur les Auteurs
originaux, chez N. M. Tilliard, Parigi 1768, vol. IX, p. 295.
31
M. Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, Reale Stamperia, Palermo
1785, vol. I, p. 280.
32
G. Piaggia, Nuovi studi sulle memorie della città di Milazzo e nuovi principi di scienza e
pratica utilità derivati da taluni di essi, tipografia del Giornale di Sicilia, Palermo 1866, p. 58.
33
V. M. Amico, Lexicon topographicum siculum, in quo Siciliae urbes, opide, cum diruta, tum
extantia, montes, flumina, portus adjacentes insulae, ac singular loca describuntur, illustrantur, apud
D. Joachim Puleium, Catania 1760, vol. III, pp. 297-298.
34
G. Di Marzo Ferro, Dizionario geografico, biografico, statistico e commerciale della Sicilia,
Tipografia di Francesco Lao, Palermo 1853, p. 14.
35
A. Zuccagni Orlandini, Dizionario topografico dei comuni compresi entro i confini naturali
dell’Italia, Società Editrice di Patrii Documenti Storico-Statistici, Firenze 1861, p. 117.
36
G. Vallardi, Itinerario d’Italia o sia descrizione di CXXXVI viaggi per le strade più
frequentate, presso Pietro e Giuseppe Vallardi, Milano 1835, p. 328.
37
F. Rossitto, La città di Barcellona Pozzo di Gotto descritta e illustrata con documenti storici,
Italo-Latino-Americana Palma, Palermo 1986, ristampa del 1911, pp. 106-107.
38
N. Corcia, Delle antiche città della Sicilia d’ignota situazione, in «Atti della Reale Accademia
di Archeologia, Lettere e Belle Arti», stamperia della R. Università, Napoli 1868, vol. IV, pp. 198-199.
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cellona Pozzo di Gotto a Castroreale, si aggiunsero alcune tesi che lo assimilarono al
torrente Patrì o al torrente Mela (oltre ad indicazioni volte a ubicarlo genericamente
nella piana di Milazzo), dettate dalla notevole estensione delle aree pianeggianti limitrofe al loro corso, che furono ritenute più idonee per lo svolgimento della battaglia
del 269 a.C.39 Le considerazioni del tempo non tenevano però in attenta valutazione
le variazioni geomorfologiche e topografiche avvenute nel corso dei secoli nel bacino
idrico della valle del Longano, causate dalle frequenti esondazioni, dal notevole disboscamento dei luoghi e dall’azione antropica. Tutto ciò, modificando il corso idrico
e la configurazione topografica della fiumara, impedisce, in modo significativo, una
corretta lettura dell’antico territorio e delle caratteristiche che esso presentava al tempo
dello scontro tra Mamertini e Siracusani. La mancanza di tali cognizioni continuò a
generare, almeno fino alla metà del secolo scorso, numerosissime tesi sull’ubicazione
dell’antico «Loggano;n» e sulla città di Longane a esso collegata.
Intorno al 1950, l’ingegnere milazzese Domenico Ryolo, partendo dalla segnalazione di un’estesa necropoli (IV-VI secolo a. C.) nella contrada Mustaco (territorio di
Rodì Milici), limitrofa al torrente Patrì (o Termini), che era stata rinvenuta nel 1910 da
Vincenzo Cannizzo e seguentemente studiata da Paolo Orsi,40 dopo un attento «esame
39
T. Fazello, De rebus siculis decas prima criticis animadversionibus atque auctario ab S.T.D.D.
Vito M. Amico et Statella, ex typographia Joachim Puleji, Catania 1751, pp. 395, 397; C. Cellarius,
Notitia orbis antique sive geographia plenior ab Ortu Rerumpublicarum ad Constantinorum tempora
Orbis terrarium faciem declarans, apud Iohannis Friderici Gleditschii, Lipsiae 1731, vol. II, p. 802; G.
A. Massa, La Sicilia in prospettiva. Parte seconda. Le città, Castella, Terre, e Luoghi esistenti e non
esistenti in Sicilia, la Topografia Littorale, li Scogli, Isole e Penisole intorno ad essa esposti in veduta
da un religioso della Compagnia di Gesù, stamperia Francesco Cichè, Palermo 1709, vol. II, pp. 406407; J. Schweighaeuser, Polibii Megalopolitani Historiarum quidquid superest, impensis G. et W. B.
Whittaker, Oxonii 1823, vol. IV, p. 357; C. Anthon, A system of ancient and mediaeval geography for
the use of schools and colleges, Harper and brothers publishers, New York 1855, p. 391; G. E. Ortolani,
Nuovo dizionario geografico, statistico e biografico della Sicilia antica e moderna, presso Francesco
Abbate, Palermo 1819, pp. 16, 77, 78; W. Smith, Dictionary of greek and roman geography, Walton
& Maberly, Londra, 1857, vol. II, p. 204; G. Piaggia, Illustrazione di Milazzo e studi sulla morale e
su costumi dei villani del suo territorio, tipografia di Pietro Morvillo, Palermo 1853, pp. 10-11; A.
D’amico, Cenni storici su Merì, in «Archivio storico messinese» 7 (1906), p. 275.
40
Il primo contributo per lo studio archeologico del vasto bacino del Longano e delle aree
limitrofe si deve al prof. Vincenzo Cannizzo «del Regio Ginnasio di Castroreale», il quale, su invito
di Paolo Orsi, con cui aveva fatto «pratica archeologica esplorando le vaste necropoli sicule della sua
borgata nativa (Licodia Eublea)», cominciò a indagare intorno al 1910 alcune aree site nel versante
tirrenico della Sicilia orientale. Tra i luoghi individuati fu analizzato un sito ricadente in contrada
«Mustaca» (o Mustaco), costituito da un «piccolo acrocoro» posto «sulla sponda destra del fiume di
Rodì» (oggi torrente Patrì). Nell’area indagata, estesa circa un chilometro quadrato e oggi ricadente
nel territorio di Rodì Milici, il Cannizzo individuò «numerosi sepolcri formati da lastroni calcari e
protetti al di sopra da ciotoloni vari», manomessi in gran parte dai contadini del luogo. Lo scarso
materiale ceramico rinvenuto e il contenuto di una tomba (in cui il Cannizzo recuperò «due anfore
grezze, un cratere e quattro scodelline») spinsero Paolo Orsi a riferire i reperti al periodo compreso
tra il IV e il VI secolo a. C. La vastità della necropoli segnalata dal Cannizzo, inoltre, fece avanzare a
Paolo Orsi la «semplice congettura» che il sito, «in attesa di scavi regolari», fosse stato abitato da una
«grossa borgata di indigeni» che «nel V secolo aveva adottato le forme sepolcrali ed i portati industriali
della ormai predominante civiltà greca». L’archeologo di Rovereto dimostrava di non conoscere il
14 (luglio-dicembre 2013)
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Filippo Imbesi
della configurazione del terreno di tutta la zona», formulò l’ipotesi che l’antico Longanòs di Polibio fosse il torrente, «di maggiore importanza e di più grande bacino idrico», che «oggi si chiama torrente Patrì o Termini e non quello che scorre tra Barcellona
e Pozzo di Gotto». Forte di questa ipotesi, il Ryolo insieme a Luigi Bernabò Brea (allora
Soprintendente alle antichità per la Sicilia Orientale), esplorando le aree site a ridosso
della contrada Mustaco, individuarono e delimitarono, grazie anche a campagne di scavi
dirette da G. F. Carrettoni, un’area ricadente nel territorio di Rodì Milici costituita da
fortificazioni dell’età del bronzo e della metà del V secolo a. C. (monte Ciappa – monte
Cocuzza). La ceramica e le tombe rinvenute nelle contrade limitrofe (Grassorella, Paparini e Mustaco) attestarono la presenza dell’uomo fin dalla prima età del bronzo, con
livelli più ricchi nel V secolo a. C. I ritrovamenti effettuati portarono Bernabò Brea e il
Ryolo ad affermare che Longane era ubicata su un piccolo altipiano «misurante m. 500
x 1000 circa», limitato a nord da monte Cocuzza e a sud da monte Ciappa, e compreso
«fra la valle del fiume Termini a Est e quella del fiume di Mazzarrà a Ovest»41 (fig. 1E).
dibattito scientifico legato alle litre e al caduceo di Longane, poiché riferiva che le «fonti scritte» e
le «carte archeologiche della Sicilia non segnalavano in zona «veruna città greca», tranne «la città di
Abacenum, sicula di origine e col V secolo grecizzata», «S. Mauro di Centuripa» e «altri piccoli centri
dell’interno» (P. Orsi, Necropoli sicula a Pozzo di Gotto in quel di Castroreale - Messina, in «Bullettino
di paletnologia italiana» 41 [1915], pp. 3, 15-16; F. Imbesi, Longane, la civiltà perduta, Lulu, Barcellona
Pozzo di Gotto 2012, pp. 37-38).
41
Gli scavi diretti da Gian Filippo Carettoni rivelarono che monte Ciappa si trovava circondato –
tranne a nord dove il pendio scosceso formava un naturale elemento di difesa – da un muro di fortificazione
(«aggere in opera incerta»), «interrotto da una serie di torri quadrate prominenti, in qualche caso portetorri». La muratura della cinta muraria, costituita da conci squadrati alternati a pietre informi, presentava
uno spessore variabile tra m. 1,00 e m. 2,40, mentre le torri erano caratterizzate in massima parte da conci
squadrati lunghi fino a m. 1,40 e «con altezze tra cm. 35 e cm. 40». Negli scavi furono anche rinvenuti
frammenti di ceramica, che Bernabò Brea riferì a una facies dell’età del bronzo fiorita tra il XVIII e il
XV secolo a. C., i cui orizzonti culturali, diversi da quelli delle civiltà di Castelluccio e di capo Graziano,
presentavano analogie con le civiltà di Tindari e Vallelunga. Su monte Cocuzza furono invece rinvenute
«fondazioni» di mura megalitiche non squadrate, di circa 50 cm. di spessore, con due lati (ml. 24,25 e
ml. 27,50) che s’incrociavano ad angolo retto, mentre «il resto della muratura» era «costituito da un lato
curvilineo». Le strutture, riferite da Bernabò Brea alle «vestigia di un castello sito in posizione fortissima
inespugnabile», furono fatte risalire «alla fine dell’età del bronzo medio» (XIII secolo a. C.). Le mura
megalitiche di monte Cocuzza furono riferite a «un piccolo forte avanzato a difesa del pianoro», mentre
monte Ciappa rappresentava «l’acropoli vera e propria della città, dove dovevano sorgere i templi e gli
edifici pubblici, e dove la popolazione poteva trovare ultimo rifugio e ultima difesa in caso di un assedio
nemico». Altri saggi nella zona denominata casina Alcontres, sita sul pendio nord di monte Pirgo (Rodì
Milici), portarono al rinvenimento di strutture murarie riferibili a due ambienti che Bernabò Brea identificò
con un luogo di culto. Le indagini di Bernabò Brea e del Ryolo proseguirono con l’individuazione di «un
gruppo di tombe a forma di cameretta circolare» o «a forma di forno» in contrada Grassorella (pendio di
monte Gonia, limitrofo a pizzo Cocuzza e monte Ciappa), che Bernabò Brea riferì al IX e VIII secolo a. C.,
anche per il rinvenimento di oggetti di bronzo e ferro (tra cui fibule e pendagli), e di «vasi di forme varie»
(alcuni «plasmati al tornio» e «in qualche caso decorati con fini incisioni formanti motivi geometrici»). Gli
scavi e le indagini allora eseguite non rinvennero tracce di abitazioni. Ciò portò Bernabò Brea a ritenere
che esse fossero state realizzate «nella quasi totalità in legname», e in seguito cancellate dall’usura del
tempo. La ceramica raccolta negli scavi non oltrepassava però il V secolo a.C. Bernabò Brea e Domenico
Ryolo ne conclusero che Longane era stata violentemente distrutta (e non più ricostruita) «sul finire del
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Da Longane a Gala: ricerche storico-archeologiche nel territorio di Barcellona...
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Negli anni settanta del secolo scorso, l’architetto Pietro Genovese, a seguito
dell’individuazione di un’area fortificata posta nel territorio di Barcellona Pozzo di
Gotto sulla sommità di monte S. Onofrio (caratterizzata da materiale fittile e ceramico
compreso tra l’VIII e il I secolo a. C.), e di una campagna di scavi che portò alla luce
fortificazioni ad aggere del V sec. a. C. (con resti di ceramica risalente al VI-V sec. a.
C.),42 ipotizzò che i rinvenimenti effettuati erano legati all’antica città di Longane, poiché monte S. Onofrio si trova delimitato sul versante orientale dal torrente Longano43
V secolo nell’agitato periodo che vide le due spedizioni ateniesi contro Siracusa e più tardi l’avanzata dei
cartaginesi contro l’elemento greco in Sicilia, e infine l’avvento della tirannide di Dionigi il vecchio» (D.
Ryolo Di Maria, «Longane, città sicana», in Longane. Contributo alla conoscenza della città di Longane
in occasione della celebrazione del 20° anniversario dell’Autonomia Comunale 1947-1967, Biblioteca
Comunale Popolare Longane, Rodì Milici 1967, pp. 7-37; L. Bernabò Brea, Città di Longane cit., pp.
41-45; G. F. Carettoni, Longane, costruzioni accanto la casina Alcontres, acropoli di M. Ciappa, in
«Quaderni di Archeologia-Università di Messina» 1/2 [2000], pp. 39-41; F. Imbesi, Longane, la civiltà
perduta, cit., pp. 40-45).
42
Durante gli scavi fu rinvenuto il «fondo di una kylix» a vernice nera della «prima metà del V
secolo», su cui era presente l’iscrizione «HEMETERE», che fu collegata al «vocativo maschile in forma
ionica di un hJmevtero~». La Manni Piraino giudicò «caldidese» la «zona di rinvenimento», anche per
«il tipo di rho utilizzata» (M. T. Manni Piraino, Epigrafia greca, in «Kokalos» 22-23/1 [1976-1977] p.
280). Questa iscrizione si collega fortemente a quella coeva presente sullo stelo del caduceo bronzeo.
Esse attestano un riferimento evidente alle prime ajpoikivai calcidesi fondate in Sicilia dopo Naxos.
43
Un importantissimo contributo allo studio del vasto bacino del Longano si deve all’architetto
Pietro Genovese, il quale, a partire dai primi mesi del 1974, affrontò «in maniera organica il problema
della ricerca di insediamenti e stazioni preistoriche e storiche» nel territorio occupato dai comuni di
Barcellona Pozzo di Gotto, Castroreale e nei contigui bacini. Le prime ricognizioni gli permisero di
individuare un’area archeologica di grandi dimensioni sita nel sottobacino di monte S. Onofrio (frazione
Acquaficara di Barcellona Pozzo di Gotto), ricca «di filoni di pirite e calciopirite», rilevando inoltre «la
presenza di numerose tombe a grotticella». Il rinvenimento del sito, effettuato «il 24 maggio del 1974», lo
portò a ipotizzare l’esistenza di un grosso insediamento sul costone di monte S. Onofrio, «centro politico,
religioso e commerciale» attorniato da «altre stazioni sparse», ritenuto fin da subito un possibile riferimento
all’antico centro di Longane. Il sito, oggi in gran parte stravolto dall’azione dell’uomo, presentava due
cinte di fortificazione, di cui una costituita da una struttura ciclopica» realizzata «con grossi massi di selce,
in calcare arenitico ed in arenaria sovrapposti a secco». Alcuni reperti recuperati (frammenti di macine),
«qualche traccia di ossidiana», la «grossolana squadratura» di alcuni massi e alcune tombe a grotticella
(«due delle quali trasformate in tombe a camera nell’età del ferro») nelle necropoli di Acquaficara e
pizzo S. Domenica (collina limitrofa a monte S. Onofrio, ricadente nel comune di Castroreale) fecero
ricondurre questa cinta fortificata a «un insediamento della prima età del bronzo». Successive tracce
riscontrate nel sito, costituite da una «cinquantina di tombe a grande e media camera» (età del bronzo
e del ferro) nelle sottostanti valli («costoni di M.te S. Onofrio-Argentieri, Serro Cannata, Costa Calda
Acquaficara e S. Domenica»), da una cinta muraria e da numerosi reperti gli fecero ipotizzare l’esistenza
di un’altra struttura fortificata, costituita da un successivo villaggio sicano-paleo-greco, caratterizzato da
una «concentrazione di capanne» attorno ad un centro di coesione sociale e «da una serie di stazioni e
nuclei» localizzati lungo i costoni sottostanti. Le due fortificazioni rinvenute, edificate l’una a ridosso
dell’altra, delimitavano una «rocca sicano-greca» di mq. 4200. Sul sottostante pianoro, nel versante nordoccidentale e nord-orientale, erano inoltre presenti tracce di una «cinta ausonio e/o sicano-greca» che
doveva caratterizzare il nucleo abitato. Lo stato in cui furono rinvenute le opere difensive faceva pensare
«ad una loro distruzione violenta», operata «nel V sec. a. C. forse nel corso di una delle guerre condotte
dai Siracusani contro i Cartaginesi». Il sito di monte S. Onofrio, tuttavia, non risultava successivamente
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Filippo Imbesi
(fig. 1E).
Altre importanti evidenze archeologiche nelle aree in questione si evincono dalle
ricerche effettuate nel territorio di Barcellona Pozzo di Gotto da Vincenzo Cannizzo (che
individuò sulla collina Oliveto una vasta area archeologica, giudicata da Paolo Orsi «un
abitato siculo colla rispettiva necropoli, la cui età viene a cadere in media nel secolo VIII
a. C.»),44 da Carmelo Famà (che rinvenne nella contrada Maloto tombe protostoriche e
numerosi reperti del IV-II secolo a. C.),45 e dagli scavi condotti nel 1995 su pizzo Lando, che portarono al ritrovamento di strutture murarie di grandi dimensioni, con annessi
frammenti fittili dell’età del bronzo e reperti consistenti di epoca greca (VI-IV e III sec.
a. C.). I rinvenimenti del 1995, insieme con tutti quelli in precedenza effettuati nella vasta area del bacino del Longano, indussero l’archeologa Carmela Bonanno a formulare
l’ipotesi che monte Ciappa, monte S. Onofrio e pizzo Lando (fig. 1E) facessero «parte
di un sistema di fortificazioni erette a difesa della chora di un centro siculo ellenizzato»,
quale poteva essere «Longane o addirittura Abakainon».46
A queste ricerche, effettuate nell’ultimo secolo, che riconducevano alla presenza
di diverse unità etniche, si sono associate le indagini recentemente condotte nel vasto
comprensorio barcellonese. Partendo dalla segnalazione di una grotta molto ampia,
in gran parte crollata, sita nelle prossimità del torrente San Giacomo (affluente del
Longano), alcune ricognizioni nelle aree limitrofe (febbraio-maggio 2011) e una seguente campagna di esplorazione (settembre 2011-ottobre 2012)47 hanno portato al
rinvenimento di una vastissima area indigena in fase di ellenizzazione (in gran parte
sconosciuta), avente il nucleo centrale posto a ridosso del torrente Longano e una distribuzione territoriale (formata da villaggi, aree fortificate e necropoli) che occupava i
bacini compresi tra i torrenti Mela e Patrì (territori di Barcellona Pozzo di Gotto, Rodì
abbandonato, in quanto erano presenti «opere di riadattamento, forse ad edificio sacro», nei resti di «un
breve tratto del muro meridionale e nella contigua torre sud», costituite, tra l’altro, da «una breve rampa
d’accesso», in cui erano presenti «conci squadrati», «tegole piane», «colmi frantumati» e «scarse tracce di
reperti ceramici» («stile di Gnathia e presigillata romana, rispettivamente del VI-III e del II-I sec. a C.»).
Le importantissime ricerche di Genovese consentirono di attestare, dall’VIII secolo a. C., «il permanere
della presenza umana nel centro di M.te S. Onofrio, senza interruzioni, fin dopo la battaglia del Longano
(269 a. C.)», con il «suo totale abbandono avvenuto tra il II ed il I sec. a. C.» (P. Genovese, Testimonianze
archeologiche e paleontologiche nel bacino del Longano, in «Sicilia Archeologica, rivista periodica di
studi, notizie e documentazione edita dall’Ente Provinciale per il Turismo di Trapani» 10/33, (1977), pp.
10-47; F. Imbesi, Longane, la civiltà perduta, cit., pp. 49-63).
44
P. Orsi, Necropoli sicula a Pozzo di Gotto, cit., pp. 3-13; F. Imbesi, Longane, la civiltà perduta,
cit., pp. 35-37.
45
F. Imbesi, Longane, la civiltà perduta, cit., pp. 46-48.
46
C. Bonanno, Recenti esplorazioni a Pizzo Lando nel territorio di Barcellona P.G., in «Kokalos»
2/1 (1997-1998), pp. 375-396; F. Imbesi, Longane, la civiltà perduta, cit., pp. 64-67.
47
Gruppo di ricerca: Alex Alesci, Maria Grazia Alesci, Marco Anastasi, Mario Barresi 75, Mario
Barresi 78, Grazia Bucolo, Marco Colonna, Piero Coppolino, Armando Donato Mozer, Federico Gitto,
Francesco Giunta, Annita Imbesi, Filippo Imbesi (capogruppo e coordinatore), Salvatore Antonio
Natale, Salvatore Munafò, Giovanni Perdichizzi, Mariano Pietrini, Valentina Rossello, Enrica Saporito,
Nicola Siragusa, Mariano Francesco Sottile, Antonino Teramo, Salvatore Torrisi e Tania Triolo.
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Da Longane a Gala: ricerche storico-archeologiche nel territorio di Barcellona...
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Milici, Terme Vigliatore e Castroreale),48 area un tempo confinante con Mylai, Tyndaris e Abakainon, limitrofi centri della Magna Grecia (fig. 1E).
I siti individuati, in modo particolare, hanno consentito di attestare, tramite il
rinvenimento d’identiche caratteristiche tipologiche, archeologiche e culturali, l’esistenza di un’unica, antica civiltà autoctona consolidatasi nell’area fin dalla preistoria.49
Il potenziamento di questi primitivi insediamenti umani della valle del Longano, come
risulta dalle indagini effettuate, avvenne a partire dalla prima età del bronzo, quando
la penetrazione nell’area si stabilizzò attorno alle fiumare, mediante lo sfruttamento
delle risorse a loro legate (bacini cerealicoli, pascoli e minerali ferrosi), a discapito dei
siti collinari elevati (abbandono della caccia).50 A questa fase sono pertinenti numerose
tombe a grotticella che sono state individuate nelle indagini, di chiara matrice sicana,
caratterizzate da piccole e grandi strutture sepolcrali (maggiormente dell’età del bronzo recente), il più delle volte con identiche caratteristiche dimensionali, attestanti la
presenza di una società pluristratificata e organizzata in diversi villaggi siti lungo le
fiumare della valle del Longano.51
Anche durante l’età del ferro il principale nucleo insediativo dell’area indagata
risulta essere quello disposto attorno al Longano e alle sue fiumare, caratterizzato da
48
F. Imbesi, Longane, la civiltà perduta, cit., pp. 75-188. Le indagini effettuate hanno evidenziato
l’esistenza di un’estensione archeologica che occupa, senza soluzione di continuità, quasi tutta la fascia
medio collinare dei territori di Barcellona Pozzo di Gotto (Monte Le Croci, Torre Longa-Centineo,
Portosalvo, Moasi-Acquaficara, Monte S. Onofrio, Feo Ospedale, Gurafi, Parmento Grande, Argentieri,
Mortellito-Ciavolaro, Case Miano, Serra di Maloto, Case Bucca-Croce Maloto, Intrizzato, Pizzo
Soglio-Llaria-Praga, Grotta S. Venera-Case Cambriani, Gala-Tramontana, Monte Risica, OlivetoCavalieri, monte Lanzaria, contrada Lando, pizzo Lando e Serra di Spadolelle), Castroreale (VernacolaProtonotaro, pizzo S. Domenica, Caruso, Brefale, Serro Cannata, colle di Castroreale e suoi versanti,
Vignale, Pietro Pallio-Piano Telloso e Catalimita), Rodì Milici (Monte Gonia e aree limitrofe, Monte
Lombia, Pizzo Ciappa, Mustaca, Monte Pirgo-Casina d’Alcontres e Pizzo Cocuzza) e Terme Vigliatore
(Monte Marro e aree limitrofe). I limiti territoriali dell’area indagata sono costituiti dal torrente Mela
(est), dall’asse vallone Parrino-Colle del Re-Bafia-Serro Runcia (sud), dalla direttrice pizzo Cocuzzopizzo Ciappa-monte Lombia-monte Gonia-monte Marro (ovest) e dall’asse Portosalvo-monte Le Crocimonte Risica (nord).
49
Siti preistorici presenti nell’area indagata: Torre Longa-Centineo, Grotta Mandra-Gurafi,
Vignale, Pietro Pallio-Piano Telloso, Castroreale, Mortellito-Ciavolaro, Serra di Maloto, Pizzo SoglioLlaria-Praga, Lìmina-Zigari, San Paolo, Contrada Grotta S. Venera e Rocca Lassafare (F. Imbesi,
Longane, la civiltà perduta, cit., p. 190).
50
Siti dell’età del bronzo presenti nell’area: Monte Marro, Scorciacapre, Monte Gonia, Monte
Lombia, Pizzo Ciappa, pizzo Cocuzzo, Portosalvo, Moasi-Acquaficara, Vernacola-Protonotaro, Monte
S. Onofrio, Feo Ospedale, Gurafi, Parmento Grande, Pizzo S. Domenica, Argentieri, Brefale, Caruso,
Serro Cannata, Catalimita, Castroreale, Mortellito-Ciavolaro, Case Miano, Serra di Maloto, Case
Bucca-Croce Maloto, Intrizzato, Praga, Grotta S. Venera-Case Cambriani, Gala-Tramontana, Monte
Risica, Oliveto-Cavalieri, monte Lanzaria, contrada Lando e pizzo Lando (F. Imbesi, Longane, la civiltà
perduta, cit., p. 191).
51
Numerosi reperti conosciuti dell’area del Longano, costituiti da ceramiche di colore nerastro
(carenate e fornite di anse sopraelevate) e produzioni di colore rosso vivo e collo stretto, legano tali
strutture all’Ausonio I (età del bronzo recente, sec. XIII-prima metà sec. XII a. C.) e all’Ausonio II,
periodo compreso tra l’età del bronzo finale e gli inizi della prima età del ferro (L. Bernabò Brea, La
Sicilia prima dei Greci, cit., pp. 138-146).
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264
Filippo Imbesi
villaggi e da numerose tombe di forma quadrangolare, ovale, ellissoidale e a pianta
rettangolare con soffitto piano (con o senza pancone), in molti casi riusi di strutture
funerarie precedenti.52 La fusione sicano-sicula, già avvenuta durante l’età del ferro,
mostra anche chiare influenze del mondo Mediterraneo orientale tramite alcune strutture funerarie che sono state rinvenute nella valle del Longano.53 La strutturazione
insediativa che l’area indagata assunse durante l’età del ferro, trova scarso riferimento
nei siti di epoca paleogreca e greca fino a oggi conosciuti, che attestano, per la loro
distribuzione marginale rispetto al nucleo centrale del Longano, una lenta fase di ellenizzazione dell’area interrotta bruscamente.54 Infatti, alle significative testimonianze
di epoca classica sopravvissute delle città di Abakainon e Tindari, site a occidente, corrisponde una quasi totale stasi evolutiva nell’area del Longano. Questa brusca interruzione trova riferimento cronologico nel V secolo a. C., epoca delle strutture fortificate
di pizzo Lando55 e della distruzione violenta delle opere difensive greche di monte S.
52
Siti dell’età del ferro presenti nell’area: Monte Marro, Scorciacapre-Pietre Rosse, Monte
Gonia, Portosalvo, Moasi-Acquaficara, Vernacola-Protonotaro, Feo Ospedale, Monte S. Onofrio,
Parmento Grande, Gurafi, Pizzo S. Domenica, Brefale, Caruso, Argentieri, Serro Cannata, Catalimita,
Castroreale, Case Miano, Mortellito-Ciavolaro, Serra di Maloto, Case Bucca, Croce Maloto, Intrizzato,
Grotta S. Venera-Case Cambriani, Gala-Tramontana, Monte Risica, contrada Oliveto-Cavalieri e pizzo
Lando (F. Imbesi, Longane, la civiltà perduta, cit., p. 194).
53
F. Imbesi, Longane, la civiltà perduta, cit., pp. 108, 181.
54
Siti di età paleogreca e greca presenti nell’area indagata: Monte Marro, Scorciacapre, Monte
Lombia, Pizzo Ciappa-Mustaca, Monte Pirgo-Casina d’Alcontres, Monte Le Croci, Monte S. Onofrio,
Serra di Maloto, Lìmina-Zigari, Grotta S. Venera, Oliveto-Cavalieri, pizzo Lando e Serra di Spadolelle
(F. Imbesi, Longane, la civiltà perduta, cit., p. 195).
55
C. Bonanno, Recenti esplorazioni a Pizzo Lando, cit., p. 396. Al periodo seguente al V secolo
a.C., nello stato attuale delle conoscenze, fanno riferimento soltanto scarse tracce di reperti ceramici
del II-I secolo a. C. recuperati su monte S. Onofrio (P. Genovese, Testimonianze archeologiche e
paleontologiche nel bacino del Longano, cit., p. 46), alcuni «frammenti di vasi di età classica (III-I
secolo a. C.)» rinvenuti da Genovese in contrada Lìmina (P. Genovese, Tracce di un insediamento
neolitico stentinelliano a Barcellona, in «Sicilia Archeologica» 38 [1978], p. 87), due lacrimatoi del
IV e II secolo a.C. recuperati da Carmelo Famà a Maloto, le tombe di età greco ellenistica di contrada
Oliveto-Cavalieri (P. Orsi, Necropoli sicula a Pozzo di Gotto, cit., p. 4), le tracce di frequentazione degli
«inizi del III sec. a. C.» rinvenute negli scavi di pizzo Lando (C. Bonanno, Recenti esplorazioni a Pizzo
Lando, cit., p. 396), le scarse testimonianze di età greco-classica dell’area monte Pirgo-casina Alcontres
(L. Bernabò Brea, Città di Longane, cit., p. 43; G. F. Carettoni, Longane, costruzioni accanto la casina
Alcontres, cit., p. 36; B. Campagna, Recenti ricognizioni nel territorio di Rodì Milici, in «Archeologia
del Mediterraneo. Studi in onore di Ernesto De Miro», L’Erma di Bretscheneider, Roma, 2003, p.
157) e i «frammenti di tegole» e i resti di «due grossi pithoi» (III secolo a. C.) recuperati nell’area
Scorciacapre-Pietre Rosse da Biagina Campagna (B. Campagna, Recenti ricognizioni nel territorio di
Rodì Milici, cit., p. 157.). A tali informazioni si aggiungono anche lo statere di argento emesso dal
conio di Anaktorion (IV-III secolo a. C.) rinvenuto a monte S. Onofrio (P. Genovese, Note preliminari
sulle testimonianze archeologiche e paleontologiche individuate nel territorio del bacino del Longano,
Biblioteca Nannino di Giovanni, Barcellona Pozzo di Gotto 1978, pp. 27-29), due monete («tra cui un
pentonkion di zecca mamertina» della metà del III sec. a. C.) recuperate a pizzo Lando (C. Bonanno,
Recenti esplorazioni a Pizzo Lando, cit., p. 392) e due monete di bronzo, coniate dalle zecche di Tindari
(395-345 a. C.) e Siracusa (III secolo a. C.) rinvenute a nord di pizzo Ciappa (D. Ryolo, Longane,
città sicana, cit., p. 34.). Questi dati, attestando sporadiche frequentazioni nell’area dopo il V secolo
a. C., testimoniano l’assorbimento dei territori del Longano in aree limitrofe e i rapporti con culture di
altre località geografiche, decretando in modo evidente l’interruzione dello sviluppo territoriale che si
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Da Longane a Gala: ricerche storico-archeologiche nel territorio di Barcellona...
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Onofrio56 e pizzo Ciappa.57
Le strutture fortificate esistenti nell’area durante il V secolo a.C. trovano collegamento cronologico con le litre (424-415 a. C.)58 e il caduceo bronzeo (461 a. C.)59
riportanti gli epiteti «LOGGANAION», «LONGANAION», e «LONGENAIOS», che
attestano l’esistenza della città di Longane. La mancanza d’informazioni dopo il V
secolo a.C. induce a ritenere che quest’antica città non fosse più esistente, come si
rileva anche dai testi di Diodoro Siculo e Polibio, i quali, descrivendo nel 269 a.C.
la battaglia avvenuta presso il fiume Longanòs, non fecero menzione di nuclei abitati
lungo il suo corso e nelle aree interessate dallo scontro. L’etnico retrogrado dell’iscrizione «LOGGANAION» presente su alcune litre (con la lettera Γ al posto di una
Ν), attesterebbe inoltre l’influenza della cultura sicula nel conio e un’ancora iniziale
fase di ellenizzazione della città di Longane, che trova anche un importante riferimento nella forma calcidese «LONGENAIOS» presente sullo stelo del caduceo bronzeo
(prima metà del V secolo a. C.), denotante un collegamento alle prime colonie fondate
in Sicilia dopo Naxos e un’iniziale fase di assorbimento dell’insediamento nell’area
della Magna Grecia.60 In tale contesto, i siti di pizzo Ciappa (area fortificata con torri o
porte torri quadrate), monte S. Onofrio (area fortificata con torri quadrangolari) e pizzo
Lando (strutture murarie di grandi dimensioni), tra loro visivamente collegati, sembrano assumere la funzione di avamposti a controllo della vasta area indigena disposta
attorno al fiume Longano e ai suoi affluenti.
I siti che attestano un evidente collegamento alla civiltà di Longane sono due ipogei che sono stati rinvenuti lungo il torrente San Giacomo, costituiti da lunghi cunicoli
terminanti in profonde nicchie con forti rimandi simbolico-devozionali alle fonti idriche
dell’area. Essi, risultando collegabili alla divinità fluviale con i capelli smossi e con un
corno sulla fronte presente sul rovescio delle litre con l’iscrizione «LOGGANAION» (o
«LONGANAION»),61 inducono a ricondurre la divinizzazione del fiume di Barcellona
riscontra dall’età del bronzo fino all’età del ferro, culminato nell’iniziale fase di ellenizzazione avviata
con i nuclei fortificati di pizzo Lando, monte S. Onofrio e pizzo Ciappa.
56
P. Genovese, Testimonianze archeologiche e paleontologiche nel bacino del Longano, cit., pp.
45-46.
57
L. Bernabò Brea, Città di Longane, cit., p. 45.
58
G. K. Jenkins, The coinage of Enna, Galaria, Piaco, Imachara, Kephaloidion and Longane,
cit., pp. 99-101.
59
L. Bernabò Brea, Città di Longane, cit., p. 42.
60
S. Consolo Langher, Contributo alla storia dell’antica moneta bronzea in Sicilia, cit., p. 143;
G. K. Jenkins, The coniage of Gela, cit., nn. 499 e 501; G. K. Jenkins, The coinage of Enna, Galaria,
Piaco, Imachara, Kephaloidion and Longane, cit., p. 102. Un’altra conferma in tal senso proviene
dall’iscrizione «HEMETERE», presente sul frammento di una kylix della prima metà del V secolo
(coevo al caduceo bronzeo) rinvenuto negli scavi di monte S. Onofrio, che per «il tipo di rho utilizzata»
fu giudicata un’iscrizione calcidese, (T. Manni Piraino, Epigrafia greca, cit., p. 280).
61
F. Imbesi, Longane la civiltà perduta, cit., pp. 136-145, 156-162, 192-194. Le caratteristiche
della divinità presente nel conio appaiono assimilabili a quelle delle “Longane” (dette anche Anguanes,
Acquane, Ongane, Anguane, Angane o Langane), ninfe o creature mitologiche legate alle acque,
rappresentate come donne giovani, «con lunghi capelli sciolti» e con tratti che sottolineano la loro
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Filippo Imbesi
e Castroreale, come per altri centri indigeni ellenizzati,62 a influenze di popolazioni della
Magna Grecia nella civiltà sicula locale, mediante l’unione del culto greco di Eracle
(presente sul dritto delle litre di Longane) con quello indigeno della divinità fluviale (che
sicuramente trovava riferimento in pratiche cultuali dell’area ellenica).63
L’affinità tipologica e stilistica dell’Eracle di Longane con quello presente sui
tetradrammi di Kamarina,64 e la stretta somiglianza tra la divinità fluviale delle litre
e il dio fluviale del conio di Gela65 attesterebbero inoltre l’esistenza di stretti rapporti
tra Longane e queste importanti città della Magna Grecia. In tale collegamento è da
ricercare la breve esistenza e la distruzione di Longane, con molta probabilità avvenuta
dopo il V secolo a. C., nel «periodo che vide le due spedizioni ateniesi contro Siracusa»66 (cui parteciparono anche Kamarina e i Siculi schierati dalla parte di Atene).
La scomparsa di Longane, come risulta dalle indagini effettuate, creò una stasi
evolutiva in tutto il territorio barcellonese, interessato da scarsissime tracce del periodo
ellenistico-romano. Un nuovo, consistente impulso insediativo si rileva nell’area solo dal
periodo bizantino, di cui fanno testimonianza numerose tombe (in parte riadattamenti di
strutture sepolcrali protostoriche), alcuni reperti,67 cube e luoghi di culto rupestri.68
Questa significativa presenza attesta il permanere di unità greche nell’area dopo
la distruzione di Longane, e il loro rifiorire durante il periodo bizantino, occupando le
aree poste a ridosso del fiume Longano che erano state in precedenza interessate dalla
fase di ellenizzazione.
Fulcro e centro propulsore della presenza bizantina nel territorio barcellonese
fu il monastero di rito greco di Santa Maria di Gala («th`~ qeotovkou th`~ gavla~»),69
«appartenenza a un mondo non umano» (D. Perco, Le Anguane: mogli, madri e lavandaie, in «La
Ricerca Folklorica» 36 [1997], p. 72), molto diffuse nelle tradizioni di area celtica e nell’Italia centro
settentrionale (tra cui in Trentino, Friuli e nei siti rupestri di Lagole, Calalzo di Cadore e Val Camonica).
Il loro culto, con «probabili origini indoeuropee che riconducono all’Età del Bronzo» (C. Bearzot,
«Rivendicazione di identità e rifiuto dell’integrazione nella Grecia antica», in Identità e integrazione:
passato e presente delle minoranze nell’Europa mediterranea, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 115116), trova anche un collegamento con le «Neraides greche» e con la dea Ecate (D. Perco, Le Anguane,
cit., p. 71), cui era collegato in Sicilia il culto della vergine Longatide o dea Longatis che veniva praticato
in un tempio di Pachino (E. Ciaceri, La Alessandra di Licofrone, cit., pp. 209, 290; A. Holm, Storia
della Sicilia nell’antichità, cit., p. 45; M. Vinci, Il sogno di Licofrone, cit., pp. 376-377).
62
M. Barra Bagnasco, Il culto delle acque in Magna Grecia dall’età arcaica alla romanizzazione:
documenti archeologici e fonti letterarie, in «Archeologia dell’acqua in Basilicata», Soprintendenza
Archeologica della Basilicata, Potenza 1999, pp. 25-52.
63
F. Imbesi, Longane la civiltà perduta, cit., pp. 197-198.
64
S. Consolo Langher, Contributo alla storia dell’antica moneta bronzea in Sicilia, cit., p. 143; U.
Westmark-G. K. Jenkins, The coniage of Kamarina, Royal Numismatic Society, Londra 1980, pp. 40-56.
65
G. K. Jenkins, The coniage of Gela, cit., nn. 499 e 501.
66
L. Bernabò Brea, Città di Longane, cit., p. 45.
67
F. Imbesi, Longane la civiltà perduta, cit., pp. 60-61,72, 114.
68
Alcune cube distribuite nell’area sono ancora chiaramente leggibili nella loro conformazione
storico-architettonica (contrade Torrione-S. Antonio e Miranda), altre furono riadattate per vari usi
(contrade Portosalvo, Lando, Statale S. Antonio e grotta S. Venera-San Giacomo) o riutilizzate come
torri campanarie in chiese latine (chiesa Madonna del Piliere di Acquaficara).
69
R. Cantarella, Codex messanensis graecus 105, Deputazione di Storia Patria, Palermo 1937,
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Da Longane a Gala: ricerche storico-archeologiche nel territorio di Barcellona...
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del quale sopravvivono gran parte delle strutture monastiche in condizioni di notevole
degrado, sito nelle strette vicinanze di un affluente del Longano. Secondo tradizioni
divulgate dai monaci, il cenobio di Gala era stato fondato sul sito in cui sorgeva «un
colosso di marmo bianco d’ignota divinità».70 Sebbene il monastero fosse già fornito
di «specialissime grazie» dal «Re dei Mori»,71 il più antico documento conosciuto
che lo riguarda è però il sigivllion (privilegio) di rifondazione che fu concesso dalla
reggente Adelasia nell’anno bizantino 6613 (1 settembre 1104-31 agosto 1105), in
seguito inserito in un diploma greco del 6 novembre 1144 con cui re Ruggero II, figlio
di Adelasia, confermò ad Arsenio, hJgouvmeno~ del monastero, il precedente privilegio
emanato dalla madre. Oggi è possibile conoscere il testo di questo documento grazie
alla traduzione latina che fu redatta dall’abate Filippo Ruffo nel 1439 e in seguito inserita nel Liber Prelatiarum Regni Siciliae, volume oggi custodito presso l’Archivio
di Stato di Palermo.72
Il transunto effettuato dal Ruffo rivela che il ruolo fondamentale per la riedificazione del monastero fu svolto dal bizantino Nicola di Mesa, kaprilivgga~ (camerario)
del gran conte Ruggero I e poi di suo figlio Simone,73 che aveva richiesto per sé, e ottenuto da Adelasia, la concessione di poter riedificare, «de fundamentis», il tempio della
Genitrice di Dio di Gala («Dei Genitricis super nomine de Gala»).74 In modo particolare, il transunto del Ruffo rivela che, grazie alle molte suppliche rivolte dal camerario
Nicola alla reggente Adelasia, al cenobio furono confermati e assegnati numerosissimi
beni e diritti tali da costituire un ponte tra i versanti tirrenico e ionico dei Peloritani, la
cui entità rende Gala il più importante monastero di rito greco fondato o rifondato dai
Normanni prima dell’istituzione dell’archimandritato del S. Salvatore in lingua phari.75 Le numerose e particolari concessioni effettuate appaiono sicuramente il risultato
pp. 41, 85, 63, 142.
70
F. Rossitto, La città di Barcellona Pozzo di Gotto descritta e illustrata con documenti storici,
Italo-Latino-Americana Palma, Palermo 1986, ristampa del 1911, p. 76.
71
Il Maurolico, sulla base di «cinque diplomi scritti in lingua Moresca» da lui consultati, riferiva
che «il Re dei Mori forniva di specialissime grazie il monastero di S. Maria di Gala» (P. Pompilio Rodotà,
Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, per Giovanni Generoso Salomoni, Roma
1760, vol. II, p. 83).
72
F. Imbesi, Il privilegio di rifondazione del monastero di Santa Maria di Gala (1104-1105), in
«Mediterranea. Ricerche Storiche» 17 (2009), pp. 597-599.
73
Il bizantino Nicola di Mesa fu il più importante funzionario della corte di Ruggero I e di suo
figlio Simone. Egli compare in numerosi atti stipulati tra il 1086 e il 1105 con le seguenti cariche (F. Imbesi,
Il privilegio di rifondazione del monastero di Santa Maria di Gala, cit., pp. 608-611): wjstiavrio~ kaiv
mustoklevto~ (1086); prwtonotavrio~, kaprili;gga~, prwtospatavrio~ (1090); Secretarius et Rector
(1092); Camberlanus (1094); prwtonotavrio~, prwtonobellhvs imo~, krithv~ aJpavsh~ kalabritivdo~
cwvra~ (1099); Camberlarius (1101); Camerarius (1103); kaprili;gga~, mustolevkto~ (1105).
74
F. Imbesi, Il privilegio di rifondazione del monastero di Santa Maria di Gala, cit., pp. 607, 616.
75
Le concessioni confermate ed effettuate al monastero di Gala furono le seguenti: il possesso
di un vasto territorio sito attorno al monastero (con la facoltà di giudicare, tranne i reati di omicidio e
tradimento, gli uomini insediati), le paludi di Gatiri, le chiese di San Filippo di Furnari e della Genitrice
di Dio di Oliveri, il castello di Sant’Euplo nella penisola di Milazzo, un bosco sito presso Castiglione
di Sicilia, il tempio con le sue terre sito davanti la chiesa di San Michele nel porto di Milazzo, la chiesa
14 (luglio-dicembre 2013)
268
Filippo Imbesi
di una mediazione tra i normanni (e per essi il bizantino Nicola) e la popolazione di
religione, lingua e cultura greca locale, che doveva essere numerosa, molto influente e
fortemente radicata attorno al cenobio barcellonese.
Tra le concessioni effettuate da Adelasia al monastero di Gala, spicca la chiesa
di San Pantaleone nel porto Quison o Quinson (con la facoltà di tenere le barche con
cui pescare), sito corrispondente all’attuale capo Schisò di Giardini Naxos76 presso di
cui fu fondata la prima colonia calcidese di Sicilia.77 Questa donazione testimonia un
evidente collegamento tra il primo insediamento calcidese dell’Isola e la penetrazione
dell’elemento greco nel comprensorio barcellonese con la fondazione della colonia
siculo-calcidese di Longane, che si consolida e perdura nei secoli seguenti con le numerose testimonianze bizantine esistenti nel bacino del Longano e con la rifondazione
del monastero di Gala.
La conformazione che la valle del Longano assumerà con la riedificazione del
cenobio greco di Gala – e, in seguito, con il potenziamento del casale di Nasari,78 con
la nascita di cinque feudi79 e la fondazione dei casali di Barsalona e Putheus Goti – 80
caratterizzerà fino all’età moderna lo sviluppo dei principali nuclei abitati di Barcellona
Pozzo di Gotto, attraversati ancora oggi dall’antico fiume Longanòs e dai suoi affluenti.
di San Giovanni Teologo presso Castiglione di Sicilia, un mulino nella fiumara di Raneri, la facoltà di
costruire mulini nelle fiumare del Platì e di Santa Lucia, le terre di Marci con tutte le loro pertinenze,
il luogo detto Barnava dove allevare le api, la facoltà di poter pescare liberamente presso Taormina e
Milazzo e di entrare ed uscire senza impedimenti dal porto di Milazzo, quindici barili di tonnina dalla
tonnara di Milazzo, la chiesa di San Pantaleone nel porto di Schisò (con la facoltà di tenere le barche con
cui pescare), la facoltà di poter estrarre liberamente dalla città di Messina ogni cosa fosse necessaria,
il diritto di pascolo in tutte le terre del regno e un numero elevato di villani (F. Imbesi, Il privilegio di
rifondazione del monastero di Santa Maria di Gala, cit., pp. 603-607, 616-619, 633-634).
76
«Item damus et Sanctum Pantaleonem qui est in Portu Quison ut habeant ibidem habitacionem
monacorum barce que piscari debeant. Similiter quicquid habent monaci exire a portu Quinson et
solvere usque ad molem portuum libere quidem agant ipsa ab omni consuetudine ac iure maris»
(F. Imbesi, Il privilegio di rifondazione del monastero di Santa Maria di Gala, cit., pp. 606, 619).
77
G. Carandente-G. Voza, Arte in Sicilia, cit., p. 31; E. Gabba-G. Vallet, La Sicilia antica, cit.,
p. 109; R. Panvini, La Sicilia in età arcaica, cit., p. 61.
78
L’antichissimo casale di Nasari (dall’arabo nasara, “cristiani”), preesistente alla conquista
normanna, fu donato nel 1127 dal conte normanno Ruggero II al vicecomes Ansaldo di Arri, dopo
essere stato nelle proprietà della moglie di quest’ultimo (F. Imbesi, Il privilegio di Ansaldo vicecomes di
Arri (giugno 1127), in «Mediterranea. Ricerche Storiche» 20 [2010], pp. 555-586).
79
F. Imbesi, Terre, casali e feudi nel comprensorio barcellonese. Dal privilegio di Adelasia alla
fine del feudalesimo, Uni Service, Trento 2009, pp. 271-362.
80
F. Imbesi, Terre, casali e feudi nel comprensorio barcellonese, cit., pp. 298-299, 302-303.
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269
Da Longane a Gala: ricerche storico-archeologiche nel territorio di Barcellona...
Fig. 1
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P. Alessio Mandranikiotis
La Sicilia bizantina e la sua fioritura agiografica
La presenza di Bisanzio e della sua civiltà, assumono per l’Italia un significato speciale
[…] perché dal Medioevo al Rinascimento l’Italia divenne l’interlocutore europeo più
vicino e privilegiato di Bisanzio. Quindi non si esagera affermando in senso positivo o
negativo, che la storia e la civiltà di Bisanzio siano inseparabili da quelle dell’Italia e
che non sia possibile comprenderle prescindendo, come purtroppo spesso si è fatto e si
fa, da tale parentela di primo grado che la stringe. Se per altre nazioni occidentali lo studio di Bisanzio può essere un lusso marginale ed episodico, per l’Italia è una necessità
centrale e costante.1
Nell’arco di circa sette secoli e più in cui fiorirono in Italia la civiltà e la cultura
bizantine, possiamo sommariamente e brevemente distinguere e suddividere tre epoche o periodi storici omogenei (i Bizantini in Italia; la dominazione Araba; i Normanni
nel Sud) in cui collocare – per riconoscerli più facilmente – questi cenni biografici
di eminenti personalità religiose, ammirevoli per cultura, santità e incisività da loro
avuta nel concreto cammino storico del cristianesimo del loro tempo, delle quali ci sia
rimasto o un preciso profilo biografico, oppure ci siano state tramandate soltanto brevi
notizie, un po’ incerte o confuse, più o meno verificabili con riscontri documentari a
nostra disposizione, ma non per questo meno meritevoli di essere ricordate.
1. I Bizantini in Italia
Nella sezione orientale dell’Impero Romano, divisione già stabilita dall’imperatore pagano Diocleziano (284-305), con la fondazione nell’antica Bisanzio della nuova
capitale Costantinopoli, «Nuova Roma», operata dal primo imperatore cristiano Costantino (324-337), la sede vescovile di quella città assurse lentamente alla dignità di patriarcato (dopo Roma, Alessandria d’Egitto, Antiochia di Siria e Gerusalemme) e a quella
importante sede episcopale, a causa di numerose vicende storiche, politiche e religiose
(col propagarsi e continuo espandersi dell’Islam) faranno esclusivo riferimento per la
loro fede tutti i cristiani di lingua (liturgica) greca diffusi nel bacino del Mediterraneo.
Per quanto ci interessa più da vicino, dopo le invasioni barbariche, la Sicilia, la
Calabria, la Sardegna, il Salento pugliese, le città costiere della Campania, il Ravennate e la Laguna veneta, con le terribili guerre gotiche (533-553) e la successiva in-
1
C. Capizzi, La civiltà bizantina, Ed. Jaka Book, Milano 2001, pp. 13-14.
«Mediaeval Sophia». Studi
w w w. m e d i a e v a l s o p h i a . n e t
e ricerche sui saperi medievali
E-Review semestrale dell’Officina di Studi Medievali
14 (luglio-dicembre 2013), pp. 271-279
272
P. Alessio Mandranikiotis
vasione longobarda, furono con alterne vicende annesse all’Impero romano d’Oriente
dall’imperatore Giustiniano I (527-565) nel tentativo da lui intrapreso e non riuscito
della ricostituzione dell’Impero romano d’Occidente, sempre pensato come facente
parte di un’unica realtà storica: lo Stato romano, istituzione civile, religiosa (cristiana),
economica, culturale, sociale veramente degna di questo nome, al di fuori della quale
era concepita come possibile sola la barbarie.
Nondimeno, dal punto di vista ecclesiastico, questi territori italiani dipendevano
sempre dal patriarcato di Roma, anche dopo le sofferte vicende storiche che travagliarono le comunità cristiane del Medio Oriente (numerosi conflitti religiosi e lotte teologiche tra cristiani di diversa confessione cristologica, distruzioni e violenze compiute
dall’invasione persiana del 611-614, l’inarrestabile dilagare nel Mediterraneo, dal 622
[Egira] in poi, della nuova religione islamica, le persecuzioni iconoclaste dell’VIII
e IX secolo…) ebbero ingrossato notevolmente l’elemento etnico greco o orientale
presente già da diversi secoli nell’Italia Meridionale e a Roma, con continue e successive immigrazioni di personalità civili e religiose, gruppi sparsi di dignitari, militari,
commercianti, con le loro famiglie, altre persone di vario genere e gente di diversa
estrazione sociale al loro seguito.
Agli inizi del VII secolo si va formando a Roma una numerosa e significativa
comunità di «Greci» (orientali di varia provenienza) immigrati da diverse parti del Mediterraneo, i quali edificheranno od officeranno numerose chiese e basiliche romane (S.
Maria Antiqua, S. Maria in Còsmedin, S. Giorgio al Velabro, S. Cesario al Palatino, S.
Alessio all’Aventino, S. Teodoro, S. Saba, S. Anastasia…): fenomeno analogo a quanto
avvenuto a Ravenna e altrove durante l’Esarcato bizantino. È a cominciare da quest’epoca che la chiesa di Roma avrà dei papi greci (Bonifacio III, Teodoro I, Giovanni V,
VI e VII, Sisinno, Costantino) e Papi nati da genitori greci (o orientali) in Sicilia o in
Calabria (S. Agatone, S. Leone II, Conone, S. Sergio I, S. Zaccaria, Stefano III).2
Molti codici biblici e liturgici, preziosissimi, che oggi possediamo in Europa, di
origine siriaca o egiziana (per esempio il celebre e splendido Codice Purpureo di Rossano, del V-VI secolo) vengono portati in Italia in questo periodo al seguito di grandi
personaggi (gli imperatori Focà e Costante II, i monaci S. Massimo il Confessore e
Giovanni Mosco, ecc.) o vengono offerti in dono a eminenti personalità occidentali in
visita a Costantinopoli (i Papi Virgilio, S. Giovanni I, S. Agatone, Costantino…).
Durante questo periodo storico avviene la bizantinizzazione della cultura siciliana
e delle strutture amministrative ed economiche del Mezzogiorno d’Italia, come pure della
liturgia romana (festività cristologiche e mariane, inni liturgici, processioni, stazioni…).
Ed è in questo periodo che l’arte paleo-bizantina produce in Italia alcuni suoi
capolavori assoluti: architettura e mosaici di S. Vitale, mosaici di S. Apollinare Nuovo e in Classe, Battisteri a Ravenna; mosaici a S. Maria Maggiore, S. Paolo f.l.m., S.
J. M. Sansterre, Les moines grecs et orientaux à Rome aux époques byzantine et carolingienne,
Académie royale de Belgique, Bruxelles 1980 (Mémoires de la classe des Lettres, 8, s. II, 66/1), vol. I,
pp. 9-51.
2
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La Sicilia bizantina e la sua fioritura agiografica
273
Prassede, S. Agnese, S. Maria in Domnica, SS. Cosma e Damiano al Foro, affreschi di
S. Maria Antiqua, a Roma; affreschi di Castelseprio, ecc.3
Ma nell’anno 732, per reazione politica alla condanna dei papi di Roma dell’iconoclasmo favorito da alcuni imperatori di Bisanzio, questi staccano il territorio italiano dipendente ecclesiasticamente dalla giurisdizione del patriarcato di Roma per
sottoporlo a quella del patriarca di Costantinopoli, perché culturalmente appartenente
all’Impero d’Oriente; anzi, le varie alleanze politiche che i papi di Roma allacceranno
coi nuovi potenti regni barbarici europei (Lotario I con San Pasquale I, Ludovico il Pio
con Stefano IV, Ottone II con Gregorio V, Ottone I con Giovanni XIII, Ottone III con
Silvestro II…) giustificheranno agli occhi dei cittadini dell’Impero bizantino questa
annessione del Meridione d’Italia all’Impero d’Oriente, dal momento che sembra a
tutti evidente che il papa dell’Antica Roma sia caduto in potere dei barbari Franchi.
Perciò i vescovi della Sicilia, considerati a Bisanzio come «concelebranti» (= suffraganei) del patriarca di Costantinopoli, si recheranno d’ora in poi a Bisanzio considerando
quel vescovo come «ecumenico» (= universale per l’Impero) ignorando così di fatto i
diritti della Chiesa di Roma sanciti dai sacri Canoni.4
Tuttavia durante le persecuzioni iconoclaste molti fedeli e santi monaci ripareranno proprio in Italia, a Roma in particolare, portando con sé in salvo preziose icone
e venerate reliquie di santi, per preservarle dalla profanazione e dalla distruzione imperiale, ancora oggi venerate in diverse località della penisola italiana.
A questo lungo ed importante periodo storico, rilevante per la formazione religiosa, civile, culturale e artistica dell’Italia e dell’Europa, appartengono cronologicamente insigni figure di santi greci, nati e vissuti in Italia, animati da incrollabile fede e
dotati di profonda e solida cultura, caratterizzati da forte impegno pastorale e sociale.
Relativamente alla diffusione del monachesimo orientale, si può affermare che
nella storia del monachesimo greco diffusosi nel Meridione d’Italia furono praticate
tutte le forme di vita ascetica conosciute, fin dalle origini del monachesimo cristiano,
in Egitto, Siria, Palestina, Cappadocia…
Insieme a forme a noi più familiari di cenobitismo, l’eremitismo fu ampiamente
praticato in tutte le sue forme come espressione di più eroica testimonianza di fedeltà
resa al messaggio cristiano, come mezzo e modo migliore per una più stretta unione
con Dio e immolazione di sé stessi a vantaggio dell’intera famiglia umana: reclusione
perpetua o temporanea, esicasmo, solitudine e segregazione dal consorzio umano, continua anacoresi, prolungata preghiera, speleotismo, esilio volontario e peregrinatio,
precarietà di condizioni di vita più elementari, alimentazione occasionale, assenza di
cure e attenzioni per la propria persona, noncuranza delle norme igieniche, ecc. Dun-
A. Jacob, «L’evoluzione dei libri liturgici bizantini in Calabria e Sicilia dall’VIII al XVI
secolo», in Calabria bizantina. Vita religiosa e strutture amministrative. Atti del I e II Incontro di Studi
Bizantini, Ed. Parallelo, Reggio Calabria 1974, pp. 47-69.
4
F. Russo, Storia della Chiesa in Calabria dalle origini al Concilio di Trento, Ed. Rubettino,
Soveria Mannelli 1982, pp. 186-187.
3
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P. Alessio Mandranikiotis
que un’esistenza di continua ascesi e quotidiana mortificazione, scandita dalla memorizzazione e “ruminazione” di passi della Sacra Scrittura che riempivano i giorni e le
notti di questi religiosi.
Il cenobitismo, praticato in monasteri di modestissime dimensioni, possedeva
sempre diversi metochia (= dipendenze monastiche, grangie, romitori, cappelle rurali)
dove i monaci (e spesso gli egumeni, veri padri spirituali e confessori della comunità
da loro diretta) si ritiravano in completa solitudine temporanea per condurvi una più
fervente ascesi (specie nei periodi quaresimali).
Non dobbiamo perciò immaginare grandi edifici in muratura: spesso si trattava
di una semplice area di campagna, cinta da una palizzata, al cui interno (a seconda
delle disposizione e conformazioni del terreno) erano sparse capanne, cellette, grotte,
anfratti, tronchi di alberi cavi… che servivano come estremo riparo dalle intemperie e
come luoghi di culto. Così cenobitismo ed eremitismo coesistettero sempre tra loro in
una gamma di forme variegate e sfumate.
Le «vite» dei santi monaci che ci sono pervenute, in traduzione latina o nell’originale greco, indicano che i monaci di una stessa comunità vivevano parte isolati,
parte in gruppi di due o tre, alternando momenti di solitudine con altri di vita comune
(preghiera liturgica, pasti, catechesi dell’egumeno) sotto la direzione spirituale di un
«ghieronda» (= anziano) padre spirituale e confessore. Altri ancora, come oggi in Grecia e nell’Oriente cristiano, vivevano in successione le diverse forme di vita monastica, passando dal cenobitismo all’eremitismo e viceversa durante tutta la loro vita. Chi
entrava in monastero si esercitava in vari esercizi materiali, faticosi, sgradevoli, che
rendeva alla comunità come prova di determinazione e irrevocabile decisione e come
forma di caritatevole servizio fraterno, oltre a praticare gli esercizi ascetici comuni ed
essere presente alla comune preghiera liturgica, prima di potersi dedicare alla solitudine
interiore, sempre però alle dipendenze del Padre spirituale della comunità. I pasti in comune, le frequenti istruzioni ai monaci, il canto della liturgia in un unico luogo di culto,
un comune orario giornaliero distinguevano il cenobio da altre forme di vita monastica.
Comunque l’eremitismo rimase sempre – e lo è ancora oggi nell’Oriente cristiano – l’ideale massimo dell’ascesi italo-greca (temporaneamente anche per i laici e perfino per i vescovi!) come lo fu l’ideale di una migrazione continua (xeniteia: vivere da
straniero), sull’esempio di Abramo già presente come forma di ascesi tra i Padri del deserto e diffusa persino nel monachesimo celtico, iro-scoto (peregrinatio pro Christo).5
Per quanto riguarda il cenobitismo, ricordiamo che chi viveva ritirato, alle dipendenze di una determinata comunità monastica, per il bene spirituale poteva essere
C. D. Fonseca (a cura di), La civiltà rupestre medioevale nel mezzogiorno d’Italia. Ricerche e
problemi. Atti del primo convegno internazionale di studi, Mottola-Casalrotto, 29 settembre-3 ottobre
1971, Istituto Grafico S. Basile Ed., Genova 1975; C. D. Fonseca (a cura di), La Sicilia rupestre nel
contesto delle civiltà mediterranee. Atti del sesto Convegno internazionale di studio sulla civiltà rupestre
medioevale nel Mezzogiorno d’Italia, Catania-Pantalica-Ispica, 7-12 settembre 1981, Congedo Ed.,
Galatina 1986; E. Morini, Eremo e cenobio nel monachesimo greco dell’Italia Meridionale dei secoli
IX e X, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia» 31 (1977), pp. 41 ss.
5
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La Sicilia bizantina e la sua fioritura agiografica
275
anche accolto in un altro monastero, contrariamente alla stabilitas loci del monachesimo occidentale e benedettino, principio mai recepito nel monachesimo greco.
Inoltre, la grande irradiazione operata a Costantinopoli con la riforma monastica
iniziata da S. Teodoro Studita e continuata dai suoi discepoli, aureolata da eroico ascetismo, cultura e santità, attrasse anche il monachesimo italo-greco, con la sua operosità
e laboriosità poste al servizio della fede cristiana e del culto ecclesiale; perché il monachesimo greco dell’Italia Meridionale guardò sempre a Bisanzio come suo naturale
centro di gravitazione storico, culturale, religioso e spirituale.6
Dei santi di cui si è conservato il profilo biografico e le cui «coordinate agiografiche» ci attestano e documentano il persistere, attraverso le scorrere del tempo, del
culto loro prestato, proponiamo e ne ricordiamo alcuni.
Tra le poche e preziose vitae greche originali pervenuteci, si è miracolosamente
conservato il bios di un grande asceta vissuto in quest’epoca poco conosciuta; di origine siriaca, ma inviato in Sicilia da Roma con tutto il prestigio della sede apostolica,
che si preoccupava di una sistematica opera di evangelizzazione, a tappeto, dell’interno
ancora molto arcaicizzante dell’Isola, fortemente ancorato a culti ancestrali legati a
manifestazioni eclatanti delle forze della natura (fuoco, acqua, vento, terremoti, eruzioni vulcaniche, boschi, vita e morte, sangue e fecondità, ecc.) personificate dall’antico
paganesimo classico; come pure per l’attestata presenza della fede ariana vandalica:
ovunque è venerato S. Filippo, detto d’Agira per la località dove il santo stabilì il centro
organizzativo, propulsore della fede cristiana definita nei precedenti Concili ecumenici,
predicata da tutta una sua équipe di validi collaboratori e fedeli discepoli continuatori.
Di altri insigni personaggi, per svariati motivi profughi dall’Oriente cristiano e
dal Nord Africa ancora vandalico (e quindi ariano), conserviamo il devoto ricordo nel
nome, genericamente attribuito a diverse personalità meritevoli di culto, conosciuti
col reverente titolo di «Calogero» (= buon vecchietto), dato dalla popolazione a questi
amati asceti e venerati taumaturghi.
L’ascetismo rifulse in grado eminente in vari personaggi vissuti da eremiti (Luca
di Taormina, Prassinacio di Messina, Simeone l’Antico), reclusi (Panteleimon di Catania), egumeni (= guide) di fervorose comunità di penitenti, quali Basilio di Pantelleria,
Nicandro di Messina, Teoctisto di Caccamo, capaci di educare, come S. Fausto di Siracusa, futuri grandi vescovi di città (Zosimo di Siracusa, Gregorio di Agrigento, Leone
di Catania); e di divenire essi stessi grandi pastori (S. Cirillo di Reggio Calabria, S. Atanasio di Modone) e persino gerarchi della Chiesa (S. Metodio di Siracusa, assurto alla
sede patriarcale di Costantinopoli); come pure santi pontefici dell’Antica Roma (Agatone, Sergio I, Leone II, ecc.), che hanno arricchito la liturgia e la devozione occidentale.
T. Minisci, Riflessi studitani nel monachesimo italo-greco, in «Orientalia Christiana Analecta»
153 (1958), pp. 215-218.
6
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2. La dominazione araba
La fioritura della civiltà bizantina nel nostro Meridione, con il normale sviluppo
della vita cristiana, soprattutto in Sicilia, subiscono un improvviso arresto in conseguenza della conquista musulmana dell’Isola: dall’anno 827 i Berberi dell’Emirato
arabo Aglabita di Kairuàn, dal Nord-Africa, occupano tutta la Sicilia, dichiarata «Terra
dell’Islam»; essi tenteranno di replicare il successo ottenuto anche nel resto del Meridione: Calabria, Basilicata, Puglia, Basso Lazio, perfino Roma, Montecassino, Farfa,
San Vincenzo al Volturno… subiranno il disastroso effetto delle loro improvvise e
sanguinose incursioni, razzie, saccheggi, stragi e deportazioni in schiavitù:7
nel 740 Pantelleria diventa araba. Siracusa si salva pagando un forte tributo;
nell’812 Ischia e le Isole Ponziane diventano basi musulmane;
nell’813 Civitavecchia e Reggio Calabria vengono assalite e saccheggiate dagli arabi;
nell’837 Benevento è assediata, Brindisi incendiata;
nell’839 Ancona viene saccheggiata;
nell’840 Taranto cade come Ancona;
nell’841 Bari è presa;
nell’847, partendo da Ischia e Ponza, gli arabi saccheggiano a Roma le basiliche di S.
Pietro e di S. Paolo;
nell’871 Salerno e Capua sono saccheggiate;
nel 934-935 Genova è saccheggiata per due volte;
nell’831 Palermo fu conquistata, Messina nell’843 dal principe aglabita Hibraim I; la
fortezza naturale di Enna cade nell’839, mentre Siracusa fu distrutta nell’878;
nel 902 Hibraim II assedia Cosenza, nel 918 Reggio è conquistata.
nel 982 le milizie musulmane sconfiggono addirittura a Punta Stilo (Calabria) l’imperatore Ottone II che si salva con la fuga.
Solamente il territorio montuoso e impervio della Sicilia Orientale, dove affluirà
una massa di popolazione greca, resisterà fino all’ultimo (sperando in soccorsi e aiuti
che non verranno mai) e cederà solo al massacro: Taormina nel 902, Rometta presso
Messina nel 965, ecc. Molti fuggiranno nel continente: in Calabria i più, in Lucania,
nel Cilento salernitano, persino a Roma e in Grecia e, più a nord, in Germania.
Alcuni cristiani, laici, monaci, vescovi subiranno il martirio per la fede; altri sopravvivranno in precarie condizioni religiose: due secoli, e più, di storia italiana ed europea avrebbero cambiato i loro abitanti, costringendoli al confronto con la cultura araba, le sue acquisizioni scientifiche, tecnologiche, geografiche, matematiche, mediche,
ma anche filosofiche, ideologiche e religiose di un «mondo mentale» profondamente
diverso e alternativo. Pur su queste disagiate e sofferte condizioni socioeconomiche,
emergono luminose testimonianze di autentica vita cristiana ed eroica santità.
D. G. Lancia Di Brolo, Storia della Chiesa in Sicilia nei primi dieci secoli del cristianesimo,
vol. I, Stabilimento Tipografico Lao Ed., Palermo 1880; B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica, vol.
IV, Società Editrice Dante Alighieri, Roma-Napoli-Città di Castello 1949.
7
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La Sicilia bizantina e la sua fioritura agiografica
277
L’epoca è caratterizzata da vari centri monastici dediti a grande e prolungata preghiera, rude ascesi, feconda laboriosità manuale, accorata opera di evangelizzazione
per la conservazione della fede cristiana tra le popolazioni dell’Isola, e severi moniti
ai governanti responsabili del pubblico bene in un’epoca di gravi calamità e instabilità
politica e sociale.
Il grande Elia di Enna e il suo amato discepolo S. Daniele di Taormina, S. Arsenio di Reggio Calabria e il suo figlio spirituale S. Elia lo Speleota, maestro di una
pletora di santi italo-greci, molti dei quali usciti dalla sua valida scuola di vita comunitaria e cultura libraria; intere famiglie di santi: S. Cristoforo di Collesano, la moglie
S. Calì, i figli S. Saba e S. Macario, figure di altissimo prestigio e autorità tra i monaci
e i laici, tra il nord della Calabria e la Campania, come S. Luca di Demenna, la sorella
S. Caterina e i nipoti S. Antonio e S. Teodoro, vissuti e morti in Lucania; S. Leoluca
di Corleone, discepolo di S. Cristoforo sul monte Mula nel Cosentino; S. Vitale di
Castronovo, S. Giovanni il Mietitore, nato in un harem a Palermo; e come S. Filarete l’Ortolano (entrambi, questi ultimi, vissuti nella vicina Calabria). Questa è anche
un’epoca di martiri: come S. Procopio vescovo di Taormina, i santi asceti Filarete ed
Elia di Palermo, i santi laici Andrea di Siracusa e compagni… Fu pure l’epoca in cui
fiorì il grande poeta liturgico della Chiesa greca, S. Giuseppe, detto l’Innografo, per
antonomasia, le cui composizioni sono tutt’oggi cantate e lette in chiesa.
3. I Normanni nel Sud
La situazione cambia radicalmente con l’arrivo dei Normanni che, a danno
dell’Impero bizantino, si impadroniscono rapidamente del Meridione, riconquistano
la Sicilia musulmana, fondano un regno dinastico con capitale Palermo, restaurano
monasteri greci e fondano conventi latini, fanno rifiorire la vita civile, economica,
culturale e artistica del Sud, così come ripristinano, dal punto di vista religioso, la giurisdizione ecclesiastica del patriarcato di Roma (per la Sicilia almeno nominalmente),
imponendo ovunque il rito della Chiesa di Roma, non rispettando clero e fedeli di rito
greco e proponendosi come nuovo centro politico ed economico del Mediterraneo (in
evidente antagonismo con Bisanzio, ma anche in opposizione all’Impero germanico).
Con questi nuovi padroni vinse una politica religiosa a favore dell’Occidente,
la quale – tra l’altro – diffuse in Sicilia e nel meridione un modello di monachesimo
nord-europeo (grandi costruzioni in muratura, stabilità dei monaci, controllo delle loro
relazioni commerciali, politiche e religiose, aumento del peso delle norme giuridiche
che favorirono in ogni modo il cenobitismo a discapito dell’eremitismo) a danno delle
caratteristiche forme di vita ascetica bizantina, i cui aspetti peculiari e genuini lentamente, ma inesorabilmente, scomparvero o rimasero soltanto nella memoria storica di
un passato ormai tramontato.
Ma fu proprio nel periodo normanno che, dal punto di vista umano e materiale,
il monachesimo greco dell’Italia Meridionale conobbe il culmine della sua espansione: monumenti artistici insigni, di cui oggi restano splendide testimonianze e preziose
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vestigia, biblioteche fornite di rari manoscritti, di valore inestimabile per il patrimonio
culturale e scientifico dell’Europa moderna (testi religiosi, storici, letterari, giuridici,
scientifici, medici, geografici, astronomici…) e che ci hanno salvato capolavori letterari e cimeli culturali dell’antichità classica (Omero, Euclide, Aristotele, Tolomeo,
Ippocrate…), curate da monaci enciclopedici ed eruditi bibliofili, maestri di greco e di
letteratura classica dei nostri grandi umanisti Petrarca, Boccaccio, Bembo…8
Sempre in quest’epoca si eseguono quei capolavori artistici bizantini, tra cui
Cefalù, Monreale, Palermo (Martorana, Cappella Palatina, Palazzo dei Normanni…)
che rimangono a imperitura memoria dello splendore di una civiltà.
Ma il continuo rarefarsi dell’elemento etnico greco, la posizione isolata di molti
centri monastici esposti al fenomeno del brigantaggio, le continue guerre di predominio tra Angioini e Aragonesi, l’ostilità politica dei vari dominatori stranieri, l’avversione psicologica del clero occidentale che vedeva in ogni differenza liturgica, ascetica,
disciplinare dei monaci e fedeli greci un possibile focolaio di eresia e nelle peculiari
diversità bizantine quasi un sentimento di disprezzo verso una ritenuta «superiorità»
del rito della Chiesa di Roma; ma soprattutto il drammatico venir meno di una precisa
coscienza culturale della specifica identità religiosa: liturgica nei fedeli e teologica
nel clero italo-greco, dovevano portare alla scomparsa della presenza greca in Italia e
alla completa rovina del patrimonio artistico-culturale dei monasteri greci, come dei
monumenti chiesastici e monastici.
Col diffondersi di nuove forme di vita religiosa occidentale (monaci benedettini,
Cistercensi, certosini, Florensi e Olivetani; religiosi Carmelitani, Agostiniani, Mercedari, Trinitari; frati Francescani, Domenicani, Minimi...), veniva ormai a proporsi un
diverso ideale di vita religiosa espresso in differenti e variegate forme di organizzazione canonica.
Quando più tardi la Chiesa di Roma, con un’iniziativa rivolta alla riorganizzazione del monachesimo greco in Italia (fu proprio la Cura romana a definire – sotto
papa Innocenzo III, nel XIII secolo – come «Basiliani» i monaci greci del Meridione
d’Italia) in applicazione delle norme emanate dal Concilio di Trento, volle la fondazione di un «Ordine dei Monaci Basiliani d’Italia» (1579), poco o niente lasciò all’antica
e genuina tradizione bizantina: una meccanica e radicale applicazione di ordinamenti monastici occidentali al monachesimo bizantino, estranei al suo mondo spirituale
orientale, si dimostrarono strumenti impropri e certamente inadatti a sottrarre il monachesimo italo-greco ad una lenta ma inesorabile estinzione.9
A. Pertusi, «Italo-greci e Bizantini nello sviluppo della cultura italiana dell’Umanesimo», in
Venezia e l’Oriente tra Tardo Medioevo e Rinascimento, Ed. Sansoni, Firenze 1966, pp. 35-52; P. O.
Kristeller, Umanesimo italiano a Bisanzio, in «Greek, Roman and Byzantine Studies» 6 (1965), pp.
19-33; M. Scaduto, Il monachesimo basiliano nelle Sicilia medioevale. Rinascita e decadenza, Ed.
Storia e Letteratura, Roma 1982; B. Lavagnini, Aspetti e problemi del monachesimo greco nella Sicilia
normanna, in «Byzantino-Sicula» s.n. (1966), pp. 52-65; F. Giunta, Bizantini e bizantinismo nella
Sicilia normanna, Ed. Palumbo, Palermo 1984.
9
V. Peri, Documenti e appunti sulla riforma postridentina dei monaci basiliani, in «Aevum» 51
8
14 (luglio-dicembre 2013)
La Sicilia bizantina e la sua fioritura agiografica
279
Ma con la sua scomparsa si spense purtroppo anche una delle più interessanti
e significative testimonianze storiche di vita spirituale, ascetica, liturgica, musicale,
culturale e artistica della civiltà europea e della storia d’Italia.
Si compie così il dramma finale per la cristianità greca in Italia Meridionale: stare
coi nuovi Signori venuti dal Nord Europa, riconosciuti e incoronati dal Papato, munifici
costruttori di monasteri (di cui restano insigni ma anche desolate memorie), fondatori
dell’Archimandritato del SS. Salvatore di Messina (quasi un signore feudale e barone
del Regno), ma lasciarsi inesorabilmente assimilare dal mondo occidentale, latino-germanico, ormai allontanatosi definitivamente dal Cristianesimo delle origini, dallo storico legame canonico con Costantinopoli, e uscendo, di fatto, dai confini dell’Impero cristiano d’Oriente (ma pur sempre romano), o restare fedeli alla Chiesa madre di Bisanzio
ed esporsi così alle continue angherie, alle brutali vendette di sovrani stranieri (Angioini
e Aragonesi), al sistematico, assillante tentativo di latinizzazione delle strutture ecclesiali greche della originaria, antica cristianità ormai qui ridotta in minoranza?
Molti santi tenteranno di rimanere per salvare il salvabile e non abbandonare la
popolazione greca alla «ricattolicizzazione» (come è stata definita dagli studiosi).
Di questi santi fioriti in epoca normanna ne ricordiamo alcuni: S. Bartolomeo di
Simeri, S. Lorenzo di Fragalà, S. Nicolò Politi di Adrano, eremita, S. Silvestro di Troina, S. Luca Casali di Nicosia, S. Rosalia di Palermo, S. Cono di Naso (ultimo esponente in ordine cronologico della fioritura di santità nella Sicilia bizantino-greca…).
Sopra tutti l’archimandrita S. Luca di Messina, grazie al quale l’ortodossia greca, coi suoi tesori di cultura libraria, arte musicale e liturgica, giungerà, attraverso le
vicissitudini dei secoli, fino a noi.
(1977), pp. 411-478.
14 (luglio-dicembre 2013)
Roberto Motta
Il sentiero di Cornificio: ipotesi sulla viabilità peloritana
Per avanzare ipotesi sul percorso che Cornificio intraprese da Naxos nel tentativo di ricongiungersi con Agrippa e Laronio è utile fare un passo indietro e tornare
all’inverno del 72 a. C. quando Spartaco, in risalita dallo Stretto, si trovò sbarrata la
strada da una fortificazione formidabile (trecento stadi, circa 55 km, secondo Plutarco), eretta da Marco Licinio Crasso con l’intento di fermare l’esercito degli schiavi in
risalita. Come sappiamo, in una notte gelida Spartaco riuscì a passare lo sbarramento e
a dirigersi poi con i suoi verso la Lucania dove però, dopo qualche mese, trovò l’epilogo della sua impresa. Questo episodio, accaduto circa un trentennio prima dei fatti che
qui trattiamo, conferma quanto fossero note e percorse le vie interne, le strade lungo
la linea spartiacque della Calabria e, possiamo ragionevolmente supporre, anche della
cuspide peloritana.1
Le notizie riguardanti la guerra civile tra Ottaviano e Sesto Pompeo, il bellum
siculum, le dobbiamo a Dione Cassio ma soprattutto ad Appiano. Appiano dedica molti
particolari alla descrizione delle circostanze che accompagnarono la ritirata di Cornificio. Tali descrizioni ci consentono di ipotizzare il percorso dei legionari, anche se è
da tenere presente che il racconto non può rispecchiare con fedeltà tutte le circostanze
dell’evento. Per la ricostruzione della spedizione si farà riferimento al testo di Appiano
nella riedizione che ne ha dato C. Saporetti nel suo libro su Diana Facellina e che di
seguito riportiamo relativamente ai brani che riguardano la ritirata di Cornificio.2
Cornificio poté agevolmente ributtare gli avversari dall’accampamento, ma essendo in
difficoltà per scarsezza di viveri, trasse fuori l’esercito a battaglia e sfidò il nemico. Ma
poiché Pompeo non voleva venire a combattimento con uomini che avevano riposto la
loro speranza nella sola battaglia, ed attendeva che si arrendessero per fame, Cornificio
si mise in marcia, avendo posto nel centro, disarmati, coloro che erano fuggiti dalle navi
naufragate, fatto bersaglio da lontano, ed in mezzo a difficoltà, nelle zone di pianura
dalla cavalleria, nelle zone montagnose da truppe leggere e veloci che, essendo Numidi
d’Africa, tiravano da lontano giavellotti e sfuggivano davanti a coloro che si lanciavano ad assalirli. Il quarto giorno, con difficoltà, pervennero in una zona priva d’acqua;
dicono che un torrente di fuoco, un tempo sceso giù fino al mare, abbia inondato ed
estinto tutte le sorgenti che vi erano. Gli indigeni la percorrono solo di notte, dato che,
per quel motivo, è soffocante e piena di polvere di cenere; ma le truppe di Cornificio non
1
D. Raso, Tinnaria, antiche opere militari sullo Zomaro, in «Calabria Sconosciuta» 10 (1987),
pp. 79-102.
2
C. Saporetti, Diana Facellina un mistero siciliano, Pungitopo ed., Patti 2008, pp. 18-27.
«Mediaeval Sophia». Studi
w w w. m e d i a e v a l s o p h i a . n e t
e ricerche sui saperi medievali
E-Review semestrale dell’Officina di Studi Medievali
14 (luglio-dicembre 2013), pp. 281-287
282
Roberto Motta
osavano attraversarla temendo imboscate, né di giorno potevan resistere, e restavano
soffocanti e bruciavano loro, soprattutto a quelli che erano senza calzature, le piante dei
piedi, come accade nella vampa estiva. Non potendo indugiare per la sete tormentosa,
non attaccavano più alcuno di coloro che li colpivano, ma cadevano feriti senza difesa.
Dopo che altri nemici occuparono le vie d’uscita dalla zona infuocata, senza curarsi dei
più deboli e di quelli scalzi, coloro che erano in forze si slanciarono verso le strettoie
d’uscita con coraggio temerario e sopraffecero i nemici con quanta forza avevano. Ma
poiché era stata occupata anche la gola successiva, si perdettero ormai d’animo e si
abbandonarono per la sete, il caldo e la fatica. Cornificio li esortava indicando loro una
fonte che era vicina, ed allora nuovamente sopraffecero i nemici, pur subendo molte
perdite; ma altri avversari occuparono la sorgente ed un completo scoramento si impadronì dei soldati di Cornificio, che perdettero ogni forza. Mentre erano in queste condizioni, Laronio apparve da lungi, inviato da Agrippa con 3 legioni; sebbene non fosse
ancora manifesto che era un amico, tuttavia nella speranza e nella continua attesa che
tale fosse, di nuovo ripresero animo. Come videro che i nemici abbandonavano l’acqua
per non essere presi in mezzo dagli avversari, alzarono grida per la gioia con quanta
forza potevano, e come le truppe di Laronio ebbero gridato loro di rimando, di corsa
occuparono la fontana. Furono impediti dai capi di bere smoderatamente; quelli che non
ne tennero conto morirono mentre bevevano. In questo modo insperatamente Cornificio
e la parte dell’esercito che si era affrettata si salvarono presso Agrippa ( che marciava)
verso Milazzo.
Diversi autori si sono impegnati nel tentativo di ricostruire il percorso di Cornificio: Aiello,3 Casagrandi,4 Grassi,5 Pensabene,6 Pinzone,7 ma soprattutto Saporetti, che
nei suoi libri su Diana Facellina ha fornito un contributo determinante per la ricostruzione dei tratti di viabilità interna della cuspide peloritana.8
Prima di esaminare i dettagli del percorso è necessario proporre alcune considerazioni sulla situazione del territorio e sulle strategie delle truppe di Pompeo e di Ottaviano.
La cuspide peloritana, di forma triangolare con il vertice a Messina, teatro della
guerra civile, è caratterizzata da un territorio montagnoso che è attraversato lungo
il suo interno da una linea spartiacque che divide il versante nord della cuspide dal
versante sud. Lungo questa linea bisettrice, la trasversale dei Nebrodi dell’Aiello, che
dalle zone dell’Argimosco giunge sino a Dinnammare sulle montagne a ridosso di
3
A. Aiello, La spedizione di Ottaviano e la via di ritirata di L. Cornificio, Tip. Editrice dell’Etna,
Catania 1896.
4
V. Casagrandi, Raccolta di studi di storia antica- Sulla Guerra Sicula tra Ottaviano e Sesto
Pompeo, Tip. Editrice dell’Etna, Catania 1893.
5
C. Grassi, Notizie storiche di Motta Camastra e della valle dell’Alcantara, Infinity Media Ed.,
Catania 1905, ristampa 2008.
6
G. Pensabene, La Guerra tra Cesare Ottaviano e sesto Pompeo, Gangemi ed., Reggio Calabria
1991.
7
A. Pinzone, «Elementi di novità e legami con la tradizione a Messana tra tarda repubblica e
inizi impero», in Messina e Reggio nell’Antichità. Atti Convegno S.I.S.A.C., Messina-Reggio Calabria
2002, pp. 11-125.
8
C. Saporetti, Il tempio di Diana nella zona di Milazzo, Edinixes ed., Stromboli 1993.
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Il sentiero di Cornificio: ipotesi sulla viabilità peloritana
283
Messina, corre una strada ad alta quota (intorno ai mille metri) che consente un più
veloce ed immediato cammino verso Messina.9 Oggi è nota come Strada Militare perché l’Amministrazione del Regno d’Italia, sotto i Savoia, le dedicò cura ed attenzione
censendola ufficialmente come Strada Militare.10 Da Dinnammare un braccio scende
verso Rometta e la fiumara di Saponara; un secondo braccio si stacca verso Larderia
sino a Tremestieri. Tale asse Saponara-Rometta-Dinnammare-Larderia è attestato nel
XI-XII secolo; si può ipotizzare che dei tratti che collegano Dinnammare con S. Lucia
del Mela, Monforte, Mandanici, sino a Portella Mandrazzi lungo la linea spartiacque,
fossero attivi già in epoca romana. 11
Dai lati di questa strada si staccano delle deviazioni verso il litorale nord e verso il litorale sud. Le più importanti scendono verso Tindari-Oliveri, Castroreale-Gala-Barcellona, S. Lucia del Mela-Milazzo, Rometta-Divieto. Sul lato sud la vie più
importanti scendono ad Antillo-Scifi lungo la fiumara d’Agrò; o da Pizzo Mualio,
nodo cruciale sullo spartiacque, verso Mandanici e Roccalumera. Il braccio di sterrato
che scende a Mandanici congiungendosi con il braccio che da Pizzo Mualio scende
a Castroreale-Gala realizza la Castroreale-Mandanici, un’importante e rapida strada
interna di passaggio trai i due versanti sud/nord della cuspide peloritana.12
A difesa del territorio sulle montagne ed a guardia della viabilità interna, erano i
Passi (στενα’) citati da Appiano: «Portella di S. Lucia del Mela», che controllava l’accesso alla viabilità interna da Milazzo-S. Lucia del Mela verso il cuore della cuspide; la
«Portella di Novara», che controllava l’acceso sulla linea spartiacque a Portella Mandrazzi, e la «Portella del Vento», che controllava l’accesso da Taormina-S. Alessio.13
La “ridotta” di Pompeo, quindi, era circondata dal mare Tirreno a nord e dallo
Ionio a sud; sul lato est poteva contare su una serie di sbarramenti naturali: la valle
Alcantara e la fiumara del torrente Zavianni che si continuava, tranne un piccolo istmo
sotto P.lla Mandrazzi, con la fiumara del torrente Fantina/Patrì. All’interno di questo
triangolo montuoso le truppe di Pompeo potevano muoversi in sicurezza, a patto che
le vie d’accesso e le coste fossero controllate.
Passiamo quindi ad esaminare i possibili percorsi delle truppe di Cornificio nella
risalita verso le forze di Agrippa alla luce di quanto abbiamo considerato sul sistema
fortificato della cuspide che ha in Messina il vertice.
9
Sul toponimo Dinnammare vd. C. Micalizzi Onomaturgia di Dinnammare Dal Monte Cronio
al Dinamari Bizantino, in «Messenion d’oro» 6 (2005), pp. 5-16.
10
M. Morabito, La strada della dorsale peloritana, Edizioni del Rotary Club di S. Agata
Militello. La strada provinciale n. 50/bis o di Dinnammare, dalla S.S. 113 a Portella Mandrazzi S.S.185,
ha una lunghezza di km77; è stata provincializzata con D.M. 21.6.1967 numero 8028.
11
L. Arcifa, «Viabilità e insediamenti nel Valdemone. Da età bizantina a età normanna», in C.
Biondi (a cura di), La valle d’Agro. Un territorio, una storia, un destino. Convegno Internazionale
di Studi. Vol I L’età antica e medievale, Officina di Studi Medievali, Palermo 2005 (Machina
Philosophorum, 11), pp. 97-114.
12
R. Motta, La Dorsale dei Peloritani e dei Nebrodi, in «Paleokastro» 5/18-19 (2006), pp. 37-40.
13
C. Saporetti, Diana Facellina un mistero siciliano, cit.
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284
Roberto Motta
Quando Ottaviano lasciò il campo presso l’Archegete di Naxos, preoccupato
per l’arrivo imprevisto della flotta, della fanteria e della cavalleria di Pompeo, che si
erano mosse contemporaneamente per mare e per terra, Cornificio, probabilmente su
disposizione del suo Comandante, si mise in marcia con il suo esercito: tre legioni,
500 cavalieri appiedati, 1000 armati alla leggera, 2000 coloni, più i naufraghi scampati alla battaglia navale che Ottaviano e Pompeo avevano combattuto nella notte di
fronte a Capo Taormina. Circa 20.000 uomini in tutto. Le direttrici che poteva seguire
Cornificio erano due: una lungo la valle dell’Alcantara e l’altra più ad ovest lungo l’altopiano che oggi è attraversato dalla SS 120 che passa per Piedimonte-Linguaglossa,
sino a confluire nella piana di Moio Alcantara. Pompeo controllava le zone montuose
a ridosso della valle dell’Alcantara, quelle che stanno di fronte al fianco est dell’Etna.
Pertanto, è difficile pensare che con un esercito di 20.000 uomini Cornificio abbia
preferito intraprendere la via della valle dell’Alcantara, quella per intenderci che passando per Gaggi e Motta Camastra, arriva a Francavilla. Il rischio di essere facilmente
bersaglio dei Numidi e delle truppe di Pompeo era troppo grande poiché le montagne
ad est (sopra Motta Camastra per intenderci) guardano sulla valle da una posizione
elevata e facilmente difendibile. La valle sottostante era sotto tiro e con sicurezza i
pompeiani avrebbero potuto piombare sui legionari di Cornificio sbarrando loro la
strada. Inoltre, sulle montagne dominate da Pompeo i collegamenti con l’interno erano
facilmente attuabili (tanto che – dice Appiano – la cavalleria si rifugiò, dopo il primo
attacco all’accampamento di Cornificio, nella città di Fenice che è da ritenersi ad est
di Taormina sulla fascia Ionica). Per queste considerazioni è opportuno ipotizzare un
percorso più ad ovest: o lungo il tracciato della SS 120, oppure sulla linea di cresta
appena soprastante, che divide questo altopiano dalla valle dell’Alcantara. Questo percorso giustificherebbe i quattro giorni di cammino necessari per arrivare alla zona
«priva d’acqua dove i soldati restavano soffocati e bruciavano loro le piante dei piedi».
Non conosciamo ove potesse essere questa zona infuocata, ma è più logico ritenere che si trovasse ai piedi del versante est dell’Etna o sul territorio tra Castiglione,
Malvagna e Moio, piuttosto che nella Valle dell’Alcantara. Forse si trattava di un territorio con attività mefitica o di un suolo rovente per un’attività eruttiva recente. Appiano stesso cita in seguito nel suo racconto sulla Guerra Civile, una spettacolare eruzione
alla quale assistettero terrorizzati i “Germani” dell’esercito di Ottaviano accampati in
una notte di pioggia sul monte Miconio.14
Dalla piana di Moio-Castiglione (ove sono consistenti resti archeologici di due
città greche, di cui una in contrada Imbischi, che potrebbe essere sopravvissuta a tut14
G. Manitta, Le eruzioni dell’Etna, Il Convivio, Castiglione di Sicilia 2010. Notizie tecniche
sull’attività eruttiva nel 36 a. C. mi sono state gentilmente fornite dal Dott. Caffo del Parco dell’Etna.
Questa eruzione venne considerata la undicesima eruzione (ovviamente si tratta di una cronologia degli
eventi basata su assunti derivanti dalla storia dell’impero romano sino a quel tempo) e fu caratterizzata
da un’intensa attività di degassazione dal Cratere Centrale e dall’emissione di anidride solforosa e acido
solfidrico; è ricordata dagli autori latini anche per l’intensità dell’attività esplosiva con boati udibili a
notevolissima distanza.
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Il sentiero di Cornificio: ipotesi sulla viabilità peloritana
285
to il IV secolo a. C.),15 Cornificio aveva la possibilità di giungere alla linea di cresta
verso nord per ricongiungersi con Laronio, attraverso tre percorsi: il primo, ipotizzato
da Casagrandi, prevede il raggiungimento dell’Argimosco via Roccella; il secondo,
la risalita da Malvagna attraverso il bosco di Malabotta, sino all’Argimosco lungo un
tracciato più breve.16
La terza possibilità prevede la discesa verso la piana di Francavilla passando per
la zona del ponte S. Nicola,17 la risalita del torrente Zavianni, lo scavalcamento della
linea di cresta sotto Portella Mandrazzi, la discesa nella vallata del Fantina ed il proseguimento lungo la valle del torrente Fantina e poi del Patrì verso Milazzo. È anche
possibile che Cornificio dalla piana di Moio abbia scelto di superare direttamente il
monte Olgari e monte Cucco per arrivare comunque al torrente Zavianni dal torrente
S. Paolo senza scendere verso Francavilla; un itinerario in mezzo a rocce megalitiche
più sicuro perché più distante dalle postazioni dei pompeiani, ma più impervio.
La prima ipotesi del passaggio via Roccella, sostenuta dal Casagrandi, nonostante sia la più nota, appare la meno plausibile poiché avrebbe costretto l’esercito ad un
giro certamente lungo ed impegnativo, attorno a Roccella ed il passo di Croce Mancina
per arrivare comunque alla linea di cresta ed all’Argimosco. La seconda ipotesi è più
ammissibile della precedente, poiché avrebbe comunque consentito, con un percorso
più rapido e più agevole attraverso Malvagna ed il bosco di Malabotta, il raggiungimento dell’Argimosco con appena 6/8 ore di cammino da Malvagna; lì le truppe di
Cornificio, dopo aver finalmente incontrato quelle di Laronio, avrebbero potuto (pericolosamente) dissetarsi, come sosteneva l’Aiello, alla fonte vicina all’Argimosco.
Appiano infatti racconta che dopo l’incontro con le truppe amiche di Laronio e la
fuga dei Pompeiani, i legionari: «Di corsa occuparono la fontana. Furono impediti dai capi
di bere smoderatamente; quelli che non ne tennero conto morirono mentre bevevano».
La terza ipotesi appare quella più plausibile.
Risalendo lo Zavianni i legionari di Cornificio avranno incontrato, forse nella
gola che è sotto l’istmo ove nasce il torrente, prima dello scollinamento, o lungo i
sentieri che salgono alla linea di cresta, le truppe di Pompeo impegnate ad ostacolare
l’uscita dei soldati nemici dalle strettoie. Ma superate queste gole ed arrivati alla linea
di cresta, i legionari, dopo l’incontro con le truppe di Laronio, si saranno lanciati verso
l’acqua della vicina sorgente delle “Tre Fontane”, che potrebbe coincidere con la fonte
15
U. Spigo-C. Rizzo-E. D’amico-M. G. Vinaria (a cura di), Francavilla di Sicilia, Rubettino ed.,
Soveria Mannelli (CZ) 2008.
16
Il tracciato che da Malvagna porta all’Argimosco, e che ancora oggi percorrono i pellegrini
che si recano da Malvagna alla Madonna del Tindari a piedi passando per l’Argimosco e Montalbano
(dove sostano), partendo dal cimitero di Malvagna, attraversa le contrade di: Feudo Pittari, Due viora,
Porcheria, Ruggerotto, Vadduni zio santu, Strauri, Feudo Girastrà, Serro di Malabotta, Bosco di
Malabotta, Faita. Questo itinerario, che si copre con 6 h di cammino, mi è stato pazientemente fornito
dal Sig. Genovese Nino di Malvagna
17
Seguendo l’Alcantara dopo il bivio di S. Nicola sono i resti di un ponte medievale che presenta
avanzi di strutture più antiche.
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Roberto Motta
citata da Appiano. Quindi avranno avuto la possibilità, scendendo lungo il Fantina ed
il Patrì, di unirsi rapidamente con quelle di Agrippa «che marciava verso Milazzo».18
Se questo è stato l’itinerario che Cornificio ha seguito, le sue truppe si saranno ricongiunte più rapidamente con le truppe di Agrippa nella piana di Milazzo, senza dover
superare dislivelli notevoli e risparmiando strada e tempo.
Questa stesso tracciato sarà ripercorso diciassette secoli dopo (maggio 1719) a
ritroso nella direzione Milazzo-Francavilla dalle truppe Austriache guidate dal Conte di
Mercy dirette allo scontro con gli spagnoli nella piana di Francavilla. Anche le truppe austriache, fanteria e cavalleria (circa 20.000 uomini), si accamparono alle “Tre Fontane”
prima di scavalcare la linea di cresta e scendere verso Francavilla lungo lo Zavianni.19
La terza ipotesi di percorso consente alle truppe di Cornificio il passaggio più
rapido verso la piana di Milazzo, a quote meno elevate e giustifica la riferita vigorosa presenza di truppe pompeiane che ostacolano l’uscita dalle gole, ma comunque a
ridosso del territorio saldamente ancora in mano ai Pompeiani, nel quale rapidamente potersi ritirare. D’altronde, a sostegno delle proposte di Aiello e Casagrandi, non
abbiamo nessun cenno esplicito in Appiano che confermi la possibilità di un transito
dall’Argimosco, percorso che avrebbe reso invece molto pericolosa la sortita dei soldati di Pompeo ben oltre quella linea di difesa ad ovest costituita dalle valli dei torrenti
Zavianni e Fantina.
Forse invece questo itinerario di Cornificio attraverso il Passo delle Tre Fontane
potrebbe aver colto di sorpresa Pompeo e potrebbe aver avuto peso nella decisione di
abbandonare gli στενα’, scelta cruciale per l’esito della guerra, giacché permise ad
Ottaviano di impossessarsi di Milazzo, dell’Artemisio e del territorio interno della
cuspide e di muoversi tra il Monte Miconio ed il misterioso territorio dei Palaistenoi,
giungendo a ridosso di Messina.20 A Pompeo non rimane che proporre una battaglia
navale risolutiva che, come sappiamo, fu combattuta nelle acque antistanti Nauloco.21
18
Nel letto di questo torrente, secondo Ryolo, ebbe luogo la battaglia di Gerone II contro i
Mamertini. Vd D. Ryolo, Il Longano e la sua battaglia, in «Archivio Storico Siciliano» s. 3/5 (1950),
pp. 7-33.
19
S. Maugeri-G. Ferrara, La Battaglia di Francavilla nel Contesto dell’Europa del ’700, Il
Convivio, Castiglione di Sicilia 2006.
20
In una cartina di Coronelli, cosmografo della serenissima repubblica, il territorio tra Monforte,
Rometta e Rocca Matore (Messina) in corrispondenza dello spartiacque dei peloritani, è denominato
Palaestenus. Lo stesso territorio nella carta dell’Ortelio del 1584 pubblicata su L. Dufour-A. La
Gumina (a cura di), Imago Siciliae, Domenico Sanfilippo Editore, Catania 2007, è individuato come
Palestenus Ager. La questione dei Palaistenoi e della localizzazione del loro territorio è importante non
solo per l’intrigante problema del nome e dell’origine di questa popolazione, ma anche perché pone
diversi interrogativi. Perché Ottaviano devasta il loro territorio? In che rapporto era questa popolazione
con Pompeo? Per un approfondimento sulla irrisolta questione della localizzazione del territorio dei
Palaistenoi vedi G. Saporetti, Diana Facellina un mistero siciliano, cit.
21
Sul Nauloco e sul relitto di capo Rasocolmo riferibile ad un periodo tra il 37 ed il 35 a. C. si
veda G. M. Bacci, «Il relitto di capo Rasocolmo», in G. M. Bacci-G. Tigano (a cura di), Da Zancle a
Messina, Provincia regionale di Messina, Messina 2001, pp. 273-278.
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Il sentiero di Cornificio: ipotesi sulla viabilità peloritana
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In conclusione, l’ipotesi di tracciato che si ritiene più plausibile prevede la risalita lungo la direttrice Piedimonte Linguaglossa, la discesa nella piana di Moio-Castiglione, l’aggiramento o il superamento dei Monti Cucco e Olgari, la risalita dello
Zavianni, il superamento delle strettoie sotto Portella Mandrazzi, l’incontro con le
truppe di Laronio, il ristoro presso la sorgente Tre Fontane, e la successiva discesa
lungo il torrente Fantina verso Milazzo. Tale ipotesi è differente da quella più nota di
Casagrandi e Aiello che prevedeva l’itinerario Calatabiano-Francavilla-Moio-Roccella-Gole di Croce Mancina-Fonte Argimusco-Gola di Monte Croce-Montalbano.
Sarebbe utile se la vulcanologia potesse fornirci notizie più dettagliate sulle attività eruttive del 36 a.C., indicando direzione e localizzazione del flusso lavico per aiutarci ad individuare la possibile zona attraversata dai legionari di Cornificio. Sarebbe
anche emozionante se l’archeologia ci restituisse tracce del passaggio di circa 20.000
legionari che avranno eretto fortificazioni, anche temporanee, e lasciato armi, monete,
suppellettili, nel contesto di una guerra civile così devastante e cruciale per la storia
della cuspide peloritana e dello Stretto.
14 (luglio-dicembre 2013)
Giuseppe Pantano
Il toponimo Montalbano tra storiografia, linguistica e archeologia
Sono stati davvero in tanti a cercare una spiegazione sulla origine del nome
Montalbano.1 Si può addirittura affermare che nessuno degli Autori, locali o no, che si
sia occupato della storia di questo centro del Messinese abbia “resistito al fascino” di
dare una propria interpretazione etimologica. Il fatto che non vi siano certezze in proposito e ancora oggi se ne discuta, significa che l’argomento è tuttora aperto, rappresentando anzi una delle questioni più controverse della storia locale. Ciò che si vuole
proporre con questa ricerca è di fare il punto sulla tradizione storiografica, mediante
una ricostruzione cronologica e critica degli studi fin qui pubblicati sull’argomento,
e offrire nel contempo un contributo originale attraverso l’analisi linguistica storica,
supportata da documentazioni archeologiche di recente acquisizione.
1. La prima citazione scritta relativa a Montalbano: la diakratesis
Le prime documentazioni sul nostro toponimo risalgono al Medioevo. Nelle
pubblicazioni più recenti,2 risulta che la citazione più antica del nome è quella risalente all’anno 1154 e riferita al geografo arabo Edrisi, vissuto alla corte di Ruggero II
Altavilla, re di Sicilia e committente del famoso Nizat al mustaq, nel quale appunto
compare il nostro nome che, secondo i codici più autorevoli, è reso con Munt Alban.
Per il Terranova3 «il libro di Edrisi rappresenta quindi l’atto di nascita ufficiale del
nostro toponimo». Ma così non è. Più di recente, grazie a un più attento spoglio dei
famosi Diplomi pubblicati dal Cusa,4 si scopre invece che «l’atto di nascita» deve
essere retrodatato di una decina d’anni. Infatti, in un diploma redatto in lingua greca,
conservato nell’Archivio Capitolare di Patti,5 risalente al 1141, viene citata la diakratesis di Montalbano. È pertanto questo documento greco di età normanna e non Edrisi
a menzionare per la prima volta Montalbano. Non che questo sposti di molto la data
di nascita del toponimo, tuttavia è certamente, allo stato attuale delle conoscenze, la
1
Montalbano Elicona è il centro della provincia di Messina che ospita questo convegno.
N. Terranova, Storia di Montalbano Elicona nell’antichità, Editer, Roma 1982.
3
Ivi, p. 12.
4
S. Cusa, Diplomi greci ed arabi di Sicilia pubblicati nel testo originale, tradotti ed illustrati da
Salvatore Cusa, Palermo 1868-1882.
5
Si tratta della Lettera dei misfatti di Algeri a Ruggero II contenente una individuazione dei
confini del territorio di Focerò, datata 2 novembre 1141. Il documento è stato ripubblicato recentemente
da Michele Fasolo. Vd. M. Fasolo, Alla ricerca di Focerò, Quintily, Roma 2008, pp. 34-36.
2
«Mediaeval Sophia». Studi
w w w. m e d i a e v a l s o p h i a . n e t
e ricerche sui saperi medievali
E-Review semestrale dell’Officina di Studi Medievali
14 (luglio-dicembre 2013), pp. 289-299
290
Giuseppe Pantano
prima menzione scritta, storicamente accertata. L’importanza di questa attestazione
deriva anche dal significato da attribuire al termine diakratesis, che possiamo tradurre
con territorium o, meno genericamente, come un insieme territoriale costituito dal
centro eminente e dai casali dipendenti, coerente ai fini amministrativi, che trae il
proprio nome dall’abitato principale. Si tratta quindi di un appellativo dato a un centro
ben qualificato da un punto di vista giuridico che, secondo il linguaggio in uso nella
cancelleria normanna, veniva conferito «se non ad una urbs d’origini antiche, almeno
ad un abitato di mediocre importanza, un kastron bizantino o un ‘capoluogo’ di casali
di epoca musulmana, quasi sempre in sito naturalmente forte e spesso fortificato».6
Queste tre possibilità (urbs, kastron, iqlîm) sono da tenere in considerazione perché
funzionali al nostro argomento. Infatti, se si mettono insieme la notizia edrisiana,7 che
descrive Montalbano come un centro già economicamente fiorente, e il significato
giuridico di diakratesis, dobbiamo ragionevolmente ammettere, come anche ipotizzato dal Terranova,8 che «il paese esistesse da almeno alcuni secoli, prima ancora delle
dominazioni araba e normanna».
2. Le interpretazioni etimologiche da parte di eruditi del Settecento
Il primo ad avere dato una interpretazione in chiave etimologica del toponimo
Montalbano è stato lo storico Francesco Maria Emanuele Gaetani, meglio noto come
marchese di Villabianca. Egli pubblicò dal 1754 al 1759 i suoi famosi volumi Della Sicilia nobile, dove tratta di Montalbano essenzialmente nella successione delle famiglie
feudali fino ai suoi tempi. Successivamente, nel 1775, con la sua Appendice alla Sicilia
nobile, affronta la spiegazione del nome Montalbano, per lui derivato dall’arabo al
ban, “l’eccellente”, fondando, per così dire, la tesi araba che tanta fortuna ha avuto
nel tempo, fin quasi ai giorni nostri. Bisogna a questo punto osservare che il dotto e
appassionato cultore di storia siciliana era più memorialista che filologo, con quel che
ne consegue.
Sempre intorno alla metà del Settecento (ma pubblicato a cura di Gioacchino
Di Marzo nel 1855-1856) risale il Dizionario topografico della Sicilia dell’erudito
abate benedettino Vito Amico, il quale tratta anch’egli di Montalbano. All’inizio del
6
F. Maurici, Castelli medievali in Sicilia. Dai bizantini ai normanni, Sellerio, Palermo 1992, p.17.
Kislinger distingue i termini usati dalla cancelleria normanno-greca di chora, “territorio” e diakratesis,
“circoscrizione”. Cf. E. Kislinger, Un itinerario normanno nel Valdemone, in «Nuove ricerche sul
Valdemone medievale», a cura del Rotary International, Sant’Agata Militello (Me) 2005, p. 20.
7
Così in Edrisi: «Da Randazzo a Montalbano sono venti miglia. La rocca di Montalbano, posta
in mezzo ad alte montagne, è aspra a salirvi e a scendere. Ma non ha pari per l’abbondanza del bestiame,
del miele e di ogni altro prodotto agrario». Vd. M. Amari-C. Schiaparelli, L’Italia descritta nel Libro
di Re Ruggero compilato da Edrisi, in «Atti dell’Accademia dei Lincei» 274 (1876-1877), serie II, 8,
Roma 1883.
8
N. Terranova, Storia di Montalbano Elicona nell’antichità, cit., p. 17.
14 (luglio-dicembre 2013)
Il toponimo Montalbano tra storiografia, linguistica e archeologia
291
capitoletto riservato al nostro paese ne riporta la derivazione: dal latino Mons Albanus
senza ulteriore commento. È questa la prima ipotesi per un’origine latina del toponimo, meno seguita della prima ma, come vedremo più avanti, molto più appropriata.
3. Gli studi post-unitari
Negli anni a cavallo tra Otto e Novecento, sull’onda di una moda romantica di
amor patrio, si registra un vero e proprio fiorire di studi di storia locale. Nel giro di
soli quattro anni appaiono ben tre monografie sulla storia di Montalbano, di cui due da
parte di Autori locali, i Minissale. Inizia l’arciprete Francesco e conclude il nipote Luigi (quasi un “botta e risposta” tra i due, animati da una certa rivalità culturale), con in
mezzo la pubblicazione degli storici Lisi e Raccuglia, al quale ultimo si deve la stampa
di diversi volumetti su vari centri della Sicilia.
L’arciprete Minissale accetta supinamente la tesi araba proposta dal Villabianca:
al bana, “l’eccellente”, o ban, di cui propone una autonoma traduzione in latino con
pars pinguedinis, alludendo alla fertilità del suolo, o alla «grassezza delle acque del
fonte Tirone».9 Anche Luigi Minissale Pirrotta, pur ammettendo che la forma del nome
è latina, tuttavia – inaspettatamente – propende pure lui per la versione araba data dal
Villabianca: «Certamente di tutte le etimologie possibili, quella araba derivata da al
bana (eccellente), ci sembra la meno improbabile».10
Si ha la sensazione che i giudizi espressi dai Minissale non fossero privi di condizionamenti esterni. Bisogna sottolineare che a seguito della Costituzione del 1812 e
per oltre un secolo si registrò una serie infinita di cause civili tra i cittadini, il Comune
e i Gesuiti11 a proposito di diritti promiscui o usi civici (in realtà si trattava, nella stragrande maggioranza dei casi, di legittimare usurpazioni di terreni da parte di borgesi
locali), nelle quali diventava fondamentale dimostrare che gli stessi diritti erano goduti
dagli abitanti già prima dell’istituzione del regime feudale, cioè che la popolazione di
Montalbano fosse preesistente all’arrivo dei normanni. Da ciò nasce tutto l’interesse
a dimostrare che il nome fosse di origine araba per potere provare la nascita del paese
in epoca musulmana.
Lisi e Raccuglia abbandonano invece la tesi araba.12 Essi correttamente dicono:
«Il nome Montalbano è troppo latino per poterlo attribuire agli arabi e pur non volendo
desta in noi un evidente ricordo della Francia». Poi, equivocando sulla provenienza dei
lombardi (per loro dalla Francia), ritengono che il nome può essere stato dato proprio
dai coloni lombardi al seguito del conte Ruggero. Diciamo che pur avendo ragione
circa la forma innegabilmente latina del nome, essi sbagliano relativamente al fatto
9
F. A. Minissale, La mia patria, Tip. Pontificia, Palermo 1897, p. 12.
L. Minissale Pirrotta, Montalbano Elicona ricerche storiche, Tip. D’Amico, Messina 1900, p. 12.
11
I Gesuiti, insediati agli inizi del 1800, furono gli ultimi feudatari del paese.
12
L. Lisi-S. Raccuglia, Montalbano, Tip. G. Destefano, Ragusa 1899, p. 6.
10
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Giuseppe Pantano
che il nome possa essere stato attribuito dagli immigrati galloitalici. Scrive, infatti,
Salvatore C. Trovato che i lombardi «si sono sempre insediati il località già abitate da
popolazioni siciliane e non hanno mai fondato (o rifondato) città nuove o comunque
del tutto spopolate».13
4. Le ricerche a partire dagli anni settanta del secolo scorso
Dall’inizio del secolo scorso, se si esclude qualche articolo apparso sporadicamente sul Giornale di Sicilia negli anni venti, bisogna aspettare gli anni settanta perché venga ripreso il tema sulle origini di Montalbano. Si deve a P. Antonino Mobilia,
appassionato cultore di storia locale, un primo studio in proposito. Da precisare che,
nonostante le lunghe ricerche di una vita, il sacerdote montalbanese non ebbe la fortuna
di pubblicare per intero la sua grossa opera di storia e tradizioni locali che rimase purtroppo inedita e oggi dispersa. Tuttavia egli, grazie a un periodico locale,14 ci fa chiaramente conoscere le sue idee sull’argomento. Essenzialmente abbraccia la tesi araba,
ma aggiunge di nuovo l’ipotesi che il nome Albano origini da quello di «un coraggioso
commilitone omonimo, musulmano, fondatore del paese». Poi, parafrasando al contrario l’affermazione di Lisi e Raccuglia, asserisce: «Il nome Albano aggiunto a Monte è
troppo arabo perché lo si possa riferire a tutt’altro tempo che a quello dei Musulmani».
L’ipotesi del sacerdote Mobilia è frutto di una convinzione fortemente condizionata
dagli scritti precedenti e formatasi su dati di partenza (Edrisi in primis, considerato vissuto durante il periodo arabo) interpretati in maniera erronea. Questa teoria ha tuttavia
il pregio di averne intuito un’origine da un nome personale, di cui però non ne viene
provata l’attestazione in documenti appartenenti al periodo musulmano.
Negli anni ottanta anche lo storico Nicola Terranova affronta l’argomento, certamente in chiave più moderna.15 Egli criticamente riconosce che l’ipotesi araba appare
«piuttosto lambiccata», poi ammette come più credibile quella del Raccuglia, derivata
dal francese, che però smentisce subito dopo con dati cronologici. E dopo aver proposto razionalmente un’ipotesi di lavoro per verificare se i tanti Montalbano esistenti in
Italia (14 località abitate), Francia e Spagna possano essere riferiti ad un ascendente
comune, porta la propria attenzione «sui trionfi celebrati senza autorizzazione del senato sul monte Albano laziale». Anche se si mantiene in forma interrogativa, ipotizza
un possibile trionfo tributato al console Appio Claudio dalle legioni romane rimaste in
Sicilia proprio sul nostro colle e da ciò il nome. L’ipotesi, anche se proposta in forma
cautelativa dall’Autore, obiettivamente appare azzardata e soprattutto non suffragata
da alcuna prova. Tuttavia, si nota in Terranova l’esigenza di ricondurre l’origine del
13
S. C. Trovato, Migrazioni interne: i dialetti galloitalici della Sicilia, Unipress, Padova 1994, p. 246.
A. Mobilia, Montalbano Elicona nella sua storia antica millenaria civile, in «La Piazza» 3/7
(1974), p. 17.
15
N. Terranova, Storia di Montalbano Elicona nell’antichità, cit., p. 101.
14
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Il toponimo Montalbano tra storiografia, linguistica e archeologia
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nome ad un’età più antica che il medioevo, segnatamente a quella romana. Negli stessi anni registriamo altre due pubblicazioni a carattere locale che riportano l’etimo di
Montalbano: Giuseppe Giunta16 ripropone le tesi già espresse dal sacerdote Mobilia,
mentre Gaetano Pantano, ammettendo di non resistere «alla tentazione di esprimere
un parere», propone un’origine araba derivandone il nome da un ipotetico e non documentato mont-al-banna, che traduce con “monte costruito”.17
5. Le acquisizioni più recenti
L’ipotesi di lavoro proposta dal Terranova, circa un ascendente comune che lega
i vari Montalbano in Italia, trova risposta ad opera del filologo Girolamo Caracausi.18
Per lo specialista siciliano, Albano non è altro che «un nome personale derivato dal
latino Albanus, nome individuale ed etnico di una città Alba, derivato a sua volta da un
non attestato alba/alpa col significato di ‘pietra’, ‘monte’, ‘altura’, termine geomorfico
mediterraneo diffuso in tutta Italia».
Abbandonando per un attimo l’ambito rigorosamente scientifico della linguistica e spingendosi in quello più favoloso della mitologia, non si può a questo punto
non aprire una parentesi, per ricordare che Alba era pure il nome della mitica «scrofa
bianca», trovata nel luogo, presso l’odierna Albano Laziale, in cui si fa risalire per
tradizione la fondazione di Albalonga ad opera di Ascanio, figlio di Enea, 32 anni
dopo la distruzione di Troia e 400 prima della fondazione di Roma. Si è voluto partire
da questo breve rimando come pretesto per segnalare una particolare tradizione orale
diffusa nell’entroterra tra Tripi e Tindari circa l’esistenza di un’antica città che viene
ricordata tuttora a livello popolare con il nome di Troia o Trois. Di tale tradizione ne
parla nel 1919 Giovanni Muscarà per Basicò e, più recentemente, Antonino D’Amico
per Librizzi e Nino Lo Iacono per S. Cosimo (frazione di Patti).
Il Muscarà, trattando di scoperte archeologiche a Basicò nel suo studio sull’ubicazione di Abaceno (che ritiene costituita da una serie di villaggi), riferisce per primo
questa tradizione: «È risaputo infatti dai popolani di Basicò, che una grande città da
Tripi si estendeva fino a Tindari, attraverso una avvallata posizione. Detta città si disse
Abaceno, secondo alcuni, Troia secondo altri (volgo)».19
D’Amico, riferendosi invece a Librizzi, scrive: «Nell’anno 1924, vennero eseguiti tra Pietrasanta e Arangera diversi lavori agricoli per la piantagione delle viti, fu allora
che vennero alla luce, antichi e grossi muraglioni e alcune pentole intere con quattro
16
G. Giunta, Storia, folklore, monumenti, paesaggi di 65 località del messinese, Grafiche
Scuderi, Messina 1985, p. 245.
17
G. M. Pantano, Acqua e molini in Montalbano Elicona, Quagliata, Messina 1986.
18
G. Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, Centro di studi linguistici e filologici
siciliani, Palermo 1993, vol. I (A-L), p. 28.
19
G. Muscarà, Cenni storici e studio critico sulla ubicazione di Abaceno, Stab. Tip. Guerriera,
Messina 1919, p. 10.
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manici. I più anziani capiciurma riferivano che i loro antenati chiamarono quei luoghi
‘la città di Troyes’». Quindi ribadisce e precisa, avanzando una sua ipotesi etimologica:
«Dalla viva voce degli anziani, apprendiamo addirittura dell’esistenza di una cittadina
che si estendeva tra Pietrasanta, Arangera e Colla, denominata Troyes. Questo toponimo […] richiama la Francia nord occidentale nel dipartimento della Champagne, dove
esiste sulla Senna una grande città ancora oggi chiamata Troyes […]».20
Anche Lo Iacono, menzionando ritrovamenti archeologici avvenuti a S. Cosimo
un quarantennio prima, riferisce: «Sempre gli anziani hanno avuto tramandata dai propri avi la notizia che in quella località vi fosse una città di nome ‘Trois’». Quindi aggiunge in nota: «Un’ipotesi da azzardare potrebbe essere quella di accostare il termine
Trois a Treis per assonanza con Diana Trivia (Dea dei crocicchi). Nel punto centrale
dell’abitato della frazione, e dove poteva esserci il tempio si incrociano, ancora oggi,
tre strade».21
Mi corre l’obbligo non solo di confermare questa tradizione, ma perfino di allargarla topograficamente, includendo oltre quelle citate anche altre contrade della stessa
area, legate sempre da rinvenimenti archeologici, per avere avuto testimonianza diretta
da parte di persone non colte della stessa affermazione inerente questa misteriosa città:
si parla infatti di Trois per Iuculano, frazione di Patti (di cui si dirà in seguito) confinante con quella di S. Cosimo, per Casale, frazione di Montalbano, e per Casalotto,
contrada del comune di Tripi.22
Premesso che nella documentazione storica antica o medievale tale nome come
centro abitato non risulta mai attestato, mi pare improbabile un’eventuale sopravvivenza “in purezza” della voce greca troas, “la troiana” (appellativo riferibile a Tindari
o Abaceno?) o di triodia, “i trivi”; più verosimile potrebbe apparire l’antico francese
trois, “tre”, in virtù della perfetta assonanza fonetica (in quanto fino alla seconda metà
del XII sec. i dittonghi si pronunciavano distintamente),23 ma tale numerale sarebbe
relativo a che cosa? Riferibile ai tres montes,24 citati come confini orientali del monastero di S. Salvatore di Patti nel diploma di fondazione del 1094 del conte Ruggero25
(identificabili forse con Pizzo Cola, Monte Saraceno e Finocchiara)? Credo che tutto
ciò comunque non soddisfi e allora come spiegare e quale valore può essere dato a
questa tradizione popolare, sicuramente interessante ed estesa a una vasta area, che si
20
A. D’amico, Librizzi. Documenti , uomini e fatti prima e dopo il mille, EDAS, Messina 1996,
pp. 23, 191. È evidente che il D’Amico per la propria interpretazione etimologica ha forzato con una
trascrizione soggettiva la tradizione orale.
21
N. Lo Iacono, Nauloco e Diana Facellina. Un’ipotesi sul territorio di Patti fra Mitologia,
Storia e Archeologia, Armando Siciliano Editore, Messina 1997, p. 56.
22
È interessante rilevare questa coincidenza di toponimi, come Casale o Casalotto, riconducibili
in ogni caso ad insediamenti abitativi, ancora esistenti o scomparsi.
23
C. Cremonesi, Nozioni di grammatica storica dell’antico francese, Cisalpino-Goliardica,
Milano 1985, p. 24.
24
Da segnalare che attualmente esiste il toponimo Due Monti vicino Braidi, frazione di
Montalbano Elicona.
25
Vd. M. Fasolo, Alla ricerca di Focerò, cit., p. 19.
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Il toponimo Montalbano tra storiografia, linguistica e archeologia
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esprime nondimeno con un termine colto?
In merito, mi pare utile proporre un collegamento con l’ampia diffusione e popolarità avuta nel medioevo dalla leggenda troiana che, a partire dal Roman de Troie, poema scritto dal chierico francese Benoît de Saint Maure nel 1160-1170, trova
in Sicilia, e nel Messinese in particolare, autorevoli “divulgatori”, come Giudo delle
Colonne che nel 1287, rifacendosi a Ditti Cretese e Darete Frigio oltre che a Virgilio,
scrive la sua Histoire destructionis Troie, o il messinese fra Giovanni da Nicosia che
compone, volgarizzato, il De excidio Troiae. Ma è soprattutto da sottolineare, ai fini
della diffusione a livello popolare della leggenda troiana in Sicilia, la Istoria di Eneas
vulgarizzata pi Angilu di Capua (anch’egli peloritano ad onta del suo cognome etnico), testo fondamentale per gli studi sulla lingua siciliana del ’300. Nel 1498 si ha pure
una prima edizione a stampa per i tipi di Guglielmo Shonberger, sempre a Messina,
curata da Francesco Faraone con il titolo Dyctys Cretensi de historia belli troiani et
Dares Phrygius de eodem historia troiana.26
Tutto ciò per dimostrare che la leggenda troiana, nella veste di poema epico
volgarizzato, raggiunse una vasta popolarità in Sicilia a partire dal basso medioevo,
con importanza pari alle leggende epiche di Francia e di Bretagna. Pertanto, mi pare
proponibile l’ipotesi che il contadino illetterato che ebbe la ventura di imbattersi in rinvenimenti archeologici durante lavori agricoli in quest’area (da Tripi a Tindari e anche
oltre),27 ritrovando in particolare delle litrai abacenine dove è raffigurata la scrofa, non
trovò difficoltà ad abbinare il nome “parlante” suggerito dall’immagine della scrofa
coniata sulla moneta (in dialetto sic. troia),28 con i racconti epici della leggenda troiana
di cui, come si è detto, aveva buona conoscenza, in quanto sicuramente presenti nella
memoria collettiva, soprattutto in ambito messinese.29 L’alternanza di Troia con Trois
può essere opera di qualche erudito antiquario locale dei secoli scorsi (che rimane
comunque sconosciuto) o di qualche romantico viaggiatore straniero del Grand Tour,
come il francese Jean Houel che soggiornò per lungo tempo a Tindari o il léttone Carl
Grass, che nel 1804 sostò a Patti e ne visitò i dintorni.30
26
N. D. Evola, Francesco Faraone e la leggenda troiana in Sicilia, in «Bollettino del Centro di
studi filologici e linguistici siciliani» 2 (1954), pp. 373-375.
27
Un elemento da non trascurare è che la mappa geografica relativa alla diffusione di questa
tradizione orale risulta sempre compresa all’interno del territorio dell’antica Abakainon prima della
fondazione di Tindari.
28
Troia è voce d’importazione settentrionale (cf. ligure e piemontese tròja, provenzale troia,
francese truie) introdotta in Sicilia e nella Calabria meridionale attraverso i normanni.
29
Esulava dal contesto di questa specifica ricerca entrare nel merito delle mitiche fondazioni
troiane in Sicilia, per altro già note, e riferibili alle elime Erice, Segesta, Entella o a quella, territorialmente
più vicina, di Aluntium ad opera di Patron di Turio, compagno di Enea, e alle leggende, soprattutto
legate al culto di Afrodite, ad esse collegate.
30
C. Grass, Viaggio in Sicilia 1804. Soggiorno a Brolo e Patti, EDAS, Messina 1993. Affascinati
dal neoclassicismo, tali visitatori erano a conoscenza dei principali autori antichi. Class dimostra di
conoscere bene Diodoro, Cicerone, Virgilio, ma anche il Fazello. È significativa nel capitolo del viaggio
a Tindari questa sua annotazione: «Dopo la distruzione di Tindari, i sopravvissuti si stabilirono in Tyrsis,
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Giuseppe Pantano
Chiudendo questa parentesi dedicata al mito omerico di Troia, presente comunque nella tradizione popolare così raccontata da queste parti, riprendiamo il nostro
argomento principale.
Albanus, come detto sopra, è quindi un nome personale di origine nettamente
latina e, a mio avviso, non si avverte la necessità di andare tanto a ritroso con il preindoeuropeo alba, nel cui caso il nostro toponimo darebbe un composto tautologico
del tipo “monte-monte”, molto difficile da spiegare storicamente. Inoltre, secondo gli
studiosi più accreditati di linguistica storica, è ampiamente documentato come la desinenza in -ano sia tipica dei nomi prediali di origine romana, cioè di luoghi che traggono il loro nome da quello degli antichi possessores romani. Scrive Gerhard Rohlfs
in proposito:31 «Questo suffisso ha una parte importantissima nella toponomastica. Era
con la desinenza -anus infatti che in epoca latina si formavano nomi di poderi dai loro
proprietari romani». Poi ripete: «La tipica desinenza -ana lascia pensare a latifondi di
proprietà di famiglie romane».32 Quindi prosegue: «Solo in pochissimi casi tali nomi si
sono mantenuti dopo la conquista araba. Ed ancora oggi nella moderna Sicilia sorprende la quasi assoluta mancanza di toponimi in -ano che rappresentano una caratteristica
testimonianza della colonizzazione romana nelle altre parti d’Italia». E, d’altra parte,
gli fa eco Alberto Varvaro:33 «Questi nomi – i prediali latini – sono quasi tutti cancellati
dal rinnovamento toponomastico avvenuto nel periodo arabo».
È molto significativo sottolineare a questo punto due particolari: che secondo
la linguistica il nome Montalbano con il suo suffisso tipicamente latino rappresenta
una caratteristica testimonianza della colonizzazione romana e che è uno dei pochi
ad essersi mantenuti in Sicilia dopo la conquista araba. Tale ininterrotta continuità
toponomastica è spiegabile se si tiene conto che il triangolo nord-orientale dell’Isola
fu quello meno intensamente arabizzato (la vicina Rometta è stata l’ultima a cadere
in mano araba e la prima ad essere riconquistata dai normanni). Circa la cronologia
delle denominazioni prediali, possiamo dire con Maria Teresa Laporta34 che la stessa
risale ai tempi di Varrone e Cicerone, ed è presumibile che queste fossero usate anche
in tempi anteriori, dal II secolo a. C. almeno, «ma che hanno assunto valore geografico
solo in seguito, quando il territorio è stato per molto tempo in possesso di una stessa
famiglia e l’uso della denominazione si è quindi radicato». Quest’ultima affermazione
viene confermata dal Rohlfs: «È solo dal III al IV sec. che sono attestati toponimi derivanti da famiglie o da gente di stirpe latina».35
un luogo a solo alcune miglia di distanza da Tindari, del quale è ugualmente ancora visibile qualche
traccia». Il valore di tale nome, Tyrsis, è ancora tutto da stabilire.
31
G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Sintassi e formazione
delle parole, Einaudi, Torino 1969, p. 411.
32
G. Rohlfs, La Sicilia nei secoli, Sellerio, Palermo 1984, p. 22.
33
A. Varvaro, Lingua e storia in Sicilia, Sellerio, Palermo 1981, p. 49.
34
M. T. Laporta, Toponomastica in -ano nella Regio II Apulia et Calabria. Saggio della lettera
A, Congedo, Galatina 1992, p. 10.
35
G. Rohlfs, La Sicilia nei secoli, cit., p. 22.
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Il toponimo Montalbano tra storiografia, linguistica e archeologia
297
Avremo pertanto un arco cronologico piuttosto ampio (dal I a. C. al III-IV secolo)
in cui il nostro toponimo può essere nato. Il fatto che il nome Montalbano non venga
citato nelle Verrine, nell’Itinerarium Antonini, nella Tabula Peutingeriana o che non
faccia parte dei 65 municipia di età augustea non inficia minimamente l’origine romana del toponimo. Infatti, oltre le città più importanti, esistevano in Sicilia un numero
imprecisato di altri centri abitati minori, soprattutto villaggi e abitati rurali che cominciarono a sorgere già sotto Augusto, a seguito delle confische in massa dei beni dei suoi
avversari, degli espropri e abbandoni seguiti alla guerra contro Sesto Pompeo. Tutto
ciò, oltre a creare il nucleo di un sostanzioso patrimonio imperiale basato sul latifondo,
determinò anche un certo spostamento (che prosegue nei secoli dell’impero) del centro
di gravità della vita isolana dalle città costiere verso l’interno. Dalle conseguenze in
termini di ristrutturazione della proprietà e dell’habitat nascono le masse fundorum,
gli abitati rurali che, appunto, assumono la tipica denominazione toponomastica latina
basata sul nome personale seguito dal suffisso -anum. È noto anche come Ottaviano
dopo la guerra contro Sesto Pompeo privilegiò Tindari, che era stata un punto cardine
delle operazioni, conferendole lo status di colonia romana e insediando un compatto
gruppo di veterani italici. Mentre tra le località che lo stesso punì con una riduzione del
territorio, perché gli avevano opposto resistenza, viene annoverata Abaceno.
Queste informazioni sono della massima importanza per capire come il territorio
montalbanese in quell’epoca gravitasse in maniera esclusiva nell’area della Tindari
romana e come lo stesso, con il suo vasto bacino cerealicolo di Pulvirello36 e la sua
posizione strategica, non poté non essere stato oggetto di un massiccio popolamento
da parte dei coloni tindaritani già in quel periodo o successivamente. Una conferma in
questo senso ci viene fornita dall’archeologia (reperti di epoca romana sono reperibili
nel territorio di Montalbano), ma nel contempo anche la toponomastica può venire
incontro: intanto si riscontra il significativo toponimo Preda, lat. praedium, a sud del
centro abitato, ma anche, ben due volte, Sàutu, lat. saltus,37 e poi, a metà strada tra
Montalbano e Tindari, troviamo un altro interessante toponimo in -ano, “Iuculano”,
verosimilmente derivato da Lucullanum/Lucullianum, un vasto latifondo che ha potuto trarre il proprio nome dalla potente famiglia dei Luculli, attestata in Sicilia e citata
36
Questo toponimo entrerà a far parte della storia documentata già nella seconda metà del XIII
secolo, quando gli ospicia detti «de Pulvirello» sono concessi in feudo da re Manfredi al padre del
messinese Ansaldo da Patti, il quale ne era in possesso ancora nel 1273, durante la dominazione di Carlo
d’Angiò. Cf. I registri della cancelleria angioina, Ed. Accademia pontaniana, 10 vols., Napoli 1957,
vol. X, p. 79.
37
Sia praedium che saltus (“estensione di terreno di 800 iugeri”) dovrebbero appartenere ad una
fase antica della romanità. Il Rohlfs riferendosi alla Sicilia sottolinea proprio questo particolare: «Da
nessuna parte negli antichi nomi di luogo e di contrada si trova un riflesso degli elementi caratteristici
che appartengono ad una fase antica della latinità: agellus, albus, arx, confluentes, domus, fanum,
figulinae, fluvius, forum, horreum, lucus, nemus, oppidum, praedium, saltus, che in altri territori d’Italia
si sono mantenuti nei toponimi». Vd. G. Rohlfs, La Sicilia nei secoli, cit., p. 26. Entrambi i toponimi
sono riportati nel fitto elenco registrato dal Terranova nel territorio di Montalbano. Vd. N. Terranova,
Storia di Montalbano Elicona nell’antichità, cit., p.156-157, n. 38.
14 (luglio-dicembre 2013)
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Giuseppe Pantano
anche nelle Verrine da Cicerone.38
Assodato così dal punto di vista linguistico l’origine latina del nostro nome, non
rimane che trovare per conferma un’attestazione del nome Albano nelle fonti classiche, testi letterari o epigrafici. Intanto, per la zona del Salento troviamo, citati nel
saggio della Laporta,39 L. Iunius L. f. Albani e C. Velleius Albanus, ma la conferma
storica di un toponimo diventa veramente attendibile quando il nominativo è attestato
nella zona oggetto di ricerca. E la risposta ci arriva dalla vicina Tindari. Nel corso degli
scavi viene recuperata un’epigrafe su marmo, reimpiegata in strutture murarie di una
casa tardo antica successiva al terremoto del 365 d. C.,40 nella quale troviamo il nome
che andiamo cercando: Sextus Nonius Albanus, “Sesto Nonio Albano”. Tale epigrafe,
di età alto imperiale (I-II secolo),41 è attualmente visibile nella sala I del locale antiquarium ed è stata pubblicata da Giacomo Manganaro e di recente da altri.42
Si tratta in realtà di due iscrizioni sepolcrali a carattere privato apposte da Sextus
Nonius Albanus. La prima è dedicata al figlio Sexto Nonio Africano, morto all’età di
ventotto anni, con l’indicazione abbreviata della tribus in cui questi era registrato, la
38
Devo dare atto che Iuculano (e varianti) è anche cognome, relativamente diffuso in Sicilia,
che viene fatto derivare dal sic. iuculanu, aggettivo di “persona allegra, scherzosa, gioviale”. Cf.
Vocabolario Siciliano, vol. II (F-M), Centro di studi linguistici e filologici siciliani, Catania-Palermo
1985, p.404. E pure che, secondo il Caracausi, dal cognome derivi il toponimo. Cf. G. Caracausi,
Dizionario onomastico della Sicilia, cit., p. 808. Pur non contestando il parere dell’autorevole studioso,
mi viene da pensare alla pur remota possibilità del contrario, cioè che dal toponimo possa invece
esserne derivato il cognome (cognome toponomastico). A tal fine mi sembra utile sottolineare ivi
l’esistenza di una vasta zona archeologica (comprendente anche monte Saraceno) dove è presente la
già citata tradizione sulla città di Trois, i cui risultati della «prospezione intensiva ha rivelato un’area di
dispersione di materiale fittile estesa, con differenti gradi di intensità, circa 50 ettari e riconducibile ad
un centro abitato antico con una continuità d’uso dall’età protostorica alla media età imperiale romana,
un vuoto ed una successiva frequentazione in età medievale» la cui portata potrebbe giustificare la
presenza di un antico centro con il nome Iuculano. Vd. M. Fasolo, «L’assetto del territorio ad ovest
di Tindari in età normanna», in Da Halaesa ad Agathirnum-Studi in memoria di Giacomo Scibona,
Ed. del Rotary Club, S. Agata di Militello 2011, p. 162. È anche il caso di evidenziare l’esistenza di
Lucullanum come toponimo in Campania: il Castrum Lucullanum è storicamente attestato a Napoli e
i suoi resti archeologici (nelle adiacenze del maschio angioino) rimandano alla famosa villa di Lucio
Licinio Lucullo edificata nel I sec. a. C.
39
M. T. Laporta, Toponomastica in -ano nella Regio II Apulia et Calabria, cit., p. 24.
40
U. Spigo, Tindari. L’area archeologica e l’antiquarium, Regione Siciliana, Ass.to BB.CC.AA.,
Milazzo 2005, p. 73.
41
Ringrazio la docente di Storia romana presso l’università di Messina Lietta De Salvo per la
datazione dell’epigrafe.
42
G. Manganaro, Iscrizioni latine nuove e vecchie della Sicilia, in «Epigraphica» 51 (1989), p.
163. L’epigrafe è su una lastra di marmo che misura m. 1,40 x 0.43 x 0,15, a cornice modanata, con parte
inferiore fratturata e molto consumata che rende difficile la lettura. Si tratta di due iscrizioni sepolcrali
in due parti non separate verticalmente. La ricostruzione che segue si deve a Giacomo Manganaro con
successive integrazioni di Michele Fasolo:
A. Sex(to) Nonio / Sex(ti) f(ilio) Quir(ina tribu) / Africano / […] npp vix(s)it a(nnis) XXIIX
B. Caeciliae Zoticae / Sex(tus) Nonius Albanus / o[pt]imae uxori fecit / e[pul]um sing(ulis?) IIS
n(ummum) dignum eius.
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Il toponimo Montalbano tra storiografia, linguistica e archeologia
299
Quirina. Il cognomen potrebbe essere stato originato da un antenato che aveva combattuto in Africa o da un’impresa personale in quella regione. La seconda iscrizione
è per la moglie, rimpianta dal marito come optima uxor. La donna adotta la forma
femminile del cognomen paterno, Caecilius, seguito da Zotica. In età imperiale Zotica
risulta attestato sempre sulla costa settentrionale dell’Isola a Thermai Himeraiai, ma
anche in tarda età a Siracusa e, infine, in area campana. La lastra commemora anche
l’elargizione da parte di Sesto Nonio Albano della somma di due sesterzi e mezzo a
titolo di epulum, ovvero invece del banchetto funebre, al cadere del nono giorno delle
esequie, a ciascun invitato (non sappiamo se gli universi cives o una loro parte) venne
data una somma (sportula).43
Ora, anche a non voler dire che proprio questo patrizio romano di Tyndaris abbia avuto in questo territorio un latifondo, forse anche una villa, e quindi sia stato il
fondatore eponimo della città, tuttavia – è un dato di fatto – sarà proprio dal gentilizio
di questo antico latifondista, della famosa famiglia dei Noni e cognomen Albano, che
bisognerà partire per avere una visione nuova e linguisticamente più corretta sul nome
del nostro comune.
43
Ringrazio Michele Fasolo per lo studio dell’epigrafe messo a disposizione per questa ricerca.
Vd. M. Fasolo, Dinamiche dell’insediamento nel territorio di Tindari dalla preistoria al medioevo, in
«Journal of Ancient Topography» 21 (2011), pp. 119-150.
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Shara Pirrotti
Itinerari medievali del Valdemone
Per la maggior parte della gente una strada è il riferimento topografico meno
ambiguo e più sicuro per raggiungere un dato indirizzo e colmare la distanza esistente
tra il punto in cui si è e quello che si vorrebbe raggiungere. Questa convinzione induce
spesso nell’errore di considerarla una sorta di realtà fissa, inconfondibile, un «organismo immutabilmente chiuso».1
Ma non è così. Neppure la regina viarum, la via Appia antica, che collegava
Roma a Brindisi (cioè al più importante porto per la Grecia e l’Oriente dell’impero
romano e il luogo da cui salpò Federico II di Svevia per raggiungere Gerusalemme),
mantenne intatta nel tempo la sua fisionomia, ma anzi venne più volte modificata dagli
imperatori Augusto, Vespasiano, Traiano e Adriano, perché anche la via Appia (come i
reticoli stradali di ogni epoca e luogo) era stata tracciata assecondando l’esigenza della
classe dominante di raccordare i luoghi meglio rispondenti ai propri obiettivi politici,
economici, sociali e culturali, e quindi dovette essere “personalizzata” più volte per
compiacere le prospettive progettuali del sovrano di turno.2
Il concetto di “modificabilità” della viabilità risulta particolarmente pertinente
per la Sicilia, interessata per largo spazio della sua storia dell’avvicendarsi di dominazioni diverse per provenienza e logiche di governo. La viabilità greca della Sicilia doveva quindi essere diversa da quella romana e quest’ultima a sua volta era certamente
differente da quella medievale o da quella borbonica. Per questo motivo molti percorsi
primitivi furono col passare del tempo del tutto obliterati o gradualmente disusati,
mentre altri furono reimpiegati con variazioni sostanziali, al punto che nel Settecento
il marchese di Villabianca e Vito Amico lamentavano concordemente il fatto che delle
antiche vie siciliane ai loro tempi non rimanessero che nomi o, al più, semplici “trazzere”, cioè percorsi pastorali.3 In Sicilia, tuttavia, come altrove, l’interesse per nodi
viari e centri urbani rilevanti per posizione strategica o prestigio economico rimase
spesso inalterato nel tempo, facilitando la sopravvivenza diacronica di alcune strade o
di porzioni di esse. Sulla base dei dati letterari, cartografici e documentari giunti fino a
L. Banti, Via Placentia-Lucam, in «Atene e Roma» n.s. 13 (1932), p. 99.
Sulla modificazioni sensibili della viabilità cf. G. Uggeri, La Sicilia nella Tabula Peutingeriana,
in «Vichiana» 6/2 (1939), p. 25; Id., La viabilità della Sicilia in età romana, Congedo editore, Galatina
(Le) 2004, p. 7.
3
F. M. Emanuele Gaetani, marchese di Villabianca, Strade antiche e moderne di Sicilia,
Palermo, Biblioteca Comunale, ms. Qq E 90; T. Fazelli, De Rebus siculis criticis animadversionibus V.
M. Amici et Statellae, Catania 1749-1753, p. 377, n. 3.
1
2
«Mediaeval Sophia». Studi
w w w. m e d i a e v a l s o p h i a . n e t
e ricerche sui saperi medievali
E-Review semestrale dell’Officina di Studi Medievali
14 (luglio-dicembre 2013), pp. 301-340
302
Shara Pirrotti
noi, si vuole azzardare una ‘teoria stratigrafica’ della storia della viabilità siciliana per
individuare la fisionomia e la paternità delle più importanti strade della Sicilia orientale interna, con particolare riferimento all’epoca medievale.
1. Strade greco-romane
Escludendo da questa ricerca i tracciati viari brevi riservati al traffico locale, si
può con certezza affermare che già in epoca greca esistessero nella Sicilia nordorientale vere e proprie vie di comunicazione interne adeguate a lunghi spostamenti, benché
i collegamenti principali fossero costieri per consentire, com’è noto, il mantenimento
dei rapporti commerciali tra le colonie greche.4 La viabilità terrestre, per lo più lungo
i principali corsi d’acqua, che nella Sicilia occidentale assolveva lo scopo di collegare
le fattorie arcaiche di VI e V secolo,5 nella parte orientale dell’isola doveva agevolare
la penetrazione militare degli eserciti. Tucidide, infatti, descrivendo gli eventi della
guerra siciliana negli anni 414-413 a. C., menziona più volte un collegamento tra Catania e Centuripe6 (si è preferito utilizzare la nomenclatura corrente), che proseguiva
per Adrano7 e arrivava fino a Randazzo.8 Questa strada, «vera e propria spina dorsale
delle comunicazioni della parte settentrionale dell’isola»,9 fu utilizzata nel IV secolo
a. C. dagli eserciti cartaginesi e da Timoleonte.10 La strada costituiva una deviazione
terrestre di quel percorso marittimo che collegava Messina a Naxos, Taormina, Aci e
Catania. Un’altra strada interna, inoltre, attraversava verticalmente il territorio siculo
nordorientale, da Tusa/Halaesa (fondata nel 403 sul Tirreno come sbocco portuale di
Herbita), fino ad Enna, attraversando i monti Nebrodi nel territorio dell’odierna Mistretta e oltrepassando Agira e Assoro11 (tav. 1).
La viabilità greca fu parzialmente modificata dai Romani una prima volta nel III
Cf. D. Adameşteanu, L’ellenizzazione della Sicilia, in «Kokalos» 8 (1962), pp. 199 ss.; T. J.
Dunbabin, The Western Greeks, Oxford 1948, p. 201 n. 1; A. Di Vita, La penetrazione siracusana, in
«Kokalos» 2 (1956), pp. 185 ss.
5
Lo si può intuire per la presenza di solchi profondi tracciati dai carri a Castelluccio presso Noto,
a Sutera e nella Valle dei Templi di Agrigento.
6
Tucidide, La Guerra del Peloponneso, introd. di M. I. Finley, trad. e cura di F. Ferrari, BUR,
Milano 2011, VI, 94, 3. Cf. G. B. Grundy, Thucydides and the History of His Age, Oxford 19482, vol. I,
pp. 39 ss. Tucidide menziona anche una via in direzione di Agrigento e la via detta Elorina, che andava
da Siracusa in direzione sud verso Eloro, nei pressi dell’odierna Noto Marina lungo il corso del fiume
Cassibile. Cf. Tucidide, La Guerra del Peloponneso, cit., VI, 66, 3; 70, 4; VII, 80, 5; VII, 32, 1.
7
Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, Sellerio, Palermo 1992, 16, 82; 22, 13; Plutarco, Vite
parallele, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2000, 12: Emilio Paolo-Timoleonte.
8
Cf. G. Uggeri, La Sicilia nella Tabula Peutingeriana, cit., p. 49.
9
G. Bejor, Tucidide VII 32 e le vie dià Sikelòn nel settentrione della Sicilia, in «Annali della
Scuola Normale Superiore di Pisa, cl. Lettere e Filosofia» s. 3/3 (1973), p. 764.
10
Cf. G. Uggeri, La viabilità della Sicilia in età romana, cit., p. 17.
11
Cf. Ivi, p. 18.
4
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Itinerari medievali del Valdemone
303
secolo a. C.12 per favorire gli spostamenti delle truppe da Messina verso Marsala (cioè
in direzione est-ovest) e da Palermo verso Agrigento (in direzione nord-sud) nel corso
delle guerre puniche.13 Sei secoli più tardi, nel IV secolo d. C., allorché la fondazione
di Costantinopoli convogliò tutte le risorse granarie egiziane in quella direzione, i Romani intervennero nuovamente sulla viabilità siciliana creando vie di comunicazione
che facilitassero lo sfruttamento agrario delle zone interne e l’accesso ai latifondi di
proprietà di consulares e senatores.14 La Sicilia fu dotata allora per la prima volta di
vere e proprie strade di percorrenza regolare15 sottoposte al controllo statale, dotate
di stazioni di posta16 e tracciate con una certa attenzione alle condizioni locali e alle
strutture preesistenti.17
Le fonti, costituite dall’Itinerarium Antonini del IV sec. d. C.18 e dalla Tabula
Peutingeriana (redatta tra XII e XIII secolo su un itinerarium pictum del III o IV sec. d.
C.),19 oltre che dalla cosiddetta “carta di Tolomeo” del II secolo d. C.,20 pur attestando
che il collegamento tra e per i diversi caricatoi fu assicurato soprattutto da strade marittime, menzionano per la Sicilia orientale l’esistenza di un’unica via interna importante
che collegava Catania a Termini e si raccordava, per il tratto Termini-Palermo, con la
via Valeria21. (tav. 2) Il percorso si snodava sull’asse principale Catania-Centuripe-Agira-Assoro-Enna. Da Enna, divenuta in età romana uno tra i maggiori comprensori
granari dell’interno dell’isola, era possibile raggiungere la costa settentrionale o, apCf. Id., La viabilità romana in Sicilia con particolare riguardo al III e IV secolo, in «Kokalos»
28/29 (1982/83), p. 425.
13
Cf. G. Tesoriere, Viabilità antica in Sicilia. Dalla colonizzazione greca all’unificazione
(1860), Zedi Italia, Palermo 1994, p. 13.
14
M. Mazza, «Terra e lavoratori nella Sicilia tardo repubblicana», in A. Giardina-A. Schiavone
(eds.), Società romana e produzione schiavistica: l’Italia. Insediamenti e forme economiche, RomaBari 1981, pp. 292 ss.; F. Burgarella, «Sicilia e Calabria fra tarda antichità e alto medioevo», in R.
Barcellona-S. Pricoco (a cura di), La Sicilia nella tarda antichità e nell’alto Medioevo. Religione e
società. Atti Convegno di Studi, Catania-Paternò 1997, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999, pp. 9-32.
15
Strabone, Géographie, Les Belles Lettres, Paris 1967, tome III, p. 90 (V, 3, 7). Sui metodi
costruttivi delle strade romane e sui tipi di veicoli che li percorrevano, cf. R. J. Forbes, L’uomo fa il
mondo. Una storia della tecnica: dall’ascia al reattore, PBE, Torino 1960, pp. 84-90; G. Tesoriere,
Viabilità antica in Sicilia, cit., pp. 39-42.
16
Sulle stazioni di posta romane cf. L. Di Paola, Viaggi, trasporti, istituzioni. Studi sul cursus
publicus, Di.Se.A.M., Messina 1999 (Pelorias, Collana del Dipartimento di Scienze dell’Antichità
dell’Università di Messina, 5), passim.
17
Cf. R. Wilson, Sicily under the Roman Empire: the Archeology of Roman Province, Aris &
Phillips, Warminster 1990.
18
G. Uggeri, La viabilità della Sicilia in età romana, cit., pp. 235-250.
19
Cf. G. Uggeri, La viabilità romana, cit., pp. 425-427.
20
Ivi, p. 33, fig. 5, p. 34; pp. 235-250.
21
L’Itinerarium menziona anche una via di comunicazione tra Catania e Agrigento attraverso le
«mansionibus nunc institutis» (Capitonianis, Philosophianis, Gallonianis, Cosconianis) e un’ulteriore
strada che partendo da Agrigento portava a Palermo. Per la prima cf. ivi, p. 38; pp. 252 ss. Per la seconda cf.
Itineraria romana, vol. I. Itineraria Antonini Augusti et burdigalense, ed. O. Cunz, Teubner, Lipsiae 1929,
p. 13; H. G. Pflaum, Essai sur le ‘Cursus publicum’ sous le Haut-Empire Romain, Paris 1940, p. 384.
12
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punto, a Termini, oppure attraverso il collegamento di epoca precedente con Mistretta e Tusa/Halaesa.22 Il tragitto annoverava le stazioni di posta di Catania, Paternò/
Aethna,23 Centuripe,24 Agira, Enna, Termini Imerese. Una sua diramazione collegava
Centuripe, lungo il Simeto, a nord con Maniace, Francavilla e Naxos, e a sud-est con
Biancavilla e Paternò.25 L’esigenza di rendere raggiungibili sia i latifondi dei patrizi
romani, sia i principali caricatoi di cereali (che si mantennero in funzione fino all’età
medievale), se giustificò il proliferare di nuove strade, ne causò anche l’inevitabile
frammentazione, aggravatasi dopo il crollo dell’impero romano d’occidente, quando
prevalse il disinteresse del governo centrale per la cura della viabilità siciliana.
2. Viabilità bizantina
Il re ostrogoto Teodorico (493-526) promulgò infatti alcuni provvedimenti che
affidavano in esclusiva ai proprietari terrieri la manutenzione delle strade isolane.
Tali provvedimenti furono sostanzialmente confermati anche da Narsete, il generale
dell’imperatore Giustiniano che alla metà del VI secolo si occupò del riordinamento
amministrativo dell’Italia e della riparazione dei danni causati dalla guerra. La desolazione nella quale cadde la viabilità siciliana durante la dominazione bizantina e la
progressiva ruralizzazione dell’Isola indussero Cassiodoro (che fu governatore della
Sicilia alla fine del V secolo) ad affermare che «Nullum enim tale negotium est, quod
Siculi itineris tantas pati possim expensas, dum commodium sit causam perdere quam
aliquid per talia dispendia conquisisse».26 Come dire: è molto meglio perdere un affare
piuttosto che rischiare una cifra spropositata per inoltrarsi attraverso i difficili percorsi
isolani. I Bizantini, d’altronde, durante i quattro secoli di governo della Sicilia, si limitarono al semplice riadattamento delle vie romane principali, tralasciando significative
attività di manutenzione stradale periferica e non incentivando la costruzione di nuovi
percorsi, come si può parzialmente desumere dalle due fonti disponibili: la Cosmographia dell’Anonimo Ravennate e la Geographica di Guidone, che attingono a fonti
romane con l’aggiunta di qualche emendamento.
La bizantina Cosmographia (che ricalca fondamentalmente una carta del IV
secolo) riporta al cap. 23 del V libro il collegamento tra la via Valeria con l’asse
Catania-Enna all’altezza di Tusa/Halaesa;27 la Geographica, redatta nel XII sec. in
ambiente normanno pugliese, riferisce un itinerario da Ibla a Morgantina, Centuripe
G. Uggeri, La viabilità della Sicilia in età romana, cit., p. 23.
Cf. ivi, p. 249.
24
Sull’importanza di Centuripe in età romana, cf. G. Uggeri, La viabilità della Sicilia in età
romana, cit., p. 246.
25
Ivi, p. 247.
26
Cassiod., Var., VI, 22, 1, riportato da Uggeri, La viabilità della Sicilia in età romana, cit., p. 28.
27
Cf. G. Uggeri, La viabilità della Sicilia in età romana, cit., p. 58.
22
23
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Itinerari medievali del Valdemone
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verso l’Etna28 fino a Mistretta (se con essa bisogna identificare Mestratim).29 Insieme
a Segesta, Selinunte e Agira, questi citati sono gli unici centri montani siciliani riportati da entrambe le carte.30 (tav. 3) In realtà, in epoca bizantina sorsero in Sicilia altri
insediamenti d’altura (come Troina, Sperlinga, Nicosia e Tusa),31 che rappresentarono
significativi esempi di incastellamento a scopo difensivo. Il pericolo degli attacchi arabi provocò infatti il trasferimento di parte della popolazione siciliana dai siti marittimi
in insediamenti rupestri, cioè in «grandi stanzoni aperti nelle rupi precipiti di riposte
cave»32 caratterizzati da un accentuato isolamento e dalla mancanza di contatti e di comunicazioni con il resto dell’isola.33 Altri gruppi andarono invece a popolare un certo
tipo di castrum a gestione statale detto castellum. Costruiti dapprima di terra e legno,
e successivamente in pietra, i castella derivavano la loro forma dagli accampamenti
militari ma erano di minori dimensioni e potevano accogliere una sola legione (contro
le due dei castra).34 Anche nella Sicilia minacciata dal pericolo musulmano, dunque,
furono costruiti centri isolati, con case organizzate «secondo un reticolo radiocentrico,
ad avvolgimento, a fuso»,35 così come accadeva in Oriente, dove fino al VII e VIII
secolo d. C. se ne trovano testimonianze sia come fortezze al centro di antiche città,
sia come nuovi centri parimenti isolati e fortificati.36 Basati su un’economia curtense
e lontani dalle maggiori “città” e vie di comunicazione, i castella rappresentarono per
i siciliani l’unica via di salvezza dalle guerre e dai saccheggi e, con questi presupposti
di isolamento e di difendibilità massime,37 accentuarono verosimilmente il disuso e
Cf. ivi, p. 69.
Guidonis, Geographica, ed. Pinder, Parthey, 1860 (rist. 1962); Schnetz 1940 (rist. 1990), par.
59, pp. 126 ss. Cf. G. Uggeri, La viabilità della Sicilia in età romana, cit., p. 68 e note.
30
Itineraria romana, vol. II, Ravennatis Anonimi Cosmographia et Guidonis Geographica, ed.
J. Schnetz, Teubner, Lipsiae 1940, pp. 100 e 126-127.
31
Cf. F. Maurici, L’insediamento medievale in Sicilia: problemi e prospettive di ricerca, in
«Archeologia Medievale» 22 (1995), p. 488.
32
P. Orsi, Sicilia Bizantina, Brancato, San Giovanni La Punta (Ct) 2000 [rist.], p. 13.
33
G. Uggeri, Insediamenti rupestri medievali. Problemi di metodo e prospettive di ricerca, in
«Arch. Med.» 1 (1974), pp. 195-236. Cf. G. Tesoriere, Viabilità antica in Sicilia, cit., p. 53.
34
I castella sono menzionati in tre fonti bizantine: una descrizione anonima del 590 d. C., le
Institutiones tacticae dell’imperatore Leone databile al 900 circa e il trattato anonimo De re militari del
X sec. Cf. P. Köchli-A. Rüstov, Griechische Kriegsschrifsteller, II, 2.
35
P. Portoghesi (a cura di), Dizionario enciclopedico di architettura e urbanistica, Istituto
editoriale romano, Roma 1968-69, vol. II, p. 11
36
Cf., F. von Gerkan, Griechische Städteanlagen, Berlin-Leipzig 1924, pp. 124 ss.; Enciclopedia
dell’arte antica classica e orientale, a cura di Giovanni Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana,
Roma 1958, vol. III, pp. 412-416.
37
L’evoluzione di tali strutture porterà in età normanna, al «trionfo della nuova Sicilia ‘chiusa’
che sta per prendere il posto definitivo alla periferia meridionale dell’Europa, sulla Siqillia ‘aperta’
della Gheniza»: la definizione è di F. Maurici, Castelli medievali di Sicilia, Dai bizantini ai normanni,
Sellerio, Palermo 1992, pp. 69-70; pp. 27 e 42. Cf. Id., L’insediamento medievale in Sicilia, cit., pp.
487-500 (in particolare le pp. 488 e 489); P. Militello, L’“oppidum triquetrum” di Scicli, in «Archivio
Storico Messinese» 44 (1989), pp. 5-47, soprattutto p. 43; sulla tesi dell’incastellamento regolare in
età bizantina cf. A. Molinari, «Il popolamento rurale in Sicilia tra V e XIII secolo: alcuni spunti di
28
29
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306
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l’abbandono delle strade di ampia percorrenza.38 La viabilità bizantina interna della
Sicilia si mantenne dunque ridotta a pochissime strade almeno fino ai primi decenni
del IX secolo.39 Per il traffico locale i siciliani continuarono a servirsi di “trazzere” (dal
fr. drecière = via diritta, cammino), cioè di sentieri naturali ben segnati sul terreno, percorribili soltanto a piedi o a cavallo a causa delle loro ridotte dimensioni, che avevano
il fondo in acciottolato artificiale o costipato per favorire il transito alle bestie durante
la ciclica transumanza delle greggi e delle mandrie dalle aree montuose dell’entroterra
ai pascoli delle pianure costiere.
3. Viabilità musulmana
Gli Arabi, come è noto, nonostante le limitazioni alla viabilità programmate dai
bizantini riuscirono ugualmente ad impadronirsi della Sicilia. Per conquistare i centri
d’altura più rilevanti (Demenna, Miqus, Rametta)40 e addentrarsi all’interno dell’isola
essi utilizzarono non soltanto le vie marittime (di cui si assicurarono il controllo con
la conquista dei siti strategici di Siracusa, Palermo, Catania e Messina), ma soprattutto
strade che seguivano i percorsi fluviali (tav. 4). Nel X secolo, dopo aver parzialmente
consolidato la loro conquista, i Musulmani si preoccuparono di fondare nuovi casali41
e rimettere in uso le strade preesistenti probabilmente anche con l’aggiunta di nuovi
percorsi, allo scopo di facilitare gli spostamenti e il trasporto delle merci che dovevano
confluire nei centri maggiori, come Palermo. Antiche e nuove strade vennero allora
provviste di Rah’al (stazioni di posta)42 e di “fondachi” (o “fondaci”, dall’arabo funduq= magazzino, alloggio),43 cioè di taverne e alberghi di bassa classe dove mercanti,
pellegrini e bordonari potessero riporre le loro merci, dormire e rifocillarsi insieme
alle loro bestie. Le stazioni di posta musulmane e i luoghi di ricovero e ristoro, ubicati
in aperta campagna, costituirono nel tempo il nucleo di nuovi centri abitati (Ragalna,
Regalbuto, Racalmuto, Fondachelli Fantina, ecc.) e determinarono la formazione di
alcuni itinerari giornalieri, le marhalah, costituiti dalla distanza variabile tra una stariflessione», in G. Noyè-R. Francovich (a cura di), La storia dell’alto medioevo italiano alla luce
dell’archeologia, Edizioni all’insegna del giglio, Firenze 1994, pp. 361-377; J. M. Pesez, «La Sicile a
haut moyen age. Fortifications, constructiones, monuments», ivi, pp. 379-385.
38
G. Uggeri, La viabilità della Sicilia in età romana, cit., p. 299.
39
Cf. P. Orsi, in «Notizie degli Scavi di Antichità», Roma 1907, p. 750; B. Pace, Arte e civiltà
della Sicilia antica, Società anonima editrice Dante Alighieri, Roma 1935, vol. I, pp. 459-64.
40
Cf. E. Amari (a cura di), Bibliotheca arabo-sicula, cit., vols. I e II, passim.
41
Cf. G. e H. Bresc, Ségestes Médiévales: Calathamet, Calatabarbaro, Calatafimi, in «Mélanges
de l’École Française de Rome: Moyen-âge» 89 (1977), p. 344.
42
V. Fardella de Quernfort, «Le stazioni di posta arabo-musulmane in Sicilia (secoli IX-XII)»,
in Studi di Storia Postale dal Medioevo all’Unità d’Italia, ed. Aziz, Palermo 1989 (per il Valdemone,
cf. le pp 13-15).
43
Cf. P. Potoghesi (a cura di), s.v. Fondachi, in Dizionario enciclopedico di architettura e
urbanistica, cit.
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Itinerari medievali del Valdemone
307
zione di posta e la successiva.44 Manyag (odierna Maniace), per fornire un esempio significativo e funzionale alla presente ricerca, era stata inserita nella quarta marhal che
comprendeva anche Niqusin (Nicosia), Garami (Cerami), Qal’at-at-Targinis (Troina).
Da Maniace, inoltre, partiva la quinta marhal che metteva in comunicazione Randag
(Randazzo), al’ Mudd (Moio) e Qastallun (Castiglione)45 (tav. 5).
4. Viabilità al tempo dei Normanni
I nuovi percorsi risultarono estremamente funzionali alla penetrazione normanna. L’attenzione degli studiosi si è fin qui soffermata a considerare il rapporto dei
Normanni con la viabilità siciliana soltanto nel momento successivo alla conquista,
per sottolineare come le strade isolane fossero state in gran parte ripristinate, riadattate
e dotate di ponti (ne sono significativi esempi quello sul fiume Alcantara nei pressi
di Bronte, o quello sul fiume Oreto alla periferia di Palermo, costruito su progetto
dell’ammiraglio Giorgio di Antiochia).46 Si è spesso sottolineato anche che i percorsi
precedenti furono dai Normanni centralizzati e potenziati per farli convergere verso
centri che avevano acquisito nuovi poteri, come Troina o San Marco. Nessuno studio,
invece, è stato riservato, per nostra conoscenza, all’analisi della viabilità siciliana al
momento della conquista, (tav. 6) cioè al momento in cui gli arabi governavano l’isola;
l’orientamento generale, anzi, ripropone un clichè fisso per il quale la dominazione
musulmana non apportò sostanziali modifiche alla viabilità della Sicilia, o, se anche ve
ne avesse apportate, esse sarebbero irrilevanti per consistenza e per assenza di documentazione. Si ritiene, tuttavia, di poter desumere dettagli finora ignoti sulla viabilità
della Sicilia musulmana rileggendo le cronache di Amato da Montecassino e Goffredo
Malaterra, confrontandole con i dati contenuti nel trattato geografico di Idrisi.
Per narrare la gloriosa epopea dei fratelli Altavilla, infatti, oltre che sugli aspetti
celebrativi ed encomiastici di Roberto o di Ruggero (protagonisti, l’uno dell’Histoire
di Amato e l’altro del De Rebus Gestis di Malaterra), le due cronache indugiano sull’itinerario normanno che, nella scelta dei percorsi e delle soste all’interno dell’isola, non
poteva non tenere conto delle strade di lunga percorrenza che erano in uso al momento
del loro ingresso nell’isola, cioè alla metà dell’XI secolo: per questo motivo è parso
Cf. Fardella de Quernfort, Le stazioni di posta arabo-musulmane, cit., p. 8; M. Amari,
Glossario dei vocaboli arabi, in Appendice al vol. IV della Bibliotheca arabo sicula, cit., II, p. 828;
Id., Storia dei Musulmani di Sicilia, a cura di C. A. Nallino-R. Prampolini, Catania 1933-39, vol. II, p.
532, nota 1.
45
V. Fardella de Quernfort, Breve storia postale di Bronte, in «Nebrodi» (2004), a cura del
Circolo Filatelico Numismatico Sampietrino.
46
Della vasta letteratura sui ponti siciliani di età normanna si cf., per esempio M. Manfredi
Gigliotti, Passi perduti. Alla ricerca dell’antica viabilità nei Nebrodi: la via Valeria-Pompeia, Yorick
Editore, Messina 1990; L. Santagati, Viabilità e topografia della Sicilia antica. Volume I. La Sicilia del
1720 secondo Samuel von Schmettau ed altri geografi e storici del suo tempo, Assessorato Regionale ai
Beni Culturali ed Ambientali ed alla Pubblica Istruzione, Caltanissetta 2006.
44
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308
Shara Pirrotti
importante ripercorrere rapidamente le principali tappe contenute nelle due narrazioni.
a) Amato da Montecassino
Amato disegna sinteticamente un percorso che, dopo lo sbarco a Messina47 registra come tappe successive Rometta, Frazzanò, Centuripe,48 Paterne et Emmellesio
(città che furent trovées vancantes, sanz nut home),49 da cui i Normanni ritornarono
indietro fino a Enna per dirigersi a Messina, non specificando se per la stessa via interna o percorrendo la via marittima che collegava la città dello stretto a Catania.50 Dopo
aver fondato, in un Valdemone in festa al loro passaggio,51 il castello di San Marco,
raggiunto probabilmente per la stessa strada che aveva condotto l’esercito a Frazzanò,
i due capi normanni, conquistata Mazzarino, espugnano Palermo e si dividono l’Isola.52 Il monaco di Montecassino, dunque, si limita a citare solo le tappe salienti del percorso normanno che meglio esaltavano l’impresa del suo eroe, Roberto il Guiscardo,
e che, per le località di Paternò, Centuripe ed Enna, seguiva il già accennato tracciato
greco-romano.53
b) Goffredo Malaterra
La Cronaca di Malaterra,54 invece, pur riportando sostanzialmente il medesimo
percorso, lo arricchisce di soste intermedie: dopo lo sbarco a Messina nel 1061, il monaco francese menziona infatti nel suo resoconto i centri di Rometta, Tripi, Frazzanò,
la pianura di Maniace,55 e poi Centuripe, Paternò e le grotte di Castrogiovanni/Enna.56
Lo stesso anno sono collocate anche la fondazione del castrum di San Marco57 e la
presa di Troina.58 A Troina Ruggero ritornò anche l’anno successivo59 per insediarvi
la novella sposa Giuditta, che qui subì l’assedio ordito dai Bizantini in alleanza con
gli Arabi.60 Nel 1063, dopo una ulteriore sosta a Troina,61 Ruggero partecipò alla nota
Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese [Ystoire de li
Normant], a cura di V. De Bartholomaeis, Tipografia del Senato, Roma 1935 (FSI, 76), l. V, 20.
48
Ivi, 21.
49
Ivi, 22.
50
Ivi, 23.
51
Ibid.
52
Ivi, VI, 21.
53
Cf. G. Uggeri, La Sicilia nella Tabula Peutingeriana, cit., p. 14.
54
Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius,
a cura di E. Pontieri, N. Zanichelli, Bologna 1927 (RIS, V), II, 13, p. 33.
55
Ivi, 14, p. 34.
56
Ivi, 16, p. 34.
57
Ivi, 17, p. 34.
58
Ivi, 18, pp. 34-35.
59
Ibid.
60
Ivi, 29, p. 39.
61
Ivi, 32, p. 42.
47
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Itinerari medievali del Valdemone
309
battaglia di Cerami, nella vallata tra Capizzi e Troina, riportando una schiacciante vittoria a cui non fu estraneo il provvidenziale intervento divino.62 Dopo la conquista di
Palermo63 e di Taormina,64 nel 1080 Ruggero, «famosissimus ergo Siciliae princeps et
debellator»,65 fondò la cattedrale di Troina e la elesse prima sede vescovile dell’isola;66
ad essa fu sottoposta la chiesa di S. Nicola di Messina, dotata «turribus et diversis
possessionibus»67 (tav. 7). Le Cronache di Amato e Malaterra consentono di raccogliere, dunque, alcuni dati fondamentali sul collegamento viario che, passando per le
montagne dei Peloritani e dei Nebrodi, congiungeva Messina a Enna; un collegamento
che non è riportato dalle fonti geografiche greche, romane e bizantine prese in esame e
tuttavia esisteva, in alternativa alla via romana marittima, al tempo in cui i Normanni
giunsero in Sicilia. Doveva perciò esistere alla metà dell’XI secolo una strada che attraversava l’estrema pars orientalis dell’Isola dai Peloritani fino al cuore dei Nebrodi
e, nei pressi del piccolo cenobio bizantino di San Filippo di Fragalà (divenuto sotto
Ruggero un centro economico e spirituale di ben altro spessore),68 puntava verso il
centro-sud e raggiungeva Maniace. Si spingeva, cioè, verso il centro pedemontano in
cui è attestata l’esistenza di una stazione di posta musulmana che faceva da spartiacque
tra due differenti percorsi isolani: essi, con una giornata di cammino, consentivano di
spostarsi, verso sud-ovest e verso sud-est. Nei pressi di Maniace e Adrano, inoltre, la
strada percorsa dai Normanni si raccordava con la via greco-romana per Enna. Attraverso questo percorso e le sue diramazioni, Ruggero poteva spingersi fino a Catania
e, come dimostrano i frequenti spostamenti puntualmente narrati da Malaterra, fare
agevolmente la spola tra Troina e Messina, cioè fra la città dell’interno a lui più congeniale per la sua difendibilità e l’avamposto più prossimo alla Calabria. Attraverso il
medesimo percorso i Normanni poterono raggiungere anche il castrum di San Marco,
fondato da Roberto nei pressi dell’antica città bizantina di Demenna,69 per tenere sotto
controllo il litorale tirrenico.
Ivi, 33, pp. 42-43.
Ivi, 45, p. 52.
64
Ivi, 18, p. 67.
65
Ivi, 7, pp. 60-61.
66
Ivi, p. 69.
67
Ivi, 32, p. 77. Cf. anche R. Starrabba, I diplomi della cattedrale di Messina raccolti da Antonino
Amico, Palermo 1888 (Documenti per servire alla Storia di Sicilia a cura della Società Siciliana per la
storia patria, s. I, Diplomatica, 1), doc. 1, pp. 1-2.
68
Cf. S. Pirrotti, Il monastero di S. Filippo di Fragalà (secoli XI-XV). Organizzazione dello
spazio, attività produttive, cultura, Officina di Studi Medievali, Palermo 2009; Ead., Il monastero di S.
Filippo di Fragalà (secoli XV-XXI). Il regime commendatario, l’esproprio, la rinascita, Centro Studi
San Filippo di Demenna, Messina 2012 (Cultura e civiltà dei Nebrodi, 2).
69
L’esatta ubicazione di Demenna è tuttora sconosciuta, anche se si sono avanzate ipotesi in
favore della sua identificazione con Alcara Li Fusi, o con Longi, o con San Marco d’Alunzio, cioè con
i comuni nebroidei nei cui territori, peraltro contigui, avrebbe dovuto sorgere con ogni probabilità la
fortezza. Non esistono tuttavia documenti che attestino senza ambiguità l’identificazione di Demenna
con uno dei tre. Cf. S. Pirrotti, Il monastero di San Filippo di Fragalà (secoli XI-XV), cit., pp. 38-41 e
note. Esiste invece un reticolo trazzerale che mette in comunicazione i tre comuni. Cf. infra.
62
63
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Shara Pirrotti
c) Idrisi
A cento anni di distanza dalle cronache di Amato e Malaterra, i percorsi isolani
sono nuovamente menzionati nel testo di Idrisi, questa volta con l’esplicito intento di
descriverli nel modo più dettagliato possibile all’interno di un’opera geografica commissionatagli dal re di Sicilia.70 Il Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo costituisce lo specchio della rinnovata esigenza del Regnum normanno di sorvegliare il territorio e collegare tra loro i centri più importanti con una efficiente viabilità. (tav. 8) Per il
Valdemone Idrisi traccia i consueti percorsi litoranei romani, soffermandosi sui nuovi
centri fondati o restaurati dai normanni: in particolare, il geografo arabo menziona
Caronia con cui «principia la provincia di Dimnas»;71 San Marco (odierna Torrenova),
distante 10 miglia da Caronia e dotato di porto e arsenale dove «si costruiscono delle
navi col legname [che si taglia] nelle montagne vicine»;72 Naso (odierna Capo d’Orlando), distante altrettante 10 miglia, anch’esso nella doppia valenza di fortezza e di
spiaggia, e Patti (odierna Patti Marina), a 12 miglia da Naso. La via marittima proposta da Idrisi continua poi toccando Oliveri, Milazzo, Messina, Taormina, Aci e infine
Catania.73 Sono paesi, rammenta il geografo arabo, che «giaccion sul mare»,74 distinti
da «quelli dentro terra, tra fortezze, rocche ed [altri] luoghi abitati».75 Tra questi ultimi
il geografo arabo individua Castrogiovanni-Enna «per sito, il più forte dei paesi che
Dio ha creati» e ricostruisce anche il collegamento tra Castrogiovanni-Enna con Agira,
Centuripe, Adrano, le falde dell’Etna, Paternò, S. Anastasia, Lentini e Catania.76 Nel
novero delle fortezze e rocche Idrisi menziona anche Troina, «castello da rassomigliare a città; desiderato soggiorno; fortilizio che si estolle sui lati del territorio, nel quale
stendonsi non discontinui i campi da seminagione e i colti»,77 distante 12 miglia da
Nicosia, 8 da Cerami in direzione ovest e 20 da Maniace. Quest’ultimo, «villaggio in
pianura, ben popolato», con un «mercato e de’ mercatanti; territorio ferace e abbondanza d’ogni maniera», dista poi 5 miglia dalle falde dell’Etna, 20 miglia da Adrano
lungo il corso del fiume Simeto e 10 miglia da Randazzo.78 La città di Randazzo anche
in piena età medievale, come nei secoli precedenti, costituiva un punto di snodo di
consistenti traffici commerciali79 grazie alla sua posizione strategica che consentiva al
centro etneo di mettersi in comunicazione, oltre che con Maniace e Adrano, con Castiglione (a cui era collegato da una strada che attraversava il «castello» di Moio), con
Idrisi, «Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo», in M. Amari (a cura di), Bibliotheca
arabo-sicula, Torino-Roma 1880-81, vol. I, cap. VII, pp. 55-130.
71
Ivi, p. 66.
72
Ibid.
73
Ivi, pp. 67-71.
74
Ivi, p. 83.
75
Ibid.
76
Ivi, pp. 72, 98, 107-109.
77
Ivi, p. 113.
78
Ivi, p. 115.
79
Ivi, pp. 115-116.
70
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Itinerari medievali del Valdemone
311
Patti (mediante una strada che passava per Floresta, Raccuia e S. Angelo),80 e inoltre,
mediante una via puplica, con Montalbano (distante 20 miglia) e Galati (a 10 miglia
da Montalbano),81 proseguendo quindi per San Marco (a 7 miglia a ponente da Galati),
San Fratello (a 5 miglia da San Marco) e Caronia (14 miglia), in direzione Tusa e Cefalù.82 Il castrum di San Marco, fondato da Roberto il Guiscardo nel 1061, era divenuto, dopo la morte di Ruggero I, un palatium che fu sede della corte normanna durante i
difficili anni della reggenza di Adelasia e i primi anni di governo del figlio Ruggero. In
quel periodo il centro nebroideo vide potenziati, verosimilmente, i collegamenti viari
che lo connettevano ai centri viciniori più importanti, come appunto Randazzo. Sul
collegamento tra Randazzo e Montalbano Idrisi ritorna una seconda volta per aggiungere un ulteriore raccordo di nove miglia tra Montalbano e Messina, Rometta e Monforte.83 Monforte è anche collegato a Tripi mediante una strada che corre 20 miglia ad
ovest;84 la stessa strada prosegue poi per Moio a sud per 5 miglia e si interseca dopo 3
miglia con la strada per Montalbano.85 Idrisi ripropone qui, dunque, puntualmente, il
percorso prenormanno seguito dalle truppe di Ruggero e Roberto per addentrarsi dai
monti Peloritani prospicienti Messina fino all’interno del bosco dei Nebrodi.
d) Le pergamene greche e latine
I dati letterari di epoca normanna (XI-XII secolo) possono essere confrontati
con le informazioni tratte da alcune pergamene coeve del Tabulario di San Filippo di
Fragalà.86 In questi documenti è frequente la menzione di strade publicae o antiquae
negli atti latini e, in quelli greci, di dromos, basiliké odós, magna odós, megale odós,
accanto a “serre”, “vie” e “sentieri”, per diversificare scientemente le grandi strade
di lunga percorrenza e gli itinerari minori riservati alla transumanza. La persistenza
della distinzione tra i percorsi viari si mantiene almeno fino al XIV secolo, quando
Questa strada nel tempo cadde in disuso e fu ripristinata solo in epoca borbonica per favorire
il commercio di vino, olio, seta e ceramica nella piana di Patti. Furono progettate dai Borboni altre tre
strade: quella da Salicià al Pisciaro passando per Novara, necessaria alla piana di Milazzo; la strada da
S. Agata Militello a Bronte passando per Militello, che favoriva il trasporto del legname per la fornitura
di carbone alle città principali; la strada dai Margi a Leonforte, granaio di tutta la provincia di Messina,
passando per Mistretta e Nicosia, molto percorsa specie durante le carestie del 1847 e 1854 e in altri
momenti difficili. Cf. Sulla strada rotabile da costruirsi tra Patti e Randazzo, s. d. e l. Cf. anche il
commento in proposito di G. Ferreri, Viabilità nazionale e rete stradale siciliana, Istituto Siciliano
Studi Politici ed Economici Palermo 1995 (Territorio e lavoro, diretta da D. Grammatico, 4), p. 9.
81
Ivi, pp. 116-117.
82
La via publica è attestata per San Marco (Palermo, Archivio di Stato, Tabulario di San Filippo
di Fragalà e Santa Maria di Maniace, e da ora ASPT, pergg. nn. 35, 48, 56), Randazzo (ASPT, perg. nn.
33, 50, 51, 55) e Capri (ASPT, perg. 59).
83
Idrisi, pp. 117-118.
84
Ivi, p. 119.
85
Ivi, p. 120: «Da Tripi a Montalbano 12 miglia».
86
Sul tabulario e sul monastero di S. Filippo di Fragalà cf. S. Pirrotti, Il monastero di San
Filippo di Fragalà (secoli XI-XV), cit., passim.
80
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la puntualità dei dati topografici si smarrisce e viene livellata da formule notarili più
generiche («et alios confines»).87
Tra i riferimenti viari di epoca normanno-sveva emerge l’importante nodo viario costituito dal «trivio del Mueli»,88 da cui si articolavano i collegamenti tra Galati e Randazzo,89 Montalbano e San Marco, mediante una via puplica90 (o demosiakè
odos)91 che intersecava la via regia marittima di collegamento tra San Marco, Naso,
San Fratello e Caronia. (tav. 9) I testi documentari, quindi, confermano le informazioni
fornite da Idrisi, specificando che la strada in questione era «pubblica», cioè faceva
parte di quel circuito di strade di una certa ampiezza e di lunga percorribilità che erano
controllate dall’autorità centrale. Le pergamene, inoltre, aggiungono che il percorso
nei pressi di Naso saliva ad una certa altezza incrociando altre vie minori collinari.92
Un secondo mégalos dromos passava nel territorio di Alcara93 e, con ogni probabilità, coincideva con la megále odós che consentiva di raggiungere Grappidà, presso
l’odierna Maniace,94 mettendo il centro etneo in comunicazione con il monastero di
Fragalà; nei pressi del monastero si inerpicava un’altra megále odós, che dal «podere
di Flaciano» (odierna Frazzanò) scendeva incrociando la via che veniva da Mirto95 e
proseguiva per Caprileone,96 innestandosi con la via marittima all’altezza di Torrenova. Un documento del 1183,97 infine, ricorda la strada romana di Enna (denominata
semplicemente odòs kastrou iwánnou) che seguiva il corso del torrente Lupo mettendo
in comunicazione il centro di Centuripe con la contrada di Maleventre.
5. Le ipotesi precedenti
Gli studi condotti da Lucia Arcifa sulla viabilità siciliana medievale hanno proposto la ricostruzione dei percorsi bizantini e normanni sulla base dei dati forniti da
alcuni documenti greci di XI-XII secolo relativi, come quelli che si sono appena esaminati, alle fondazioni monastiche italogreche, poiché secondo la studiosa esse costi-
Cf. G. Silvestri, Il Tabulario, cit., passim.
ASPT, pergg. n. 4 e 5 del 1094.
89
G. Silvestri, Il Tabulario, cit., pp. 51 e 54, docc. del 1340, 1342 e 1359.
90
Ivi , p. 46, perg. del 1339; p. 68, perg. del 1360.
91
G. Spata, Le pergamene greche esistenti nel grande Achivio di Palermo, Palermo 1862, p. 361,
perg. del 1280.
92
ASPT, perg. n. 2 del 1091.
93
ASPT, perg. n. 10 del 1109. Questa, definita anche basileikòs dromos, oltre che megas dromos,
è citata anche in un documento della cattedrale di Messina datato 1144(?) riportato sia da S. Cusa, I
diplomi greci e arabi di Sicilia, vol. I, Palermo 1868, pp. 312 ss. che da R. Starrabba I diplomi della
cattedrale di Messina, cit., doc. IX, p. 380.
94
G. Spata, Le pergamene greche, cit., docc. IX del 1110, e XXXIV del 1245, pp. 227 e 336.
95
ASPT, perg. n. 21 del 1183? 1189?.
96
G. Silvestri, Il Tabulario, cit., p. 76, perg. del 1398.
97
G. Spata, Le pergamene greche, cit., doc. XXV, pp. 294-295.
87
88
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Itinerari medievali del Valdemone
313
tuivano, insieme a quelle latine, la «novità» introdotta dai Normanni nel panorama socioculturale dell’Italia meridionale.98 In base a questi dati la Arcifa ipotizza per l’area
nebroidea alcuni assi bizantini: quello che collegava Troina a San Marco «fra i monti
di S. Elia di Ambula, Portella Maulazzo, Scafi, Mangalavite», lasciando sulla destra il
convento di Fragalà, collegato ad assi minori che raggiungevano Alcara, San Fratello e
Militello;99 l’asse Randazzo-Patti (Randazzo, crocevia di Favoscuro, Raccuia, Librizzi, Patti), la cui deviazione raggiungeva il monastero di S. Angelo di Brolo;100 l’asse
Tusa-Gangi; una via regia nei dintorni di Rometta (che dalla costa tirrenica risaliva
la fiumara Saponara e, oltrepassando Dinnamare giungeva alla fiumara di Larderia e
alla costa ionica vicino Tremestieri).101 Queste ultime due trasversali erano collegate
con Palermo tramite la via “Messina per le Montagne” (anch’essa secondo la studiosa
di origine bizantina), e con due itinerari marittimi romani, la via Valeria (da Messina
a Palermo) e la via da Messina a Catania.102 (tav. 10) Tali ipotesi sono avvalorate da
alcuni documenti che attesterebbero l’esistenza di vie «regie». e specificamente: per
l’asse Troina-San Marco un diploma del 1094 in favore del monastero di S. Elia di
Ambula (di cui esiste una traduzione dal greco in latino del 1503) e un documento del
1143103 (nel quale però l’unica “via regia” indicata è quella che passa per Alcara e San
Marco, mentre il collegamento con Troina è assicurato da una semplice “strada”); per
l’asse Randazzo-Patti due documenti rispettivamente del 1142104 e del 1094; per l’asse
Tusa-Gangi-Capizzi un documento del 1195, una concessione del 1117 e un diploma
del 1168; per la strada congiungente Rometta e Larderia un diploma del 1090.
Cf. L. Arcifa, «Viabilità e politica stradale in Sicilia (sec. XI-XIII)», in C. A. Di Stefano-A.
Cadei (a cura di) Federico e la Sicilia. Dalla terra alla corona, Catalogo della mostra, Ediprint Palermo
1995, pp. 26-33. Le medesime ipotesi e i medesimi concetti sono fedelmente ricopiati (con introduzioni
diverse), in Ead., «Vie di comunicazione e potere in Sicilia (sec. XI-XIII). Insediamenti monastici
e controllo del territorio», in S. Gelichi (a cura di), Atti del I Congresso Nazionale di Archeologia
medievale Pisa 29-31 maggio 1997, All’Insegna del Giglio, Firenze 1997, pp. 181-186; Ead., «Viabilità
e insediamenti nel Valdemone. Da età bizantina a età normanna», in Itinerari e comunicazioni in Sicilia
tra Tardo-antico e Medioevo, Atti del Convegno di Studi, Caltanissetta 16 maggio 2004, s. n., s. l.
2004, pp. 4-11 e 97-114; Ead., «Strade e monasteri sui Nebrodi. Persistenze e innovazioni dal tardo
antico ai normanni», in Itinerari basiliani. Atti del Convegno (Messina, 24-25 marzo 2006), Accademia
Peloritana dei Pericolanti, Messina-Napoli 2006, pp. 141-152; Ead., «La riorganizzazione del “dromos”
in Sicilia nel corso dell’ultima età bizantina: le vie regie sui Nebrodi», in C. Varaldo (a cura di) Ai
confini dell’impero: insediamenti e fortificazioni bizantine nel Mediterraneo occidentale (VI-VIII sec.),
Atti del Convegno di Studi (Bordighera, 14-17 marzo 2002), All’Insegna del Giglio, Bordighera 2011
(Atti dei Convegni, 9).
99
Ead.,Viabilità e insediamenti nel Valdemone, cit., pp. 5-6.
100
Ivi, p. 6.
101
Ibid.
102
Ivi, pp. 6-7.
103
R. Starrabba, I diplomi della cattedrale, cit., pp. 378-80; S. Cusa, I diplomi greci e arabi di
Sicilia, cit., pp. 314-315
104
S. Cusa, I diplomi greci e arabi di Sicilia, cit., pp. 526-527 che però non cita un basilikós
drómos, come ricorda Arcifa, bensì una megále odós.
98
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6. Documentazione cartografica moderna
Le ipotesi dell’Arcifa e i dati provenienti dalle pergamene di epoca normanna
sono stati confrontati con la più recente cartografia custodita presso l’Ufficio Tecnico
Speciale per le Trazzere di Sicilia105 (tav. 11) prendendo in considerazione alcuni specifici percorsi: la regia trazzera «Cesarò-Zappulla»,106 per esempio, (tavv. 12, 13) ha
una lunghezza di circa 36 km e un’ampiezza di m 40: le sue misure, cioè, corrispondono a quelle di una strada di lunga percorrenza gestita dall’autorità centrale, percorribile
da carri o da fuoristrada. La trazzera parte dal lato nord-est dell’odierno centro urbano
di Cesarò, entra per un breve tratto nel comune di Bronte attraversando il bosco Semantile e, presso la Portella omonima, si inoltra nel territorio di Longi, precisamente
in contrada Feudo Barilà, oltrepassando il torrente Martello per attraversare il Feudo
Botti, Portella Scafi, Sorgiva Settefrati, Passo Valanga, Trevalloni, Case Mangalavite,
Piano Mastro Vincenzo, Pizzo Mueli e Portella Gazzana. Qui esistono le diramazioni
per Floresta, Tortorici, «Alcari ed altri paesi»,107 oltrepassati i quali e proseguendo lungo il triplice confine intercomunale di Longi-Alcara-San Marco, la trazzera si raccorda
presso Zappulla con la trazzera del litorale per Messina e per Palermo, con cui è messa
in comunicazione mediante la via che risale il fiume Rosmarino. La strada è «l’unica
esistente che dal Mare portasse alle montagne»108 di cui è testimonianza il cosiddetto
ponte romano. Questa trazzera borbonica, come risulta evidente, riprende per larghi
tratti il percorso prenormanno che consentì ai fratelli Altavilla di inoltrarsi all’interno
del bosco dei Nebrodi. Ad essa sono ricollegabili altri due percorsi minori:
1) la trazzera «Alcara-Longi», lunga 6 km, che costituisce il più breve collegamento tra i
centri urbani di Alcara Li Fusi e di Longi;109 (tav. 14)
2) la trazzera «Longi-San Marco-Torrenova» n. 559, di 12 km circa, che collega il centro
urbano di Longi con il comune di Torrenova, dove si innesta con la trazzera «Palermo-Messina per le marine».
Occorre aggiungere, per completezza di informazione, che la via «Palermo-Mes-
Nessun dato utile per la ricostruzione della viabilità medievale, può provenire dalle carte
geografiche della Sicilia redatte in diversi Paesi europei tra il XVII e il XIX secolo che per la pars
orientalis non svelano percorsi diversi da quelli tradizionali. Cf. L. Dufour (a cura di), La Sicilia
disegnata. La carta di Samuel von Schmettau (1720-1721), Società di Storia Patria, Palermo 1995;
L. Dufour-A. Lagumina (a cura di), Imago Siciliae. Cartografia storica della Sicilia. 1420-1860,
Domenico Sanfilippo Editore, Catania 1998, pp. 100, 108, 109, 251, 254, 258, 259.
106
Ufficio Tecnico Speciale per le Trazzere di Sicilia in Palermo (e da ora UST), Relazione
dimostrativa della demanialità R. Trazzera Cesarò-Zappulla, identificata col n. 557, p. 1.
107
Ibid.
108
Ivi, p. 4. Cf. anche Regie Trazzere, I “sentieri di un tempo”, Itinerari-Storia-Cultura ArteTradizioni e Gastronomia, a cura del Consorzio Sole Arte, Grafica 2000, Rocca di Caprileone (Me)
2006, p. 86.
109
UST, Regia Trazzera Alcara Li Fusi-Longi n. 246.
105
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sina per le Marine» (passante per i centri di Termini, Cefalù, Tusa, Caronia, Acquedolci, Brolo, Patti, Milazzo, è la trazzera 128, che dal torrente Rosmarino arriva fino al
confine con Brolo,110 in alternativa alla via «Palermo-Messina per le Montagne» che
seguiva il percorso passante per Termini, Polizzi, Nicosia, Troina, Randazzo, Francavilla, Taormina), qualificata anche, per antica tradizione, «via Consolare». Il fascicolo ad essa relativo aggiunge l’informazione che «il diverso percorso che la litoranea
e la via in esame assumevano talvolta, sebbene a così lieve distanza, era in genere
conseguente ai differenti scopi cui ciascuna doveva assolvere: mentre la prima aveva
carattere eminentemente armentizio, per cui tutt’altre esigenze assumevano importanza secondaria, la seconda avendo ancora di mira soprattutto necessità inerenti al
transito pubblico, per sovrappiù molta intensa quale via di grande transito regionale,
segue un tracciato più agevole e sicuro in ogni tempo, specie negli attraversamenti di
grandi corsi d’acqua disimpegnati talvolta da importanti e costose opere d’arte».111 Del
fatto che, per i medesimi percorsi, esistessero più strade è esemplare prova la trazzera
366, denominata «Palermo-Messina Diramazione del Ponte»: lunga circa 13 km inizia
dal centro urbano di Acquedolci e termina a Rocca di Caprileone. La trazzera aveva
carattere di grande via di comunicazione e di via postale ed era percorsa nel periodo
invernale quando non era possibile oltrepassare i due larghi torrenti Inganno e Rosmarino seguendo la trazzera della spiaggia. Questa strada segue infatti un percorso
più a monte rispetto alla precedente trazzera ed è parzialmente compresa tra due corsi
d’acqua importanti. E sempre parte della Regia Trazzera del Litorale è il troncone numerato 655, denominata: «Tratto da contrada Malpertuso (limite intercomunale Brolo-Naso) – Messina». Dalla relazione di progetto redatta in data 24.3.1825 si apprende
che questa strada doveva collegare Messina a Tusa fino al fiume Gallo , che segna il
confine con il territorio di Gesso, specificando che «la strada che qui si progetta è quasi
quella stessa che tuttora si pratica e forma parte dell’antica per le Marine da Messina
a Palermo»,112 che quindi passava per la contrada messinese di Gesso (tav. 15), dove
la Arcifa ipotizza un collegamento bizantino «a pettine». Un’altra strada, denominata «Regia trazzera Pizzo Sambuco per S. Stefano Briga» n. 244, collegava Larderia,
poco distante da Gesso, a Monforte S. Giorgio. (tav. 16) L’importante collegamento
tra Patti e Randazzo è confermato dalla trazzera 24 che ha come tappe intermedie il
Di circa 16 km, questa trazzera parte dal comune di Torrenova, e dal torrente Rosmarino nelle
contrade Pattese e Lenzi, sorpassa il torrente Platanà e giunge in località Pietra di Roma e Cupani, nel
territorio oggi occupato dalla statale; oltrepassato il fiume Zappulla si immette nel territorio un tempo di
Naso e oggi di Capo d’Orlando, fino al confine intercomunale di Brolo nelle contrade Parisi e Cipolla.
111
UST, Regia Trazzera Palermo-Messina nei territori di S. Marco d’Alunzio e Capo d’Orlando
dal torrente Rosmarino confine intercomunale con Brolo. Nella relativa Relazione dimostrativa della
demanialità, p. 5, si afferma che la presenza di ponti costruiti anteriormente alla rotabile dimostrano
che la relativa arteria trazzerale, «cui davano continuità, non poteva che essere di natura demaniale».
112
UST, Relazione dimostrativa della demanialità della regia trazzera del Litorale: tratto
contrada Malpertuso (in continuazione del tratto Torrente Rosmarino-S. Marco-confine intercomunale
con Brolo, pp. 3-4.
110
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torrente Timeto e la contrada Quattro Finaite dove convergono i confini dei territori dei
comuni di Patti, Librizzi, S. Piero Patti e Montalbano Elicona. (tav. 17) Da Randazzo la trazzera 68 assicura il collegamento con Cesarò113 che, a sua volta, mediante la
trazzera 117 è messo in comunicazione con S. Agata Militello.114 (tav. 18) Procedendo
verso ovest, due trazzere, la 221 «Castel di Tusa-Bivio Pirato S. Mauro» (tav. 19) e
la 315 «B. Pirato (S. Mauro)-Bivio Murfa (Alimena) con diramazione per Alimena»
(tav. 20) assicurano il collegamento tra Tusa e Gangi che Lucia Arcifa nella sua ipotesi di ricostruzione viaria attribuisce alla matrice bizantino-normanna; le trazzere 10
e 68 collegano invece, lungo la strada «Palermo-Messina per le montagne» Gangi a
Randazzo, così come è riportato nella carta della Arcifa, che attribuisce anche a questo
percorso un’origine bizantina. La rete trazzerale contiene inoltre un collegamento tra
Caronia e Cerami, ottenuto dal prolungamento della trazzera 232 «Caronia-Capizzi»
(tav. 21) con la trazzera 237 «Capizzi-Troina» (tav. 22). Quest’ultima trazzera ha inizio
dal Piano S. Salvatore da dove si dipartono altre due diramazione della Regia Trazzera proveniente da Capizzi rispettivamente per S. Fratello e per Caronia e ha termine
al Bivio Piano Fossi, ove incrocia la «Trazzera grande di Palermo» e si innesta alla
«Regia Trazzera Cerami-Troina». Nella medesima zona esiste anche un ulteriore collegamento tra il lago Maullazzo (comune di Cesarò) e Longi, passante per il territorio
di Alcara, denominato trazzera 450 «Bivio Maullazzo-Longi», (tav. 23) anch’esso di
matrice bizantina secondo la Arcifa.
7. Rete viaria medievale: un’ipotesi di ricostruzione
La documentazione cartografica, letteraria e documentaria fin qui esaminata insinua non pochi dubbi circa la sicura attribuzione bizantina avanzata da Lucia Arcifa,
ma anche sull’esistenza di percorsi unici o, al contrario, di tracciati paralleli utilizzati
indifferentemente per il medesimo collegamento, come la stessa studiosa sostiene.
UST, Relazione dimostrativa della demanialità della regia trazzera Cesarò-Randazzo, p. 1:
«Dal così detto piano della Fiera a nord-est di Cesarò ha inizio la trazzera per Randazzo che nei tempi
andati conteneva tutto il traffico agricolo ed armentizio che si svolgeva fra tutti i paesi montani della
Provincia di Messina con quelli Etnei della Provincia di Catania; traffico che tutt’ora sussiste per il tratto
in territorio di Cesarò distante dalle vie rotabili».
114
La trazzera, lunga circa km. 30, ha inizio a nord del centro urbano di Cesarò, alla portella
Calacuderi raggiunge il confine intercomunale con S. Fratello e costituisce il limite tra i due comuni
fino alla portella Maulazzo, dove entra nel territorio di Militello Rosmarino. Al Pizzo della Cattiva la
trazzera segna il confine tra Alcara Li Fusi e Militello Rosmarino, per costituire in contrada Monachello
il confine intercomunale tra Militello Rosmarino e S. Agata Militello finchè si immette nel territorio di
quest’ultimo comune. La medesima trazzera è menzionata in un elenco delle regie trazzere del Comune
di Troina redatto nell’ottobre 1788 dall’Agrimensore Filippo Nasca che, tra l’altro, attesta: «Altra
trazzera che principia da Troina verso le Foreste principiando dalle case di Troina […] si incammina
poi nelle Foreste di Troina verso le terre di S. Fratello, Mirto, Alcara ed altri paesi». Cf. UST, Relazione
dimostrativa della demanialità della regia trazzera Cesarò-S. Agata Militello, pp. 1 ss.
113
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L’unico dato desumibile con una certa sicurezza è che per la rete viaria siciliana esista
una stratificazione iniziata già in epoca classica, che intensificò o rallentò la sua evoluzione in dipendenza di fattori politici ed economici determinanti durante le dominazioni successive. È probabile che, oltre ai Greci e ai Romani, i protagonisti delle innovazioni viarie in epoca medievale siano stati gli Arabi e i Normanni. Quelle
dominazioni, cioè, che, una volta consolidata la conquista della Sicilia, si proposero di
potenziarne le risorse agricole e facilitare gli scambi commerciali: per loro, quindi, si
rendeva prioritario rendere efficiente la viabilità interna. Più improbabile è la creazione di strade di lunga percorrenza, le cosiddette vie regie, da parte dei Bizantini, che
molto curarono l’incastellamento e l’occultamento dei percorsi esistenti per contrastare il pericolo musulmano. E poiché la viabilità bizantina, come si è visto, escludeva del
tutto l’area nordorientale dell’isola, nella quale non è riferito dalle fonti alcun collegamento eccetto la strada Tusa/Halaesa-Enna, peraltro di origine greca, non è inverosimile supporre che il reticolo di vie interne percorse dai Normanni per appropriarsi del
territorio siciliano (reticolo non costituito solo, ovviamente, da strade rurali, ma anche
da strade ampie di lunga percorrenza dove far transitare le truppe) possa essere stato
tracciato dai Musulmani. E’ noto, infatti, che durante la loro dominazione la produzione agricola dell’isola conobbe un notevole impulso, grazie allo sfruttamento intensivo,
alle nuove tecniche utilizzate, nonché alla deforestazione di gran parte dei Nebrodi per
ricavarne nuove terre da coltivare e legname da esportare nei mercati del Nord-Africa,
notoriamente povero di vegetazione ad alto fusto. Logica conseguenza di questa imponente opera di diboscamento potrebbe essere stata una vivace e più agevole strategia
di collegamento tra le parti interne mediante la creazione di rinnovati tracciati viari. Di
questa viabilità sopravvive il percorso che collegava Frazzanò e il monastero di San
Filippo di Fragalà a Maniace, di cui riferisce Malaterra: (tav. 24) la strada, ancor oggi
percorribile all’interno del Parco dei Nebrodi,115 mette in comunicazione San Marco
d’Alunzio con il monastero di Fragalà lambendo il pizzo Difesa; prosegue nel territorio di Longi e, prima di giungere a portella Gazzana, incrocia due strade che conducono rispettivamente ad Alcara e a Longi; lasciando sullo sfondo il pizzo Mueli, prosegue da portella Gazzana per contrada Contrasto e attraversa il bosco Mangalaviti fino
a portella Scafi, da cui prosegue per portella Balestra in direzione della Fontana Balestra; giunge quindi a pizzo Mangalaviti, discende la serra Grillo, oltrepassa le case
Botti, si addentra nel vallone e nel bosco di Grappidà fino al piano Tre Arie. Da lì
prosegue nel bosco Petrosino e sbocca a poche centinaia di metri dall’ingresso dell’attuale Castello Nelson di Bronte, un tempo abbazia di Santa Maria di Maniace, prima
metochio, successivamente abbazia benedettina e infine associata nel regime commendatario al monastero di San Filippo di Fragalà.116 Con un percorso di soli 36 km, dunque, questo percorso all’interno dei Nebrodi consentiva e consente ancora oggi di col-
Cf. S. Pirrotti, «Un itinerario normanno nel Valdemone», in Nuove ricerche sul Valdemone
medievale, a cura del Rotary International, Sant’Agata Militello (Me) 2005, pp. 39-61.
116
Cf. Ead., Il monastero di San Filippo di Fragalà (secoli XI-XV), cit., pp. 84-97.
115
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legare i due opposti versanti delle province di Messina e Catania colmando in un
tempo sensibilmente più breve una distanza calcolata dalle normali vie autostradali in
210 km. Da Maniace la strada proseguiva in direzione ovest verso l’attuale Cesarò e
Troina da cui, procedendo verso sud, raggiungeva Centuripe, dove si innestava sulla
antica via greca che portava da Catania a Enna, passando per Agira e Assoro. Il percorso esistente facilitò al condottiero normanno i frequenti spostamenti da Troina, sito
eletto a propria residenza, strategico per il completamento della conquista, a San Marco, castrum e più tardi palatium e villaggio, dotato di uno sbocco portuale strategico
sul Tirreno lungo la via Valeria (vi accennerà quasi un secolo più tardi Idrisi). La strada, innestandosi sul tragitto di collegamento tra Randazzo-Montalbano-Rometta, agevolò anche i collegamenti tra la città di Troina e Messina, raggiungibile sia per la via
marittima che per quella montana. E benché fosse plausibile che anche i Bizantini, tra
VIII e IX secolo, coltivassero il proposito di mettere in comunicazione lo stretto di
Messina con i maggiori insediamenti fortificati d’altura della pars orientalis dell’isola,
come appunto Troina e Demenna, le informazioni relative all’isolamento dei kastellia,
più che il silenzio delle fonti, impedirebbero di attribuire alle strade percorse dai Normanni un’origine bizantina. Origine bizantina, d’altronde, sconfessata anche dalle vicende relative alla conquista degli Arabi i quali, a loro volta, avrebbe utilizzato quei
percorsi, se fossero esistiti, per completare in modo più rapido e capillare la conquista
della parte nordorientale della Sicilia, che invece non fu mai del tutto islamizzata. Lo
documenta la presenza di strutture monastiche bizantine, concentrate per lo più in
quella parte dell’Isola, e la parallela persistenza della lingua greca, che si mantenne
inalterata fino all’arrivo dei Normanni, sia come sermo cotidianus dei ceti inferiori,117
sia in campo amministrativo118 e liturgico,119 sia come lingua letteraria di testi profa-
117
Cf. Gregorio Magno, Registrum Epistularum, a cura di D. Norberg, Brepols, Turnholti 1982
(Corpus Christianorum, Series Latina, CXL/CXL A, IX/229), IX, 26. Cf. anche G. Rohlfs, Nuovi scavi
linguistici nella antica Magna Grecia, Luxograf, Palermo 1972 (Istituto Siciliano di Studi bizantini e
neoellenici. Quaderni, 7), p. 143.
118
Cf. V. Von Falkenhausen, «Chiesa greca e chiesa latina in Sicilia prima della conquista araba»,
in Archivio Storico Siracusano, n. s., 5 (1978-79), pp. 144 ss.; A. Guillou, «La Sicilie Byzantine. Etat
des recherches», in Byzantinische Forschungen, 5 (1977), pp. 95-145 (= «Sicilia bizantina. Un bilancio
delle ricerche attuali», in Archivio Storico Siracusano, 1975/76, p. 58).
119
Cf. Von Falkenhausen, Chiesa greca, cit., p. 151: il papa, infatti, «pur difendendo il latino
sul piano politico, sul piano privato non si preoccupava se uno parlasse o pregasse in latino o in greco».
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ni120 ed ecclesiastici (inni,121 testi teologici122 e agiografici).123 Questi ultimi, in particolare, furono redatti dai cenobiti bizantini esclusivamente in greco fino all’XI secolo.124
La “resistenza” bizantina, consolidatasi nella pars orientalis anche grazie alla presenza dei monasteri italogreci, fu quasi certamente agevolata dalla difficoltà con cui questi
centri di religiosità e preghiera potevano essere raggiunti. Non può essere quindi condivisibile la teoria di Lucia Arcifa che i Bizantini costruissero strade con il proposito
di mantenere in contatto gli insediamenti cenobitici suburbani che sopravviveranno
alla dominazione araba (cioè S. Angelo di Brolo, S. Barbaro di Demenna, San Pietro
di Deca, San Talleleo di Naso, S. Teodoro di Mirto e S. Filippo di Fragalà), poiché i
monasteri italo-greci prenormanni erano per lo più strutture architettonicamente semplici, se non rudimentali, collocate in luoghi solitari e poco raggiungibili dalle masse,
con l’esplicito scopo di sottrarsi ai clamori mondani.125 E’ più verosimile ipotizzare
che l’esigenza di mettere in comunicazione questi centri di spiritualità orientale si sia
risvegliata, piuttosto, in epoca normanna, quando la loro fisionomia si modificò in
modo sostanziale. Conseguita la pacificazione dell’isola e una relativa stabilità, i Normanni, che volevano dar corpo a «una organizzazione politica, religiosa e amministrativa in grado di affrontare i molteplici e complessi problemi della conquista» e che
consideravano tale conquista «come forza fisica che occupa, per legge di natura, tutto
lo spazio di cui può avere il controllo»,126 predisposero verosimilmente un progetto
organico di ripristino degli assi viari preesistenti, non senza tenere conto delle pressanti richieste di restauro o di concessione di nuove strutture da parte degli abati bizantini,
alla cui insistenza presso la corte di Ruggero I si devono la maggior parte delle fondazioni monastiche di quell’epoca. Il restauro e la riformulazione della viabilità, con il
regolare funzionamento del cursus publicus, facilitò i collegamenti tra i monasteri
italo-greci che avrebbero svolto da quel momento in poi, tra le altre funzioni, anche
quella di controllare, popolare e amministrare il territorio circostante (tav. 25). È a
Per esempio, i testi del poeta e grammatico Costantino: cf. P. Lemerle, Le premier humanisme
byzantin, Presses universitaires de France, Paris 1971 (Bibliothèque Bizantine, Études VI), pp. 172175; H. Hunger, Die hochsprachliche, profane Literatur der Byzantiner, vol. I, K. H. Hunger, Munchen
1978 (Byzantine Handbuch in Rahmen der Altertumswissenschaften, V, 1), p. 43.
121
Cf. E. Follieri, «Problemi di innografia bizantina», in Actes du XIIe Congrès internationale
Des Études Byzantine, vol. II, Beograd 1964, pp. 313 ss. ; Ead., Problemi di agiografia bizantina.
Il contributo dell’innografia allo studio dei testi agiografici in prosa, in «Bollettino della Badia di
Grottaferrata» n. s. 31 (1977), pp. 3-14.
122
Cf. A. Guillou, La Sycile, cit., pp. 76 ss.; V. Von Falkenahusen, Chiesa greca, cit., p. 145.
123
Cf. E. Plantagean, Les moines grecs d’Italie et l’apologie des théses pontificales (VIIIe-IXe
siècles), in «Studi medievali» s. III, 5/2 (1964), pp. 578-602; A. Guillou, La Sycile, cit., p. 75.
124
Sulla consistenza del patrimonio librario bizantino nell’Italia meridionale si cf. S. Lucà,
Codici greci dell’Italia meridionale (Roma 2000), in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania» 66
(1999-2000), pp. 165-173.
125
Cf. S. Pirrotti, Il monastero di San Filippo di Fragalà (secoli XI-XV), cit., pp. 14 ss.
126
S. Tramontana-M. C. Cantale, Troina. Problemi, vicende, fonti, Herder, Roma 1998
(Biblioteca di Magisterium. Rivista varia cultura, 2), pp. 14-15.
120
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partire da questo periodo, e non in quello precedente, che i documenti furono compilati, e dunque da questo periodo, cioè tra la fine dell’XI e il XII secolo, devono essere
collocati gli eventuali restauri viari e i collegamenti di epoca normanna, cui fanno riferimento le pergamene dei tabulari monastici superstiti. Non si può condividere, pertanto, l’ipotesi di Lucia Arcifa che questi tracciati viari siano stati realizzati dai Bizantini; né sembra corretta la derivazione da lei proposta del termine dromos, con il quale
nelle pergamene medievali si indica spesso il termine “strada”, da dromon, “vascello
leggero”, neppure nella accezione di via percorsa dal cursus publicus, che la Arcifa
ricollega fantasiosamente alla velocità con cui venivano inoltrate le missive.127 Il termine dromos, infatti, contiene già, nella sua accezione classica, il significato di “strada”128 che conserva anche nel Medioevo e, parimenti, di “corsa a piedi”;129 nel lessico
archeologico, inoltre, questo termine indica il “corridoio”, in piano o in pendio o a
gradini, attraverso cui si accede a una tholos (per es. il dromos delle tombe micenee).130
Numerosi luoghi della letteratura e della documentazione greca tardoantica e medievale, infine, in cui il termine dromos è associato agli aggettivi demósios o oxús, non
possono che tradursi, il primo con cursus publicus, e il secondo con cursus velox (oggi
si direbbe “posta celere”).131 L’idea, dunque, di passaggio e di sentiero in cui inoltrarsi
rapidamente, di mezzo di comunicazione in senso generale e di corsa in senso specifico, e perfino di collegamento postale, è tutta insita nel termine dromos: pare quindi
superfluo, se non arbitrario, ricorrere a termini quasi omofoni ma per nulla sinonimi
per spiegarne il significato nei documenti medievali.132 Neppure il fatto che i documenti greci riportino la specificazione di basilikè odós, megále odós, megále dromos o
demosiakè odós, infine, può trarre in inganno: la nomenclatura ufficiale bizantina si
mantenne inalterata in epoca normanna poiché l’amministrazione fu in generale affidata a funzionari bizantini i quali, come è noto, riproposero pedissequamente nei documenti in lingua greca il linguaggio stereotipo loro proprio. Pare confermare questa
ipotesi anche il fatto che le pergamene latine coeve riportino, per il medesimo territorio e le medesime strade, i termini via regia e via publica (semplici calchi morfologici
di basilikè odós e demosiakè odós), cioè fanno riferimento, letteralmente, a percorsi
L. Arcifa, Viabilità e insediamenti nel Valdemone, cit., p. 108, nota 44.
Cf. H. G. Liddel-R. Scott-H. S. Jones, s.v. Dromos, in A greek-English Lexicon, Clarendon
Press, Oxford 1996, p. 389; F. Montanari, s.v. Dromos, in Vocabolario della lingua greca, Loescher
editore, Torino 20042, p. 561.
129
Cf. Du Cange Ch. du F., s.v. Dromos, in Glossarium ad Scriptores Mediae et Infimae
Graecitatis, College du France, Paris 19432 (I ed. Lugduni 1688), p. 332; G. Caracausi, s.v. Dromos, in
Lessico greco della Sicilia e dell’Italia meridionale (secoli X-XIV), Centro di studi filologici e linguistici
siciliani, Palermo 1990 (Lessici Siciliani, 6), pp. 172-173.
130
Cf. P. Portoghesi (a cura di), s.v. Dromos, in Dizionario enciclopedico di architettura e
urbanistica, cit.
131
Cf., per esempio, Theophanes an. I Juliani: ex Socrate lib. 3 cap. I extr.; Id. an. 14 Iustiniani;
Id. an. 7 p. 162; Eusebius, Vita Constantini, lib 4c. 43; Theodorito, Hist. Eccl., lib. 2, cap. 16.
132
Si cf., per esempio, Procopio, Vandal., il quale fornisce esempi relativi sia all’uso di dromos
(I, cap. 16) che di dromon (I, cap. 11).
127
128
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controllati e regolati dall’autorità vigente. I collegamenti viari, quindi, devono verosimilmente attribuirsi a matrici diverse da quelle proposte: in particolare, la via regia nei
dintorni di Rometta è di origine romana ed è parte del percorso che collegava la città
dello stretto a Palermo; al posto dell’asse Troina-San Marco bisognerebbe parlare del
collegamento che da San Marco e da Frazzanò conduce ancora oggi a Maniace, riferito da Malaterra, che è l’asse principale su cui si innestano collegamenti e raccordi
‘anche’ con Bronte, Cesarò e Troina. Questa ipotesi sembra la più verosimile, anche in
considerazione del fatto che il documento proposto dalla Arcifa del 1144 (?) non fa
alcun riferimento a una megale odòs nei pressi di Troina, che invece esiste tra Alcara
e San Marco e di cui si è già detto, distinguendola nettamente dalla strada quae Trainam ducit, indicata appunto come semplice via nella parte latina e dromos in quella
greca. Questo documento, quindi, è l’esempio calzante di quanto la stessa Arcifa afferma nei suoi articoli, e cioè che sia evidente la consapevolezza, nei redattori dei documenti medievali, della «ricchezza di una rete stradale stratificatasi nel tempo» che
sottolinea «una diversificazione tra le grandi strade di lunga percorrenza e gli itinerari
minori».133 I riferimenti alle varie portelle proposte dalla Arcifa coincidono con le indicazioni delle regie trazzere, di ben più recente epoca. Il collegamento tra Randazzo,
Montalbano e Patti, infine, citato da Idrisi che, come è noto, scrive nel XII secolo, fu
probabilmente realizzato dai sovrani normanni, presso la cui corte il geografo arabo
ebbe modo di mettere a frutto il suo non comune ingegno. Un ingegno pari a quello del
suo mecenate Ruggero II, erede del condottiero conquistatore della Sicilia, «egli che sì
egregiamente governa il reame ed ha costituiti i suoi dominii? in bellissimo ordinamento e in perfettissima armonia».134
133
134
L. Arcifa, Viabilità e insediamenti nel Valdemone, cit., p. 5.
Idrisi, Sollazzo, cit., pp. 33-34.
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Le marhalah di Maniace
TAPPE FONDAMENTALI DELLA CONQUISTA NORMANNA
DELLA SICILIA
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FUNZIONE DEI MONASTERI BASILIANI
Controllo del territorio
Palermo
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Adrano
Catania
Franz Riccobono
La fortezza bizantina di Micos
Nell’ambito articolato della difesa bizantina dell’Isola, ed in particolare della
porzione nord orientale del territorio siciliano, la fortezza di Micos o Vicos ebbe certamente un ruolo non trascurabile che la pone strategicamente sullo stesso piano dei più
noti luoghi forti di Demenna, Taormina o Rometta.
Osservando la morfologia dei luoghi, l’amba calcarea di monte Scuderi si stacca e si distingue rispetto al pur movimentato andamento del crinale peloritano. Posto
nella parte mediana della catena montuosa, affacciato sullo Ionio ma riconoscibile con
facilità se osservato dal Tirreno, come pure quando visto da sud o da nord, monte Scuderi ha suscitato curiosità fin dalla preistoria se in epoca greco-arcaica viene indicato
come il luogo in cui si cela la tomba di Cronos-Saturno. Quindi un luogo del mito fin
dalle origini e un luogo della tradizione, che vuole qui collegata la ricca trovatura,
trasposizione popolare della reale presenza di filoni metalliferi nelle valli adiacenti.1
Qui si attestano le popolazioni bizantine per meglio resistere alle incursioni arabe che provengono dal mare. Ancor oggi, nonostante la mutata viabilità che attraversa
il territorio, l’escursione sulla cima del monte resta impegnativa.
L’allocazione della fortezza bizantina di Micos rimase sconosciuta, anche all’Amari, sin quando a metà degli anni sessanta del secolo scorso, grazie a sistematiche
Sulle risorse minerarie dei Peloritani esiste un’ampia bibliografia come qui di seguito riportato:
M. Borch, Mineralogie Sicilienne docimastique et metallurgique ou connaissance de touts les mineraux
que produit l’Ile de Sicile avec les details des mines et des carrieres, et l’Histoire des travaux anciens et
actuels de ce pays, Torino 1780; F. Ferrara, Storia naturale della Sicilia che comprende la mineralogia,
con un discorso sopra lo studio in vari tempi delle scienze naturali in questa Isola, Catania 1813; T.
Fazello, De rebus siculis, a cura di Remigio Fiorentino, Palermo 1880; F. Ferrara, Storia Generale di
Sicilia, vol. IX (Storia Naturale), Palermo 1838; A. Paillette, Etude historique et geologique sur les
gites metalliferes des Calabres et du nord de la Sicile, in «Annales des Mines» s. 4.2 (1842), pp. 613678, C. Gemmellaro, Sulla vera condizione delle miniere di Sicilia, in «Atti Acc. Gioenia di Sc. Nat.»
18 (1842), pp. 65-86; G. Sequenza, Ricerche mineralogiche sui filoni metalliferi di Fiumedinisi e suoi
dintorni in Sicilia, con nota riguardante qualche minerale di Mandanici e Novara di Sicilia, Messina
1856; G. B. Barresi, Sulle miniere metalliche della Sicilia, Stab. tip. F. Lao, Palermo 1856; G. Jervis,
I tesori sotterranei d’Italia, parte III. Regione delle isole Sardegna e Sicilia, Roma-Torino-Firenze
1881; E. Cortese, Brevi cenni sulla geologia della parte N.E. della Sicilia, in «BolI. R. Com. Geologico
d’Italia» 13.1 (1882), pp. 105-137; S. D’Alì, Storia di Alì e del suo territorio, cura di G. La Corte Cailler,
Messina 1908; L. Pagano, Antiche miniere metallifere di Sicilia, Palermo 1939; B. Baldanza, Minerali
Metalliferi di Sicilia, Catania 1948; G. Donati-F. Stagno-M. Triscari, Ricerche sulle mineralizzazioni
dei Monti Peloritani, Messina 1978; L. Bonfiglio, Facies biodetritica tardo pliocenica nei depositi di
Monte Scuderi a 1250 metri d’altitudine, in «BolI. Soc. Geol. It.» 89 (1970), pp. 499-506.
1
«Mediaeval Sophia». Studi
w w w. m e d i a e v a l s o p h i a . n e t
e ricerche sui saperi medievali
E-Review semestrale dell’Officina di Studi Medievali
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Franz Riccobono
ricerche condotte da giovani studiosi del Gruppo Archeologico del Circolo Codreanu
di Messina fu possibile accertarne la posizione sul pianoro sommitale di monte Scuderi in maniera inequivocabile.
La scoperta venne descritta in una prima relazione presentata all’allora Magnifico Rettore dell’Università di Messina, Salvatore Pugliatti, che aveva favorito le indagini con l’erogazione di un contributo di Lire 150.000 (centocinquantamila), elargito
anche grazie al patrocinio dato all’iniziativa da parte di Luigi Bernabò Brea, allora
Soprintendente alle Antichità per la Sicilia Orientale.
Una porzione significativa di tale relazione redatta nel 1968, viene qui di seguito
riproposta ritenendola oggi ancor più interessante a seguito del crollo di parte dei camminamenti sotterranei che hanno reso inaccessibili taluni ambienti.
Lungo la nazionale per Catania, arrivati a Scaletta Zanclea, si passa su di un ponte che scavalca il torrente Itala e da questo punto, volgendo lo sguardo a nord-ovest, si
può ammirare l’imponente aspetto di monte Scuderi. Si è subito incuriositi dalla sua
strana forma di piramide la cui cima mozza termina in un vasto altipiano. Guardando
dal versante tirrenico, monte Scuderi appare come un bianco torrione di roccia dalle
pareti a picco, inaccessibili. Fu forse questo suo particolare aspetto a far pensare ai più
antichi narratori che nelle sue viscere si celasse la tomba del dio Saturno.
Saturnio, Nettuno, Sparverio e infine Scuderi furono i nomi che la leggenda e poi
la storia attribuirono a questo Monte, cui ancora oggi si ispira la tradizione popolare.
Molti storici ne fanno cenno, ma sempre in modo vago. Nel secolo scorso l’ing.
Foti del Club Alpino Italiano, La Corte Cailler, storico Messinese, e monsignor Sparacino,
parroco di Alì Terme riprendono antiche leggende e, rifacendosi ad una cronaca del 1754
scritta dal cappuccino Fra’ Serafino di Alì, cercarono di ricostruirne la storia fascinosa.
Ma cosa cela effettivamente questo monte dove ancor oggi i pastori parlano di
giganti e di tesori nascosti? Non l’agognata trovatura, quanto la remota origine di tante
leggende ci ha spinti ad esplorare monte Scuderi e le sue caverne. In varie escursioni
susseguitesi tra 1’agosto e l’ottobre 1968, abbiamo raccolto nuovi ed interessanti dati.
Monte Scuderi si trova a nord di Alì Superiore tra i comuni di Itala e Fiumedinisi.
Isolato dalla dorsale peloritana, si staglia netto con le sue pareti scoscese che terminano in
un vasto altopiano, raggiungendo un’altezza di 1252,80 mt. Geologicamente è costituito
da un blocco di calcare bianco che gli dona quell’aspetto tipico dei monti carsici. Data la
natura impervia del terreno, solo due sono le vie di accesso al pianoro sommitale.
Una di esse guarda a nord-ovest e convoglia i sentieri provenienti da Itala, Pezzolo ed Altolia, mentre l’altra che volge a sud-est, detta “Porta del Monte”, si raggiunge da Alì Terme e Fiumedinisi. Quest’ultima entrata, tagliata nella roccia sembra quasi
una finestra con in prospettiva la magnifica vista dell’Etna.
La natura, che sulla cima del monte sembra regnare incontrastata, ha subito delle
modificazioni che, proprio nei pressi delle due entrate, sono più evidenti.
Grosse mura, in pietra locale e malta, ostruivano l’accesso al pianoro sommitale;
di esse restano chiare tracce presso entrambe le porte del monte. L’accesso da sud-est
dovette essere il più fortificato; qui i resti delle mura si notano a vari livelli e chiudono anche il minimo anfratto, i passaggi più aspri. A nord-ovest, sul versante di Itala,
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le fortificazioni sono più semplici: un muro spesso oltre due metri cinge per circa 20
metri questa zona in cui le pareti d’accesso, pur sempre ripide, non sono a picco ed
inaccessibili come il rima­nente perimetro del monte. Inoltre, dalla parte interna delle
mura, restano le fondamenta di due ambienti rettangolari che misurano complessivamente 4x12 m.
Tornando alla “Porta del Monte” (lato Alì Terme) dobbiamo aggiungere che su
uno sperone che domina l’ingresso, si notano chiara­mente i resti di una costruzione
a pianta circolare con 6 m. di diametro. I pastori più anziani dicono che questi sono
i resti di un mulino a vento, ma non è da escludere che in epoche più antiche potesse
servire da torre di avvistamento e difesa. Procedendo dalla “Porta del Monte”, su per
la prima delle due balze in cui si divide il pianoro, si osservano vari resti di un abitato.
Oltre a decine di cumuli di pietre disposte a piramide, si vedono ancora i resti di costruzioni, quasi sempre ad un vano, ormai in completa rovina; mentre, nella parte più
alta di questo primo spiazzo, restano le pareti nette e squadrate di quello che i pastori
chiamano “Palazzo del Re”. Evidentemente la vastità dei due locali e la posizione
dominante, non a torto, fanno pensare che chi vi abitò dovette essere il sovrano di
questo modesto villaggio. Rispetto all’attuale piano di campagna i due vani appaiono
infossati di circa 2 mt., sono a pianta rettangolare e misurano 8x4 mt. (quello meglio
conservato), mentre dell’altro resta una parete di oltre 10 mt. ed un lato di circa 4.
Tutta la zona è disseminata di cocci di argilla mal cotta. Si tratta in gran parte
di tegoloni, frammenti di grossi orci e manici di vario tipo. Di questa ceramica se ne
vede in superficie un po’ ovunque ma è più frequente nei pressi delle due vie d’accesso. Molte lastre di cotto sono decorate con linee graffite che si intersecano formando
vari motivi. La tipologia di tutta la ceramica sembra appartenere ad un unico periodo.
Data la notevole quantità di frammenti si deve ritenere che, specie il primo pianoro del
monte, fu più intensamente abitato, anche se per un breve lasso di tempo.
La difficile posizione di questo insediamento, il tipo delle costruzioni, lo stile della ceramica nonché le massicce ma rustiche fortificazioni, fanno pensare ad un
gruppo che, improvvisamente, fu costretto ad arroccarsi sulla cima del monte da motivi di sopravvivenza. Dopo breve però, la forza delle armi o forse le intemperie, costrinsero i suoi abitatori ad abbandonare questo centro che restò dimenticato nei secoli.
I resti da noi esaminati, come già accennato, appartengono ad un’unica facies
culturale e la loro tipologia si richiama chiaramente allo stile bizantino. I reperti, oltre
ad essere facilmente riconducibili e databili a tale periodo, trovano il giusto inserimento in quel contesto storico. Intorno alla meta del IX secolo gli arabi avevano occupato
quasi totalmente la Sicilia. L’ultima resistenza si ebbe nella parte orientale dell’Isola.
Taormina, Demona e Rometta furono gli ultimi baluardi della difesa bizantina.
Data la potenza marittima dei musulmani, le coste furono le prime ad essere occupate
mentre sui monti, nell’interno, la difesa bizantina fu più accanita. Monte Scuderi, con
i suoi alti bastioni rappresentava un baluardo facilmente difendibile. La sua posizione
dominante offriva notevoli vantaggi strategici in quanto dall’altura si spaziava sulla
intera Sicilia orientale. Taormina, Rometta e le acque dello Stretto si controllavano a
vista. Inoltre la vastità del pianoro, la fertilità del terreno e la ricchezza d’acqua assicu-
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ravano tutti gli elementi necessari al sostentamento in caso di assedio.
Le vicende storiche intorno al Monte sono molto indefinite ma, prescindendo
dalle fonti più fantasiose, un chiaro ed attendibile riferimento ci viene da Michele
Amari. Nella Storia dei Musulmani in Sicilia, che resta la più completa cronistoria dei
fatti di quel periodo, a pag. 85 del vol. II si legge:
Lieve opera fu alla caduta di Taormina di ridurre il rimanente del Valdemone. Ibrahim,
venduti i prigioni e il bottino, e spartito il prezzo tra i suoi, mandava quattro forti schiere: una col nipote Ziadet-Allah a Mico o Vico fortissimo castello dentro terra, non lungi
come io credo, da Capo Scaletta, l’altra col proprio figliuolo Abu-Aghlab, sopra Demona; la terza capitanata dell’altro figliuol suo Abu-Hogir sopra Ro­metta; l’ultima contro
il Castel d’Aci condotta da un Saidun. Delle quali castella, le prime due essendo state
sgombrate già dei terrazzani alla nuova del caso di Taormina, fruttarono solo ai Musulmani quel pò di roba che vi era rimasta. I cittadini di Rometta offrivano di pagare la
gezia; ma non lo assentì Abu-Hogir e volle che gli abbandonassero la rocca e, avutala,
la smantellò quanto potea. Similmente quei d’Aci e delle Rocche e fortezze dei dintorni, fattisi insieme a chiedere patti, fors’anco la libertà della persona; non ottenne altro
che la vita; e uscendo dalle mura che avevano si lungamente e gloriosamente difeso, le
videro diroccar dai nemici e gittarne i sassi in mare.
Parlando di Micos o Vicos lo scrittore aggiunge in nota:
Nei vari Mss, di Ibn’ al ‘Athir, Ibn Haldûn, e ‘An Nuwajri questo nome si legge
Bikesc, Benfesc, Tifeso, Minisc, Minis, e talvolta senza punti diacritici. Edrisi pone tra
Messina e Taormina in luogo aspro e montuoso, a 15 miglia verso mezzodì da Monforte, una terra Miqûs, Mikosc, Mikos, Minis, secondo i vari Mss. Non trovo oggi nomi
somiglianti; ma il luogo risponde tra Capo Scaletta e il Monte Scuderi; sia Altolia o
Pezzolo Superiore o Giampilieri, ecc. Castello par non rimanesse neanco al tempo di
Edrisi. Il nome mi par latino o greco. Mandanici, che sarebbe questo ultimo il nome,
non risponderebbe alla detta distanza da Monforte che per altro può essere inesatta o
sbagliata nel Ms. di Edrisi.
Questo accadeva nell’estate del 902. Nel 965, parlando della caduta definitiva di
Rometta, l’Amari cita nuovamente la fortezza di Micos, ribadendone la imprecisa localizzazione. Probabilmente il fatto che monte Scuderi restava fuori dalle abituali vie di
transito dovette favorire l’abbandono e la dimenticanza di questa località. Certamente
se Michele Amari o Edrisi avessero visitato monte Scuderi e osservato le sue vestigia
non avrebbero esitato ad identificare sul suo pianoro la fortezza bizantina di Micos o
Miqûs. Questo ci pare il risultato più importante della nostra ricerca: dopo mille anni
la fantomatica fortezza è stata finalmente localizzata. I resti di costruzioni ed il tipo
di ceramica, uniti alla descrizione che ci viene dalle fonti storiche, non lasciano adito
a dubbi. monte Scuderi si trova a 15 miglia a mezzodì da Monforte ed oltre ad essere
in luogo aspro e montuoso, la sua posizione strategica non ha confronti nei Peloritani.
Questo per l’epoca storica, ma affascinanti interrogativi pro­pone ancora il monte
con le sue caverne che si vuole fossero abitate già nella preistoria. Qui la questione è più
incerta e difficile. La natura stessa delle caverne ha una sua storia. Molti scrittori di cose
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siciliane raccolgono la leggenda secondo cui il monte si spaccò al momento della morte
del Salvatore sulla Croce. Tra gli altri ne scrissero: Padre Ottavio Gaetani che, nel suo
testo Vita dei SS. Siculi, chiama questo Monte Saturnio: «Terremotu qui in Christi morte
Extitit inter scissus mons Saturnius, Messana inter et Tauromenium»; altrettanto scrivono il Fazello, Antonio Paolo Masini, Baratta e ancora il Cluverio in Sicilia Antica, libro
1, pag. 88, specificando che ai suoi tempi detto monte si chiamava Spravieri.
1. Un diario descrittivo dell’esplorazione delle grotte di Monte Scuderi
In effetti l’aspetto del monte appare scisso da diverse fratture. Più nota è quella
sul lato volto a tramontana detta Ciacca du ‘mpisu o «del Catalano». Questa fenditura
partendo dalla superficie del pianoro, scende a notevole profondità. Sull’altro versante,
salendo alla “Porta del Monte” si nota in superficie una fenditura più breve della precedente. Da questa si ha l’accesso alla “Grotta del Pavone” che è la maggiore tra quelle da
noi esplorate. La sua struttura è complessa e particolare: scendendo nella breve fenditura superficiale si incontra un primo antro che, dopo una curva stretta ma facile si riduce
ad un cunicolo in cui bisogna procedere carponi. Dopo pochi metri ci si può rialzare, ma
per poco; da uno stanzone inizia uno stretto camminamento dove si procede con difficoltà verso destra; dopo circa 10 mt. si arriva in una vera e propria sala: da un lato una
parete bianca, liscia quasi squadrata, dall’altro, massi enormi incombenti. Questa sala
meraviglia per la sua vastità che appare maggiore per il candore delle pareti coperte da
concrezioni calcaree. La superficie è irregolare ed agli angoli della parete liscia si aprono due pozzetti comunicanti tra loro, altri ne avevamo incontrati ma sempre interrati.
Superata una roccia a schiena d’asino che ostacola il cammino, si imbocca un nuovo
passaggio. Al contrario dei precedenti cunicoli bassi e larghi questo è un vero e proprio
camminamento stretto ed alto. Lasciandoci dietro altri pozzetti che precipitano nel vuoto, procedia­mo con relativa facilità, solo ostacolati da due grossi massi che ostruisco­no
il passaggio; qui le pareti si stringono riducendo il passaggio a circa 40 cm. Quindi si
procede facilmente, superata una breve salita, si svolta a sinistra ed inizia una tortuosa
discesa che diventa sempre più ripida per terminare in uno stretto pozzo.
Dopo un salto di 5 mt. si vede un camminamento abbastanza ampio che sembra
seguire, ad un livello inferiore, la strada da noi percorsa, continuando poi verso il basso.
Tornati indietro ci siamo calati nel secondo pozzetto della grande sala, quello
vicino alla roccia a schiena d’asino. Prima di calarci nell’anfratto, notammo che verso
l’imboccatura vi era inciso nella roccia un preciso segnale. Si trattava di un quadrato
diviso da una linea trasversale si da formare due triangoli contrapposti. Il salto è di
circa 4 mt.; poi si torna a camminare agevolmente. Dopo aver esplorato un anfratto naturale ostruito da una frana, si presentavano varie vie. Questa volta però, finite le frane,
frequenti nella prima parte della grotta, si prospettava un nuovo pericolo: puntando la
torcia verso il basso ci accorgemmo che stavamo procedendo su di una serie di massi
che, staccatisi dall’alto, si erano incastrati in una enorme fenditura sulla quale eravamo
sospesi. Provammo in altre direzioni ma ovunque si aprivano crepacci enormi: con le
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pile non riuscimmo a vedere il fondo ma notammo che circa 15 o 20 metri sotto di noi
sporgeva un costone di roccia su cui si sarebbe potuto camminare.
L’attrezzatura di cui disponevamo non ci consentiva certo di procedere; inoltre,
da più di tre ore eravamo in grotta, per cui decidemmo di risalire. Tornando, notammo
che in una delle pareti che formavano la fenditura vi era come un taglio orizzontale
alto circa mezzo metro che si addentrava parecchio ma, oltre ai predetti motivi, il fatto
che questo taglio, dopo pochi metri, diventava sempre più inclinato non ci consentì di
insistere nella esplorazione.
Risaliti nella grande sala sostammo e leggemmo le numerose firme lasciate sulle
pareti dai precedenti visitatori. Tra tutte la più interessante ci pare la scritta in tedesco
in cui si legge, in caratteri gotici e in maiuscolo, la parola teuffechel con sotto incisa
la data del 1727. Il ritorno non fu difficile, forse il solo ostacolo era di non aver potuto
esplorare la parte più profonda, più buia ma anche più affascinante di quelle cavità.
Uscendo ci colpirono fasci di luce che i nostri occhi abituati al buio, vedevano con
riflessi verdi e azzurrini.
Tornati al sole ci riposammo e fu per caso che, poco distante dall’ingresso della
grotta, trovammo metà di una macina da grano circolare in pietra lavica.
Dopo l’esplorazione della grotta si possono fare alcune considerazioni.
Come dice Fra’ Serafino di Alì, la grotta fu effettivamente visitata da minatori tedeschi, egli scrisse «attorno al 1725» e la data del 1727 ci sembra abbastanza approssimata. Inoltre, il segno del quadrato con la linea trasversale inciso presso l’imboccatura
del pozzo più profondo, è un segno convenzionale usato dai minatori tedeschi di quel
periodo. Infine, la grotta ha subito evidentemente varie trasformazioni, l’ambiente è
molto diverso da quello descritto da Fra’ Serafino, anche se ancora rimangono chiari
punti di riferi­mento come il passaggio a schiena d’asino e i vari ripiani, le frane, i
crolli, i riempimenti hanno ostruito molti passaggi, specie sulla prima parte, cumuli di
detriti, enormi macigni incombono di frequente su chi si addentra ancora nelle viscere
del monte. Il minatore tedesco del 1727 scrisse teuffechel che significa “diabolico”
riferendosi evidentemente all’ambiente cui si trovava. L’esplorazione di questa grotta
non presenta eccessive difficoltà, unico rischio è il pericolo di frane che ovunque incombe su chi si addentra in queste cavità.
Se lo speleologo e il geologo possono trovare nelle viscere del monte appassionanti motivi di ricerca, magro bottino è quello dell’archeologo. Molti scrissero che
queste grotte furono frequentate già nella preistoria ma i reperti da noi raccolti risalgono tutt’al più a mille anni addietro. Ciò, peraltro, non esclude che questi luoghi furono
frequentati in età più remota.
Dei saggi di scavo eseguiti sul pianoro, una ricognizione accu­rata lungo le pendici e alle falde del monte darebbero senz’altro buoni frutti. Ancor più utile dal punto
di vista archeologico, sarebbe il potere rintracciare la grotta del Catasfachio, che Fra’
Serafino ci fa sapere colma di «antichissimi resti umani».
Ma passando a ricerche più direttamente scientifiche sarebbe utile trovare il leggendario lago sotterraneo ed esaminare l’interessante ed originale flora del monte. Sul
lago sappiamo, sempre da Fra’ Serafino, che lo visitarono i minatori tedeschi nel 1727
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scendendo dal cunicolo da noi percorso. Effettivamente, a prescindere dalle notizie
giunteci, un bacino di raccolta si potrebbe trovare all’interno del monte, ce lo fa pensare la ricchezza delle acque che ancor oggi si osserva lungo le sue falde. Sullo stesso
li­vello sgorgano dalla roccia abbondanti e squisite acque. Sul versante che guarda il
Tirreno, le sorgive di “Calanaci” (mille rivoli) mentre sul lato rivolto allo Ionio vi è
la fonte detta “Acqua Rosata”; altre sorgive minori sono disseminate lungo tutta una
fascia che cin­ge il monte ad una quota che oscilla tra gli 800 e i 900 metri s.m.
Indubbiamente la ricchezza della natura è il patrimonio maggiore che rimane
oggi a monte Scuderi, dalle sue alture si spazia su uno scenario vario ed incomparabile.
Ovunque si volga lo sguardo si scoprono nuove meraviglie. Dal Mongibello a Capo
Peloro, tutta l’estrema Sicilia Orientale non ha migliore punto di osservazione. L’Etna
imbiancata e fumante preclude lo sguardo sul restante dell’Isola. Seguendo le pendici
del Vulcano che declinano verso il mare si scorge l’orizzonte sconfinato dello Ionio,
poi Taormina, capo S. Alessio, la riviera che passa sotto le ultime propaggini del Monte, capo Scaletta e quindi Messina e, come in un plastico immenso, lo Stretto. Più in
là le montagne d’Aspromonte, la Calabria, da Palmi e capo Spartivento, Scilla, Villa e
Reggio sono là, ferme in basso. Superato capo Peloro, scavalcate le giogaie dei Peloritani, si ammira l’azzurro del Tirreno con le brune Isole Eolie, la imponente piramide
di Stromboli fumante. Più sotto, la costa lussureggiante di giardini, all’estrema sinistra
Tindari che sporge sul mare, a destra Rometta, incastonata nei Peloritani.
Intorno a noi un silenzio arcano, una pace d’altri tempi. Qui il passato è presente
non nei ruderi muti, ma nell’ambiente, in quella Natura viva, capace di evocare dal
silenzio un mondo arcano che affascina ed immerge in ricordi remoti. Questo è il patrimonio che conserva il monte e del quale chiunque può godere.
Le notizie sui ritrovamenti a monte Scuderi vennero riproposte nel 1981 in una
specifica monografia2 voluta da Manlio Schipani, allora Presidente del Lyons Club di
Messina, cui fece seguito nel 1995 la pubblicazione Monte Scuderi, la Montagna del
Tesoro con contributi, oltre che del sottoscritto, di Adolfo Berdar e Rosa Schipani De
Pasquale.3 Opera quest’ultima a carattere interdisciplinare da considerarsi esaustiva
circa le peculiarità di questa importante porzione del territorio peloritano. In tempi
successivi, proprio sul monte sono stati ritrovati reperti fittili databili alla media età
del bronzo, come pure un breve saggio di scavo fu condotto dall’amministrazione comunale di Itala essendo sindaco Michele Sciacca. I reperti ritrovati in quella occasione
dimostravano come la sommità del Monte fu frequentata tra il VII e il XIV secolo. Gli
interessanti quanto variopinti frammenti di ceramica furono per qualche tempo esposti
nella sala consiliare del comune da dove furono con sorprendente solerzia prelevati per
F. Riccobono, Monte Scuderi: storia e leggenda, ed. dott. Antonino Sfameni, Messina 1981.
F. Riccobono-A. Berdar-R. Schipani De Pasquale, Monte Scuderi la montagna del tesoro,
EDAS, Messina 1995. Questo volume resta la ricerca più esaustiva sulle problematiche correlate
al Monte, esaminate per la prima volta in maniera organica dalla Paleontologia alla Geologia, dalla
Mineralogia alle Tradizioni popolari del territorio.
2
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essere immagazzinati nel depositi della Soprintendenza di Messina.4
Infine, in quegli stessi anni, veniva prodotto un video documentario, di recente
riproposto da una televisione locale, che ripercorre la complessa vicenda della presenza umana sul nostro monte, dal mito all’attualità.
Malgrado quanto a suo tempo scoperto e comunicato all’autorità competenti nulla è stato fatto per approfondire la conoscenza dei luoghi e favorirne la fruizione. Da
anni, teoricamente su qualche tabella segnaletica, esiste la Riserva Naturale di Monte
Scuderi istituita dalla Regione Sicilia, circostanza questa che però per nulla ha giovato alla valorizzazione di quei luoghi caratterizzati da una straordinaria stratificazione
culturale che parte dalla lontana preistoria.
4
Malgrado gli anni trascorsi e lo straordinario interesse dei ritrovamenti occasionali e
sporadici nessuna indagine sistematica è stata condotta dagli organi competenti rinunciando così
all’approfondimento delle ricerche in uno dei siti archeologici più interessanti dell’Isola in conseguenza
del ruolo avuto dei filoni metalliferi che furono certamente uno dei motivi dei primi flussi migratori
provenienti da Oriente, in particolare dei Calcidesi, in Sicilia.
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Luigi Santagati
Su una possibile via romana a Capo Calavà
Le fonti storiche ci hanno narrato della difficoltà dei Romani ad affrontare una
guerra sul mare sin dall’inizio del conflitto con Cartagine. Sappiamo infatti che sino
al 264 a. C. mai i Romani avevano dovuto affrontare un nemico il cui dominio era
prevalentemente limitato al possesso di alcuni tratti di costa lungo le sponde del Mediterraneo ma padroni assoluti dello stesso mare. Ed essi, abituati a combattere solo in
terra, cercarono, per quanto possibile, di adattare le condizioni del territorio alla loro
maniera di conquistare e controllare.
Pertanto con la venuta dei Romani in Sicilia fu iniziata una politica di costruzione di strade che permise loro il controllo dell’Isola senza che questo implicasse
necessariamente il controllo delle coste e quindi del mare.
Le fasi iniziali della guerra portarono al loro sbarco a Messina ed il trasferimento via terra verso Catania e, successivamente, Siracusa. Non sappiamo assolutamente
quali condizioni di percorrenza dovettero affrontare, ma è logico ritenere che esistessero già delle infrastrutture di base. In particolare doveva già esistere l’embrione della
via cosiddetta Pompeia che in seguitò divenne parte del cursus publicus e collegava
Messina a Siracusa passando per Taormina e Catania.1
Sappiamo che la guerra si svolse prevalentemente nella parte meridionale dell’Isola, non fosse altro che per la impraticabilità fisica della costa tirrenica, per cui non
abbiano ad oggi un’idea precisa di quando furono effettivamente costruite le strade.
Un’unica certezza ci viene data dal rinvenimento di un miliare, scoperto a lato
della trazzera più antica posta a circa 500 metri più a monte del tracciato della odierna
Regia Trazzera collegante all’epoca Petra (Castronovo) – Schera (Corleone vecchio)
– Aghiàs Aghatò2 – Panhormus (Palermo), variante tarda della più antica strada sita a
monte. Il cippo riporta la scritta AURELIUS COTTAS CONSOL e, più in basso, i segni
VII ovvero il numerale LVII, che corrisponde a 57 milia passum o miglia romane, ossia poco più di 84 km. L’opera è collocabile al 252 a. C., periodo in cui Aurelio Cotta
fu console.3
Quindi la costruzione della strada Agrigento-Palermo passante per Corleone
1
In seguito, nell’Itinerarium Antonini, l’intero percorso da Messina per Marsala passante per
Catania, verrà denominato sia A Trajecto Lilybeo (257 mp) che Alio itinere a Lilybeo Messana (300 mp).
2
Città bizantina collocata nei pressi di Santa Cristina Gela.
3
A. Di Vita, Un miliarum del 252 a. C. e l’antica via Agrigento-Palermo, in «Kokalos» 1
(1955), pp. 10-21. Il segno identifica l’antichità del miliare, in quanto usato sino alla fine del III-inizi
del II secolo al posto di L.
«Mediaeval Sophia». Studi
w w w. m e d i a e v a l s o p h i a . n e t
e ricerche sui saperi medievali
E-Review semestrale dell’Officina di Studi Medievali
14 (luglio-dicembre 2013), pp. 351-360
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Luigi Santagati
vecchia, poi abbandonata per un tracciato nuovo, dotato di ponti costruiti nei secoli
successivi che, dalla statio di Petrina4 puntava su Lercara Friddi, Vicari, Cefalà Diana
e Misilmeri, risale sicuramente alla Prima Guerra Punica.
Si può ragionevolmente ritenere che in quegli stessi anni o in quelli appena successivi, fosse iniziata la costruzione o il riattamento di altre vie, anche se non possediamo alcuna certezza e nessuna data. Pertanto, può essere realisticamente ipotizzato
che in quel periodo venisse affrontato anche il problema della costruzione della strada
costiera tirrenica che si presenta come la più aspra tra le coste siciliane e quella che
presenta il maggior numero di ponti di origine romana presenti in Sicilia, costruiti probabilmente tra il II ed il I secolo a. C.
Il tratto più difficile da affrontare nella costruzione della strada tirrenica, più
tardi denominata Valeria,5 probabilmente da un non identificato costruttore, fu quello
nei pressi di Tyndaris, in particolare il tratto di Capo Calavà, robusto sperone di roccia
a strapiombo sul mare da cui si eleva per 137 metri di altezza con un affaccio costiero
lungo circa 5 km.
Qui esiste una strada o, meglio, un sentiero intagliato nella roccia, a volte ancora
dotato di una sovrastruttura in ciottolato (figura 1) e di muri di contenimento a valle ed
a monte, della larghezza media, attualmente riscontrabile (ma probabilmente maggiore
se ripulita) di circa 2 m che, dalla località sul mare di San Giorgio (frazione di Gioiosa
Marea), sale verso ovest inerpicandosi ad una distanza media di 350-400 metri dalla
linea di costa verso la punta di Capo Calavà, per una lunghezza di circa 3.800 metri
ed una pendenza che raramente supera il 6-7% (figura 2). Il sentiero è ingombro di
trovanti di roccia caduti nel corso degli anni e dei secoli ma, tuttora, di non difficile
praticabilità e tale da essere percorso agevolmente e, se ripulito, da consentire anche il
passaggio di almeno due persone affiancate.
Arrivato alla sommità di Capo Calavà (137 metri s.l.m.), il sentiero (figura 3)
discende verso Gioiosa Marea con un percorso di circa 2.800 metri in direzione sud-ovest. Da Capo Calavà all’innesto con la S.S. 115 il dislivello è più brusco, talché nel
giro di 700 metri si scende ad una quota di circa di 52 metri s.l.m. con una pendenza
tuttavia quasi mai fastidiosa e non oltre l’8% di media.
Al km. 86+800, dove l’antica strada – ora nettamente tagliata dalla scarpata della
strada più moderna – confluisce nella S.S. 113 che con un percorso difficile e tortuoso,
realizzato solo alla metà del XIX secolo, porta da Brolo a Patti,6 si trova un ponte arre-
4
Sita a valle della città di Petra, oggi Castronovo.
Nell’Itinerarium Antonini, il percorso da Messina a Tindari viene denominato A Messana
Tindaride (36 mp) mentre il restante tratto da Marsala a Tindari passante per Trapani, Partinico, Palermo
e Termini Imerese prende la denominazione Item a Lilybeo per maritima loca Tindaride (208 mp).
6
La strada fu realizzata tra il 1842 ed il 1846, negli stessi anni in cui veniva costruito il tratto
stradale di Taormina della via costiera Messina-Catania, dalle identiche caratteristiche, utilizzando gli
esplosivi per tagliare la roccia e costruire la galleria (1852) che attraversa Capo Calavà, altrimenti non
superabile se non con pendenze tali da rendere il percorso inutilizzabile ai carri trainati dagli animali.
Cf. G. Tesoriere, Viabilità antica in Sicilia. Dalla colonizzazione greca all’unificazione (1860), Zedi
5
14 (luglio-dicembre 2013)
Su una possibile via romana a Capo Calavà
353
trato di 5-6 metri rispetto a quello in uso oggi sulla Nazionale ed in gran parte coperto
dalla vegetazione. Il ponte è largo circa 6,00 metri con un arco a tutto sesto di metri
4,23 di luce. La volta si appoggia su una zoccolatura in pietra ad opus incertum rifasciata in alto da una cornice in pietra da taglio (calcare arenitico?) dell’altezza di circa
0,25 metri, con cantonali alti circa 3,00 metri, anch’essi realizzati in pietra da taglio.
La struttura voltata è realizzata in mattoni che sembrano verosimilmente quadrati col
lato lungo circa 30 cm. pari alla misura di cm 29,65 del pes romano (figure 4 e 5) e
dello spessore di circa 4,5 cm. Le foto del manufatto mostrano un’incredibile somiglianza con il cosiddetto Ponte Romano di Torrenova descritto in un piccolo saggio da
Michele Manfredi Gigliotti alcuni anni orsono,7 in realtà più un chiavicotto o tombino
che un vero e proprio ponte (figure 6 e 7), con una volta di circa metri 1,93 di raggio
ed una zoccolatura, sporgente di 3-4 cm. così come per il ponte più grande, sempre
parzialmente in pietra da taglio ed alta circa metri 1,40. Al momento è impossibile valutare meglio le caratteristiche del manufatto, quasi anomalo nella sua unicità, e lascia
perplessi la larghezza forse eccessiva.8
Da questo punto forse le due strade per un breve tratto (inferiore ai 600 metri)
coincidono, camminando in piano; il terreno è stato totalmente sconvolto, cosicché
non è possibile rendersi meglio conto del tracciato antico. Il sentiero poi si stacca inerpicandosi per circa 200 metri su una via laterale per superare Lo Schino e, dopo altri
200 metri all’incirca, incrocia la S.P. che porta da Gioiosa Guardia a Gioiosa Marea.
La strada, quindi, nuovamente discende per circa 600 metri quando incrocia infine e
in basso, la strada nazionale (a 30 metri s.l.m. circa). Da quel punto, la strada scende
alla spiaggia di Gioiosa Marea, supera il torrente Calità, la frazione di Zappardino del
comune di Piraino e percorre la spiaggia sino alla cinquecentesca torre d’avvistamento
detta delle Ciavole (cornacchie) o Ciaule (fig. 8), per un totale complessivo di circa m
2.750-2.800 metri. Superata la roccia, probabilmente con un traforo (un tempo non più
lungo di 6-7 metri), che collega la torre protesa sul mare alla terraferma, la strada punta
su Brolo e da lì su Capo d’Orlando.
Nel tratto tra Gioiosa Marea e Torre delle Ciaule, la spiaggia sabbiosa si ritira e si
allarga con un ritmo pluridecennale se non secolare, come attestato dalle foto scattate
intorno al 1950 ed esposte all’ingresso della sede del Comune di Gioiosa Marea. Forse
questo fenomeno può avere impedito, nel tempo, l’uso stradale costante del tratto di
costa, quantomeno nel punto di passaggio di Torre delle Ciaule, ed avere determinato
nei secoli l’uso o l’abbandono della via litoranea.
Italia, Palermo 1992.
7
M. Manfredi Gigliotti, Passi perduti. Alla ricerca dell’antica viabilità nei Nebrodi: la via
Valeria-Pompeia, Yorick editore, Messina 1990.
8
Ho trovato dei riscontri sulla tipologia costruttiva in due ponti romani nell’opera di V. Galliazzo,
I ponti romani, 2 vols., Edizioni Canova, Treviso 1995. I ponti sono quello di Torre Astura sul torrente
Foglino situato sulla costa poco a sud di Anzio nel Lazio, descritto nel volume I, p. 259, fig 83 e volume
II, p 71 al n. 83. L’altro ponte è quello delle Chianche sul torrente Buonalbergo ad ovest-nord-ovest di
Benevento, descritto nel volume I a p. 459, fig 148 e volume II, p. 114 al n. 222.
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Luigi Santagati
Questo spiegherebbe perché la strada non risulta sulla pianta della Sicilia dello
Schmettau9 e degli altri geografi del tempo. Spiegherebbe, inoltre, la costruzione dei
ponti del XVI-XVII secolo, collocati su una strada alternativa a quella sin qui descritta
che, partendo da Mongiove sulla costa nei pressi di Tindari, punta su Patti superando
il torrente Timeto sul ponte di Santa Caterina ed arriva a Montagna Reale. Da lì la
strada punta su Ficarra a cui arriva, superando il ponte di Calabrò (il ponte antico è
stato sostituito da un più recente manufatto che sembra del XIX secolo) sulla fiumara
di Sant’Angelo.10 Da Ficarra, la strada – anch’essa non segnalata dallo Schmettau –
volge verso Naso superando la fiumara omonima sul ponte dallo stesso nome, per poi
arrivare alla costa tirrenica nei pressi del fiume Fitalia e del ponte romano di Zappulla.
È questo un itinerario che meriterebbe un serio approfondimento non fosse altro che
per il gran numero di ponti presenti, oltre quelli qui segnalati, che ritengo siano per la
gran parte del XVI-XVII secolo.
Do qui atto allo storico di Pomigliano d’Arco, Giuseppe Arlotta,11 di avermi
fornito le prime informazioni sul sentiero ed alcune foto in un periodo, il 2005, in
cui conducevo le ricerche per stabilire il migliore dei passaggi possibile per superare
Capo Calavà. Per conto mio ho interamente percorso la strada a piedi nel 2009 da San
Giorgio a Gioiosa Marea, rendendomi conto della facilità di superamento del Capo,
utilizzando il percorso che è pure segnalato in una guida al territorio di Gioiosa Marea.
A questo punto possiamo leggere in maniera nuova le distanze riportate sull’Itinerarium Antonini12 e sulla Tabula Peutingeriana e, in particolare, Messana-Tindares
di mp 36 e Tindaride-Agatirno rispettivamente di 28 e 29 mp.
Sul primo tratto da Messina a Tindari il percorso è abbastanza chiaro: da Messina la strada (che per grandi tratti ricalca l’attuale SS. 113) scavalca i Peloritani dirigendosi su Gesso (Gypso) e Divieto (forse un tempo Dianae). Poi, rasentando la costa,
supera il torrente Saponara in località Due Torri e riservando il passaggio sul ponte
Baronello, posto circa un km e mezzo più a sud (che fa allungare il tragitto di circa 2,5
km) solo a quando le condizioni atmosferiche impedivano l’attraversamento del greto.
La strada a quel punto costeggia il mare attraversando Spadafora e Venetico Marina,
superando il torrente Muto (da mutatio?) sull’omonimo ponte e dirigendosi al bivio di
9
S. Von Schmettau, «Carta della Sicilia», in L. Dufour (ed.), La Sicilia disegnata. La carta di
Samuel von Schmettau, 1720-1721, Società siciliana per la Storia Patria, Palermo 1995, tavola 6.
10
L. Santagati, Viabilità e topografia della Sicilia antica. Volume I. La Sicilia del 1720 secondo
Samuel von Schmettau ed altri geografi e storici del suo tempo, Assessorato regionale siciliano ai BB.
CC. AA., Caltanissetta 2006. Il ponte di Calabrò è sito a circa m 700 a nord-ovest di Sant’Angelo di
Brolo. Sullo stesso torrente insistono il ponte della Santa sito a circa 2 km a sud-sud-est di Sant’Angelo
di Brolo ed il ponte sito a meno di 2 km a sud di Piraino. Approfitto dell’occasione per ringraziare il
Presidente del Tribunale di Patti, Nicola Fazio ed il cancelliere Giuseppe Ciccia che andarono apposta
nel 2005 a fare le foto dei manufatti, inviandomele.
11
G. Arlotta, «Vie francigene, hospitalia e toponimi carolingi nella Sicilia medievale», in M.
Oldini (a cura di), Tra Roma e Gerusalemme nel medioevo. Atti del Congresso Internazionale di studi
del 26-29 ottobre 2000, La Veglia editore, Salerno 2005, pp. 815-886.
12
A Messana Tindaride (36 mp) ed Item a Lilybeo per maritima loca Tindaride (208 mp).
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Su una possibile via romana a Capo Calavà
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Archi. Lasciando Milazzo sulla destra ed il possibile sito di Naulocha, la strada punta
su Barcellona Pozzo di Gotto, superando il torrente Idria sul ponte Caulo. Da lì punta
su Vigliatore attraversando la frazione Termini che alcuni ritengono possa coincidere
con Artemision, per poi condurre a Falcone ed Oliveri nei cui pressi, in contrada Coda
di Volpe, inizia la ripida salita che conduce a Tindari, luogo in cui doveva essere posta
la statio da cui venivano misurate le distanze. Il percorso totale da Messina è lungo
circa 37 mp (circa 55 km). E poiché non esiste un percorso più breve, è evidente che
la misura riportata sia errata.
Dalla statio di Tindari probabilmente la strada percorreva la ripida salita, forse
intagliata a gradoni, che portava a superare il Capo, per poi puntare alla costa passando per San Salvatore e Mongiove. Da lì, la via puntava su Patti Marina e San Giorgio
per poi superare, come descritto, Capo Calavà e condurre a Gioiosa Marea. La strada
portava quindi a Gliaca, Brolo e Capo d’Orlando per poi puntare, più internata, sul
ponte romano di Zappulla, sul ponte Romano di Torrenova sul torrente Platano, sul
fiume Rosmarino (superato, in caso di piena, sul ponte omonimo sito circa 800 metri
all’interno più a sud) ed infine arrivando ad Agathyrnum (l’odierna Sant’Agata di Militello), dopo circa 34,5 mp (km 52 circa) anziché 28 mp e 29 mp, come riportato rispettivamente sull’Itinerarium Antonini e sulla Tabula Peutingeriana. Ed anche in questo
caso, poiché non esiste percorso più breve o, quantomeno, risultano poco credibili le
alternative, è evidente che la misura riportata sia errata.
E sono tutte le misure dell’Itinerarium ad essere, purtroppo, errate. Il che, come
da cinque secoli a questa parte, non aiuta certo a risolvere i “misteri” che aleggiano
sulla via Valeria.
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Luigi Santagati
Fig. 1 - La linea sul fianco del monte indica la strada che scende da Capo Calavà (a destra della foto)
verso San Giorgio (a sinistra). La foto mi è stata gentilmente concessa da Giuseppe Arlotta
Fig. 2 - Un tratto selciato e con muretto a valle della strada
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Su una possibile via romana a Capo Calavà
Fig. 3 - Il valico di Capo Calavà visto dalla parte di San Giorgio
Fig. 4 - Il ponte presumibilmente romano. Ben visibile l’orditura dei mattoni
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Fig. 5 - Un altra vista del ponte a cui è accostato un manufatto recente in cemento armato
Fig. 6 - Il ponte Romano (da romanioi ovvero Bizantini) di Torrenova
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Su una possibile via romana a Capo Calavà
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Fig. 7 - Altra immagine del ponte Romano di Torrenova
Fig. 8 - Torre delle Ciaule in restauro (2009) vista dalla spiaggia di Zappardino con ben visibile, al
centro della foto, il traforo. In fondo la mole di Capo d’Orlando
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Fig. 9
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P. Pio Sirna
Drammatico dolore, tragica rappresentazione: un modo di essere,
di dire e di fare nella precristiana area tra Tyndaris ed Elikòn
Articoleremo il nostro intervento tentando di analizzare un’area geografica segnata dalla presenza di una struttura che per millenni ha influenzato la vita quotidiana
di un’intera zona. Riteniamo infatti che le rappresentazioni teatrali a Tyndaris abbiano
determinato anche uno stile nell’affrontare i grandi “perché” della vita ed i problemi
quotidiani. Accanto a questa struttura, però, ci sembra necessario dare uno sguardo a
un genere letterario poco conosciuto e sottovalutato, la “favola” e i “proverbi”, per poi
passare in rassegna alcuni elementi di toponomastica soprattutto alla luce del Prologo
della Teogonia di Esiodo, richiamo allo stile di vita pastorale, altro ambito privilegiato
di questa filosofia di vita per la zona del Monte di Alba Elikòn. Riteniamo che tale metodo sia altra fonte importante per conoscere la storia e il modo di essere, di dire e di fare.
1. La colonizzazione1
Nel terzo periodo del sec. VIII i Greci2 dall’estremità orientale cominciavano a
colonizzare la nostra Isola. Dalla madrepatria Ellade,3 agricoltori e pastori adoravano
divinizzate forze della natura (politeismo antropomorfico), raccontate con grandiose
leggende. Nel contesto della colonizzazione della Magna Grecia (Megàle ‘Ellàs),4 il
Il paragrafo riproduce sinteticamente il contenuto del nostro La diocesi di Patti. Gli archetipi I. «Non conformatevi a questo mondo» (Rom 12,2). Percorsi toponomastico-spirituali in età ellenisticoromana, Diocesi Patti, Patti 2012, pp. 19-44.
2
Ispirati dai poemi omerici (Iliade e Odissea), erano spinti dalla sovrappopolazione e dalle
ambizioni commerciali: malcontento degli aristocratici (privati dei privilegi), crescente fabbisogno di
prodotti agricoli ed industriali e desiderio di nuovi orizzonti.
3
Erano portatori dell’eredità culturale Achea-Micenea, Dorica, Eolica e Ionica. L’Ellade era
strutturata in piccole città-stato.
4
Guidati dall’ateniese Teocle, nel 734 (o 733) s’insediavano a Sùraka/Siracusa (dal 598) e, con
Megaresi e Calcidesi, fondavano Naxos e Megara (tra Zancle e Catana), nel 728 Lentini e Catania e negli
anni 716-715 Milae. Verso il 483-482 Megara era distrutta dalla vicina Siracusa. A metà del sec. VII
Corinti e Dorici, guidati dal Bacchiade Archia, scacciavano i Siculi e da Siracusa colonizzavano Acre,
Casmena, Gela, Camerina, Agrigento; altri, uniti a Calcidesi e Siracusani, si spostavano verso Imera. Molte
piccole colonie erano insediate. In Magna Grecia il movimento si espandeva sulle coste ioniche (Taranto,
Metaponto, Sibari, Crotone, Locri, Reggio) e tirrenica (Elea, Poseidonia/Paestum, Cuma, Napoli, ecc.): A.
Holm, Storia della Sicilia nell’antichità, rist. an., ed. Clio, Catania 1993, vol. I, pp. 241-296; J. Berard, La
1
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e ricerche sui saperi medievali
E-Review semestrale dell’Officina di Studi Medievali
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P. Pio Sirna
fenomeno era anche evento religioso.5 La colonia (pokìa) era vera polis; si parlava
greco e si conservavano le tradizioni delle città di provenienza.6 L’ecista organizzava
l’insediamento – il territorio, diviso in lotti (kleroì), era assegnato a ciascun colono – e
ne stabiliva le norme politiche e religiose; morendo, era proclamato eroe protettore
della colonia. In empori commerciali o aziende agricole si sviluppava una nuova economia non basata sulla proprietà terriera, ma sulla moneta.7 La penetrazione importava
il modello della madrepatria 8 e la collettività si strutturava in gamoroi (coloni) e killirioi (indigeni integrati). Gli indigeni Sicelioti e Sicani, invece, fuggivano all’interno,
in località poco accessibili, recintate da fossati e da torri di legno (vedette). Nella metà
del sec. VI, però, avviavano intensi e sistematici scambi commerciali con i Greci fino
ad assumerne lingua e religione (olimpica). Il comune culto degli antenati di Gelone9
ed i colonizzatori10 realizzavano una simbiosi tra elemento greco ed elemento indigeno. Ora anche i villaggi Siculi del versante tirrenico (Abaceno, Alontion, Apollonia e
Amestrato), arroccati su colli eminenti e formati da capanne di legno o in pietra a secco
ed abitati da pastori, agricoltori e cacciatori, era occupato.11
Altri immigrati giungevano nell’Isola tra la fine del V e il secolo successivo dalla Penisola (campani e pugliesi) e dalla Grecia.12 La siceliota Siracusa con un trattato
(synthekai) sanciva il suo dominio sulle città sicule.13 Seguiva un periodo di progresso
Magna Grecia, Enaudi, Torino 1963, pp. 49-100, 115-137, 258-262, 290-294.
5
Dopo aver consultato l’oracolo d’Apollo a Delfi, seguivano un plenipotenziario politicomilitare-religioso (ecista: oikistès, fondatore) imbarcandosi su una nave fornita dalla madrepatria.
6
Indipendenti dalla madrepatria, mantenevano stretti legami religiosi, vivevano nei nuovi
territori usanze e culti comuni.
7
Mercanti, armatori, banchieri miglioravano la loro condizione; ne beneficiavano anche le classi
medie ed inferiori.
8
Templi erano posti sulle sommità di monti/colli, agorà, bouleuterion (parlamento), teatro,
bagni e case; cinte murarie erano costruite attorno al nucleo abitativo principale (acropoli e agorà).
9
Erano i gerofanti della divinità indigena Demeter (localizzata ad Enna, centro dell’Isola).
10
Un estremo tentativo di opporsi alla colonizzazione era attuato dagli altri indigeni Siculi,
guidati da Ducezio tra il 453 e il 440. I nuovi coloni (provenienti da Cnido e Rodi) si alleavano con
Siracusa, si scontravano con i pirati etruschi e con i cartaginesi per l’egemonia nel basso Tirreno, e, dopo
le vittorie di Imera (480) e di Cuma (474), avevano il pieno possesso del mare (Diodoro, Bibliotaeca
storica, l. XI, 20 ss.; vv. 67,8).
11
Ducezio, nato intorno al 490-485 a Néas/Noto o Ménas/Mineo (P. Fiore, Ducezio Calcta
Caronia. Venticinque secoli di Storia, Flaccovio ed., Palermo 1991, pp. 19-46), tra il 453 ed il 440
formava la lega (syntéleia) con la maggior parte dei centri della Sicilia orientale (453); dopo la sconfitta
subita da agrigentini e siracusani e l’esilio a Corinto, progettava (con Siculi e Greci del Peloponneso,
Alontion e Abaceno, appoggiato da Atene) la fondazione (446) di Calacte. Nel 450 (primavera) Siracusa
ingrandiva il suo dominio sulla Sicilia orientale.
12
L’unità spirituale dei siciliani era riaffermata a Gela nel 424: S. Correnti, Storia della Sicilia,
Newton e Compton, Roma 1999, pp. 17-18.
13
Alla fine del sec. V ingenti popolazioni attiche o peloponnesiache (ionici–calcidesi, dori),
sconfitte da Sparta, emigravano e, durante il conflitto tra Cartagine e Siracusa (410-393), approdavano
sulle coste della Sichelìa (regione dei mietitori, paese del grano e dei bovini). Nel 405/403 Dionisio,
conquistate Naxos e Catana, dava le terre dei primi ai vicini Siculi e vendeva i cittadini all’asta. Nel
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Drammatico dolore, tragica rappresentazione: un modo di essere, di dire e di fare...
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economico e di trasformazione del territorio: con il commercio, contadini e pastori
divenivano artigiani, commercianti e sottoproprietari. Sui Nebrodi i Siculi (Sikeloì) si
fondevano con i Greci (Sikeliòtai) ed i centri d’Abaceno, Alontion, Apollonia, Amestrato s’ingrandivano: Abaceno prevaleva su Longano, Alontion sugli insediamenti di
Monte Scurzi, Apollonia nella zona centrale.
Nel 396 una nuova colonia nella zona d’Abaceno prendeva nome di Tyndaris e
sulla costa era fondata Halaisa.14 Dall’attuale cima di Giusa Guardia è possibile osservare il vasto territorio incluso tra Capo Calavà ed il monte Elikonion. Dapprima inglobato nel territorio (chora) di Abacenum, passava poi alle dipendenze di Tyndaris.15 In
un’area di circa 160 kmq vivevano popolazioni, preesistenti alla migrazione ellenica
dei sec. VIII-VI e dedite a pesca, agricoltura e pastorizia. Mare e porto consentivano
pesca (tonni e pettines) e commercio.16
Nelle successive rivolte anticartaginesi Tyndaris e Halaisa aderivano al progetto
anticartaginese (simmachia) del corinzio Timoleonte;17 Apollonia, alleata con Leptine,
invece, era conquistata. Nella seconda metà del sec. IV,18 in ogni caso, le popolazioni
dei Nebrodi vivevano nel massimo splendore.19 Nelle monete compariva il simbolo
sicano della Trinacria (triskéles: tre gambe).20
396 i Cartaginesi abbandonavano Siracusa. Il conflitto, preceduto dalla sconfitta a Milae dei Reggini
(394), si concludeva nel 393, dopo la battaglia di Abaceno (Diodoro, Bibliotaeca storica, cit., XIII, 5962. 81,2. 86,4. 91 e ss. 95,4. 109-110. 114,2; XIV, 8. 40. 44. 47,6. 48,4. 55-64; A. Holm, Storia della
Sicilia, cit., vol. I, pp. 144-147; vol. II, pp. 232-271; R. R. Holloway, Archeologia della Sicilia antica,
SEI, Torino 1995, pp. 63-138; E. Badolati, Tindari. Cenno storico descrittivo, Alfieri-La Croix, Roma
1921, pp. 7-10).
14
Diodoro, Bibliotaeca storica, l. XIV, 78, vv. 5-6; E. Badolati, Tindari. Cenno storico descrittivo,
cit., pp. 10-19. I numeri (1000 Locresi, 4000 Medmei e 600 Messeni, questi ultimi espulsi dagli Spartani
alla fine della guerra del Peloponneso e già inclusi nell’esercito siracusano) sembrano esagerati.
15
La popolazione della zona raggiungeva il numero di 5000 c.a. e si raddoppiava dopo circa
mezzo secolo.
16
Producevano cereali (specie frumento), olio, vino (ioatino o mamertino) e legumi; dai circostanti
territori ricavavano anche pascoli, legname e animali da caccia. Il piccolo porto s’insabbiava intorno al
sec. XIX: G. Parisi, Tyndaris. Storia-Topografia-Ricerche archeologiche, A. Sessa ed., Messina 1949,
pp. 24-30.
17
Dopo il 344 Timoleonte con Kephalos e Dionysios di Corinto riformava le città siceliote e
facilitava l’accoglienza dei dorici (da Elea di Tesprozia e da Cos), giunti a Gela, Camarina, Agyrion,
Hergetion, Halaisa, Apollonia e forse anche Kalakté: Diodoro, Bibliotaeca storica, l. XIV, 111-112; l.
XVI, 5, vv. 36.65, 1.66, 2.
18
Nel 314 il siracusano Agatocle (317-289) ad Abaceno faceva giustiziare una quarantina
d’avversari: Diodoro, Bibliotaeca storica, l. XVI, 69, v. 3; l. XIX, 2, vv. 2-8; l. XXI, v. 69; F. Ingrillì,
Dal regno di Eolo alla Contea di Ruggero, Città dei Nebrodi nell’antichità, Pungitopo, Capo d’Orlando
1996, pp. 31-49, 52-54.
19
A Tyndaris, Alontion ed Halaisa notevole era lo sviluppo demografico ed intensa l’attività edilizia.
20
Era l’antica ed orientale rappresentazione del dio Baal/sole nella sua triplice forma di divinità
primaverile, estiva e invernale, o della luna, o del moto in genere, segno di prosperità. Ad Atene (monete
sec. VI) e nella Magna Grecia (Paestum, Elea, Metaponto, ecc.), le tre gambe indicavano treis promontori
(àkra) di Capo Faro o Peloro (Messina), Capo Passero (Siracusa) e Capo Boeo o Lilibeo (Trapani). Per
Omero era Thrinakìe, isola di Posidone/Nettuno. Il Triscele (triquetra in terracotta dell’agrigentino)
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P. Pio Sirna
Continuava a covare il sentimento antisiracusano, anticipatore della ripresa delle
ostilità con Cartagine.21 Ciò accadeva alla morte d’Agatocle: Mamertini (mercenari
campani), Cartaginesi e Siracusani si scontravano proprio nella nostra zona.22 Nel 268,
però, Gerone, sconfitti i Mamertini sul fiume Longano, si ritirava e Cartagine controllava Lipara, Messana e Tindari; Halaisa restava fedele a Siracusa. I Mamertini, invece, non riuscendo a liberarsi dei cartaginesi chiedevano aiuto ai Romani23 e di fatto si
concludeva la dominazione greca.24 Durante la I Guerra Punica (264-241) Tyndaris era
base cartaginese.25 Finita la guerra, però, tutta l’Isola diveniva provincia romana e suo
granaio.26 Dopo la II Guerra Punica (218-201), invece, i centri siciliani facevano a gara
per accattivarsi le simpatie di Roma.27
siciliano forse era di derivazione minoica (Minosse, da Cnosso sarebbe sbarcato in Sicilia). La Sicilia,
terra con tre colli a raffigurazione triangolare, perciò, aveva diverse denominazioni (Triquetra, Trichelia,
Sikania, Sikelia, Trinacria). Dal Triscele, testa della Gòrgone (o di Medusa, gòrgone per antonomasia)
dai capelli di serpenti, dalla sua testa s’irradiavano tre gambe piegate all’altezza del ginocchio. In altri
contesti la testa era rappresentata da donna (dea) con ali (eterno discorrere del tempo), contornata da
serpenti (saggezza) o da spighe di grano (Omero, Odissea, XI, 106.623; Esiodo, Teogonia, 274; A.
Holm, Storia della Sicilia, cit., vol. I, pp. 37, 107-108).
21
Nel 295 erano unificati i territori orientali dell’Isola, fino al fiume Salso, ai rilievi ed alle aree
costiere delle Madonie (Diodoro, Bibliotaeca storica, l. XIX, 109, v. 5; 110, v. 3).
22
Conquistata Messana, i Mamertini estendevano il loro dominio da Halaisa a Tauromenio. Nel
frattempo i Cartaginesi s’impadronivano di Lipara e di Tindari. Tra il 272 ed il 268, però, Gerone II di
Siracusa, con una confederazione (koinon, dipendenze, Catane, Tauromenio, Agirio, Centuripe, Halaisa,
Abaceno e Tindari), guidava diverse campagne militari contro i Mamertini. Nel 272 conquistata Mylai
(Castelmola, sopra Taormina) e nel 271, valicati i Nebrodi nella zona dell’Elicona, marciava su Abaceno
e Tindari e conquistava le città; anche Halaisa si consegnava.
23
Cartagine e Siracusa si alleavano contro il comune nemico, ma, dopo un infruttuoso assedio,
Siracusa si ritirava, Cartagine e Roma divenivano gli unici arbitri della Sicilia e del Mediterraneo.
Nel 264 consegnavano la città al console Appio Claudio. Nel 263 i nuovi consoli Ottacilio e Valerio
sottomettevano 79 città, tra le quali anche Halaisa: Diodoro, Bibliotaeca storica, l. XXI, 18; l. XXII,
2, v. 1; 7-8; 10; 13.
24
Una moneta (Persefone e un cavallo), ritrovata nella zona del monastero di S. Pancrazio tra
Caronia e S. Fratello, è probabile testimone di queste vicende: S. Pagliaro Bordone, Mistretta antica e
moderna coi suoi undici comuni, Forni, Bologna 1902, pp. 42-44; F. Ingrillì, Dal regno di Eolo, cit., pp.
62-65; S. Ruggeri, «S. Pancrazio e S. Maria del Vocante, due monasteri basiliani ai margini del bosco di
Caronia», in Contributi alla conoscenza del territorio dei Nebrodi, Pol. Sicilia, Messina 1981, vol. II, p.
17. Residuati linguistici nel nostro La Diocesi di Patti. Gli archetipi - I, cit., pp. 180-184.
25
Liberata nel 269 da Gerone II (dopo battaglia sulle rive del Longano), nel 262 era nuovamente
occupata dai Cartaginesi, nel 257 le sottostanti acque erano teatro della battaglia tra Cartaginesi e Romani.
26
Le 68 città, divise in 6 circoscrizioni, pagavano tributi e si autogovernavano. Il territorio
era trasformato radicalmente. Negli anni 228-226, poi, l’Isola (eccetto Siracusa) aveva una propria
legislazione «per i vinti», ma nel 212 Caracalla estendeva la cittadinanza romana a tutti i sudditi.
27
Monete romane sono state ritrovate nella zona di Ucria. Dopo la frana per terremoto e/o
erosione marina tra 18 e 79, Tindari registrava qualche forma di fioritura edilizia e nei sec. II-III erano
attestate le terme: Plinio il Vecchio, Storia Naturale, l. II, cc. 92-94.206.
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Drammatico dolore, tragica rappresentazione: un modo di essere, di dire e di fare...
365
2. Drammatico dolore, tragica rappresentazione
Nell’analisi del contesto culturale della zona di Tindari28 partiamo dalle rappresentazioni che hanno esteriorizzato gioie e dolori, fatiche e speranze, sogni e drammi
della vita quotidiana.
Nell’età ellenistico-romana, già dalla II metà del sec. VII, il teatro aveva assunto
la funzione educativa29 di iniziazione comunitaria o di ingresso rituale nella comunità.30 Nelle città democratiche (specie Atene) del sec. V, poi, diveniva il luogo della
maggior acculturazione di massa. Le rappresentazioni artistiche31 erano elemento rassicurante di una vita segnata dalla paura della morte e strumento per interiorizzare gli
eventi.32 Nella tragedia predominava quasi incontrastato il mito omerico e il ciclo epico. Il pubblico, elemento primo e anima della rappresentazione,33 ne era predisposto.
Il dominio preventivo delle trame note favoriva la comprensione e il diletto. Risultava
efficace e facile l’ammaestramento per purificare le passioni (pietà e terrore): ancestrale repertorio, sapiente e impegnativa terapia mentale. Pilastro del funzionamento
politico, con l’assemblea popolare e i tribunali, il teatro ospitava la comunità e le offriva una comunicazione generale e immediata. Era una della «tre sedi della parola».34
Quello tragico,35 in primo luogo, doveva propagare i valori fondamentali della polis.
28
2008).
E. Ciaceri, Culti e Miti nella storia dell’antica Sicilia, Battiato, Catania 1911 (rist. anast. Forni
Stesicoro (maestro di cori) di Imera/Locri/Matauro trattava la materia epica, forma d’arte
destinata ad un contenuto sociale, composta su commissione per soddisfare il bisogno di intrattenimento
musicale di un gruppo. In Denaro è l’uomo sono contenute storie di poesia – merce, di asini e di
tariffe, con gli autori impegnati in posizione subalterna ed i cori cantano dinanzi ad un pubblico da
impressionare. Per il teatro cf. L. Canfora, Storia della letteratura greca, Laterza, Roma-Bari 1990
(1r.), pp. 105-232.
30
Pisistrato nel 535 istituzionalizzava i concorsi dei tragediografi, già inseriti nelle feste
dionisiache (Grandi Dionisie, fine di marzo), caratteristiche del contado, base sociale della tirannide
in Attica. Dopo la sua cacciata, il teatro tentava di democratizzare la tirannide. Il teatro tragico, in
particolare, diveniva ufficiale/statale.
31
Mentre la lirica corale si eclissava, declinava l’aristocrazia e si affermavano la tragedia e la
commedia con un committente collettivo (l’intera comunità dei “liberi” e non più l’élite degli agathòi
di Pindaro). Epicarmo, poeta siciliano della commedia dorica, componeva circa 40 testi: parodia
mitologica incentrata su Odisseo e Eracle: Odisseo disertore, Viaggio di Eracle alla conquista del cinto
di Ippolite, Eracle presso il centauro Folo. In Atipica o nei Demi, in piccoli teatri, durante le Dionisie
rurali, si facevano tali rappresentazioni (cf. Bacchilide, Ditirambo IV, il Teseo).
32
Il mestiere (téchne) era ereditario, appreso con la pratica e gratificante per tutti (vincitori e
non): Aristotele, Poetica, IV, 1449a 9-13.16-18.
33
Tragedie ad esplicito argomento satirico-politico erano casi isolati: Aristotele, Poetica, IV,
1450a 38.
34
Ad Atene era attività politica, strettamente e formalmente connessa al funzionamento dello
Stato: attività continuativa sostentata dalla domanda politica e dagli incentivi materiali per attori,
coreuti, autore, corego, didascalo.
35
Strettamente legato alla tragedia era il dramma satiresco (il quarto pezzo che un tragico faceva
rappresentare), tò saturikòn, che assegnava un ruolo importante alla danza (Aristotele, Poetica, IV,
29
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P. Pio Sirna
Scuola per adulti,36 ai meno abbienti era pagato il biglietto e migliaia di spettatori erano obbligati a partecipare.37
Anche a Siracusa, polo centrale della Grecia Occidentale, si svolgeva un’attività
teatrale tale da godere un durevole prestigio ad Atene.38 Alla fine del sec. IV a Tindari
era costruito un ampio teatro capace di ospitare circa 3000 spettatori.39
Il tragico che sembra avvicinarsi al nostro contesto è certamente Eschilo (525/4456/5). Recatosi in Sicilia, faceva rappresentare la tragedia I Persiani.40 Ierone, però,
ritenendosi paladino dei Greci occidentali per aver fondato nel 476 Etna, sperava che
Eschilo potesse celebrare con una nuova tragedia anche la vittoria di Imera (480) sui
Cartaginesi. Tale fondazione, nonostante il tormentato rapporto con Ierone, comunque, era celebrata nel 470 da Pindaro di Cinocefale41 nella Pitica I42 e dallo stesso
Eschilo nelle Etnee, di cui ci sono giunti solo pochi versi.43
Le rappresentazioni di Eschilo tendevano a sintetizzare la sottomissione alle di-
1449a 20.23-24). Seguiva la trilogia per scuotere giovialmente il pubblico. Anche a Roma cf. exodia.
Quando era presentata una quarta tragedia (es. Alcesti di Euripide nel 438) era a lieto fine e conteneva
scene comiche (cf. Euripide, Ciclope, da Odissea).
36
Come a scuola il maestro per i fanciulli, così i poeti per gli adulti. La comunità politica,
assicurandosi i suoi drammaturghi, perciò, affidava la formazione dei singoli ai tragici ateniesi. (cf.
Aristofane, Rane, 1054-1055).
37
Rappresentazioni concepite a forti tinte per impressionare le masse, gli stranieri, le donne, ecc.;
le recite nel contado durante le Dionisie rurali inoltre permettevano un’educazione di tutti e un controllo
dei contenuti, secondo l’opportunità politica: Platone, Leggi, 817D; Eschilo, Eumenidi [458 a. C.].
38
Pochi prigionieri ateniesi, ad esempio, erano riusciti a riscattarsi recitando pezzi di tragedie euripidee
(Plutarco, Vita di Nicia). Le strutture teatrali a Siracusa erano utilizzate da Agatone, Euripide, ecc.
39
Dal III sec. a. C. vi sono attestate anche rappresentazioni della cultura latina.
40
Era composta per la vittoria di Salamina e di Temistocle dopo la Trilogia dell’Orestea ed I
sette a Tebe, oppure nel 472, seguita da I settte a Tebe (467) e da Le supplici (463). Con l’Orestea
(Agamennone, Coefore, Eumenidi ed il dramma satirico Prometeo) avrebbe riportato la vittoria ad
Atene. I Persiani è una tragedia filotemistoclea. Dopo Salamina (vv. 355-373), Atene, vera artefice
della vittoria sui Persiani, merita l’impero: ha salvato la Grecia e nel 487 è a capo della Lega. Scoppiata
la guerra con Sparta (431) ispirerà la democrazia (vv. 230-234).
41
Nato in Beozia (518-438), era in Sicilia nel 476, ove componeva l’Olimpica I o Pitica I, in onore
della vittoria di Ierone nella corsa dei cavalli a Delfi. Nel 475 era già in Beozia: Simonide (556-468) e
Bacchilide (520-450) erano divenuti poeti ufficiali della corte siracusana. Zio e nipote erano a Siracusa
intorno al 476. Il secondo nel 468 celebra la vittoria di Ierone ad Olimpia, ma Pindaro gli scriverà la Pitica
III (474?) per la grave malattia: L. Canfora, Storia della letteratura greca, cit., pp. 98-102.
42
Dopo l’altra vittoria di Ierone ad Olimpia erano composte la Pitica II, ode amara del 468
circa, una iporchena (fr. 105) e l’Olimpica IV (ad un amico di Ierone). Dopo la deludente esperienza
siracusana si rivolgeva ad altri committenti di Macedonia/Rodi/Corinto/Sparta.
43
Celebrava l’insediamento ad Etna del figlio di Ierone (Dinamene). La città era fondata sulla
zona dalla quale il tiranno aveva scacciato qualche anno prima con violenza gli abitanti di Catania e di
Nasso. Vissuto in un periodo di continui cambiamenti (nel 467 rappresentava durante la settantottesima
Olimpiade I sette a Tebe), i suoi personaggi vivono il contrasto tra la concezione arcaica della Grecia e la
nuova organizzazione statale democratica e la progressiva razionalizzazione dell’apparato giudiziario.
Nel 456, insofferente agli sviluppi democratici della società ateniese compiva un secondo viaggio in
Sicilia e moriva a Gela: S. Correnti, Storia della Sicilia, cit., pp. 17-18.
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vinità e la coscienza e la responsabilità delle proprie azioni: nel delitto pagavano il
colpevole (non l’individuo, ma il figlio di una stirpe) e la sua futura discendenza.44 Il
destino, però, era il protagonista della sconfitta dei Persiani, ai quali «gli Dèi tutto il
male hanno dato». Bisogna, comunque «soffrire le disgrazie» perchè «gli Dèi vogliono salva quella città di Pallade» (I episodio, Coro, strofe IV; Antistrofe). Resta solo
da piangere «ritti presso il sepolcro» e invocare il defunto «pietosamente, con lamenti
acuti che giungono alle vite di laggiù».45
Un’altra tragedia sembra vicina al nostro contesto culturale: l’Orestea.46 Oreste
è perseguitato dalle Erinni, divinità figlie della notte e vendicatrici di Clitemnestra.
La regina figlia di Tindaro, prima che moglie e madre sfinita dal dolore per la figlia
uccisa, è freddo ed impassibile strumento del Fato che deve compiersi. La città fondata
nel 396 perciò aveva preso la denominazione Tundarìda (Diodoro, XIV, 78, 5-6) dal
mitico Tindaro, re di Sparta, colui che aveva generato con Leda i due gemelli Castore
e Polluce e per questo fratelli di Elena.47 La denominazione del nuovo centro perciò
si richiama al nipote di Tindaro, il figlio di Clitemnestra e di Agamennone.48 Oreste
durante il viaggio faceva tappa a Mylae e a Tyndaris (già protetta dai fratelli Dioscuri).
Qui, in ringraziamento, dedicava un tempio a Diana Facellitis/Artemide/Eupraxìa.
Artemide Eupraxìa era la dea fluviale, ma anche divinità messaggera, presso i Siculi
appellata anche Anghelos (ànghelos, nunzio), per aver avvisato Demeter del ratto della
figlia Persefone da parte di Ades, signore degli inferi, il regno dei morti (per i Greci
pronunciare il suo nome ispirava un sacro orrore). Tale epiteto è riprodotto anche in
«Soffrirà del mal che ha fatto […] anche alla terza generazione che semineranno […]. La colpa
cresce ed ha per frutto spiga di pena e il suo raccolto è tutto lagrime» (I Persiani, Esodo).
45
Esodo. I Greci per non contaminarsi alla vista di un cadavere mettevano davanti alla porta di
casa del defunto un vaso d’argilla con acqua lustrale nel quale era stato spento un tizzone ardente tolto
da un altare sacrificale (cf. Euripide, Alcesti, Coro). Lavare i cadaveri e seppellirli con le vesti migliori
e con oggetti preziosi era un rito citato in Euripide (Supplici) e nell’Odissea (II). I Romani celebravano
le feste Lemurie in onore degli estinti nel mese di maggio.
46
Composta nel 458, celebra il matricidio. Con la punizione della madre Clitemnestra, Oreste
ha compiuto un crimine tremendo, anche se eseguito per ordine di Apollo contro l’assassina del marito
Agamennone, il folle che per ambizione e sete di gloria aveva sacrificato la figlia Ifigenìa agli Dèi per
la riuscita della guerra di Troia.
47
La sposa di Menelao era stata la causa scatenante della guerra di Troia. I due, festeggiati il 15
luglio dai cavalieri, erano protettori degli uomini in pericolo. Erano stati in lotta con i figli di Afareo,
re di Messenia, perché Idas e Linceo avevano rubato loro un gregge, prima rapito in Arcadia insieme. I
Dioscuri, perciò, invadevano Messene e si riprendevano il gregge, ma nella successiva battaglia Castore
era mortalmente ferito da Idas (a sua volta fulminato da Zeus), mentre Linceo era ucciso da Polluce.
Quest’ultimo davanti a Castore morente chiedeva a Zeus di morire con il fratello/amico ed il dio li
ammetteva nell’Olimpo ove vivevano e morivano un giorno per ciascuno.
48
Leda, la moglie di Tindaro, aveva concepito con Zeus due uova; da uno nasceva Clitemnestra ed
Elena, e dall’altro i Dioscuri. Tindaro riconosceva i due figli, per questo detti anche Tindaridi: Diodoro,
Bibliotaeca storica, l. XIV, 78, v. 6. Oreste per vendicare il padre si recava ad Argo e trucidava la madre
Clitemnestra e il convivente Egisto. Diveniva subito pazzo e su consiglio di Apollo (Euripide, Elettra;
Oreste; Ifigenia in Tauride), si recava in Tauride e con l’aiuto della sorella Efigenia rapiva il simulacro
di Artemide e ritornava a Lichene, ove diveniva re con sovranità anche su Argo e Sparta.
44
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una bugna del portone dell’antico Santuario.49 Ancora nel 593 d. C. a Tindari era praticato dagli angeliani/angelici il culto degli angeli (angelorum dogmatis, dogma angelorum: invocazione/mediazione di Cristo e degli angeli era posta sullo stesso piano).50
Nell’Orestea l’uxoricida così alimenta la maledizione che grava sulla stirpe degli Atridi (colpa produce altre colpe): uccidendo il marito Agamennone e tradendolo,
ha rinnegato i suoi sacri doveri di moglie e dovrà pagare le conseguenze di questa
terribile colpa.51 Rotto il mondo ancestrale, la madre mostra ad Oreste i seni e lo invita
a venerarli a ricordo del nutrimento vitale (vv.900-902).52 Nulla, però, è in grado di
scagionarlo dalla colpa perchè, ancora una volta, la stirpe risponde della responsabilità
morale dei singoli componenti. Oreste diviene pazzo, ma Apollo gli indica la via della
guarigione: rapire il simulacro di Artemide con l’aiuto della sorella Ifigenia.53 Le colpe
dei padri ricadono inevitabilmente sui figli: «L’alburu pecca, ma a rama ricivi». Anche
le imprecazioni, i jastimi, trovano compimento nella legge del contrappasso (I sette a
Tebe, Coro).54
Secondo una tradizione, Oreste, nel suo peregrinare, giunge anche a Tindari,
dopo aver costruito un santuario nei pressi di Siracusa ed avervi collocato la statua della Facelitide / Facellina, portata con sé dalla Tauride.55 Un (altro?) tempio di Artemide,
comunque, era attivo nella zona tra lo Stretto di Messina e le isole Lipari.56 Il fiume
Nell’annuale festa a ricordo della kataghoghé di Persefone si ballava la danza dorica angheliké
con abbondanti libagioni di vino. Alla festa partecipavano i pastori siracusani grati alla dea per aver
liberato dal morbo i loro animali.
50
Il culto era lottato dal vescovo Eutichio e diffuso nelle campagne con l’acquiescenza dei
latifondisti (viticoltori) locali. Angelica, inoltre, era la danza fra le bottiglie nelle feste sacre ed i danzatori
erano vestiti come angheloi [nunzi]. Anghelieia [ànghelos + élios, sole] era l’epiteto dell’Aurora:
annunzia il sorgere del sole. Angela, poi, era la figlia di Ermès/Mercurio incaricata di riferire ai morti
ciò che facevano i vivi. Il culto di Ermès era diffuso a Tindari (vd. statua rubata nel 264 dai Cartaginesi
e fatta restituire da Scipione; Hernaia nel Ginnasium (lotte tra fanciulli/giovani).
51
Oreste vive un’indissolubile antinomia: pieno e legittimo diritto di vendicare il padre, ma
anche la colpa da espiare.
52
Cf. già Iliade (l.XXII): la madre di Ettore dall’alto delle mura di Troia aveva fatto così con il
figlio pronto ad affrontare l’impari lotta con Achille. La giustizia del koinòn/polis vince sulla giustizia
privata ed anche le Erinni diventano benevole, mentre in Esiodo erano le uniche a sopravvivere dopo la
vittoria di Zeus, principio di giustizia. Teologia e cittadinanza coesistono in Eschilo (cf. anche Prometeo
incatenato; Supplici, Perodo, Strofe IV; Antistrofe IV; Strofe IV). In Sofocle il dramma della sofferenza
provocata dalla conoscenza si sposterà all’interno dell’uomo. In Euripide il dolore, conseguenza della
finitudine umana, diventerà esigenza di andare oltre, relativismo sofista.
53
Sarà assolto da un tribunale cittadino e con la sconfitta delle Erinni si spezzerà il cerchio della
vendetta familiare. Il tormento di Oreste, perciò, non terminava a Delfi (da Apollo), ma ad Atene (da
Atena, nata senza madre).
54
Ciò, però, è in contrasto con altro detto siciliano «U jabbu accogghi a jastima no».
55
Tornando dalla Tauride con la sorella Ifigenia, Oreste rinsavirà con un’abluzione in una
fiumana formata da sette fiumi, o in sette fiumi scaturiti da una sorgente: Probo, Proemio alle Bucoliche,
in Servio, Commentarii in Virgilii Bucolica, ed. Thilo, Milano 1987, vol. III, p. 1.325-326.
56
Probo, Proemio alle Bucoliche, in Servio, cit., vol. III, pp. 1.325-326. La notizia sembra
inesatta. Lucilio, cit. in Probo; Silio Italico, Punica, XIV, 259.
49
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Facellino, sulle cui rive sorgeva un tempio a lei dedicato, poi, è individuato nella zona
di Capo Peloro, ad est oppure ad ovest di Milae, l’Artemision, dove Appiano localizzava anche l’episodio dei «buoi del Sole». Lo scoliasta di Teocrito, perciò, racconta che
Oreste, passato in Sicilia, è giunto ad occidente di Mylae, presso Tyndaris.57 La dipendenza dal nucleo di Messeni, colonizzatori di Tindari, però, sembra l’origine e la causa
della diffusione della leggenda di Oreste nella zona dello Stretto. Il culto di Oreste,
inoltre, era diffuso anche in Epiro e nell’Illiria. Un tempio di Artemide Facelitide, poi,
era operante nel Lazio, ad Aricia. L’Arcadia, comunque, era uno dei principali centri
del culto di Oreste.
Il racconto si inserisce nel genere dei nostoi (ritorni) degli eroi greci e troiani:58
soprattutto la leggenda troiana fra i Choni di Siri (sec. VII) e fra gli Elimi si ritrova in
Sicilia, localizzata presso una popolazione indigena insediata anteriormente all’inizio
della colonizzazione greca, soprattutto nella parte occidentale dell’Isola.59 Nei racconti
dell’origine troiana degli Elimi, poi, fa intervenire anche Enea/Elimo,60 colui che da
vinto “ritorna” in Sicilia e, assieme a Egesto, approda presso i Troiani di Sicilia.61 È
l’ideologia che avrà il suo apice nel 215 a. C., allorché Elimi e Romani trovavano una
loro salda unione nel culto di Afrodite Ericina introdotta nel Campidoglio.62 Enea era
salpato verso l’Italia accompagnato dall’acarnano Patrone di Tirio e questi con i suoi
compagni aveva fondato Alontion. Enea, invece, dapprima era approdato in Sicilia, ma
poi aveva costeggiato l’Italia ed era stato spinto dai venti a Drepanon (Trapani), dove
aveva ritrovato Egesto ed Elimo.63
3. Le Favole di Esòpo
La visione drammatica della vita quotidiana della nuova popolazione siciliana
era alimentata, oltre che dalla rappresentazione, anche dall’anteriore prospettiva teoVibio Sequestre, s.v. Phacelinus; Teocrito, Scolia, ed. C. Wendel, Leipzing 1914, pp. 234235; Appiano, Storia romana, V, 116; Scol. in Teocrito, Prolegomeni, II.
58
J. Berard, La Magna Grecia, cit., pp. 323-379.
59
Stesicoro faceva approdare in Italia i profughi troiani; anche Elladico (sec. V) parlava della
partenza da Troia di Egesto e degli Elimi, ma Tucidite (VI, 2, 3) precisava l’origine troiana: caduta
Ilio, un gruppo per sfuggire agli Achei, giunto in Sicilia, si stabiliva in prossimità dei Sicani e questi
prendevano il nome di Elimi e fondavano Erice e Segesta. Agli Elimi si univano i Focidesi, sbattuti sulle
coste libiche e ora sbarcati in Sicilia.
60
Il bastardo di Anchise, figlio di una nobile troiana (dalla Troade con altre due sorelle, vendute
da Laocoonte a mercanti) che in Sicilia aveva sposato un giovane troiano, compagno di viaggio, ed
aveva generato Egesto.
61
Dionisio Di Alicarnasso, Antichità romane, 47, 2; 52, 1-4; cf. con differenze anche Virgilio,
Eneide, I, 550; V, 35 ss.
62
Diodoro, Bibliotaeca storica, IV, 83; Strabone, Geografia, VI, 272 = 2, 6.
63
In vetta al monte Elimo/Erice, l’eroe aveva consacrato un altare ad Afrodite. La leggenda
troiana così si legava al culto di Afrodite e all’Arcadia, per i vincoli di sangue con le popolazioni
preelleniche insediate nell’Ellade.
57
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logica estrinsecata soprattutto nelle riflessioni di Esòpo, Omero ed Esiodo. Nel mondo
subalterno, in particolare, si affermava l’ampia e durevole tradizione della favola: una
filosofia etica divulgativa, elementare per gente incolta (scarsa complessità, facile intelligibilità, semplicità di stile e funzione educativa).64
3.1. Prima di Archilogo,65 Esòpo raccoglieva un corpus di favole animalesche.
La favola, elaborata collettivamente e oralmente, era breve (aìnos), semplice e spesso
banale, quale contrario della lirica. Si trattava di naturale atteggiarsi analogico del pensare per comprendere: «Tu assomigli a […]». Constatata la feroce ingiustizia che dominava nella società umana, il nostro protestava contro la violenza, esternava la rassegnazione di fronte alla fatalità della condizione servile per non peggiorare la situazione con
gesti inconsulti.66 I complicati comportamenti della società, basati su rapporti di forza e
sull’astuzia, infatti, erano ritenuti radicati nelle leggi naturali e quindi immutabili.
La favola, perciò, intendeva insegnare la prudenza e la tenace laboriosità, per poter sopravvivere perchè la vita umana è brutta e penosa, specie quando la menzogna è
preferita alla verità. Quanto, poi, è assegnato a ciascuno non è modificabile: il Destino
è più potente di ogni sollecitudine. L’uomo può solo prepararsi prima che i pericoli lo
sovrastino.67 Per questo non deve rattristarsi quando è colpito da disgrazie perchè cio
che la natura non insegna dalla nascita non si conserva a lungo.68
Come già affermato nei proverbi, occorre trovare conforto nei mali: «Ti ringraziu patri Giovi»; «Megghiu lepru ca majali» (Il topo di città ed il topo di campagna).
Per gli uomini maledetti dagli dèi, però, nessun elemento della natura (terra, aria, acqua) è sicuro. L’indole dei malvagi, poi, spesso è rivelata anche dall’aspetto fisico. Le
Composizione orale tra i sec. VII e VI (Solone ad Atene, Alceo a Mitilene, Tirteo a Sparta)
e scritta a partire dalla fine del sec. IV (Socrate, Demetrio Falereo), nei sec. V-IV era considerata un
genere di letteratura inferiore: A. La Penna, Introduzione, in Esopo. Favole, Mondadori, Milano 1996,
pp. V-XXX.
65
Cf. Lirico di Paro (sec. VII); favola gnomica (sec. VII-VI); Eschilo (Mirmìdoni, fr. 139: aquila
constata amaramente di essere stata ferita con una freccia costruita con una delle sue penne); Sofocle
(Aiace, 1142-1158); Aristotele (Retorica, II, 20: uso politico dei paradéighmata, certi comportamenti
umani); Aristofane (Uccelli, 474 ss.); Callimaco (Giambi); Erodoto (I, 141: Pescatore parla ai pesci);
Platone (Alcibiade, 123a).
66
Es. Esiodo, Le opere e i giorni, Favola dell’usignolo e lo sparviero, vv. 202-212. Lo schiavo
della Tracia Pontica, viveva in una zona razziata da spregiudicati ed esprimeva l’adattamento alla
condizione durissima dello schiavo. Cf. Fedro, La cornacchia fuggitiva: «Se ora che non hai fatto
nulla di male patisci tutti i mali che mi hai detto, che ti succederà quando avrai sommesso il reato?».
L’asservimento si realizzava, poi, con la guerra: Tirteo (VII sec.), spartano, nella metà del sec. sottomette
i Messeni (II guerra Messenica) e li riconduce allo status di iloti (come asini sottomessi al basto: cf.
Esopo, Favola 411; Tirteo, fr.5) che, piangenti devono partecipare ai funerali dei padroni (Elegia, in
Pausania, Periegenesi della Grecia, l. IV).
67
ESOPO, CCLIX, Il viandante e la verità; CCLXII, Gli asini che si rivolsero a Zeus; CCCVII, I
figli della scimmia; CCCXXVII, Il cinghiale e la volpe.
68
«Nudi siamo nati e nudi ce ne andremo dal mondo»: ESOPO, CCCXLIII, Il cavaliere calvo.
64
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sventure altrui, comunque, permettono di trarre insegnamento.69 Gli esseri umani, per
quanto tormentati dalla sfortuna, sono comunque attaccati alla vita. Unico rimedio
alla morte è l’assenza di dolore: in tal modo è sopportata più facilmente.70 Anche da
morti, comunque, l’uomo può vendicarsi perché la giustizia divina pesa ogni azione e,
implacabile, colpisce in un momento imprecisato empi, audaci ed orgogliosi.71 Sono
naturali vittime delle sventure anche coloro che abbandonano le proprie condizioni di
vita e assumono quelle che a loro non si convengono. I propri guai, inoltre, sono originati anche dagli inganni orditi contro gli altri.72 Contro chi ha deciso di fare del male,
inoltre, a nulla vale una giusta difesa: come dice il proverbio «Cu pecura si fa, u lupu
sa mancia» (Esopo, CCXXI, Il lupo e l’agnello). L’aculeo della sofferenza, poi, è più
terribile quando è provocata dai propri congiunti.73 Nelle disgrazie, inoltre, è messa
alla prova la sincerità degli amici.74
Le diseguali condizioni/sorti di partenza, però, sono compensate dalla solidarietà: «Anchi lu liuni appi bisognu di lu surici», afferma il proverbio. Per questo chi
incappa nelle sventure deve adoperarsi per trarsi d’impaccio e chiedere aiuto alla divinità;75 le difficoltà, poi, si dissolvono con il tempo.76 Contro i mali l’uomo può mettere
in atto alcune precauzioni: evitare il luogo in cui un episodio doloroso si è verificato;
vivere in povertà e in tranquillità; non frequentare la compagnia dei malvagi.77 I guai,
ESOPO, XLI, L’assassino; CCLXXVIII, L’asino e le cicale; CCIX, Il leone, l’asino e la volpe;
CCCXI, Il pastore e il mare; LIV, Il cieco; CCCX, Il ricco e le prefiche.
70
ESOPO, LXXVIII, Il vecchio e la Morte [Thànatos]; CLXXIII, Il cigno preso per un’oca;
CCXXXVIII, La mosca.
71
ESOPO, CCXLIV, Il topo e la rana; CCLIII, L’uomo che raccoglie legna ed Ermes; CCCXX, Il
fiume e la pelle; CCICVIII, L’uomo che aveva ricevuto un deposito e Orco.
72
ESOPO, CL, Il granchio e la volpe; CXCIII, Il gabbiano e il nibio; XVI, La capra e l’asino;
CXXXVI, L’uccellatore e l’aspide; CCV, Il leone, il lupo e la volpe; CCLXX, L’asino, la volpe e il
leone. A nulla vale pentirsi dopo che si è verificata una disgrazia. Malvagi sono anche coloro che, spinti
dall’avidità del denaro, non esitano a speculare sulle sventure altrui: cf. Ivi, XLVIII, L’uomo morso da
una formica ed Ermes; L, L’uomo disonesto; LXXV, L’uccellino e il pipistrello; CIII, Il cervo e la vigna;
CCCX, Il ricco e le prefiche.
73
ESOPO, VII, Aquila trafitta; CCCXLVII, La rondine e il serpente; CCLXXXV, L’uccellatore
e la pernice; XXI, I galli e la pernice; CXXXII, Il tonno e il delfino; LXXX, Il contadino e i cani;
CCLXX, L’asino, la volpe e il leone.
74
ESOPO, CCLIV, Il viandante e l’orso; CCLVI, I viandanti e la scure; XXXI, La volpe e il rovo);
LII, L’uomo brizzolato e le sue amanti).
75
ESOPO, LIII, Il naufragio; LXXI, Il bovaro ed Eracle; CCXIX, Il lupo orgoglioso della propria
ombra sbranato dal leone; CCXLIII, Il topo di campagna ed il topo di città; CCCXVII, Il pastore
che fece entrare un lupo nella stalla e il cane; CCCLVII, La pulce e l’uomo. Gli uomini, infatti, sono
responsabili in prima persona delle loro sciagure e quindi è da stupidi dare la colpa agli dèi (Ivi, CIX,
Le querce e Zeus; CXXXXI, L’eroe; CCLXI, Il viandante e la Fortuna; CCLXXI, L’asino e le rane).
76
Mentre i beni non si ottengono rapidamente, i mali invece colpiscono ogni giorno, perciò si
deve tenere presente che la sorte muta con facilità (ESOPO, CCCVIII, I naviganti; I, I beni e i mali; XXX,
La volpe dal ventre gonfio).
77
ESOPO, IX, Usignolo e rondine; CCXLIII, Il topo di campagna e il topo di città; CCCXVII, Il
pastore che fece entrare un lupo nella stalla e il cane; CCCLVII, La pulce e l’uomo.
69
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P. Pio Sirna
comunque, sono come la tempesta: inevitabilmente, si scatena dopo molta bonaccia.
Vista la mutevolezza della vita, perciò, non dobbiamo abbandonarci alla perenne gioia:
il dolore/sofferenza è fratello della gioia.78
3.2. Nel mondo latino era il tracio-romano Fedro (20/15-41/68) a far diventare il
noto modo di vivere degli animali tipologico (etologia): la filosofica pazienza dell’asino, la scaltrezza della volpe, il tradimento dei felini, ecc. erano i millenari comportamenti di un intero popolo.79 Lo schiavo, «piccolo poeta», si emancipava dalla cultura
di Esòpo80 e dava valore universale al racconto: conciso (brevitas), garbato e divertente
(I, Prologo), con il buon senso riportava gli uomini sulla retta via.
Le sue considerazioni, espressione di un uomo deluso, scettico, privo della speranza di un suo riscatto,81 propongono la netta contrapposizione potenti/umili, ricchi/
poveri determinata dalla Fortuna. Gli innocenti, infatti, sono schiavizzati con falsi pretesti (I,1: Il lupo e l’agnello). Giuste, perciò, le lagne di colui che nelle sue speranze era
deluso: la speranza delusa era trasformata in lamenti. Gli altolocati, tuttavia, devono
temere la vendetta degli umili.82
Nella perenne mescolanza di fatti dolorosi e gioiosi,83 unica filosofia di vita è
dunque: 1) accontentarsi dell’indispensabile; 2) reggere il male presente perché non ne
capiti uno peggiore; 3) rafforzare quanto la Fortuna manda.84
4. I Proverbi
Il genere letterario “favole” travasa spesso in quello dei “proverbi”. Anche il
problema della sorte/fortuna è un tema catalizzatore di quest’altro popolare genere
ESOPO, XXIII, I pescatori che pescavano pietre; CXXVIII; CCXXVI, Il lupo e il cane; CCXXII,
Il lupo e l’agnellino che si rifugiò nel tempio.
79
Cf. Dionisio Di Alicarnasso, Antichità romane (VI, 48-49; 83, 2); Livio, Storia di Roma, II,
32, 8-12; Menenio Agrippa, Ennio, Plauto (Aulularia, II, 2,52-59; Adelphi, IV, 1, 21: lupus in fabula),
Terenzio (Stichus, IV, 1,71), Orazio (Satire, II,6, 79-117: Il topo di campagna e il topo di citta; II, 314320: Rana; Ep, I, 7,29-33: Donnola e volpe), Lucilio , Ovidio (Fasti, IV, 703-710), Giovenale (Satire,
VI, 361; XII, 34,80); Balio, ecc.
80
Forse di lingua greca, Phaìdros giungeva a Roma da fanciullo e dopo aver studiato Ennio (a
Filippi o a Roma) entrava tra la servitù di Ottaviano Augusto († 14 d. C.), diveniva poi paedagogus e
quindi liberto. Era perseguitato da Seiano, ministro di Tiberio († nel 31). I cinque libri di Favole ne
contengono almeno 102 autentiche.
81
Sono autobiografiche: Fedro, I, 10. 27; III, Prologo, 41-44; III, 1-5. 11-13; IV, 11; V, 10.
82
Fedro, I, 28: La volpe e l’aquila; V, 6: Il calvo e un tale spelacchiato; III, 18: Il pavone si
lamenta con Giunone per la voce.
83
Fedro, IV, 18: I casi della vita; La volpe e la cicogna, I, 26; II, 6: L’aquila e la cornacchia; III,
16: La cicala e la civetta.
84
Fedro, Rane chiedono re: I, 2; Fati miseria, IV, 1: L’asino e i galli. Non è da giudicare l’uomo
per il suo passato: cf. Fedro, La donna partoriente, I, 17. I; IV,11; Il ladro e la lucerna; I, 17, La pecora,
il cane e il lupo; La rana che scoppia e il bue, I, 24.
78
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letterario:85 la vita pone gli uomini in posizione diseguale. Il realismo e la maturità, lo
stile di vita, dunque, consistono nell’accontentarsi della propria fortuna; nel trovare
conforto nei mali; avere coscienza dei falli e delle miserie della vita e delle comuni
condizioni dell’umanità. Alle alterne vicende della vita seguono la costatazione dell’ineludibilità della morte e la certezza di poter sperare in Dio.
La sorte/fortuna non è determinata dalla razionalità umana («Quannu la forza
alla raggiuni contrasta, vinci la forza e la raggiuni nun basta») e la riuscita/non riuscita
di un progetto di vita e di un’azione non dipendono dalle capacità personali («Cu bon
ventu, ognunu sapi navigari»;86 «A lu poviru ci chiovi l’acqua o parmentu»; «Quannu
li leti mancianu, li misìri cucinanu»).87 Gli errori comunque si ripercuotono anche su
consanguinei e amici («A rama pecca e l’arbiru ricivi»).88 Le diseguali condizioni/sorti
di partenza però, sono compensate dalla solidarietà («Anchi lu liuni appi bisognu di lu
surici»; «Anchi lu riccu havi bisognu di lu poviru»).89
Regola di vita è dunque: 1) accontentarsi della propria sorte («Cu nun pò fari
comu voli, faci comu pò»);90 2) trovare conforto nei mali («Tagghia cu lu tagghiu e
medica cu lu cozzu»; «Mentri cc’è ciatu cc’è speranza»; «Nun cc’è mali senza rimediu»; «Nun cc’è duluri ca cu lu tempu nun passa»; «Né tuttu lu beni giuva, né tuttu lu
mali noci»; «Ti ringraziu patri Giovi: megghiu lebbru ca majali»);91 3) avere coscienza
Cito di seguito solo i proverbi con chiara dipendenza contenutistico-letteraria greco-latina. I
testi in: G. Pitrè, Proverbi, ed. Clìo, S. Giovanni La punta 2003, pp. 362-366. 144-146. 168-187. 197200. 212-226, 371-376. 512-534.
86
Cf. anche «Vintura bona chi nun è pinsata, junci cchiù grata»; «Unni tantu a siccu, unni tantu
a saccu»; «U scattru mori a manu di un fissa»: cf. Ovidio, Tristia, V, 7; Orazio; Seneca.
87
Cf. anche «A stu munnu, tutti cosi cci voli fortuna, anchi a frijri l’ova»; «Fortuna è rota, sempri
vota e svota»; «La fortuna si la fa ognunu cu li so’ manu»; «Quannu lu lignu ciacca ognunu è mastru»;
«U furtunatu nasci ca cammisa»; «A cavaddu magru, muschi»; «A corda ruppa ruppa, a sciogghi cu nun
ci curpa»; «A cui leva, a cui duna lu destinu, ed è sempri ‘nfilici lu so donu»; «A li poveri, puvurtà, a li
ricchi, ricchizza»; «A lu muru vàsciu, s’appoianu tutti »; «A cui figghiu, a cui figghiastru»; «A mal’erba
crisci e ‘ntroffa»; «Anchi la reggina havi bisognu di la vicina»; cf. Ovidio; Orazio.
88
Cf. Orazio, Gli errori dei re sono scontati dai greci (Epistulae, I,2,14); così anche: «Autru
mancia l’agresta e a mia mi liganu li denti»; «Autri si mancianu li nuciddi, e iò m’arrascu li masciddi».
89
Esopo, Favole; Virgilio, Ode natalizia. Anche: «Cu pecora si fa, lu lupu sa mancia»; «Cu
zappa, bivi acqua, cu f[…], bivi a la vutti»; «Disgrazia di lu poviru nun veni mai a fini »; «La furca
è pi lu poviru»; «La jaddina fa l’ovu e a lu jaddu ci brucia lu culu»; «Lu cavaddu zoppu si luci a la
fera»; «Lu poviru simina, e lu patroni arricogghi»; «Lu munnu è rota, firrìa e vota»; «Lu pisci grossu si
mancia lu nicu»; «Munti cun munti nun s’ncuntrano mai, li cristiani du muddu nì ‘ncuntramu»; «‘Na
quartara ciaccata dura cent’anni, una sana sinni va»; «Ogni furmicula havi la so bili»; «Puru a pulici
havi a tussi».
90
Seneca: «Quod saepe fieri non potest, fiat diu», Edipo Cf. anche: «Chiddu chi si schifa, veni
tempu chi s’addisia»; «cu non po’ manciari carni, bivi brodu»; «Cui si contenta è riccu godi »; «Megghiu
lu tintu canusciutu chi lu bonu a canuscirisi»; «Megghiu picca a godiri, chi assai e trivuliari»; «Si
vuliti campari contenti / vutàtivi darreri e no davanti»; «Trivulu pri trivulu, mi tegnu a mé maritu ch’è
diavulu»; «Doppu lu cantu veni lu chiantu»; «Nnun cc’è luttu/mortu senza risu, cantu».
91
Ovidio: Tristia, V, 2; Rimedia amoris; Seneca, De consolatione ad Marciam, 1; Cicerone,
Ad familiares, IV; Esopo, Il topo di città ed il topo di campagna. Cf. anche: «Ad ogni chiavi cc’è la
85
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P. Pio Sirna
del castigo per i falli («Aria netta nun c’è paura di tronu»; «Mali nun fari paura non
aviri»;92 «Nun sempri ridi a muggheri di lu latru»; «Piccatu vecchiu, sentenza nova»);93 4) È importante curare la propria onorabilità, la buona fama («Megghiu moriri
chi campari ‘n virgogna »);94 5) accorgersi delle miserie della vita e delle condizioni
dell’umanità («La vita di l’omu nun sempri è uguali»; «La butti di l’acitu nun finisci
mai»; «Li disgrazii nun venunu mai suli, ma a dui a dui»; «Nun cc’è beni senza peni,
nun cc’è meli senza feli, nun c’è meli/rosa senza muschi/spini»; «Ogni lignu havi lu
so fumu»; «O ti manci sta minestra, o ti jetti da finestra»; «Passanu l’anni e vòlanu li
jorna»; «Lu munnu nun pò vèstiri ad unu, si nun spogghia a n’àutru»; «Li cosi di lu
munnu su’ attaccati a un filu di capiddu»; «Tutti semu sutta lu celu»).95
La vita dunque è un alternarsi di felicità/infelicità, bene/male, piacere/dolore
(«Cui bonu sedi, malu pensa»; «Miata cu ‘havi jardinu e cogghi rosi»; «Troppu caru è
ddu meli, chi si licca di li spini»; «Nuddu si lamenta si nun si doli»; «Tutti li cuntintizzi
Diu nun duna ‘ntra ‘na vota»).96 Solo la morte è ineludibile («Ad ogni duluri rimedia la
morti»; «Sulu alla morti nun c’è rimediu»; «La morti nun guarda ‘n facci a nuddu»).97
Il ricorso a Dio, però, dona Speranza98 («Diu chiudi ‘na porta e japri un purticatu; afso formatura »; «A tutto c’è rimediu, fora di la morti»; «Bonu tempu e malu tempu,nun dura tuttu un
tempu»; «Dopu lu scuru si spera la luci»; «Quannu si cunta è nenti».
92
Seneca, De vita beata, 5; Ovidio; Orazio, Epistulae 1,1. Ad esempio anche: «Cu arma havi,
arma cridi»; «Cu sputa ‘ncelu, ‘facci ci arriva»; «Cu’ u so nasu si tagghia, a so facci si smenna»; «Fa
beni e scorditi, fa nali e pensici»; «La cuscenza l’havi lu lupu,chi si mancia la pecura senza sali»; «U
lupu di mala cuscenza, chiddu chi fa pensa»; «La prima si pirduna, la secunda si cunduna, ma la terza si
bastona»; «Lu frumentu s’annettacu lu ventu e li vizii cu lu turmentu»; «Lu mali è pi cu’ lu fa, lu beni
pi cu lu ricivi»; «Ogni ruppu veni a lu pettini»; «Sutta lu ponti di milazzu c’è scrittu, fui quantu vò ca
t’aspettu»; «Tantu joca lu cani cu la pezza, fin’a quannu la strazza»; «Tantu va la petra alla quartana,
fin’a quannu la ciacca»; «U jabbu accogghi, a jastima no».
93
Fedro; Sallustio; Ovidio.
94
«La paci di lu cori vali cchiù di li ricchizzi di lu munnu»; «Mala fama, previdenza»; Tacito:
Vita di Agricola, 33; « Quantu va lu bonu nomu, nun vannu li ricchizzi di lu munnu»; (Seneca Il Vechio,
Sentenze; Plauto, Mostellaria).
95
Seneca; Orazio; Properzio; Cicerone, Tusculnae V,41; Ovidio; cf. anche: «Aspittari e nun
viniri, jiri a tavula e ‘un manciari, jiri a lettu enun dormiri, su’ tri peni di muriri»; «Chianci e ridi:
stuppagghiu i varrili!»; «Lu celu mi jittau e la terra m’apparau»; «Nun si po’ aviri a butti china e
la muggheri nbriaca»; «Prima di nasciti lu munnu, nascìu lu fini»; «Pr’un jornu d’alligrizza, milli di
scuntintizza»; «Quannu l’alligrizza è ‘ncasa, la disgrazia è arreri a porta»; «Quannu lu boi è o macellu
tutti currunu cu lu cuteddu»; «Ridi ppi nun chianciri»; «Unni c’è pecora, c’è lana».
96
Ovidio; Orazio, Epistulae, 1,2,55; Cicerone; Tacito; Omero, Odisseo. Cf. anche: «Cu nun
pati, nu ‘nsigna»; «Du mali veni u beni »; «Li guai di la pignata li sapi la cucchiara chi la rumina»; «Li
guai su di cui l’havi».
97
Orazio; Virgilio; cf.: «Cu pensa a lu catalettu, meddi di latu ogni dilettu»; «Dopu la morti nun c’è
cosa bona»; «La morti è sonnu rifriscu e riposu»; «Megghiu bonu mortu, chi malu vivu»; «Megghiu vivu
sbriugnatu, chi mortu dicantatu »; «Megghiu testa pilata, chi crozza sutta ‘a balata»; «Morti addiasiata, ‘un
veni mai»; «Oggi ‘nfigura, dumani n’sepultura»; «Pi cu mori finisci lu munnu»; «Quannu è junta l’ura, ‘un
cc’è medicu né vintura»; «Quannu lu liuni è mortu, li lepri cci sautanu di supra»; «Si sapi quannu/unni si
nasci, ‘un si sapi quannu/unni si mori»; «Tintu cu mori, ca cu’ resta si marita».
98
Esiste anche il suo contrario: «Cu di speranza campa, discpiratu mori».
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fliggi, ma nun abbannuna; cu’ na manu punci, ma cu l’autra unci; è lu re di li re»; «Lu
pintimentu lava lu piccatu»).99
5. Elementi di toponomastica
Altri segni del ricco patrimonio culturale si riscontrano ancor oggi nella toponomastica.100 Prendiamo in esame qui solo quegli elementi che, nella zona, sembrano più
attinenti al nostro tema.
Nel nostro ambiente particolare attenzione è rivolta al corpo del defunto: la ritrovata moneta di bronzo in bocca è il segno dell’obolo da pagare a Caronte.101 Chi
era privo della moneta doveva attendere in eterno sulla riva, se però riusciva a fuggire
a Ermès/Mercurio, la guida, poteva entrare da un ingresso secondario.102 Anche sul
Monte Giove era praticata l’inumazione ad enchitrismòs, così come il sito librizzano
Acquaverni rimanda all’Avernus, il latino ingresso agli inferi di Cuma, sacro a Plutone
(Ades greco).103 Le divinità infernali sono richiamate pure dal sito librizzano Furio,
rimando alle latine Furie/Erinni greche.104 Il tema del pianto, inoltre, è richiamato indirettamente dal sito Fetente: la piangente sorella di Fetonte, personificazione del Sole e
fratello di Fetusa (fulminato da Zeus per non aver saputo guidare il carro del sole) era
trasformata in pioppo. Il sito Plaia, forse deformazione di Maia, richiama invece una
delle Pleiadi, le suicide per la morte delle sorelle Iadi, mutate in stelle (poste nel segno
del toro, sorgono a maggio e tramontano a novembre).
Virgilio; Ovidio; Seneca; Cicerone.
G. Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, 2 vols., Centro studi filologici e linguistici
siciliani, Palermo 1993.
101
Il traghettatore su barca nera delle ombre, entrate nel Tartaro da un bosco di bianchi pioppi,
sacri a Persefone (rigenerazione) e ad Heracles (dodicesima fatica, sceso negli inferi per catturare e
incatenare il cane Cerbero).
102
Ermes era messaggero degli dèi e psicopompo nell’Averno, ma anche il dio dei pastori. Il
costruttore della lira con un guscio di tartaruga ed alcune nervature, infatti, riusciva a far svanire l’ira del
fratello Apollo, al quale aveva rubato sui monti della Pieride 50 tra le più belle giovenche appartenenti
agli dèi. Nell’accordo il dio fratello, però, si predeva la lira ed Ermes diveniva guardiano delle giovenche
celesti: Omero, Iliade, VIII, 368; Esiodo, Teogonia, 311; Virgilio, Eneide, VI, 140.299.
103
Al rapitore di Persefone era sacro il numero due e si offrivano rami di cipresso, prezzemolo,
narcisi e testicoli canini.
104
In possesso di un alito mortifero e di serpi per capelli, erano ministre della vendetta contro
i colpevoli (assassini, specie parricidi), incaricate dell’esecuzione delle sentenze emesse dai giudici
infernali. Nere quando sdegnate, si offrivano loro pecore e tortorelle. Erinni fu apostrofata anche
Demeter/Proserpina/Cerere per indicare il furore che l’aveva pervasa, quando Posidone stava per
violentarla e si era trasformata in veloce cavalla.
99
100
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P. Pio Sirna
6. Montalbano Elicona e il Proemio (vv. 1-115) della Teogonia105 di Esiodo
6.1. Il territorio di Montalbano Elicona, limitrofo a quello di S. Piero Patti (oltre
che a quello di Librizzi e di Patti) tramite la c.da Quattrofinaidi (quattuor fines),106 era
posto in stretto rapporto commerciale con Tyndaris-Abaceno. A Pétra e nella c.da Rocche, infatti, confluivano molti lavoratori del marmo.107 La denominazione Elikòn già
presente nel sec. IV a. C., sembra derivata dal mitico monte della Beozia, ritenuto sede
di Apollo e consacrato alle Muse. Vi scaturivano le mitiche fonti Aganippe e Ippocrene. Il suo culto sembra attestato dal sito Losi (losa, mandorla). Apollo Pitico, infatti,
era appellato anche loxio per l’oscurità dei suoi oracoli. Pitici, poi, erano i quadriennali
giochi ellenici celebrati per il dio presso Delfi con gare ginniche, equestri, musicali.
I vincitori erano premiati con una corona di alloro. La pianta, richiamata dalla c.da la
Scala del Lauro (dafne), era sacra ad Apollo, il dio che dirigeva il coro delle Muse, sue
seguaci. La citata zona Losi (loxòs, obliquo, bieco, torto), inoltre, potrebbe riprodurre
un altro epiteto di Apollo (colui che ha il corpo obliquo) per l’abiguità dei suoi oracoli.
Elicona, però, era anche il fiume della Macedonia, le cui acque s’interravano per
impedire alle donne che avevano ucciso Orfeo di purificarsi le mani. Le diverse c.de
Pantano della zona potrebbero richiamare questo fenomeno, così come il monte Arcimusa sembra ricollegarsi a questa matrice culturale quale dipendenza da artemisia, o
forse da Acherusia, la palude d’ingresso all’inferno che darà nome a paludi, caverne,
laghi in Italia (specie Campania), in Grecia e in Egitto. Arcimusa, comunque, potrebbe
derivare anche da Archemoro/Ofelte, il figlio di Euridice e di Licurgo, re di Nemea.108
Il Monte Argimusco, inoltre, ospitava le Megaliti e costruiva una tappa importante
lungo il tragitto Alcantara-Tindari; qui vi sono sculture di aquila e sembra anche un
probabile insediamento militare romano.
Prima di ritornare al mito di Orfeo, è interessante notare come la c.da Melizzo
possa rimandare a Zeus tramite il derivato Melisseus (relativo alle api, epiteto del dio),
o Melissa, una delle ninfe che aveva allattato il signore degli dei e che, scoperta l’utilità delle api, aveva insegnato l’uso alimentare del miele.109 Riguardo a Orfeo, poi,
L’opera differisce per impianto narrativo e funzione dall’Iliade e dall’Odissea: più che
espressione del genere epico-eroico, appare come una tradizione multiforme plurisecolare tendente a
descrivere l’incrocio tra il genere epico – didascalico e quello epico – genealogico e si prefigge di spiegare
e descrivere l’origine del mondo fisico e divino da Caos fino al dominio dell’ordine olimpio di Zeus.
106
Era stato colonizzato nei sec. VIII-VII a. C. dai Dori che avrebbero dato all’insediamento il
nome dell’Helikon.
107
Il territorio era invaso dai Siculi nel sec. X a. C. Era attraversato dalle legioni romane di
Ottaviano, nella citata guerra contro Sesto Pompeo.
108
Nella foresta nemea la nutrice di Archemoro per indicare ai Greci una fonte a cui dissetarsi
depositava a terra il bambino ed un serpente lo aveva ucciso. In sua memoria i Greci istituivano i triennali
giochi Nemei, tenuti nell’omonima valle, anche in onore di Zeus, nell’occasione invocato Nemeo, tra le
città di Cleone e Fliunte, e consistenti in gare ginniche, atletiche, equestri musicali e poetiche.
109
Melisseo era anche il padre di Adrastea e di Melissa. Altra dipendenza potrebbe ritrovarsi in
melizo (smembrare, fare a pezzi).
105
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occorre ricordare che il figlio di Apollo e di una Musa (Clio o Calliope) era un ottimo
suonatore di cedra a tal punto che alberi, piante e sassi gli correvano dietro (frane?),
i fiumi si infossavano (pantani, gorne, ecc.) e le belve si riunivano attorno per ascoltarlo. Orfeo, inoltre, partecipava alla spedizione degli Argonauti (tema comune a Tyndaris per Castore e Polluce) e alla morte della ninfa Euridice (morsa da un serpente)
riusciva ad ottenere da Ades e Persefone la restituzione della sposa.110
Non si può dimenticare comunque la denominazione Albano, il monte abitato
dai sacerdoti romani addetti al culto di Marte Gradivo, detti anche Salii. Alba, comunque, era la nota città del Lazio, così denominata per la scrofa bianca trovata mentre
allattava 30 piccoli nella zona ove Ascanio (figlio di Enea e di Creusa) l’aveva fondata
32 anni dopo la distruzione di Troia. Meno probabile sembra il derivato Albus, bianco,
mentre se dipendesse da àlvanu indicherebbe il pioppo nero o bianco, o da albarus, un
suo derivato, il frassino. Non sembra infine da trascurare la dipendenza di Albano dal
romano Sesto Nonio Albano, latifondista di Tindari.111
Un richiamo al bianco, comunque, potrebbe venire dal sito Scirone (skleròs,
duro) derivato dalle Schiroforie, le feste ateniesi. Erano celebrate in onore di Atena
il 12 del mese di Scìroforion (giugno-luglio) con una processione di sacerdoti e sacerdotesse riparate dal sole con un grande ombrello bianco (skiron). Il termine skìros
rimanda al vento delle rupi, oppure a Scirone un famoso brigante operante tra Corinto
e l’Attica e ucciso da Teseo; nel lago Sciro, inoltre, nell’Attica alla foce del Cefiso,
veniva sepolto il profeta di Dodone Sciro, amico di Teseo, costruttore di un tempio a
Minerva Scira e morto combattendo contro di Ateniesi.112 Il quartiere Sciro, infine, si
trovava presso il tempio di Atena e godeva di cattiva fama.
Ancora di derivazione latina sembrano le c.de Cugno del Finocchio (fenuculum),
della Calcara (calcaria) e Curma del Canalotto (culmen). Fontana d’Ercole ricorda,
inoltre, i noti racconti113 e i monti Gennaro e Gianazzo, a sua volta, si ricollegano al
primo mese dell’anno, iconograficamente rappresentato con la figura di Giano, considerato spirito di ogni porta (januae), d’ogni inizio.114 Anche il Piano del Cardone, perciò, potrebbe riferirsi a cardus o a Cardea, la divinità romana dei cardini delle porte,
custode della casa e della famiglia. La Grutta della Sac(r)esa, invece, potrebbe derivare
da salsa, vulcanello che emette argille con acqua salata. Come la zona Mancina sembra derivare dal latino mancinus, così Sorbera rimanda al tipico frutto che nel mondo
L’impresa falliva perché durante il viaggio l’amata contravveniva alla condizione posta:
non voltarsi indietro. Orfeo, persa Euridice, diveniva avversario accanito delle donne e per questo
perseguitato da Baccanti e Menadi e sbranatu durante un rito dionisiaco. Da qui derivavano i noti
ministeri orfici.
111
G. Pantano, La vera storia del nome ‘Montalbano’, in «Montalbano notizie» (1998), pp. 11-13.
112
Ovidio, Metamorfosi, VII, 443.
113
Omero, Iliade, I, 406; Odissea, XXIV, 60; Esiodo, Teogonia, 35.915; Diodoro, Bibliotaeca
storica, l. IV, 2. Interessanti sono anche i toponimi: Serra Pellerina, Larderio, Braide.
114
Si riteneva che aprisse e chiudesse tutte le porte. Come dio delle porte era denominato
Patulcius e Clusius.
110
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romano riteneva sacro quel giavellotto di legno (di sorbo), lanciato con bravura da
Romolo e ficcatosi così addentro nel terreno da non potersi più estrarre, da cui sorgeva
un tronco di sorbo. Pulvirello, poi, potrebbe derivare da Pulvini (pulvinus), i cuscini
sui quali posavano i latini durante sontuosi banchetti, detti Lectisternia, offerti alle
divinità.115 Tali celebrazioni avevano preso avvio a Roma dopo l’introduzione delle
divinità e dei culti greci.
La c.da Zotta della Truglia rimanda all’ambiente pastorale e con il latino turgère
indicherebbe il divenire turgido, grasso e sodo, paffuto. La dipendenza da trux, -ghòs,
rimanderebbe invece al mosto di Dioniso/Bacco. Analoga indicazione verso uno stato
di ebrezza si potrebbe individuare nella c.da Zittà (zùthos), decotto d’orzo, una specie di birra (cervogia). Anche la c.da Ginestrito rimanderebbe al latino ginestra, così
come la c.da Capriola (capreolos, capra selvatica, o kàprios, cinghiale), epiteto della
latina dea Giunone (Era greca) a motivo di caprini sacrifici. Anche il sito passo/acqua
del Gamello (ghàmos, nozze), probabile derivato da Gamelia (nuziale), rimanderebbe
all’epiteto di Era/Giunone, protettrice dei matrimoni. Le Gamelie erano feste ateniesi
di gennaio durante le quali si celebravano numerosi matrimoni. La stessa radice avrebbe ghémellos (gemello), Garaghello (Xàrax,-kos, palo, palizzata, campo recintato, o
chàrakas, una greca zona di burroni), mentre Laccanà da lachanàs (erbivendolo, ortaggio, verdura) e/o Lacanà da laxàne, (catino, bacino), o da lékanos (boccale), così
come Basilotta da basìles (regale). Il quartiere Comito (kòmitos, conte) potrebbe avere
la sua derivazione da Cometo/Pterelao,116 la cui figlia Corneto, gli strappava il capello
d’oro e l’assediante di Tafo, Anfitrione, re di Tirino (figlio di Alceo e marito di Alcmena), riusciva a vincere la città. Un altro legame con la tradizione troiana potrebbe
ricercarsi nella c.da Scibé, quale derivato dalle porte occidentali della città, le Scee.117
Il sito Passo di Cumbesi potrebbe derivare da kòmpos (inganno), o kòmpos, (rumore), oppure da kùmbe (coppa, tazza, vasello) e il Passo delli Zaccani da sàkanon,
recinto. La zona Braidi, invece, potrebbe indicare i campi suburbani (perido longobardo), oppure, se dipendente da braìos/radios, un luogo accessibile, sollevato. Radio,
inoltre, era un figlio dell’Argonauta Neleo: ritiratosi in Messenia aveva governato Pilo.118 Corazzi/Corazzo (koràtes, kurasa, churactia), inoltre, potrebbe avere la sua derivazione da koraxòs, corvo nero, mentre quella di Costa di Parainì da paraineo (conNel tempio, le immagini degli Dèi erano stese su letti formati da cuscini e di fronte rrano poste
tavole imbandite di vivande a scopo propiziatorio; il popolo passava davanti recando rami di alloro
(sacro al citato Apollo) e pronunziando suppliche.
116
Il nipote di Posidone (dio del mare) era reso immortale a condizione che avesse conservato
un capello d’oro nascosto nella sua chioma. Cospiratore con Era e Atena per incarcerare Zeus, ma
condannato a vivere per un anno sulla terra, il dio del mare con Apollo costruiva per Laomedonte le
mura di Troia. Durante la guerra di Troia parteggiava per i Greci.
117
Dall’alto di queste porte le donne osservavano l’andamento della battaglia. Qui si svolgeva
l’incontro di Ettore con Andromaca.
118
Uno dei dodici figli avuti dalla sposa Clori era Nestore, scampato allo sterminio di Eracle.
Neleo era figlio di Posidone e della ninfa Tiro: Ovidio, Metamorfosi, XII, 530; Diodoro, Bibliotaeca
storica, IV, 31, 68.
115
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sigliare, ammonire, avvertire, esortare, ecc.). Per la derivazione di Nociara, oltre che
dalla noce, si potrebbe assumere anche quella di nòxios (notturno, oscuro, tenebroso).
6.2. Riprendendo il discorso sulle orgini di Montalbano Elicona ci accostiamo ad
Esiodo. Diverso per messaggio e stile rispetto ad Omero (sec. IX-VIII),119 per il quale
la povera gente era priva dei diritti pubblici e quindi, esclusa dalla partecipazione al
culto cittadino, il poeta continuava a vivere credenze e culti legati al lavoro dei campi:
i morti e la Madre Terra,120 il male e l’ingiustizia nel mondo pastorale e contadino. Signori aristocratici avidi e corrotti erano contrapposti a pastori ignoranti, poveri, pance
da riempire e destinatari di storie leggendarie. La Dike (giudizio morale sull’agire), figlia di Zeus, era trascendenza, introduceva nel mondo un nuovo ordine instaurato dagli
stessi dèi. Agli uomini perciò era affidata l’aretè (virtù) e l’animalesca violenza brutale
di Omero era superata.121 Teogonia,122 perciò, è la prima interpretazione del mondo alla
luce del bene e del male; i miti sono sostituiti da una visione etica della storia.
Nell’Inno premiale (1-104) alle Muse eliconie123 tutto il lavoro è doloroso (cf.
Gen 3,17) e la storia dell’umanità è una progressiva caduta (cf. Eschilo); alla fine,
però, la Giustizia trionfa. Per i contadini, condannati ad una vita di lavoro, «esseri immondi, ventre soltanto» (v. 26), la miseria è norma; abitano un mondo che odia e dispe-
Di fronte agli dèi l’eroe è impotente a mantenere la propria areté (virtù-valore) ed è solo nel
quadro della totalità. In Odissea (più che in Iliade) però Zeus pone il problema dell’umana sofferenza e
lo lega al nesso inscindibile tra destino e colpa (la telogia si risolve e si esprime nella filosofia); al Fato
(Moira), comunque, non si può sfuggire. L’ideale agreste, poi, è descritto nella sua austera moralità
della vita operosa, saggia e felice (moderazione, temperanza e vita ordinata in simbiosi con la natura),
nonostante sofferenze e ingiustizie.
120
Nella Terra risiedeva e si rinnovava il morire ed il risorgere (vegetazione e attività agraria);
Demeter era collocata ad Enna, centro dell’Isola, e con il raccolto della figlia Persefone tesseva una storia
di morte [inverno] / resurrezione [primavera] / morte. La vita oltre la morte era ombra (ricordo), non
felice e priva della speranza di un ritorno. Assente la trascendenza ed il concetto di anima/spirito (ma di
soffio/respiro: psuxè, che esce dal morente e lo rende ombra), il problema religioso trascendeva l’uomo
e il mondano (assenza del tema della creazione); il divino viveva incarcerato nell’uomo. In onore dei
defunti, perciò, si consumava la panspermia (cereali e legumi), pane sacro che arricchiva della forza
vitale contenuta nelle primizie. Tali aspirazioni saranno recepite nel sec. VII dal dio Dioniso, il culto
ufficiale della lega ateniese, portato in Sicilia dalla colonizzazione: la festa del raccolto, legato al ciclo
delle stagioni, trasformava il culto della fertilità in quello dell’immortalità dell’anima, anelata come vera
vita. Era partecipato attraverso i riti sacri (mysteria) nella speranza di una sorte migliore in un’altra vita.
121
Zeus era custode della Giustizia e dell’ordinamento morale ed il Fato trasformato in legge
morale regolato dal principio della retribuzione (meriti/demeriti).
122
Il testo di Esiodo si colloca in quell’età della colonizzazione (750-550) caratterizzata, nelle
omogenee cerchie aristocratiche, dall’affermarsi dell’individualità per la fame di terra e della sua
distribuzione (giustizia). Le teo-cosmogonie in prosa, comunque, cominciavano ad apparire a partire
dalla metà del sec. VI a. C.
123
Si conclude con riferimento al “lutto recente” dei figli di Amfidamante. Le Muse sono generate
«perché fossero oblio dei mali e ristoro dagli affanni» (v. 53); «Se uno, portando un dolore nell’animo
recente di lutto/afflitto prosciuga il suo cuore, ma un aedo/servo delle Muse canta le glorie degli uomini
di un tempo e gli dèi beati signori dell’Olimpo, allora subito dimentica le angosce né le pene/rammenta:
presto lo distolsero i doni delle dee» (vv. 96-103).
119
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ra, in una condizione bestiale dell’umanità, in contrasto con la purezza divina: pastori/
agricoltori, isolati, alienati dalla solitudine e dal caldo, estranei all’urbanizzazione,
posti in situazione lenitiva (vv. 55.61), sono capace di incontrare il soprannaturale.124
Nell’Inno, perciò, sono inglobati gli dèi olimpii; le Muse, figlie di Zeus e di Mnemosine, personificazione della memoria (v. 54), iniziano il poeta/filosofo, legittimano il
maestro di verità (a-létheia) e del ricordo (mnemosùne). Clio, Euterpe, Talia e Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia, Urania e Calliope, poi, sono invocate come Eliconie
(v. 1 ess.; 76-79) perchè risiedono sull’omonimo monte della Beozia. Chiamate olimpiàdes (v. 25) e trasformate da divinità locali in pan-elleniche, dopo il trionfo di Zeus,
sono trasferite sull’Olimpo, emblema della storia del mondo e degli dèi (vv. 881-885).
L’Elicona così è consacrato al culto delle divinità e della loro epifania.
Le Muse perciò: a) presiedono l’Elicona, il monte grande e divino (v. 2); b)
danzano intorno alla fonte dai riflessi di viola e intorno all’altare del figlio di Cronos
(vv. 3-4); c) con le delicate membra sono immerse nel fiume Permesso o nella fonte
Ippocrene o nel fiume Olmeio divino (vv. 5-6); d) intrecciano danze, amabili e belle
(vv. 7-8); e) si levano, avvolte da fitta nebbia, e avanzano nella notte cantando le lodi
alle varie divinità.125
Mentre Esiodo «pasceva gli agnelli alle falde dell’Elicona divino», le Muse iniziavano il poeta al «bel canto» (v. 22-23): «coglievano uno scettro, un ramo d’alloro
fiorito, meraviglia avedersi» e ispiravano al poeta «un canto divino». L’albero sacro ad
Apollo126 è posto nelle mani delle donne (divinità femminili asessuate) portatrici del
segno dell’investitura, mentre il poeta è interlocutore privilegiato e mediatore fra la
comunità dei mortali e il mondo divino. Il sito perciò diveniva il luogo dell’autentico
incontro col divino. I pastori «dimoravano nei campi, essere immondi, ventre soltanto», sperimentavano «il vero cantare»; superato l’aspetto bestiale, lo status di contadino isolato, estraneo al processo di urbanizzazione, incontravano il soprannaturale.
Nella mentalità popolare il “fare” dell’uomo, sopratutto pastore, è segnato da un
Zeus “a piacimento” interviene sulla vita degli uomini e determina il Destino (Le opere e i
giorni, vv. 3-8). Le cinque stirpi (vv. 106-2011) sono un progressivo deterioramento della condizione
degli uomini. In particolare la terza, di bronzo (vv.127-142), era costituita da gente mortale, «nata da
frassini [ek melian], potente e terribile […] avevano care le opere dolorose [erg’émele] e la violenza di
Ares» (vv. 145-146), mentre nella quinta, di ferro, mortali uomini si scagliavano contro i buoni: età dei
dolori (alghea) «che fanno piangere», (vv. 200-201). Per volere di Zeus olimpio anche un’intera città
soffre per un solo cattivo (v. 240).
125
Esiodo cita: Zeus egioco (allattato dalla capra Amalte a Creta), Era (sovrana di Argo), Atena
(figlia di Zeus, nata dalla sua testa, occhio azzurro e patrona della guerra e delle arti, partecipe al
processo intentato dall’areopago a Oreste), Febo Apollo e la sorella Artemide (arciera), Posidone (dio
dei mari e dei laghi, regge il mondo, scuotitor della terra), Temi veneranda, Afrodite (nobili occhi),
Ebe (coronata d’oro, eterna giovinezza), Dione (madre di Afrodite), Leto e Giapeto, Crono (tortuosi
consigli), Aurora, il fratello grande Sole e Selene (sorella splendente e personificazione della luna), Gea
(la Terra), Oceano, la nera Notte (figlia di Caos) e la divina stirpe degli immortali (vv. 9-21).
126
Era simbolo del potere maschiele, prerogativa di re, araldi e ambasciatori, utilizzato
nell’investitura dei sovrani egizi e assiri.
124
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atteggiamento sbrigativo,127 ma il possesso delle cose rende sicuro il futuro.128 L’uso
di appropriati mezzi quotidiani, così, rende meno tragica la vita.129 L’aspra vita del
pastore, infatti, lontana dalla movimentata attività socio-politica della fascia costiera,
costituiva un richiamo per quanti, perfetti conoscitori del territorio, volevano vivere
indenni dall’incubo di ricorrenti vessazioni. Il pastore, inoltre, viveva con una certa
autonomia il proprio lavoro e comunque, nella solitudine, si organizzava gran parte
dei suoi giorni. Strumento di compensazione psicologica era la strumentazione musicale a canna (flautu, friscalettu, flautu a paru, zammaruni o cannizzolu, ciaramedda).
L’estrema solitudine, poi, era interrotta dalle cicliche discese nel più vicino centro
abitato, mentre per il resto della vita si doveva produrre quanto necessario per vivere
e svolgere le attività con adeguati attrezzi di lavoro, adattamenti, personalizzazioni e
abitazioni. Sembra comunque che la vita dei nostri pastori possa avvicinarsi, già nella
fase preistorica, alla tradizione culturale della Calabria meridionale, riprodotta nei disegni ornamentali degli oggetti d’uso.130
Il vasto territorio sembra rappresentare compiutamente l’esperienza della solidarietà in quel suo essere stato teatro di diverse evoluzioni culturali e religiose e luogo
d’intense attività ittiche, agricole e pastorali. A livello strettamente culturale, poi, si
evince l’influenza di non numerosi, ma marcati, elementi Sicano-Siculi, Eolici, Calabro-lucani, Campani, Fenici, dell’Asia Minore (Frigia), delle isole (Creta, Samo) e
della Grecia Settentrionale (Macedonia e Tessaglia), centrale (Doride, Etolia e Focile)
e soprattutto Meridionale (Laconia, Messenia, Acaia, Arcadia ed Apolide).
La presenza d’aspre zone favorevoli alla caccia, ma anche difficilmente antropizzabili, anche solo per il passaggio, ricordava la quotidiana esperienza della presenza del sole, dal sorgere al tramonto. La tristezza, perciò, lasciava il campo, anche se
momentaneamente, all’esperienza della sfavillante vita, addolcita da alcuni elementi
naturali. Con l’acqua, ad esempio, si assaporavano altre dolcezze della vita e si scoprivano amore, amicizia e soprattutto poesia.
La vita, dunque, era percepita come ordinata inclusione di tutto. Coltivare, pascolare e cacciare esprimevano così perseverante attesa del compimento di una spe-
«A la mànnira e a lu mulinu, vacci di matinu».
«Lu buaru ch’havi frenu, havi pani; si frenu non havi, resta senza boi e senza pani»; «S’hai lu
carru cu li boi, po’ fari prestu nzoccu voi»; «A cu fu misa la sedda, sarà misa la vardedda»; «Ciareddu
di ciaridduni, e agneddu di grussu muntuni»; «Unni vacchi ci sunnu, viteddi nascinu»; «Accatta armali,
chi ti figghianu».
129
«Cu lu vastuni si caccia lu sceccu, cu lu punturu lu boi e lu mulu, cu la virica e cu lu spiruni
lu cavaddu»; «Commu basta a milli peculi, soverchia a milli crapi, l’erba di centu vacchi»; «Corda fa
viteddu, zimma fa purceddu, costa fa agneddu, para [tettoia] fa ciareddu»; «Lu bonu vaccaru ‘mpastura
la vacca, chi prima jinchi la cisca e poi l’abbucca»; «A mànnira e tonnara, cui nun sapi arrubbari nun ci
vaja». Il futuro comunque resta sempre incerto: «Cu è riccu d’api, di boi e di jumenti, si cridi riccu e nun
havi nenti»; «Boi chi nun va a l’aratu e vacca ciunca, morinu a la chianca»; «Asinu di montagna caccia
cavaddu di stadda»; «A tilaru armatu, tessi la crapa».
130
Analisi in F. Riccobono, L’arte dei pastori tra Peloritani e Nebrodi, Pungitopo, Patti Marina
1992.
127
128
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ranza e permettevano anche di sperimentare quotidianamente ed universalmente la
fraternità che si esprimeva nella prosperità materiale e nello splendore dell’esistere
proprio ed «angelico», espressioni della stabilità e dell’autonomia raggiunte.
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