qui - Barbara Mazzotti

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qui - Barbara Mazzotti
SOLA ANDATA
Di fronte al tabellone delle partenze Natasha scorreva la lista dei treni e si accertava che non ci fossero ritardi. Con
l’ombrello ancora sgocciolante in mano scese le scale, camminò lungo il corridoio e raggiunse il binario.
La stazione di Bologna non era cambiata dai tempi dell’università, salvo qualche uscita in più e i bagni a pagamento. Erano le 8 e 50 del mattino e per fortuna la calca dei pendolari dell’orario di punta era già passata.
Natasha attendeva il treno immobile, con i piedi allineati sulla riga gialla e le dita che premevano sulla sciarpa per
coprire meglio il collo.
Folate di vento gelido attraversavano la banchina spazzando via tutto ciò che era leggero. Anche i suoi capelli
rossi, raccolti in una coda di cavallo, seguivano l’impeto del vento. Stringendosi nelle spalle e chiudendo il bavero
del cappotto, osservò le nuvole correre nel cielo.
-È proprio un tempo da cani! - pensò fra sé.- Proprio oggi che ho un colloquio di lavoro deve piovere così tanto!E mentre imprecava contro il tempo, si portò una mano alla testa per controllare che i capelli fossero ancora in
ordine.
L’altoparlante annunciò finalmente l’arrivo del treno e Natasha si consolò con la puntualità del Freccia Bianca.
Tirò fuori il biglietto dalla tasca, controllò il numero della carrozza e velocemente salì nell’ultimo vagone per scampare l’ennesima folata di quel vento polare.
Camminando lungo il corridoio centrale individuò il suo posto quasi in fondo al vagone. Mentre si sedeva, cercò
di trovare una soluzione per appendere il cappotto e farlo asciugare, agganciò l’ombrello al bracciolo del sedile e
appoggiò la borsa davanti a sé sul tavolino. Non fece in tempo a rilassarsi e a mettersi comoda, che il fragore improvviso di un tuono la fece sobbalzare sul sedile.
-Porca miseria!- pensò con aria scocciata. -Guarda te se non potevo essere più sfigata a beccarmi proprio oggi un
tempo così schifoso!– Poi, riappoggiandosi allo schienale, fece un profondo respiro e cercò di convincersi che tutto
sarebbe andato bene.
Il treno iniziò a muoversi e prendere velocità. Natasha allentò la sciarpa e, godendosi il calore del riscaldamento,
diede un’occhiata ai pochi passeggeri presenti nella carrozza. Intravide in lontananza una coppia di giovani che
stavano prendendo in giro un signore panciuto sonnecchiante di fronte a loro, e due donne, tutte eleganti e ingioiellate, che sfogliavano riviste di moda. Alla sua sinistra due uomini in giacca e cravatta lavoravano a testa bassa
sui loro portatili, mentre dietro di lei una coppia di anziani stava parlando del tempo e una madre rimproverava
sottovoce il figlio perché non riusciva a stare fermo sul sedile.
Inclinando il capo verso il corridoio scorse il movimento di altri passeggeri che si affrettavano a sistemare le ultime cose nel portabagagli e un uomo che si stava avvicinando per sedersi proprio di fronte a lei.
Era un ragazzo sui trentacinque anni, castano con i capelli ricci lunghi fino alle orecchie, lineamenti fini del volto,
vestito con un paio di jeans e un maglione verde scuro.
Sedutosi di fretta, senza curarsi delle persone circostanti, mise una mano in tasca ed estrasse il cellulare.
Un nuovo fragore nel cielo distolse l’attenzione di Natasha dal ragazzo. Attraverso il finestrino un fulmine si era appena scaricato a terra in prossimità di un grosso albero. Impressionata, Natasha si lasciò scappare un piccolo gemito
di paura che cercò di soffocare portandosi la mano davanti alla bocca. Allontanando lo sguardo da quello spettacolo
impressionante, si rese conto che il ragazzo di fronte a lei aveva notato il suo spavento e le stava sorridendo.
«Tempo da lupi oggi, vero?» iniziò la conversazione lui fissandola negli occhi.
«Eh sì, un tempo così credo di non averlo mai visto. Cioè… intendo dire… dei fulmini e dei tuoni così forti!”
Mentre Natasha gli rispose, si rese conto di arrossire e maledì dentro di sé la sua timidezza. Quel ragazzo non solo
aveva un bel viso, ma anche dei bellissimi occhi verde smeraldo che la lasciavano senza fiato.
«Sì infatti!» replicò lui. «E poi sono solo le nove del mattino, ma sembra che siano le nove di sera con questo cielo
così grigio e spettrale!»
Un brivido attraversò la schiena di Natasha che si voltò di nuovo verso il finestrino. Non sapeva cos’altro
dire e pensò che la soluzione migliore fosse quella di continuare a guardare fuori, piuttosto che sostenere lo
sguardo del ragazzo e arrossire di nuovo.
-Il tempo fuori è proprio spaventoso- pensò.
Le nuvole grigie correvano nel cielo cariche di acqua, mentre gli alberi sotto di loro agitavano le fronde a
destra e sinistra, come se stessero annunciando la fine del mondo.
Un altro tuono riecheggiò nel cielo. Natasha cercò di non darci troppa importanza e prelevò dalla borsetta
uno specchietto per controllare trucco e capelli.
Quello che si vedeva allo specchio era l’immagine di una ragazza giovane, poco più che trentenne, con il viso
ancora fresco, segnato però dalla stanchezza accumulata negli ultimi tempi. Da quasi sei anni infatti aveva
smesso di lavoarare per potersi occupare da sola del figlio. Dopo la separazione era tornata a vivere con i genitori e aveva messo da parte ambizioni e vita privata per dedicarsi interamente a Luigi. Ora che però il piccolo
stava crescendo e aveva iniziato ad andare a scuola, per Natasha era giunto il momento di pensare a se stessa
e rifarsi una vita. Quel giorno avrebbe potuto essere l’occasione buona per dare una svolta alla sua carriera.
Il colloquio di lavoro a Rimini presso un’agenzia viaggi era una possibilità che non voleva lasciarsi scappare.
Ricordò come suo padre da piccola l’obbligasse a parlare russo in casa. Quello che aveva sempre considerato
un peso da bambina, poteva essere adesso la sua arma vincente per ottenere quel posto. L’idea di trasferirsi a
Rimini sembrava la sua occasione per cambiare aria, farsi nuovi amici e, chissà, forse trovare il vero amore.
Mentre fantasticava immaginandosi la sua nuova vita, una serie di lampi e tuoni interruppero il quadro perfetto. Natasha chiuse di colpo lo specchietto, lo ripose nella borsetta, e posò lo sguardo sul ragazzo di fronte
a lei. Stava probabilmente maneggiando ancora il cellulare. Le mani erano sotto al tavolo e Natasha dovette
fare uno sforzo con gli occhi per ritrovarle appoggiate sulle gambe. Spostando la testa leggermente a sinistra,
con lo sguardo seguì tutta la lunghezza delle sue cosce sotto i jeans aderenti. Osservò le mani veloci sui tasti
del cellulare, alzò gli occhi per assicurarsi di non essere vista, poi ritornò con lo sguardo sul jeans aderente. Il
cuore le batteva forte. Gli occhi scorrevano quel corpo atletico dal basso verso l’alto per perdersi fra i riccioli
castani e le labbra carnose.
Tutto a un tratto quelle stesse labbra si mossero e presero la forma di un sorriso. Il ragazzo la stava fissando
di nuovo.
Il cuore accelerò di colpo. Natasha spostò velocemente gli occhi verso il finestrino e cercò di non far trasparire dal viso l’imbarazzo. Troppo tardi, l’aveva fatto di nuovo: era diventata rossa ancora una volta.
Mentre continuò a guardare fuori, pensò all’ultima volta che aveva avuto un contatto fisico col marito. Pensò
a come lui fosse diverso dal tipo di fronte a lei, sempre arrabbiato e noncurante del proprio aspetto. Mentre
questo ragazzo sapeva di aria fresca e, nonostante non lo conoscesse, aveva riacceso in lei la voglia di provare
ancora certe emozioni.
Il finestrino si illuminò per un istante e lasciò intravedere una serie di fulmini squarciare il cielo, per scomparire dietro il tetto del treno. Sembrava quasi che il treno ondeggiasse. Natasha, saltellando sul sedile irrequieta, si girò verso gli altri passeggeri per vedere se anche loro avessero notato quel movimento. Un vociare
diverso dal brusio di fondo precedente le giunse alle orecchie: anche le altre persone se ne dovevano essere
accorte. Sul suo volto si intensificò l’espressione di preoccupazione.
«Non preoccuparti, è solo un temporale. Certo è piuttosto insolito il paesaggio là fuori, ma devo dire che ha
anche il suo fascino, non trovi?» affermò il ragazzo per cercare di rassicurarla.
«Se lo dici tu. A me fa piuttosto impressione! Non è normale un temporale così. Sembra quasi che debba arrivare
un ciclone da un momento all’altro. E qui da noi i cicloni non esistono …» rispose lei cercando di convincere più
se stessa.
«Sì, forse hai ragione. Sarà che io sono abituato a questo tipo di clima. Da dove vengo io è normale vedere
temporali e raffiche di vento così forti d’inverno. Comunque piacere, io mi chiamo Marek».
Il ragazzo allungò la mano e le sorrise di nuovo.
«Piacere, io mi chiamo Natasha. Hai un accento diverso, da dove vieni?»
«Dalla Repubblica Ceca, ma ormai vivo a Bologna da più di dieci anni».
Mentre parlava, Marek continuò a sorriderle e guardarla intensamente negli occhi.
Natasha non sapeva cos’altro dire. Ogni volta che lui muoveva quelle labbra perdeva la concentrazione e il
filo del discorso.
«Tu invece di dove sei?» aggiunse lui.
«Sono di Bologna. In realtà sono mezza italiana e mezza russa. Mio padre è russo ed è venuto a vivere in
Italia quando aveva vent’anni».
«Ah, russa. Quindi veniamo dalla stessa parte dell’Europa, più o meno».
«Sì, più o meno». E mentre rispose sentì le gote arrossire di nuovo.
Il rumore della pioggia picchiettante sul vetro interruppe per un attimo la conversazione. Le gocce sempre
più grandi scorrevano veloci sul finestrino creando piccoli rivoli orizzontali. Una serie di lampi illuminò il
paesaggio e catturò la loro attenzione. L’erba alta e incolta della campagna oscillava a destra e a sinistra così
compatta che sembrava riprodurre le onde del mare. Gli alberi agitavano sempre più velocemente i rami in
tutte le direzioni, mentre le foglie più deboli si staccavano fluttuando nell’aria fino a raggrupparsi in piccoli
vortici verticali.
Natasha portò la mano alla bocca in segno di stupore, sgranò gli occhi terrorizzata e, quando avvicinò il viso
al finestrino per guardare meglio, la mano di Marek la precedette per spingere la tendina di plastica verso il
basso.
«Meglio non guardare troppo là fuori. Piuttosto, se non sono indiscreto, posso chiederti dove stai andando?»
«Sto andando a Rimini. Ho un colloquio di lavoro. Per questo sono un po’ preoccupata, non vorrei arrivare
là troppo sconvolta e fare brutta figura».
«Non credo proprio che tu possa fare brutta figura» replicò lui accompagnando con la mano una ciocca di
capelli dietro all’orecchio.
Natasha sorrise e abbassò lo sguardo. Quel ragazzo era così accomodante e intrigante allo stesso tempo che
le fece dimenticare quello che stava accadendo là fuori.
«Tu invece dove sei diretto?» replicò subito per allungare la conversazione.
«Vado a Rimini anche io, per lavoro. Ho degli amici che mi aspettano per delle questioni da sbrigare».
«Ah,fantastico, un altro aspetto in comune! Cioè, voglio dire… speriamo allora che vada bene a entrambi!»
Il treno oscillò di nuovo.
«Lo senti anche tu o è solo una mia impressione?» aggiunse turbata dallo strano movimento.
«Lo sento pure io. Il vento deve essere veramente forte per riuscire a spostare un treno!»
Natasha guardò il finestrino dall’altro lato della carrozza e strinse con le mani i braccioli del sedile. Nonostante fosse spaventata a morte da quell’insolito temporale, non riusciva a fare a meno di guardare fuori.
Seguì un altro moto ondulatorio del treno e a irrigidirsi ora fu tutto il suo corpo.
«Credo che siamo finiti in mezzo a un uragano o qualcosa del genere» commentò lui guardandosi attorno.
Un altro fulmine si diramò in orizzontale nel cielo e andò a scaricarsi dritto contro il tetto del treno.
Il treno oscillò di nuovo e saltò la luce nella carrozza. I passeggeri, gridando all’unisono, si bloccano nei loro
sedili con la testa rivolta verso i finestrini. Il paesaggio fuori era sempre più inquietante.
Il vociare delle persone si fece più intenso e preoccupato. Il bambino seduto nell’ultima fila chiedeva alla
madre con tono insistente come mai non ritornasse più la luce, mentre il signore panciuto, che aveva dormito
per tutto il viaggio, si svegliò di soprassalto e, ruotando la testa a destra e sinistra, cercava di capire cosa stesse
succedendo.
«Fantastico! Ora faremo il resto del viaggio al buio!» disse Marek osservando i lineamenti del volto di Natasha nella penombra.
Natasha non rispose. I suoi occhi erano fissi sul finestrino opposto, le gambe avvinghiate ai piedi del sedile
e le mani aggrappate all’estremità del tavolino con gli avambracci schiacciati sulla borsa.
Marek fece per allungare una mano sulla sua per rassicurarla, quando un fulmine esplose nel cielo e, scaricandosi con tutta la sua forza sul treno, lo fece oscillare a tal punto da inclinarlo verso destra. L’odore dei freni
si fece intenso, lo stridio sui binari diventò insopportabile. Il vagone si rovesciò completamente e continuò la
sua corsa strisciando con la lamiera sul terreno. I finestrini esplosero. I passeggeri urlarono presi dal panico.
Le valigie caddero dai vani porta oggetti sopra le loro teste e pezzi di vetro volarono in tutte le direzioni.
Il treno percorse ancora qualche metro strisciando sui binari, poi seguì una forte esplosione, poi il silenzio.
Per qualche istante nessuno parlò, nessuno si mosse. La luce dei fulmini illuminava a intermittenza la carrozza.
Marek aprì gli occhi e, mettendo a fuoco il vagone, si ritrovò sdraiato sulla tendina di plastica. Quando cercò
di alzarsi in piedi aggrappandosi al sedile, sentì male alla testa. Con la mano si accertò che non vi fosse traccia
di sangue e, mentre scrollava dai riccioli qualche pezzo di vetro, pensò a quanto avesse fatto bene a chiudere
quella tendina.
Mentre cercava con i piedi un punto di appoggio, allungò la mano verso Natasha e la scosse.
«Natasha! Natasha! Tutto a posto? Come ti senti? Stai bene?»
«Sono incastrata nel tavolino e mi fa male la gamba destra» rispose provando a liberarsi.
Il vagone era completamente rovesciato sul fianco. Marek spostò le valigie attorno a lui e cercò di rimanere
in piedi. Guardando nella penombra gli altri passeggeri, si lasciò scappare un’imprecazione.
«Cosa c’è?» chiese Natasha allarmata.
Alcuni passeggeri erano stati sbalzati fuori dai sedili, mentre altri erano rimasti incastrati, trafitti dalla lamiera. Nessuno sembrava muoversi. Sembravano tutti morti.
«Marek, dimmi cosa vedi!»
«Natasha, non vedo nessuno muoversi!»
E mentre scorreva con gli occhi persona dopo persona, si portò la mano alla bocca per trattenere il conato del
vomito.
Il vecchio panciuto, che aveva dormito per tutto il viaggio, era sospeso nel suo sedile con il ventre squarciato,
mentre il suo sangue sgocciolava sulle facce delle signore ingioiellate sotto di lui. I ragazzi di fronte avevano
il volto sfigurato dal vetro del finestrino che era rimasto conficcato nella gola di lei e negli occhi di lui. Gli
anziani dietro Natasha erano stati sepolti dalle valigie e si intravedevano pezzi di arti dislocati.
Natasha si sforzò di girarsi a sinistra e, vedendo i due uomini in giacca piegati sui loro computer con la testa
insanguinata, lanciò un grido di terrore.
«Oh mio Dio! Sono tutti morti e moriremo anche noi!» urlò respirando sempre più affannosamente in preda
a un attacco di panico.
Marek le si avvicinò e le prese il viso fra le mani.
«Non ci succederà nulla. Guardami! Il treno si è fermato. Siamo ancora vivi. Ti prometto che ti tiro fuori da
qui e ti riporto a casa!»
Lei lo guardò dritto negli occhi e annuì.
Una folata di vento freddo attraversò la carrozza e la fece tremare. Marek afferrò il cappotto e le coprì le
spalle, poi si chinò verso il basso e cercò di spostare il tavolino dalla sua gamba.
«Credo di avere la gamba del tavolino conficcata nella coscia» disse Natasha urlando di dolore.
Marek si bloccò all’istante. Non voleva rischiare di peggiorare la situazione. La gamba stava perdendo molto
sangue, ma preferì non dirglielo per evitare di allarmarla. Cercando di calmarla, si sedette vicino a lei e le parlò
per tutto il tempo.
«Quando saremo fuori di qua ti porto a bere una cioccolata bollente. Conosco un posto a Rimini dove è
strepitosa».
Rimini. D’improvviso a Natasha ritornò in mente il colloquio di lavoro.
«Porca miseria, il mio colloquio di lavoro! Credo che non avrò mai quel posto!»
«Non dire sciocchezze! Quando tutto sarà finito li chiamerai e ti farai fissare un altro appuntamento. Sarebbero degli idioti se non ti dessero una seconda possibilità».
«E tu invece? Anche tu avevi un appuntamento di lavoro, giusto?» replicò lei col volto segnato dal dolore.
«Sì, ma il mio lo posso rimandare senza problemi. Ti ho detto che ho degli amici là. Mi aspetteranno».
Marek controllò di nuovo i passeggeri sperando di vederne qualcuno ancora vivo. Dietro di lui il bambino
sembrava essersi mosso. Calpestando vetri e oggetti personali, si avvicinò a lui e alla madre. Li scosse animatamente entrambi e provò più volte a chiamarli.
Nessuno rispose.
Alzando lo sguardo verso il finestrino e arrampicandosi come poteva sul tavolino, allungò il collo per dare
un’occhiata all’esterno.
«Il temporale sembra attenuarsi. Sono sicuro che in poco tempo arriveranno i soccorsi» commentò quasi
sollevato ritornando verso Natasha.
«Ho freddo. Questo vento gelido mi penetra nelle ossa. Forse è meglio che mi lasci qui e ti metta in salvo»
sussurrò lei battendo i denti.
«Non ti lascio qui da sola. Fra poco arriveranno a prenderci e sarà tutto finito» rispose Marek afferrando il
cappotto di uno dei passeggeri per coprirle il busto.
«Sai quel business che ti dicevo?» aggiunse prendendo qualcosa dalla tasca.«In realtà mi occupo di gioielli».
Estraendo una coppia di fedi d’oro, ne infilò una al suo anulare sinistro e una a quello di Natasha.
«Vorrei che questa la tenessi tu in segno della nostra nuova amicizia. Così avrai qualcosa di buono da ricordare quando racconterai ai tuoi nipotini questa brutta esperienza».
Natasha si lasciò infilare l’anello e per un istante dimenticò il dolore e il freddo. Avrebbe voluto dire che non
lo poteva accettare, ma preferì tenere le sue mani fra quelle calde e rassicuranti di Marek.
«Sai, anche i miei genitori hanno una fede simile. Ora sono in vacanza e stanno festeggiando il loro trentacinquesimo anniversario» commentò guardandosi la mano. «Gli ci voleva proprio una vacanza. Ultimamente hanno avuto molto da fare con Luigi».
Marek inarcò un sopracciglio in segno di domanda.
«Luigi è mio figlio. Sono tornata a vivere con i miei genitori dopo la separazione da mio marito. Ora viviamo
tutti assieme nella loro casa di campagna, così almeno Luigi si può svagare in mezzo alla natura e io ho un
aiuto in più».
Subito dopo aver pronunciato quelle parole, posò lo guardò sui suoi occhi per controllare la sua reazione.
Aveva paura che l’idea di un figlio avesse spezzato il feeling fra loro.
Marek invece si dimostrò interessato alla sua vita e le fece mille domande sul figlio, sulla famiglia e la loro
casa. La fece parlare il più possibile per non farla pensare al presente. Le stette vicino e le strinse le mani,
cercando di alleviarle il più possibile l’attesa dei primi soccorsi. Nel vagone si sentiva solo il brusio delle loro
voci. Tutto intorno era silente e persino il vento era cessato.
I due parlano a lungo fino a quando udirono in lontananza il suono delle sirene.
«Natasha, sta arrivando l’ambulanza! Siamo salvi!» disse lui con tono trionfante.
Lei bisbigliò qualcosa sottovoce in reazione alla buona notizia. Le gote erano sempre più pallide e a fatica
riuscìva a rimanere sveglia.
«Tieni duro!» disse lui mentre le sentiva il polso.
Natasha appoggiò la testa di lato sul sedile e lentamente chiuse gli occhi.
Il rumore di passi decisi si stava avvicinando, mentre la luce di una torcia illuminava l’esterno della carrozza.
«C’è nessuno? Qualcuno là dentro riesce a sentirmi?»
«Qui presto! Siamo qui!» rispose Marek avvicinandosi al finestrino più vicino.
Un gruppo di tre uomini, munito di corde e cassetta del pronto soccorso, si arrampicò sul vagone ed entrò.
«Siamo io e mia moglie qui. Presto, ha appena perso conoscenza!»
I tre si precipitarono verso Natasha e cercarono un modo per estrarre la gamba del tavolino dalla sua coscia.
La medicarono, la posarono sulla barella e con l’aiuto di Marek la calarono dal finestrino.
Quando anche Marek fu fuori dal vagone, osservò impressionato le condizioni del treno. Alcune carrozze
erano disposte a zigzag lungo il binario, altre erano state completamente sbalzate nei campi circostanti. In
lontananza il suono ovattato delle sirene e la luce rossa delle ambulanze rimarcava la gravità dell’incidente.
«Siete fortunati a essere ancora vivi!» affermò un uomo con l’impermeabile e il cappello, appoggiandogli una
mano sulla spalla. «Sono l’agente Moretti. Lei è…?»
«Mi chiamo Marek e questa che stanno caricando è mia moglie» rispose salendo di fretta sull’ambulanza.
«Capisco la delicata situazione, ma devo trattenerla qualche istante. Dovrei farle alcune domande di routine
e prendere giù i suoi dati» disse l’agente afferrandogli il braccio. «Inoltre bisognerà avvertire i familiari. Possono farlo i miei agenti con la radio della polizia. I cellulari non funzionano qui, non c’è ricezione a causa del
maltempo».
Marek si girò verso il poliziotto mentre con la mano sinistra afferrava quella di Natasha.
«Preferirei andare in ospedale con mia moglie. I parenti posso chiamarli io più tardi, per non allarmarli. Se
mi lascia il suo numero di telefono prometto di contattarla appena possibile. La prego, non mi faccia allontanare da mia moglie proprio adesso» insistette guardandolo dritto negli occhi.
Il poliziotto osservò per un istante gli anelli e pensò alla soluzione migliore.
«Va bene. Questo è il mio numero. Mi chiami il prima possibile però!» rispose tirando fuori dalla giacca un
biglietto da visita, mentre con l’altra mano fece cenno all’ambulanza di ripartire.
Arrivati in ospedale i medici portarono Natasha in rianimazione. Marek li seguì lungo il corridoio fermandosi in sala d’attesa. Rimasto solo nella stanza vuota, afferrò il cellulare dalla tasca e digitò un numero di
telefono.
«Raou sono Marek. Ho del lavoro per voi da sbrigare subito. Ne ho trovata un’altra. Non puoi immaginare
cosa mi è successo, ma non c’è tempo da perdere, ti spiegherò tutto più tardi. Andate in via degli Orgogliosi
15. C’è una villa di campagna. Nessuno è in casa. I vecchi sono in vacanza e la figlia non credo farà rientro
prima di un bel po’. Ci incontriamo domani alle quattro al solito posto per dividere il bottino».
E così dicendo lasciò la corsia d’ospedale correndo giù per le scale dell’uscita di emergenza.