Delocalizzazione - Camera di Commercio Varese

Transcript

Delocalizzazione - Camera di Commercio Varese
G-d) Delocalizzazione
06/06/2011
A cura di L. Molteni (Team Insubria, Varese 2020)
Descrizione (affermazioni/riflessioni/dubbi)
Cosa si vuole capire!
Quale il valore della delocalizzazione a medio termine: prosecuzione fondata su differenziali di
costo, di competenza, di propensione al lavoro o riequilibrio per riduzione delle differenze
economiche?
Lo stato dell'arte
La delocalizzazione è il fenomeno che consiste nella cessazione totale o parziale di un’attività nel
paese di origine per trasferirla parzialmente o totalmente all’estero. La delocalizzazione può essere
interna se avviene verso paesi UE, esterna se avviene verso paesi extra UE. Esiste un nuovo tipo di
delocalizzazione determinata da un fenomeno chiamato “delocalizzazione inversa” che si verifica
nel momento in cui l’imprenditore spinge i propri dipendenti ad accettare condizioni di lavoro
meno favorevoli a fronte della minaccia di una delocalizzazione. (Biblio 8)
I fattori che determinano la delocalizzazione sono gli approvvigionamenti più economici, i vantaggi
fiscali, la possibilità di accesso ai nuovi mercati e a nuove tecnologie, i costi del lavoro più bassi, la
vicinanza operativa al cliente a fini di ottimizzazione di processo. La scelta di delocalizzare è una
questione strategica per le imprese che devono prendere in considerazione aspetti di diversa
natura, basando le loro decisioni in funzione di un livello di formazione elevato, buoni servizi
pubblici, un moderato livello del costo del lavoro, una stabilità economica e la prossimità a nuovi
mercati ed infine la presenza di risorse produttive. (Biblio 8) Le imprese più piccole si
internazionalizzano per contenere il costo del lavoro o per entrare in nuovi mercati, mentre per le
grandi imprese esiste anche la necessità di avere una vicinanza rispetto ai mercati di sbocco. (Biblio
2)
Secondo l’Ocse il 36% delle imprese al modo nel settore manifatturiero, che delocalizzano la loro
attività produttiva , sono alla ricerca di minori costi di produzione, mentre il 17% vogliono essere
più prossimi ai loro clienti. I motivi che spingono le imprese italiane a delocalizzare dipendono
dalla loro dimensione, per il 70% delle imprese industriali medio-grandi viene ritenuta molto
importante la possibilità di ridurre il costo del lavoro, mentre per il 58,3% delle piccole imprese la
delocalizzzione è motivazione principale per presidiare i mercati strategici. (Biblio 11)
Scelte possibili delle imprese vs l’estero: esportare ad intermediari commerciali esteri, concedere
licenze di fabbricazione a terze imprese estere, IDE commerciali (Investimento Diretto all'Estero,
attività di distribuzione commerciale all’estero), IDE produttivi per il solo mercato locale, per più
mercati o di global sourcing, joint venture, outsourcing estero. (Biblio 1)
Dati (eventuali)/ Note
La delocalizzazione come elemento fondamentale per aumentare le proprie competenze, con il
conseguimento di migliori risultati economici. Lo scambio di relazioni con imprese di altri paesi con
i quali si hanno accordi economici, permette un maggior miglioramento della produzione.
Le imprese che esportano o intrattengono relazioni con altre aziende estere sono generalmente
più grandi di quelle che non lo fanno, sono più produttive e più profittevoli, più innovative e con il
più alto tasso di intensità di capitale per l’effetto della self-selection in quanto è più difficile
vendere all’estero che nel paese madre. (Biblio 2)
Le imprese più grandi delocalizzano anche nei paesi più lontani per produrre e crescere nei mercati
di sbocco, mentre quelle di dimensioni più ridotte tendono a delocalizzare la produzione in zone di
destinazione come la Romania (recente passato) e l’Europa Centro-Orientale, con lo scopo di
abbassare i costi di produzione (infatti, sono paesi a basso reddito) e non quello di presidiare nuovi
mercati di sbocco (che tradizionalmente si riflette in flussi diretti verso i paesi più ricchi). (Biblio 7)
Le tendenze più recenti evidenziano la riduzione anche a livello del turnover tra le imprese
manifatturiere italiane che delocalizzano (turnover= differenza tra imprese di nuova
delocalizzazione ed imprese uscenti), evidenziando una diminuzione in misura rilevante anche per
le grandi imprese che vedono ridursi il numero di nuove delocalizzazioni ed un aumento dei rientri.
Nel caso delle piccole imprese nel 2009 e nel 2010 oltre la metà delle aziende che delocalizzavano
non possiede più impianti all’estero, confermando che la delocalizzazione richiede un aumento
dimensionale delle imprese. Tenendo conto della contrazione generale nel 2010 è possibile rilevare
come il flusso delocalizzativo in Cina tenda a stabilizzarsi su livelli più bassi. (Biblio 7)
Il fenomeno del backshoring, il rientro nei confini nazionali o lo spostamento delle attività
produttive in altri paesi da parte delle imprese che hanno già delocalizzato, comincia ad essere
consistente, causato dall’aumento del costo del lavoro, dei trasporti e dal venir meno di alcune
agevolazioni. Alcuni dati: tra il 1995 ed il 2006 il costo del lavoro per un dipendente di una
industria a parità di potere di acquisto è aumentato dell’84,5% in Slovacchia, del 93% nella
Repubblica Ceca ed il 72% in Polonia, mentre nello stesso periodo in Francia del 45,7%, in
Germania del 38,8% ed in Italia del 26,4%. Per Cina ed India non esistono dati precisi ma le
evidenze empiriche indicano una tendenza alla diminuzione del divario con le retribuzioni dei
lavoratori occidentali, soprattutto per le mansioni più qualificate. (Biblio 11)
Anche in Italia esiste oggi una tendenza piuttosto diffusa al backshoring, soprattutto per quelle
imprese che hanno delocalizzato col fine di ridurre i costi di produzione. Un motivo per il quale
alcune imprese stanno ritornando in Italia è dato dalla sovrastima dei risparmi di costo, causata da
costi non previsti di stoccaggio e legati alla necessità di ritrasportare merce difettata, ma
soprattutto a causa delle stime troppo ottimistiche del basso costo della manodopera, che col
tempo ha avuto continui aumenti. (Biblio 11)
Per 15 anni le imprese tedesche hanno delocalizzato verso est, dall’est Europa fina all’Asia, ma ora
la tendenza è quella di inshoring, rientrare il patria con la produzione. Lo fanno soprattutto le
piccole e medie imprese, le grandi resistono perché le loro economie di scala lo consentono. In
Germania, come in Italia le PMI sono la struttura potante dell’economia, quindi un ritorno significa
un aumento della produzione interna e un relativo aumento occupazionale, conseguentemente un
aumento di benessere in termini pro-capite. Dal 2004 i salari dei paesi dell’est Europa sono in
costante aumento, mentre la produttività dei lavoratori rimane molto al di sotto di quella dei
lavoratori tedeschi. In Germania è stata fondamentale la compressione dei salari degli ultimi anni e
del contemporaneo aumento della produttività dei lavoratori, consentendo così una riduzione del
costo unitario di prodotto. Secondo l’ufficio federale di statistiche la produttività media dei
lavoratori tedeschi tra il 1991 ed il 2006 è aumentata complessivamente del 22,5%. (Biblio 12)
Il ritorno in patria delle aziende ha fatto aumentare l’occupazione, permettendo alla Germania un
piccolo boom, riducendo negli ultimi due anni il numero dei disoccupati fino a raggiungere l’8,4%
che è il risultato più basso degli ultimi dodici anni. L’errore che molte aziende hanno commesso è
stato quello di non considerare i costi per il ritardo nello sviluppo delle infrastrutture e nella
formazione delle maestranze all’estero. Il centro per la razionalizzazione dell’economia tedesca
(CRI) ha stimato un guadagno medio lordo per le imprese che delocalizzavano pari al 14%, ma
considerando altri fattori e la razionalizzazione delle spese negli impianti tedeschi il guadagno
medio scende al 2,5%, troppo poco come remunerazione del rischio paese. (Biblio 12)
La Cina diventa off-limits per un certo tipo di produzione italiana a causa di rincari dei prodotti fino
al 20% rispetto a soli pochi mesi fa, dovuto ad una serie di fattori tra cui la corsa dei prezzi delle
materie prime, la progressiva rivalutazione dello yuan (dal 10% al 20% rispetto al dollaro) ed ad un
aumento del costo del lavoro. La paura nasce dal fatto che pur dopo questi aumenti di salari, pari
anche la 30%, ci potrebbero essere aumenti anche nei prossimi anni. Alla luce di questi dati si può
analizzare un cambiamento del mercato cinese che si trasformerà da produttore low cost a
produttore di qualità, ma questo in tempi assai più rapidi rispetto a quanto è avvento nella storia
delle economie occidentali. (Biblio 16)
Il fenomeno del backshoring è più evidente in America perché hanno iniziato concretamente i
processi di delocalizzazione già nel 1990. Società come la General Eletric Company ha
recentemente annunciato la costruzione di due nuovi impianti negli stati Uniti per la produzione di
articoli elettrici ibridi e batterie ad alta densità attualmente prodotti in Cina. Il backshoring è
soprattutto un fenomeno americano anche perché i produttori statunitensi sono stati molto più
aggressivi rispetto agli asiatici ed agli europei, anche se alcuni critici associano il fenomeno alla
necessità di guadagnarsi il favore dell’amministrazione Obama, che vuole stimolare il mercato
interno. (Biblio 23)
La logica che sta dietro il backshoring è interessante e non può essere definita a breve termine, ma
sicuramente è condizionata dall’aumento dei costi di trasporto, dei salari e delle materie prime
cinesi, inoltre l’effetto decisivo è dato dal fatto che alcune società americane sono state obbligate
ad effettuare backshoring perchè molti dei loro principali clienti avevano già spostato le produzioni
negli Stati Uniti, quindi il tutto va visto come un effetto contaminante, legato alla necessità di
gestire clienti e fornitori in una dimensione territoriale limitata. (Biblio 23)
L’Indonesia è oggi un nuovo orizzonte per le aziende che hanno fino ad ora delocalizzato in Cina,
questo perché si stanno alzando i costi di mano d’opera e della logistica. Oltre al mercato
indonesiano le imprese stanno valutando, di insediarsi in India, Vietnam e nell’Asia sudoccidentale. Importante sviluppo delocalizzativo in Cina sono le zone sud-occidentali e centrali
come Chongquing, Wuhan e Zhengzhou, che consentono ancora bassi costi ed incentivi cinesi
specifici per questo tipo di investimenti. Particolari accordi tra Cina ed Indonesia porteranno
maggiori investimenti verso quest’ultima, sfruttando il basso costo del lavoro e della mancanza di
dazi in uscita verso la Cina, soprattutto in riferimento alle materie prime. (Biblio 13)
L’aumento del salario dei lavoratori cinesi rappresenta un rischio per le imprese che hanno
delocalizzato, anche perché per ora l’aumento è stato del 30% rispetto al salario minimo, ma si
temono ripercussioni continue dei lavoratori verso le imprese. I lavoratori cinesi hanno uno
stipendio massimo pari a 400 dollari e risultano tre volte più costosi rispetto ai loro omologhi
indonesiani e cinque volte più costosi rispetto ai vietnamiti, rimanendo comunque meno cari
rispetto a Taiwan e Malesia. Un aumento di questi salari ha ripercussioni diverse in base al tipo di
produzione delocalizzato, infatti l’aumento del 30% dei salari consiste in un taglio dei margini dall’
1% al 5% in base alla quantità di manodopera utilizzata, e che comunque può essere compensata
da una maggiore produttività. Questo spiegherebbe perché gli IDE in Cina continuano a salire.
(Biblio 15)
Il governo cinese spinge il consumo interno per continuare crescere come ha fatto negli anni
passati, considerando una crescita della domanda interna stabile al 7-8%, la crescita del PIL sarà
prossima al 5%, distante dall’obiettivo cinese del 10%, proprio per questa ragione la Cina ha
bisogno di creare una domanda interna molto sostenuta, che inizi a consumare una parte
crescente della propria produzione. (Biblio 17)
Il commercio bilaterale tra Cina ed India cresce del 32% l’anno, ma risulta fortemente sbilanciato,
perché le capacità industriali dell’India sono talmente scarse da costringerla ad importare dalla
Cina beni secondari ricavati dalla lavorazione delle materie prime da lei stessa esportate. L’India ha
deciso di accettare la costruzione di piccole Chinatown nelle quali vengono delocalizzate non solo
le strutte industriali ma i lavoratori cinesi, costituendosi così vere e proprie invasioni orientali.
(Biblio 18)
La Repubblica Popolare Cinese si sta espandendo a livello internazionale nei nuovi paesi emergenti
e inizia a regolare l’accesso delle imprese straniere ne proprio mercato, infatti il 5 Marzo 2011 è
stata introdotta una nuova norma che regola l’acquisizione di imprese cinesi da parte di grandi
gruppi e multinazionali straniere. La legge prevede la preventiva richiesta di un’autorizzazione per
le operazioni che verranno ritenute minacciose per la stabilità del Paese o che prevederanno la
cessione di tecnologie strategiche. I settori che risultano coinvolti sono: l’industria, l’energia, le
telecomunicazioni, i trasporti, l’agricoltura e i macchinari. (Biblio 22)
La Cina delocalizzerà in Africa il business dell’innovazione tecnologica e sta programmando una
cooperazione scientifica per quanto riguarda le energie rinnovabili, l’agricoltura sostenibile e la
formazione di tecnici. (Biblio 19)
Fin dagli anni 90 la Cina è arrivata in Africa, ed oggi si è convinta che possa offrire strumenti e
risorse necessarie per risolvere parte dei suoi problemi. L’Africa non sarà più solo fonte di materie
prime e risorse energetiche da esportare ma anche opportunità di investimenti industriali ed
infrastrutture. La Repubblica Popolare Cinese costituirà cinque zone economiche esclusive (ZES) ad
uso e consumo di imprenditori e capitali cinesi così suddivise: in Zambia una ZES mineraria
realizzata con 450 milioni di dollari, nella Repubblica di Mauritius una ZES per la produzione di
tessuti, prodotti elettronici e farmaceutici con un investimento di 450 milioni di dollari, in Nigeria
una ZES manifatturiera ed estrattiva con un investimento di 500 milioni di dollari, in Etiopia una
ZES specializzata nella lavorazione del ferro con un investimento di 100 milioni di dollari ed in
Egitto una ZES situata a sud del Canale di Suez che sarà utile ai cinesi per raggiungere i mercati
dell’Europa e del Mediterraneo con un investimento pari a 700 milioni di dollari. (Biblio 20)
Dati ICE-Istat 2006: imprese esportatrici erano pari al 4,2% delle imprese attive occupando il 20%
degli occupati totali. L’80% degli esportatori avevano meno di 20 addetti contando solo il 16%
delle esportazioni totali: invece il 60% delle esportazioni erano effettuate da imprese con oltre 100
addetti. La dimensione dell’impresa pone un limite all’esportazione nello specifico e alla possibilità
di insediarsi all’estero, così come riuscire ad intraprendere relazioni con imprese nei paesi extraUE, ed in diversi paesi contemporaneamente, risulta molto più facile per le imprese di notevoli Si fatica a trovare dati più recenti: in genere si
rimanda a quelli del 2006
dimensioni rispetto a quelle di più piccole dimensioni. (Biblio 2)
Nel caso specifico dell’Italia le imprese che hanno cominciato ad esportare sono riuscite in seguito
a migliorare ulteriormente la propria produttività ed a crescere dimensionalmente per effetto del
learning-by-exporting. (Biblio 2)
Tendenza alla delocalizzazione della produzione anche delle imprese italiane, nonostante la loro
dimensione ridotta, spostando all’estero strutture operative a maggior intensità di lavoro non
qualificato, agevolando l’evoluzione interna dei comparti di attività a più alto valore aggiunto.
(Biblio 2)
In riferimento all'economia italiana, le imprese “intermedie” si differenziano dalle imprese “finali”
per alcune caratteristiche peggiorative, sono infatti di minori dimensioni, hanno meno produttività
ed hanno minore quota di esportazione. Tra quelle intermedie “evolute” e quelle “immobili” le
differenze che si notano sono di una notevole differenza in termini di dimensione, efficienza,
capitale umano e competitività internazionale. La crisi del 2008-2009 ha affermato una maggiora
difficoltà delle imprese “marginali”, e soprattutto in quelle che avevano instaurato maggiori
rapporti internazionali di rete rispetto a quelle che hanno preferito percorrere la strada di una
maggiora funzionalità. (Biblio 3)
Le prospettive del sistema produttivo in Italia vanno analizzate in un contesto più ampio, tenendo
presente che nel mondo il modo di produrre e la divisione del lavoro stanno cambiando, andando
a creare la “nuova globalizzazione” nella quale i processi produttivi si frammentano (unbulding) in
sequenze o catene (value chains) di compiti, molti dei quali vengono delocalizzato all’estero
(offshoring), trasformando le catene in catene globali (global value chains), e modificando così il
commercio internazionale da trade-in-goods in trade-in-tasks. Questo tipo di contesto penalizza le
imprese “finali”, sostanzialmente quelle di piccole e medie dimensione, trasformandole in imprese
intermedie nella global chain. (Biblio 3) In Italia la delocalizzazione coinvolge in misura sempre
maggiore le imprese più grandi, dato dall’aumento della dimensione media delle imprese
delocalizzate a fronte di un generale restringimento del fenomeno tra le imprese più piccole.
(Biblio 6)
Nell’ultimo decennio il livello di internazionalizzazione è cresciuto in misura significativa: tra il 2001
ed il 2006 il 13,4% delle imprese con meno di 50 addetti ha avviato processi di
internazionalizzazione, l’incidenza sale al 20,1% tra le imprese manifatturiere (al 48,1% tra le
imprese con più di 250 addetti). (Biblio 2)
In base ai dati Eurostat 2007, lo stock di IDE dell’Italia era pari al 23% del PIL, a fronte del 35%
della Germania, del 38,1% della Spagna e del 52,5% della Francia. (Biblio 2)
Prerequisiti delle determinanti degli IDE: ownership (vantaggi proprietari tecnico-organizzativi),
internalisation (sfruttamento delle transazioni interne all’impresa e non sul mercato) e locational
advanges (fattori di vantaggio localizzativi). (Biblio 1)
IDE orizzontali: Alcune attività sono replicate nei
mercati di destinazione, motivati dall'accesso al
mercato.
Benefici: Accesso al mercato, risparmio di costi
Gli IDE orizzontali sono sostituti all’esportazione quando si è in presenza di rigide barriere di trasporto, adattamento di prodotto ed effetto
all’importazione nel paese di destinazione, risultano essere complementi alle esportazioni quando strategico. Costi: Economie di scala a livello di
impianto non fruttate.
mirano a cogliere al meglio le opportunità di accesso e vicinanza al mercato. (Biblio 1)
Gli IDE commerciali sono complementari all’esportazione, perché mirano a migliorare il rapporto
con il territorio di destinazione, rendendo più aggressive le imprese all’estero, consentendo un
aumento di produzione nel paese di origine. (Biblio 1)
Il settore di appartenenza influenza la scelta di internazionalizzare la produzione; gli IDE orizzontali
tendono ad essere più frequenti nei settori con maggiori “economie di scala a livello di impresa” IDE verticali: La produzione è frammentata
(tecnologia, R&S, marketing, competenze manageriali) per compensare i relativi costi di lungo la filiera produttiva, motivati dall'accesso
duplicazioni di unità produttive. Gli IDE verticali caratterizzano invece i settori nei quali il processo ai fattori produttivi.
produttivo è più facilmente scomponibile in fasi precise, e nei quali la concorrenza avviene in Benefici: Risparmio sui costi di produzione.
Costi: Economie di integrazione non sfruttate.
termini di costi. (Biblio 2)
Le caratteristiche del settore incidono anche sulla modalità di internazionalizzazione: il processo
produttivo lo si può mantenere all’interno dell’impresa (IDE), oppure può essere affidato a
subfornitori (outsourcing). In Italia il ricorso agli IDE è più frequente nei settori a maggior intensità
di capitale fisico ed umano, in linea con il resto dell’Europa, ma l’internazionalizzazione delle
imprese italiane avviene più spesso attraverso il ricorso a subfornitori e non agli IDE. (Biblio 2)
Nella seconda metà degli anni duemila la delocalizzazione ha riguardato una percentuale modesta
e tendenzialmente stabile nel settore manifatturiero al 4%, e nel 2010 ha fatto registrare un
sensibile ridimensionamento del fenomeno. (Biblio 7)
L’incidenza delle province “distrettuali” in termini di IDE risulta inferiore rispetto ad aree con
presenza di grandi imprese. Gli IDE distrettuali sono più presenti in quei territori in cui è maggiore
il valore aggiunto pro capite e più elevata la dotazione di infrastrutture. (Biblio 4)
La delocalizzazione comporta un aumento dei costi fissi delle imprese, motivo per cui le imprese
che vogliono delocalizzarsi devono trovare nel breve-medio periodo riscontri economici tali da
poter superare il break even point, e comunque riuscire a reperire capitali sufficienti per realizzare
tale progetto. Questa situazione penalizza le PMI rispetto alle grandi imprese. (Biblio 2)
La minore importanza, per i distretti industriali, dell’internazionalizzazione produttiva rispetto a
quella di tipo commerciale può essere interpretata in due modi: in primis organizzare la
produzione in un paese straniero è più oneroso rispetto alla semplice vendita (per molte imprese
distrettuali di piccole o medie dimensioni i costi fissi costituiscono un ostacolo), secondo motivo è
che in mancanza di uno spostamento dell’intera filiera produttiva, che può rilevarsi difficile da
realizzare, l’incentivo a recarsi all’estero risulta limitato per un’impresa distrettuale perché è
tipicamente legata al territorio. (Biblio 4)
Effetti di sostituzione tra IDE e le altre forme di delocalizzazione tenderanno a verificarsi nel mediolungo periodo a causa dei mutamenti delle configurazioni produttive delle imprese (che siano o
non sia già delocalizzate) come risposta ai processi di riconversione secondo la logica dei vantaggi
comparati dinamici. Nel caso specifico degli IDE verticali, questi restituiscono risultati positivi se
effettuati in paesi a basso tasso di industrializzazione, ma nel momento in cui questo tasso diventa
poco rappresentativo, l’impresa incomincia a non avere più un interesse cosi alto nel produrre in
quel paese. (Biblio 1)
L’analisi settoriale conferma un trend negativo del fenomeno della delocalizzazione,
evidenziandosi in particolare nei settori tradizionali del made in Italy , nello specifico in quello del
Tessile e abbigliamento e del Cuoio e pelli. Tale contrazione riguarda in maniera più ridotta i settori
a più alto contenuto tecnologico quali: comunicazione, apparecchi medicali e di precisione. (Biblio
7)
Elemento da considerare è l’abbandono dell’internazionalizzazione produttiva che appare più
significativo in riferimento alla distanza dell’area nella quale si delocalizza, permettendo alle aree
tradizionalmente privilegiate della delocalizzazione, Romania ed Europa del centro, di mantenere
risultati sufficientemente costanti. (Biblio 7)
Nell’ambito del comparto manufatturiero italiano la tendenza a delocalizzare, già modesta e di
lenta progressione, nel tempo tenderà a subire un significativo rallentamento. Questo potrebbe
essere uno svantaggio perché si perderanno posizionamenti sui mercati internazionali, elemento
strategico per la crescita dimensionale a livello internazionale. (Biblio 7)
La delocalizzazione del rilevante “made in Italy”, nei settori dell’abbigliamento ed accessori e
dell’arredo casa, ha concesso inizialmente alle imprese più dinamiche un considerevole vantaggio
competitivo, che però nel tempo si è affievolito a causa delle semplificazioni e delle imitazioni
anche grossolane dei prodotti. (Biblio 5)
Il sistema produttivo tecnologico italiano, dopo anni di arresto, ha ripreso a collocare sui mercati
mondiali prodotti di media tecnologia, con qualche punta nell’alta tecnologia, grazie alla
valutazione dei paesi emergenti non solo come semplici piattaforme produttive, ma anche come
mercati di sbocco per i beni finali prodotti in Italia o all’estero. Questo sistema produttivo è
passato da una delocalizzazione difensiva ad una offensiva, fruttando a pieno le caratteristiche dei
mercati esteri. (Biblio 5)
Sono sempre di più le piccole e grandi imprese tedesche che sui mercati emergenti aprono centri di
ricerca, questa tendenza riflette una nuova fase della globalizzazione, riconsiderandola non
solamente come risparmio di costi di produzione ma come innovazione e sviluppo di prodotti. La
presenza della R&S sul luogo della produzione e della vendita per alcuni prodotti è diventata una
necessità per andare incontro alle esigenze dei mercati interni dei Paesi emergenti. Le imprese
esportatrici tedesche stanno puntando sulla modernizzazione di Cina india Russia e Brasile che
consente la nascita di una classe media sempre più ricca e benestante, riuscendo così a vendere
automobili, frigoriferi, lavastoviglie, televisori e medicinali. (Biblio 14)
Gli investimenti in R&S delle aziende tedesche all’estero si focalizzano soprattutto nella meccanica,
nell’informatica e nella chimica e non solo per i motivi sopraccitati, ma per una nuova strategia,
cioè assicurarsi i migliori esperti anche nei mercati emergenti. Molto però rimane in Germania,
soprattutto la ricerca più sofisticata, e questo è un elemento che mette in luce che delocalizzare
R&S serve per personalizzare e adattare il prodotto al mercato di sbocco e non per inventarlo ex
novo. (Biblio 14)
La delocalizzazione oltre ad avere conseguenze dirette nei confronti della perdita dei posti di
lavoro, comporta anche problemi connessi come un incremento degli oneri sociali per lo stato, un
rallentamento della crescita economica nel suo complesso causato da una riduzione globale della
domanda viceversa la delocalizzazione della produzione industriale contribuisce a far sviluppare
nei paesi destinatari degli investimenti a far sviluppare i diritti sociali, permette il trasferimento di
know-how, contribuendo ad un allineamento rispetto ai vantaggi comparati. (Biblio 8)
Esiste un legame tra una maggiore flessibilità della forza lavoro nazionale e il ricorso alla
produzione all’estero, in quanto l’obiettivo primario delle imprese che perseguono offshoring è il
contenimento del costo del lavoro quindi le riforme del mercato del lavoro che hanno reso più
facile il ricorso a contratti determinati, costi unitari più bassi possono aver reso meno necessario il
ricorso alle delocalizzazione. (Biblio 9)
Forme di lavoro flessibile hanno effetti diversi rispetto alla scelta di delocalizzare in base al tipo di
impresa ed alla sua collocazione sul territorio. Un certo grado di flessibilità organizzativa e alcune
tipologie di contratti di lavoro frenano soprattutto la delocalizzazione delle imprese innovative e di
quelle non appartenenti ad un distretto industriale, al contrario sia le imprese distrettuali che
quelle tradizionali non ne sono condizionate. (Biblio 10)
A livello regionale la delocalizzazione può avere conseguenze soprattutto quando le regioni sono
specializzate in uno specifico settore di attività. Questo è il motivo per cui una massiccia
delocalizzazione di imprese di un determinato settore avrà sicuramente un forte impatto sul
territorio in termini di tasso di disoccupazione, una sensibile diminuzione della domanda, una
riduzione della crescita economica. Oltre a questi effetti diretti è necessario tener conto degli
effetti indiretti che il rischio di delocalizzazione può avere sui salari e sulle condizioni di lavoro.
(Biblio 8)
Proposte/azioni di
intervento attuali
Esistenza dell'Osservatorio provinciale sull'internazionalizzazione composto da: Camera di
commercio, ACAI Associazione Cristiana Artigiani Italiani, API Associazione piccole medie
indusatrie della provincia di Varese, Associazione Artigiani della Provincia di Varese, CDO
Compagnia delle Opere Alto Milanese, CEAM Group International, Centro Tessile Cotoniero e
Abbigliamento S.p.A., CNA Varese Confederazione Nazionale dell'Artigiananto e della Piccola
Impresa, Consorzio Cotone Moda, Consorzio Insubria Export, Insubria Export, Promoscambi,
PROVEX Consorzio Export Import, UNIVA Uniono degli Industriali della Provincia di Varese. Opera
secondo una logica di rete con il contributo di: ICE, SACE, SIMEST, Regione Lombardia, Enti locali e
sistemi camerali. L'osservatorio ha il compito di favorire la realizzazione di progetti integrati e
condivisi per le imprese, di coordinare attività di promozione dell'internazionalizzazione, di
agevolare la diffusione delle informazioni e di promuovere i prodotti ed i servizi del territorio
varesino.
Vengono fornite informazioni a livello di paese,
valutazioni della penetrazione commerciale dei
prodotti italiani sul mercato locale, valutazioni
degli investimenti diretti da e verso l'Italia,
L'interazionalizzazione e nello specifico la promozione di IDE, viene sostenuta anche attraverso valutazioni delle potenzialità di cooperazione
progetti e sportelli dedicati, promossi dai vari enti e consorzi, come ad esempio LombardiaPoint, commerciale ed industriale nei settori di alto
contenuto tecnologico.
VareseModa,MedArt (promossi dalla Camera di Commercio di Varese)
SIMEST: è la finanziaria per lo sviluppo e la
promozione delle imprese italiane all'estero, per
gli IDE permette agevolazioni finanziari fino ad
arrivare a sottoscrivere il 25% delle società
estere partecipate da imprese italiane. Fornisce
Esistono Finanziamenti e programmi comunitari dedicati che forniscono sostegno alle PMI, piani di servizi di assistenza e consulenza per tutte le fasi
investimento personalizzati per l'internazionalizzazione ed il portale del Ministero dello Sviluppo di avvio e della realizzazione di investimenti
all'estero
Economico - Dipartimento Imprese e Internazionalizzazione.
Da Gennaio 2011 inizierà ad operare il nuovo centro per le PMI europee a Pechino, sarà gestito da
un consorzio di camere di commercio europee. L’iniziativa rientra nel progetto di “Small Business
Act” dell’Unione Europea con lo scopo di sostenere le imprese più piccole che internazionalizzano.
Le attività saranno molteplici, dalla fornitura di informazioni tecniche per operare in Cina, alla
stesura di strategie di internazionalizzazione e il sostegno alle imprese nella risoluzione di eventuali
problemi derivanti dall’approccio al mercato. (Biblio 21)
Esiste in filone di pensiero che sostiene la necessità di policy che diano un sostegno significativo
per avviare un’attività di esportazione e di produzione all’estero, soprattutto per la seconde specie
che è gravata di maggiori costi fissi. (Biblio 2)
Linee di azione
suggeribili per la
provincia
Nel medio periodo la delocalizzazione nei paesi nei quali attualmente risulta già in essere subirà dei
cambiamenti, e sarà sempre meno vantaggiosa in termini di risparmio di costi. Come si evince dalla
scheda questo vantaggio lo si può riscontrare nelle economie a basso reddito pro-capite ed a bassa
industrializzazione. Come normalmente accade in tutte le economie, il processo di sviluppo
comporta un aumento delle pretese sia di tipo economico legate alle imprese, sia di tipo lavorativo
legate alla condizione dei lavoratori. Tale fenomeno induce, anche nelle economie nelle quali si è
nel passato delocalizzato, ad un innalzamento dei costi di mano d'opera, determinati da un lato
dall'entrata dei diritti dei lavoratori che savaguardano al meglio gli stessi, e dall'altro un
miglioramento "culturale" riferito alle mansione degli stessi lavoratori. Dal lato delle imprese un
continuo rivolgersi al loro mercato fa inevitabilmente alzare le loro competenze di specializzazione
in prodotti a loro prima sconosciuti ed i prezzi richiesti per effetto dell'aumento della domanda.
Si può quindi anche affermare che lo scambio di conoscenze che è avvenuto e che avviene per
produrre beni diventa merce di scambio sul prezzo. Questo comporta un problema per
delocalizzazioni mirate verso economie caratterizzate da mano d'opera non qualificata, ma
viceversa permetterebbe una produzione più sofisticata. La propensione che si avrà nel medio
periodo sarà di un riequilibrio di tali economie e la necessaria ricerca di nuove che attualmente
hanno le caratteristiche necessarie e fondamentali per recepire un’ industrializzazione di basso
costo. Il fenomeno della delocalizzazione risulta essere positivo sino al momento in cui le
economie esposte a tale fenomeno riescono ad soddisfare l'esigenza del "basso costo". Questo
vale per delocalizzazioni con il suddetto fine, ma se si intende espandere la propria produzione su
mercati esteri "evoluti", la delocalizzazione risulterebbe positiva per le aziende perchè
permetterebbe un sondaggio maggiore, migliore e più approfondito di tali mercati.
Sarebbe positivo anche in termini di conoscenze, con uno scambio delle stesse tra chi delocalizza e
chi lavora in quelle imprese, conoscenze che verrebbero poi inoltrate all’impresa sita nel paese
madre. Questo fenomeno viene già utilizzato dalle grandi imprese, multinazionali perchè permette
loro di essere presente in quel determinato mercato e comprendere tutte le eventuali
problematiche. Nel caso di PMI una scelta di questo genere, anche solo limitata alla divisione
commerciale, permetterebbe uno sviluppo maggiore della produzione, andando a migliorare la
situazione del territorio, mettendo in condizione l'indotto stesso di evolversi. Il concetto andrebbe
approfondito nell'ambito dei prodotti più idonei a tale strategia, che per logica di concetto non
potranno essere semplici prodotti di consumo "base", ma prodotti necessariamente con
caratteristiche particolari ed intrinseche del territorio, ed ovviamente non facilmente imitabili.
Quindi spetta alle imprese ed alle istituzioni creare un determinato surplus specifico di quelle
caratteristiche che sono identificative dei prodotti del territorio.
Strutturare l'economia del territorio attravero un piano dinamico di aumento occupazionale,
predisponendo incentivi e servizi mirati per la produzione di beni necessari di mano d'opera
quaificata, ricollocando forza lavoro specializzata. Il piano dinamico deve prevedere il reinsourcing
di imprese italiane, ma anche incentivare imprese estere ad investire nel territorio di Varese. Il
fenomeno di delocalizzazione in Italia è già incominciato, sia da parte di imprese tedesche,
dell'Europa dell'est, ma anche da imprese Cinesi, che in Italia assimilano know-how. (I cinesi in
patria stanno cominciando anche ad acquistare imprese estere proprio per diventare proprietari di
know-how).
Investire in conoscenza innovativa in riferimento ai settori delle imprese varesine, alzando il livello
di competenza produttiva e professionale, consentendo un aumento dei salari che permetterà di
conseguenza l'aumento dei consumi interni del territorio (commercio al minuto).
Favorire la nascita e lo sviluppo di IDE commerciali, diminuendo così i problemi legati alla vendita
in paesi stranieri, rivolgendosi a paesi ricchi, in modo tale da aumentare la produzione interna di
beni per l'esportazione e di conseguenza migliorare il reddito pro-capite della provincia.
Incentivare le imprese che hanno delocalizzato o che sono in procinto di farlo ad insediarsi
maggiormente sul territorio varesino, attraverso piani pluriennali di agevolazioni con conseguente
impegno da parte delle imprese di investire sul territorio non solo sull'aspetto produttivo, ma
anche sull'aspetto dello sviluppo a livello culturale con investimenti mirati a favorire la formazione
di personale specializzato alle esigenze delle stesse imprese.
Per i settori di riferimento del territori varesino sviluppare l'aspetto tecnologico facilitando non
solo collaborazioni commerciali con soggetti esteri, ma soprattutto collaborazioni a livello di Per esempio, per il settore tessile lo sviluppo di
ricerca, o se possibile istituire IDE a livello di R&S, sviluppando maggiori conoscenze che potranno materiali tecnici, con caratteristiche particolari
che possono rendere unico il prodotto tessile.
così migliorare la posizione sul mecato delle imprese.
Bibliografia
1 "Il commercio con l'estero e la collocazione internazionale dell'economia italiana", Banca d'Italia 2003.
"Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano" Questioni di Economia e Finanza numero 45, Banca
2 d'Italia Aprile 2009.
"Imprese italiane tra crisi e nuova globalizzazione" Questioni di Economia e Finanza numero 86, Banca d'italia
3 Gennaio 2011.
"L'internazionalizzazione produttiva italiana e i distretti industriali: un analisi degli investimenti diretti
4 all'estero" Banca d'Italia numero 592, maggio 2006.
5 "L'esperienza italiana di delocalizzazione produttiva all'estero tra incentivi e dissuasioni" Mauro Giusti
6 "Rapporto Ice 2009-2010. L'italia nell'economia internazionale" capitolo 8 "Le imprese" 2010.
7 "Rapporto Ice 2009-2010. L'italia nell'economia internazionale" "approfondimenti" 2010.
8 "L'industria italiana e il fenomeno delle delocalizzazioni" Working Paper n. 3/2007- Fondazione METES 2007.
"Offshoring e flessibiltà della forza lavoro nelle imprese italiane" A. Amighini, A. Presbitero, M. Richiardi 2010
9 (articolo).
10 "Delocalizzazione produttiva e mix occupazionale" MoFiR working paper n. 42, maggio 2010.
“Focus” settimanale BNL n. 38 del 24 ottobre 2008
"Germania, delocalizzare non conviene più” Matteo Alviti, Liberazione del 25/11/2007
“RI new horizon for plant relocation from China” Asia News Network, 31 marzo 2010
“La Germania delocalizza la ricerca” Beda Romano, il sole 24 ore, 7 ottobre 2010
“Rising chinese wages pose relocation risch” Kevin Brown, The Financial Times, 15 febbraio 2011
“Cina Bye Bye, la delocalizzazione non abita più qui” Jacopo Dell'etica, Panbianco, 23 febbraio 2011
“2011-2015: nuove sfide per l'economia cinese” Claudia Astarita, Panorana.it, 7 marzo 2011
“Parte in India il “progetto Chinatown”. e la delocalizzazione (cinese) continua” C. Astarita, Panorama.it, 6 Gennaio 2010
“Africa: anche il business dell'innovazione tecnologica sarà cinese” Caludia Astarita, Panorama.it, 7 aprile 2010
“Le mire della Cina sull'Africa: pronti 2.00 milioni di dollari” Claudia Astarita, Panorama.it, 9 agosto 2010
“A Pechino nasce il centro per le PMI europee” UBI Banca, 11 novembre 2010
“”La Cina limita le acquisizioni straniere” UBI Banca, 8 aprile 2011
“The case for Backshoring” William J. Holstein, Strategy+Business, 25 gennaio 2010
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23